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Il celibato dei preti

Ultimo Aggiornamento: 23/09/2009 14:34
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16/04/2009 11:17

Davvero pietoso infine il tentativo della Torre di Guardia che nella Svegliatevi!del 8/11/85 pagg. 4-6 cerca di instillare la convinzione secondo cui la scelta della continenza dei presbyteroi sarebbe di origine pagana.
A questo proposito opera uno sconvolgente collage di citazioni che può solo lasciare di sasso chiunque abbia una formazione accademica sulle religioni del mondo classico.
Una messa in scena fatta di accostamenti arbitrari, episodi del mondo antico presi a casaccio e senza contestualizzazione. La WTS evidentemente non s’è ancora resa conto che il comparativismo selvaggio con cui ama giocare è fuori moda da cinquant’anni nel mondo della ricerca accademica.
Non basta trovare dei paralleli più o meno tirati per i capelli, perché questi esistono anche tra popoli che non si sono mai incontrati, bisogna anche dimostrare che c’è effettivamente stato un travaso di idee su un determinato argomento, e soprattutto chiedersi se non sia più facile rintracciare una genesi del celibato interna al cristianesimo stesso (e San Paolo ne dà tutte le basi), senza bisogno di invocare il sacerdozio pagano nel quale la castità non era la norma, come invece vuol far passare quell’articolo, anzi era qualcosa di più unico che raro. Per dissipare la nebbia creata dalle citazioni alla rinfusa dalla WTS sarà il caso di dire qualcosa sugli operatori rituali nel mondo classico e menzionare quei pochi casi in cui abbiamo notizia di una continenza richiesta.
Anzitutto tutti gli storici delle religioni fanno notare da decenni che per il mondo greco-romano non ha senso parlare della categoria “clero”, anzi, non ci sono quasi mai forme di sacerdozio istituzionalizzate definitive e permanenti. Si è soliti distinguere tra cariche religione nominate dalla città per un tempo determinato, ad esempio un anno, e invece ruoli più permanenti che nascono e muoiono all’interno di qualche grande santuario panellenico come Delfi, in teoria indipendente da qualunque polis. Vale a dire che gli operatori rituali di una città non sono quelli di un’altra città, non c’è qualcosa come un sacerdozio universale né qualcuno che lo conferisca, si tratta di cariche date dalle singole polis o dai santuari indipendenti per le quali non serve alcuna chiamata divina, basta essere dei cittadini con dei requisiti quali ad esempio una famiglia onorata o non essere degli omicidi. Tanto per fare un esempio sia Giulio Cesare sia Ottaviano Augusto hanno esercitato per un periodo di tempo la professione di pontifices, ma nessuno pensando a loro si sognerebbe di etichettarli come sacerdoti.
Di solito le cariche religiose del mondo classico hanno il compito di organizzare le feste della polis sotto il profilo economico, di attendere ai sacrifici, di prendersi cura della statua del dio nel tempio, non legiferano ma prendono ordini dalla Boulê39, ecc., ma l’aspetto finanziario è preponderante nel numero delle designazioni che ci sono pervenute, ad esempio gli Ieropi o gli Epimeleti ad Atene. Sono considerate cariche “religiose” anche quelle giudiziarie dei magistrati, in quanto per le società antiche la distinzione tra sacro e profano non funziona, tutta la società è permeata dalla religione. Non si è delegati da qualche Chiesa ma dalla città-stato, non occorre una qualche particolare vocazione ma solo essere in grado di eseguire i compiti religiosi che la polis affida, e dopo un tempo più o meno lungo (ad esempio un anno) tornarsene alla vita di prima.

Tutto ciò come si vede non ha nulla a che fare col sacerdozio cattolico. Se le cariche di operatore rituale permanente sono una percentuale spaventosamente esigua, quelle che fra queste esigevano la castità erano ancora meno, si aggiunga che spesso era solo castità relativa a certi periodi. Come dicevo le cariche con verginità permanete si contano letteralmente sulle dita e sono talmente legate ad un certo luogo, talmente caratteristiche, che i deliri di contaminazione cui allude la WTS sono solo un rozzo tentativo di mettere insieme due citazioni. Per fare qualche esempio ad Orcomeno in Arcadia il sacerdote e la sacerdotessa di Artemide non potevano lavarsi, entrare in una casa privata, e dovevano mantenersi casti a vita. Le stranezze nel mondo antico non mancavano certo, a Dodona i Selloi non potevano lavarsi i piedi e nel tempio di Atena nella Locride alcune fanciulle erano destinata alla prostituzione sacra per espiare la violenza di Aiace su Cassandra (questa sì assai frequente nelle civiltà antiche). Tornando alla castità il Megabizos di Efeso era costretto alla castrazione rituale, ma non per questo Cristo dando i suoi precetti su coloro che si fanno eunuchi per il regno dei cieli copiava da lui. Dico questo per mostrare quale potrebbe essere il tipico ragionamento da “comparativismo selvaggio”, di cui la WTS fa ampio uso ogni volta che deve parlare della Trinità o della vergine Maria: ci sono cioè casi in cui la somiglianza tra le pratiche sta solo nel nome che esse hanno e non nel contenuto o nel contesto in cui sono inserite.

