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Libertà religiosa e verità: l’educazione alla libertà

Ultimo Aggiornamento: 14/12/2008 17:54
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14/12/2008 17:52

Libertà religiosa e verità: l'educazione alla libertà


GAZZADA, venerdì, 12 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo dell'intervento pronunciato dal Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, nell'inaugurare l’11 novembre scorso le attività del nuovo anno sociale di Villa Cagnola di Gazzada (Varese) con un intervento al convegno promosso dall’Istituto superiore di studi religiosi e dalla Fondazione Ambrosiana Paolo VI su “Libertà religiosa e verità: l’educazione alla libertà”.




* * * 

1. Verità-libertà: l’educazione alla prova

Nel riflettere sul nesso tra libertà religiosa, verità ed educazione può essere utile fare un breve riferimento al dibattito, in atto nell’odierna società plurale italiana, sui consistenti processi migratori e sulle loro incidenze nel processo di riforma della scuola. Sebbene i media tendano a non cogliere, o almeno a non approfondire, tutte le implicazioni connesse alla relazione tra le due questioni, la reazione suscitata dalla proposta di creare nelle scuole delle classi destinate ad ospitare solo studenti stranieri è un test convincente della scottante attualità del loro nesso.

Non intendo entrare ora nel merito di queste vicende. Sottolineo soltanto che mi stupisce, e devo dire mi preoccupa, vedere come, in proposito, si discuta molto di aspetti organizzativi, disciplinari e di ordine pubblico, o si finisca per scadere in opposizioni ideologiche spesso desuete, ma venga data erroneamente per scontata o del tutto rimossa la questione dell’educazione, intesa in senso pieno.

Educare significa mettere consapevolmente in relazione la persona con la realtà[1] e quindi provocare incessantemente la sua libertà per farla entrare in un rapporto integrale con gli altri, le cose, le circostanze ed i processi in cui si imbatte. Educare è pertanto l’arte di accompagnare l’inevitabile tensione della libertà delle persone ad “adeguare” la realtà. E quindi, quando è rettamente intesa, l’educazione è apertura alla verità. Come afferma Sant’Agostino: «Quid enim fortius desiderat anima quam veritatem?»[2], l’uomo è fatto per la verità, è orientato ad essa. Oltre al cristianesimo non cessano di ricordarlo le religioni e in modo particolarmente insistente lo richiama la fede musulmana[3].

Per questo il tema della libertà religiosa non è un aspetto particolare dell’educazione alla e nella libertà, ma ne rappresenta il culmine.

Conosciamo bene l’obiezione di certa cultura post-moderna a questa convinzione. Contro di essa si avanza la tesi dell’inconciliabilità tra un’autentica libertà umana ed un fondamento veritativo. Scrive per esempio Vattimo: «Se c’è una natura vera delle cose, c’è anche sempre un’autorità – il papa, il comitato centrale, lo scienziato oggettivo, ecc. – che la conosce meglio di me e che può impormela anche contro la mia volontà». In fondo «a che altro serve insistere sulla oggettività e la “datità” del vero, se non a garantire qualche autorità a qualcuno[4].

È lo stesso paradosso che, chiaramente da un’altra posizione, ha messo in risalto il Rabbino David Novak in una lezione sulla libertà religiosa nell’ebraismo tenuta a Princeton[5],: «C’è un paradosso - dice Novak - nel fatto che i membri di comunità religiose rivendicano “libertà” in una società secolare. Il paradosso diviene ancora più forte quando la rivendicazione della libertà religiosa viene sostenuta filosoficamente come un diritto accordato da Dio. Il paradosso sta nel fatto che quanto più una comunità religiosa è tradizionale – cioè quanto più essa si percepisce come sottoposta all’autorità divina – tanto minore sembra essere la libertà di cui godono i membri all’interno dei confini quella stessa comunità»[6].

