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Libertà religiosa e verità: l’educazione alla libertà

Ultimo Aggiornamento: 14/12/2008 17:54
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14/12/2008 17:53

2. Educazione, comunità e storia


Un ulteriore aspetto emerge dalle considerazioni di Novak. La decisione con cui Israele sceglie di aderire alla legge non è un’opzione di singoli, bensì di un popolo. Questo fatto ci spinge a riflettere sulla dimensione comunitaria della libertà religiosa. E qui sorge un altro apparente paradosso.

Secondo le grandi religioni “monoteiste”, la libertà che muove l’uomo alla ricerca della verità possiede una insopprimibile dimensione personale, ma la verità che si attesta alla persona apre ad una dimensione comunitaria. Ciò è vero, come abbiamo visto per gli ebrei, ma è lo altrettanto per i cristiani, che incontrano la Verità nella realtà concreta della Chiesa, e per i musulmani, per i quali l’edificazione della Umma resta un ideale inseparabile dalla ricezione della rivelazione coranica.

L’obiezione che viene rivolta a questa posizione afferma che l’aspetto comunitario non realizza la libertà del singolo, semmai la limita: “La mia libertà finisce dove inizia la libertà dell’altro”. In questo senso la libertà del singolo deve essere protetta dalle pressioni della comunità. Questa visione delle cose trascura la natura intrinsecamente relazionale della persona. Persona-comunità, come anima-corpo e uomo-donna rappresenta una delle polarità costitutive di un’antropologia adeguata. Essa postula un’unità duale perché è per sua natura drammatica in quanto l’uomo è sempre in azione. Solo nella relazione l’uomo scopre pienamente la sua natura e perciò solo all’interno della comunità egli può esercitare in modo pieno la sua libertà. L’educazione allora è adeguata solo se tiene conto di questo aspetto profondo della natura umana. Essa possiede una intrinseca dimensione comunitaria e per questo, in un certo senso, non può che essere un fatto di popolo. Qui nasce però un’obiezione legittima: cosa succede quando la scelta dei singoli mette in discussione l’identità comunitaria? E fino a che punto la comunità può intervenire per preservare la sua identità minacciata dalla scelta di singoli? Capiamo bene l’urgenza di queste domande se consideriamo il caso serio della libertà religiosa: la libertà di conversione. Se consideriamo ad esempio quello che sta succedendo in Algeria[12] dove lo Stato ha preso una serie di misure gravemente restrittive della libertà religiosa e di culto di fronte al crescere delle conversioni di musulmani al cristianesimo evangelico, è ovviamente essenziale riconoscere che l’identità comunitaria non può spingersi fino a violare la libertà della coscienza del singolo e quindi impedirgli di passare ad un’altra religione. Tuttavia questa delicata questione non deve condurre a contrapporre soggetto personale a soggetto comunitario. Infatti anche quest’ultimo deve fare i conti con la storia per aderire alla verità.

La scelta del Concilio Vaticano II di rappresentare la Chiesa, nel secondo capitolo della Costituzione Dogmatica Lumen gentium, con l’immagine del Popolo di Dio si rivela in questo particolarmente feconda. Infatti non solo permette di includere gradualmente nella prospettiva evangelica, secondo la famosa immagine dei cerchi concentrici coniata da Paolo VI nella Ecclesiam Suam[13], ebrei, uomini delle religioni e uomini di buona volontà, ma soprattutto perché mostra l’inevitabile carattere storico del cammino della Chiesa. Questo fatto è così vero che persino i dogmi, cioè uno degli aspetti della vita della Chiesa che più scandalizzano la cultura contemporanea perché considerati illegittime attestazioni autoritative di una verità, sono proposti all’interno di una storia. Ciò non significa che tale formulazioni siano realtà in continuo divenire e quindi soggette ad ulteriori riformulazioni che abbandonino il dettato definito. Al contrario, in quanto espressioni di verità rivelate definite dal Magistero solenne della Chiesa, sono indisponibili. Ma i dogmi aiutano l’incessante approfondirsi della Rivelazione che è all’opera nella storia. Come scriveva l’allora professor Ratzinger interrogandosi sulla possibilità di una considerazione storica del dogma: «Per tradizione non si deve intendere una somma di asserti ben strutturati e da tramandare intatti, ma l’espressione della progressiva assimilazione attraverso la fede della Chiesa del fatto testimoniato nella scrittura […] Identità e trasformazione costituiscono dunque l’essenza della storia […]: dove c’è pura identità non è avvenuto nulla, dove c’è semplice diversità altrettanto non si può parlare di storia»[14].

E anche l’Islam, nonostante l’immagine che tende a rappresentarlo come un blocco monolitico e immutabile, ha spesso tentato, soprattutto attraverso il diritto, di tradurre il messaggio della rivelazione nella concretezza delle circostanze storiche e dei contesti sociali sui quali si innestava, elemento senza il quale non si spiegherebbe la sua diffusione universale[15].

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