Venendo ad altri modelli, le fonti antiche ci riferiscono che ad esempio nei misteri di Cibele ed Attis i sacerdoti maschi, per emulare la sorte del Dio, danzavano intorno ad un albero su un monte in stato di trans e si eviravano, in questo modo Attis poteva cerimonialmente tornare in vita. Sono pochi gli esempi di celibato da aggiungere e ve li risparmio, basterà dire che oltre a non essere per nulla panellenici (cioè erano tipici solo di determinate consuetudini locali), si legano a tradizioni estreme e particolari che nessun fascino potevano esercitare sui cristiani.
Nel paganesimo greco-romano la castità non c’entra nulla col sacerdozio in generale. Non c’è alcun bisogno di tirare in ballo i pagani per giustificare il valore della castità cristiana se si può trovare una genesi interna al cristianesimo; oltre alle esplicite parole di Gesù che basterebbero da sole per vanificare i tentativi della WTS nell’additare cause esogene, sarà utile riflettere sul 1Cor 7. Qui San Paolo rivolgendosi ai laici dice che “colui che sposa la sua vergine fa bene e chi non la sposa fa meglio.” Infatti “chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso!”(1Cor 7,32-34). E se è tenuta in tal conto da San Paolo la verginità tra i laici, quanto più tra i presbyteroi.
Il sacerdote vuole appunto essere tutto per Cristo, non essere diviso(1Cor7,34). Sulle obiezioni al celibato derivate da (1Tm 3,2) ove appare la formula dell’unius uxoris vir abbiamo già detto, riassumiamo quella che è l’unanime Traditio apostolica con le lapidarie parole del Decreto di Graziano , dove, come del resto in tutti i Padri, la clausola paolina non viene letta come un argomento contro il celibato ma anzi come pro-continenza, infatti “colui che aveva bisogno di riposarsi dimostrava con ciò che non poteva vivere la continenza richiesta ai sacri ministri e perciò non poteva essere ordinato”40, a motivo di ciò nell’illustrare le ragioni per cui un risposato non possa essere ordinato la Glossa ordinaria al decreto di Graziano adduce l’argomento classico41. Stessa cosa il Decretalista Hostiens spiega nel suo commento alle Decretali di Gregorio IX: “Perché si deve temere (in questo caso) l'incontinenza"42

Così dunque dall’interpretazione dei Padri sino ai glossatori classici, nonché il canone 3 della legislazione trullana stessa, che è incomprensibile senza dare il senso succitato al passo della lettera Timoteo, su questo gli ortodossi che usano il passo di Paolo in senso anti-celibatario dovrebbero riflettere. Questo bellissimo testo patristico riassume tutto quanto abbiamo detto finora:

“Coloro che evitano il matrimonio, non ritengono colpa la benedizione delle nozze, ma sono convinti che il giogo della continenza è migliore delle nozze di per sé buone: e questo tanto più in quanto è detto, della continenza: Chi può capire, capisca (Mt 19,12), e delle nozze, invece: Chi non sa contenersi si sposi (1Cor 7,9). In un passo si eleva l’esortazione alla virtù, nell’altro si propone il rimedio alla debolezza. Perciò, dovendosi sempre curare la malattia, se qualcuno sarà privato del primo matrimonio può, se vuole, contrarre un secondo e un terzo matrimonio, e non ne avrà colpa se li osserverà nella castità, cioè se lui e lei, legittimamente sposati, conservano la fedeltà reciproca e né lui si unisce ad altre donne oltre a sua moglie, né lei si unisce ad altri uomini oltre a suo marito. E se in ciò vi fosse qualche eccesso coniugale, vi sarà qualche colpa, ma solo veniale, purché non si violi il letto legittimo. Ma ciò vale di chi non ha mai votato continenza a Dio. Peraltro chi si è evirato per il regno dei cieli e nel suo cuore ha votato continenza a Dio, sarà condannato, secondo la sentenza dell’Apostolo, non solo se si macchierà della colpa mortale di fornicazione, ma anche se vorrà maritarsi o prender moglie, per essere venuto meno alla parola data (cf. 1Tm 5,12).
Come è giusto infatti, secondo la sentenza dell’Apostolo (cf. 1Cor 7,3), che la moglie renda il suo debito al marito e il marito alla moglie e che chi si sposa non pecca e se la vergine sposa non pecca, così parimenti, secondo il detto dello stesso Apostolo, chi in cuor suo, senza nessuna costrizione ma nella piena libertà della propria volontà, avrà votato continenza a Dio, deve custodirla con tutto l’impegno del suo intimo sino alla fine, per non essere condannato per esser venuto meno alla parola data.” Fulgenzio di Ruspe, Regola della Fede, 3,43-44