Possiamo tranquillamente rispondere a Novak (e a Vattimo) affermando che il paradosso di cui si parla non è tale perché si fonda acriticamente su una doppia riduzione. La prima è legata alla concezione della verità. Essa viene concepita in modo razionalistico, dedotta come un sistema completo e coerente di proposizioni concettuali. Ma in questo caso la verità diventa una forma di gnosi idolatrica perché pretende che il limitato sguardo umano possieda la compiuta fisionomia del fondamento (Dio). La seconda riduzione si riferisce alla libertà. Questa viene snaturata perché ricondotta ad una libertà di coscienza supposta capace di stabilire “creativamente” (in senso equivoco) da se stessa cosa sia il bene ed il male (cfr VS, 54). Questa doppia riduzione di verità e libertà e del loro rapporto genera un grave fraintendimento circa la vera natura della libertà religiosa.

La Chiesa, con la dichiarazione Dignitatis Humanae del Concilio Vaticano II, non ha affermato la libertà assoluta dell’uomo di aderire a qualsiasi religione o credenza, né ha inteso negare la sua consolidata convinzione che davanti a Dio l’errore non ha alcun diritto. Essa ha piuttosto inteso, da un lato, indicare che la Verità stessa essendo in Cristo Gesù assoluta ma vivente e personale, domanda per attestarsi all’uomo l’atto della sua decisione. D’altra parte ha voluto limitare il potere degli Stati e la possibilità di una loro azione coercitiva nei confronti della libera ricerca della verità da parte delle persone e delle comunità. Affermazioni che non annullano in alcun modo il dovere incombente per l’uomo di non sottrarsi alla ricerca della verità alla quale è destinato (DH 2; 14). In questa luce è svelata la profondità delle domande poste da Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris missio: «Si può rifiutare Cristo e tutto ciò che egli ha portato nella storia dell’uomo? Certamente si può. L’uomo è libero. L’uomo può dire a Dio: no. L’uomo può dire a Cristo: no. Ma rimane la domanda fondamentale: è lecito farlo? E in nome di che cosa è lecito?»[7]. La domanda finale, pur riconoscendo proprio in nome della libertà religiosa il pieno diritto dell’uomo a rifiutare la verità, gli mostra anche che la libertà non è tale se non percorre fino in fondo la strada della ricerca del significato ultimo della vita.

È proprio questa insopprimibile ricerca ad esigere un’educazione della libertà perché resti incessantemente spalancata alla verità senza accontentarsi di verità fasulle.

Che la verità per attestarsi all’uomo esiga l’assenso della sua libertà viene riconosciuto dalla risposta che Novak offre per risolvere il paradosso di cui ho parlato prima. È illuminante seguire sinteticamente il suo argomentare. Domandandosi con quale grado di libertà il popolo ebraico avesse accettato la liberazione dall’Egitto e poi la Legge, Novak mette in evidenza come alcuni rabbini ed il Talmud stesso abbiamo avanzato il dubbio di un’apparente negazione della libertà umana[8]. Il dilemma morale circa la relazione tra libertà umana e legge di Dio si scioglierebbe solo osservando il comportamento di Israele durante l’esilio babilonese successivo alla distruzione del primo tempio. È infatti in esilio che il popolo di Israele, ridotto a due delle originarie dodici tribù, «conferma liberamente quello che esso aveva accettato originariamente sotto costrizione nel deserto»[9]. In questo modo «con la decisione di ricostituirsi per essere una nazione legata al patto e governata secondo la legge divina rivelata nella Torah, il popolo ebraico ha esercitato collettivamente la libertà religiosa»[10]. Ma – si era chiesto prima Novak - «perché questo popolo ha prima dovuto subire l’imposizione di una legge piuttosto che ricevere, più tardi e in modo persuasivo, l’offerta di tale legge da accettare o rifiutare liberamente […]? Si potrebbe rispondere che il popolo non poteva a ragione scegliere una legge della cui autorità non aveva ancora fatto esperienza»[11]. Non voglio ora entrare nella delicata discussione teologica che queste riflessioni aprirebbero. Mi limito a constatare che per sviluppare il tema della libertà religiosa in maniera compiuta Novak convoca la dimensione dell’esperienza sempre storicamente determinata, a dimostrazione che la verità si offre all’uomo in maniera assoluta ma personale, come un appello che chiama la sua libertà a coinvolgersi.

In sintesi non si può cogliere il rapporto verità-libertà senza chinarsi sul nesso amoroso tra libertà infinita di Dio e libertà finita dell’uomo. Su queste basi si può ben comprendere come la validità di una proposta educativa trovi nel rapporto dinamico tra verità e libertà il suo decisivo banco di prova.

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