E’ interessante una citazione fatta da Fulgenzio, secondo cui sarà condannato chi ha votato continenza a Dio e in seguito “vorrà maritarsi o prender moglie, per essere venuto meno alla parola data (cf. 1Tm 5,12)” Che cosa c’entra quella citazione? Si parla in questo contesto delle vedove, e siamo dinnanzi all’ennesima conferma della interpretazione classica della clausola paolina, infatti compare anche qui nel suo corrispettivo femminile “unius viri uxor” (1Tm 5,9), “moglie di un solo uomo”, che ovviamente va intesa come “sposata una sola volta” visto che si dice che è vedova. “La donna veramente vedova e che sia rimasta sola, ha riposto la speranza in Dio e si consacra all’orazione e alla preghiera giorno e notte; al contrario quella che si dà ai piaceri, anche se vive, è già morta. (…) Una vedova sia iscritta nel catalogo delle vedove quando abbia non meno di sessant’anni, sia andata sposa una sola volta, abbia la testimonianza di opere buone: abbia cioè allevato figli, praticato l’ospitalità, lavato i piedi ai santi, sia venuta in soccorso agli afflitti, abbia esercitato ogni opera di bene. Le vedove più giovani non accettarle perché, non appena vengono prese da desideri indegni di Cristo, vogliono sposarsi di nuovo e si attirano così un giudizio di condanna per aver trascurato la loro prima fede.” (1Tm 5, 5-12)


La funzione delle vedove nella Chiesa primitiva, di cui c’era pure un catalogo, è descritta come un ministero, molto simile al diaconato. Sentiamo Ignace de la Potterie a tal proposito: “D'altra parte, si deve osservare anche che la formula complementare “unius viri uxor” (1Tm 5,9) viene usata soltanto per una vedova di almeno sessant'anni, ossia, non per una cristiana qualsiasi, ma per una donna anziana che esercitava anch'essa un ministero nella comunità (possiamo paragonarlo a quello delle diaconesse nella tradizione antica). Il carattere stereotipato di questa formula delle Pastorali fa sospettare che doveva essere già radicata in una lunga tradizione biblica.”43

Di queste vedove consacrate, così come per i preti, si dice che devono essere “non sposate che una sola volta”, e questo è configurato come un requisito per accedere ad una ministero, compito che esige la castità la cui trasgressione è punita (1Tm 5,12), anche qui, come per i vescovi, il motivo per cui non vengono accettate le giovani o le risposate è il pericolo di incontinenza. Abbiamo dunque trovato un parallelo femminile al maschile “unius uxoris vir”, svelando (e riconfermando) il significato della formula.


A questo punto si leva un'altra obiezione biblica contro il celibato, il versetto paolino:
“Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?Ovvero solo io e Barnaba non abbiamo il diritto di non lavorare? E chi mai presta servizio militare a proprie spese?” (1Cor 9,5)

Il testo greco ha adelphê gynaika, dunque la traduzione letterale è "non abbiamo il diritto di condurre con noi una donna sorella, come fanno gli altri apostoli, i fratelli del Signore e Cefa?"
"Donna sorella" vuol dire ovviamente sorella in fede, e dunque "donna credente". Vi si può vedere sia una moglie sia le donne che assistevano gli apostoli e Cristo nei loro viaggi (Lc 8,2-3).

Alla luce di quanto detto sopra, cioè che si ordinavano tranquillamente preti sposati purché mantenessero in seguito la continenza, se anche si trattasse di mogli il versetto non modificherebbe di una virgola quello che già sappiamo. Questi presyteroi avrebbero semplicemente applicato il motto di Paolo “Quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero” (1Cor 7,29)

Inoltre è mio parere che nel passo Paolo non parli di mogli, dice alle malelingue dalle quali viene accusato che egli ha il diritto di portare con se una donna credente, ma l’apostolo non era sposato quindi questa donna che si portava dietro evidentemente aveva altri compiti. il versetto dice: “solo io e Barnaba non abbiamo il diritto di non lavorare?” Il motivo è ovvio, se predichi a tempo pieno non lavori, ma allora come ti mantieni, come ti compri e prepari il cibo se non lavori? Si dice chiaramente altrove che spesso erano le donne a mantenere i discepoli: “Lo seguivano i suoi dodici discepoli, insieme ad alcune donne che aveva liberato dai demoni e guarito dalle malattie. Fra loro c'erano Maria Maddalena, da cui Gesù aveva cacciato sette demoni, Giovanna, moglie di Cusa, amministratore del re Erode, Susanna e molte altre che contribuivano coi loro mezzi al sostenimento di Gesù e dei suoi discepoli.” (Lc 8,2-3)

Le malelingue nascono proprio dal fatto che Paolo fa la figura del mantenuto da una donna, la quale evidentemente era arricchita. Ma può benissimo anche non esser così, secondo molti qui Paolo esorta semplicemente la comunità affinché mantenga la donna che si portava appresso per le faccende femminili a cui egli non aveva tempo di attendere, come cucinarsi il pasto, ecc. Oppure siccome parla anche di Cefa sta dicendo che le mogli degli apostoli dovevano essere mantenute dalla comunità e non abbandonate. Ciò trova puntuale riferimento nella legislazione ecclesiastica successiva, infatti le mogli di un uomo in seguito ordinato sacerdote dovevano essere mantenute dalla comunità cristiana. Che gli apostoli avessero smesso di consumare il matrimonio con le loro mogli per darsi al regno dei cieli è detto dal Vangelo stesso:
 
“Pietro allora disse: "Noi abbiamo lasciato tutte le nostre cose e ti abbiamo seguito". Ed egli rispose: "In verità vi dico, non c’è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio, che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà". (Lc 18,27-30)

Alla luce di quanto detto la prossima obiezione che presenterò non cambia nulla delle carte in tavola. Alcuni sostengono che debba per forza trattarsi di una “moglie sorella” e non di una “donna sorella” altrimenti “donna” sarebbe una precisazione inutile, non esistono infatti “uomini sorella”. Come già detto siccome il problema non è il matrimonio degli apostoli ma la continenza dopo la chiamata, se questa “adelphê gynaika” fosse una moglie non cambierebbe di una virgola il discorso. E’ bene tuttavia replicare che l’argomentazione appena presentata è fallace perché esige dalla lingua un grado di logicità e di coerenza che essa non ha, mi spiego subito. Paolo specifica “donna” non perché la parola “sorella” non fosse di per sé chiara, ma perché è proprio il fatto che sia una donna il fulcro della questione. Infatti un uomo che si fa mantenere da una donna secondo certa mentalità è disdicevole. Che sia una “donna” e non un uomo è proprio il punto del contendere, e Paolo lo rimarca. Parafrasandola, il senso della frase è “una donna che sia sorella”, se fosse stato messo così non avremmo avuto delle polemiche. Ed è inutile dire che “donna è pleonastico”, perché la lingua non è un’espressione matematica dove c’è solo l’essenziale ed ogni cosa aggiunta è un errore, le lingue naturali usano giri di parole, artifici retorici, ed il pleonasmo è appunto una delle figure retoriche che spesso si trovano: si insiste cioè su quanto già detto proprio perché si vuole rimarcare un punto. Tanto per fare un esempio nella sua lettera indirizzata all’altra metà del cielo, papa Giovanni Paolo II, siccome anche qui il punto focale era che si trattava della donne, scriveva questo passaggio:

“Grazie al Signore per il suo disegno sulla vocazione e la missione delle donna nel mondo, diventa anche un concreto e diretto grazie alle donne, a ciascuna donna, per ciò che essa rappresenta nella vita dell'umanità.
Grazie a te, donna-madre, che ti fai grembo dell'essere umano nella gioia e nel travaglio di un'esperienza unica, che ti rende sorriso di Dio per il bimbo che viene alla luce, ti fa guida dei suoi primi passi, sostegno della sua crescita, punto di riferimento nel successivo cammino della vita. Grazie a te, donna-sposa, che unisci irrevocabilmente il tuo destino a quello di un uomo, in un rapporto di reciproco dono, a servizio della comunione e della vita.
Grazie a te, donna-figlia e donna-sorella, che porti nel nucleo familiare e poi nel complesso della vita sociale le ricchezze della tua sensibilità, della tua intuizione, della tua generosità e della tua costanza.” (Lettera di Giovanni Paolo II alle donne, 2)

Si capisce dunque perché chi taccia l’espressione “donna sorella” di ridondanza consideri la lingua al pari di un algoritmo algebrico e decreti la morte di ambiti del linguaggio come la retorica e la poesia, nonché dello stile epistolare di cui Paolo stesso si serve.

Si può fare ancora un passo avanti nell’analisi di quel “ donna sorella” in 1Cor 9,5 cercando cosa volesse dire quest’espressione nella letteratura cristiana antica. La ricerca anche questa volta conferma le conclusioni cui eravamo giunti precedentemente. Vale a dire che le mogli dei presbiteri dopo l’ordinazione dei mariti vengono definite “sorelle” proprio perché il marito aveva cessato ogni rapporto sessuale con loro ed era divenuto come un fratello (si tenga ben presente comunque che per ordinare un prete sposato era sempre necessario il consenso della moglie).
Circa l’uso di “sorella” ad indicare una casta moglie di un sacerdote gli esempi sono molteplici, ne prenderemo in considerano solo alcuni. Gregorio Magno ad esempio scrive: “Il sacerdote dal tempo della sua ordinazione amerà la sua sacerdotessa (ossia la sua sposa) come una sorella”44 Il Concilio di Gerona: “Se sono stati ordinati coloro che prima erano sposati, non devono vivere insieme con colei che da sposa è diventata sorella”45 O il II Concilio di Auvergne che dispose: “Se un sacerdote o un diacono ha ricevuto l’ordine al servizio divino diventa subito da marito fratello di sua moglie”46
Simile uso è attestato in molti testi patristici e ci orientano verso un senso tecnico di “moglie sorella”.

L’ultima obiezione contro il celibato che mi risulti è accampata da ben pochi, ciò si deve all’ astoricità della critica . Si cita questo versetto dell’apostolo Paolo: “Lo Spirito dice apertamente che, negli ultimi tempi, taluni apostateranno dalla fede per aderire a spiriti ingannatori e a dottrine diaboliche. Colpa di ipocriti dottori di menzogna, segnati nella loro coscienza da un marchio bruciante, i quali ordinano di non sposarsi e di astenersi da alcuni cibi”. 1Tm. 4,1-3

Chiunque sappia qualcosa di antropologia religiosa o della storia dei movimenti ereticali sa benissimo che genere di fenomeni ha in mente Paolo, si tratta cioè di movimenti ereticali (a quel tempo gli gnostici) che avevano in sommo dispregio qualsiasi cosa riguardasse la materia e la carne, in quanto la credevano creata (a differenza dello spirito) da un dio inferiore e malvagio: il demiurgo. Queste idee attraversano i secoli e sono una sottile linea rossa che va dai manichei e dagli gnostici fino al catarismo medioevale. Poiché la materia e la carne sono intrinsecamente cattive allora lo è anche il sesso, anzi, procreare significa mandare avanti questo mondo malvagio.
Costoro proibivano a chiunque di sposarsi perché avevano orrore di tutto ciò che ancorasse al mondo sensibile. Nulla di tutto ciò nella Chiesa che esalta il matrimonio e ritiene la materia positiva in quanto creata da Dio. Citare quel versetto è un palese esempio di come si possa ingannare coloro che non sono pratici con la storia delle religioni e dunque si lasciano abbindolare non conoscendo i veri obiettivi polemici di Paolo.
 
Vorrei dunque ricapitolare le argomentazioni pro celibato nella Bibbia ed implementarle: Cristo ha detto che ci sono alcuni che per il regno dei cieli scelgono di non sposarsi e i presbyteroi sono tra questi (Mt 19,12), dei quali è detto che lasciano anche casa e moglie (Lc 18, 19; 14,26). Paolo stesso parla del diverso rapporto che celibi e sposati hanno con Dio (1Cor 7,32-33), invitando addirittura alla castità tra coniugi in vista della preghiera(1Cor 7,5), a maggior ragione dunque tra i sacerdoti che servono Dio costantemente.
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