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Nazaret città dell'Annunciazione

Ultimo Aggiornamento: 15/05/2009 09:23
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Nazaret città dell'Annunciazione

Una risposta risolutiva nel luogo più inatteso


di Gianfranco Ravasi

Dopo aver sostato in preghiera nella Grotta dell'Annunciazione, giovedì 14 maggio, Benedetto XVI salirà nella Basilica superiore di Nazaret per la celebrazione dei vespri. Forse nella sua memoria echeggeranno le parole che aveva pronunciato quand'era ancora arcivescovo di Monaco e che erano state raccolte nel libro Il Dio di Gesù Cristo (1977). Evocando la figura di Charles de Foucauld - che beatificherà da Papa nel 2005 - il grande testimone e mistico, vissuto e martirizzato nel deserto del Sahara nel 1916, che aveva trovato la via della sua conversione proprio a Nazaret, l'allora cardinale Ratzinger affermava:  "Nazaret ha un messaggio permanente per la Chiesa. La Nuova Alleanza non comincia nel Tempio, né sulla Montagna Santa, ma nella piccola casa della Vergine, nella casa del lavoratore, in uno dei luoghi dimenticati della "Galilea dei pagani", dal quale nessuno aspettava qualcosa di buono. Solo partendo da lì la Chiesa potrà prendere un nuovo slancio e guarire. Non potrà mai dare la vera risposta alla rivolta del nostro secolo contro la potenza della ricchezza se, nel suo stesso seno, Nazaret non è una realtà vissuta". Noi ora vorremmo partire idealmente proprio da quella grotta - anche se essa è ora inglobata, con le precedenti chiese bizantina e crociata, nell'imponente basilica progettata dall'architetto Giovanni Muzio e inaugurata il 25 marzo 1969 - per ricomporre la scena che là si è compiuta più di duemila anni fa, mostrando però soprattutto la scia che l'evento ha lasciato nella storia culturale dell'Occidente. Un evento apparentemente minimo, simile al granello di senapa evangelico, cresciuto in un albero gigantesco di arte e di spiritualità.



Noi tutti abbiamo in mente la scena dell'Annunciazione con i colori teneri ed estatici del Beato Angelico nel convento di San Marco a Firenze. Nell'ultimo dei suoi Canti spirituali Novalis confessava:  "In mille immagini, Maria, ti vedo / amabilmente ritratta. / Ma nessuna di esse può fissarti / come ti vede la mia anima". L'annunzio dell'angelo a Maria è uno dei soggetti spirituali capitali nella memoria dell'Occidente:  solo per citare qualche esempio a noi vicino, pensiamo all'Annuncio a Maria di Paul Claudel (1912), al Rosario della gioia di Marie Noël (1930), all'Evangéliaire di Pierre Emmanuel (1961), all'oratorio "cristico" omonimo di Georges Migot (1945-46), alla veglia natalizia musicale di Daniel-Lesur (1951), al brano liturgico ortodosso dell'Angelo a Maria messo in musica sia da Modest Mussorgskij (1878-80), sia da Pëtr Il'iè Èajkovskij (1887).

Già san Bernardo di fronte all'esitazione e allo sconcerto di Maria - che alla fine però si dichiara "serva del Signore", un titolo biblico di onore e di consapevolezza di un'alta missione - affermava:  "L'angelo aspetta la tua risposta, o Maria! Stiamo aspettando anche noi, o Signora, questo tuo dono, che è dono di Dio. Sta nelle tue mani il prezzo del nostro riscatto. Rispondi presto, o Vergine! Pronunzia, o Signora, la parola che terra e inferi e persino il cielo aspettano... Alzati, corri, apri!".

La pagina di Luca è, comunque, da leggere tenendo in sottofondo la più antica e la più cara preghiera mariana, l'Ave Maria che prende spunto dalle parole dell'angelo Gabriele e che è stata messa in musica infinite volte:  Tomas L. da Victoria, Schubert, Gounod, Bruckner, Liszt - ne compose ben sei! Verdi ne ha elaborate tre:  una nel 1880, attingendo però al testo de La Divina Commedia, per soprano solo e coro; un'altra nel 1889 seguendo la "scala enigmatica armonizzata" a quattro voci miste; e, tra le due, nel 1887 quella dell'ultimo atto dell'Otello, cantata da Desdemona.

Il Palestrina ha nel suo catalogo una Messa a 6 voci intitolata Ave Maria, Kodály ha composto una sua Ave Maria a tre voci in sol minore nel 1935 e il cantante francese Georges Brassens nel 1953 ha reso popolare un ritornello con la preghiera mariana desunta dalla rielaborazione poetica della Chiesa vestita di foglie del poeta Francis Jammes (1906), mentre il parigino Claude Ballif nel 1966 nel suo Chapelet opera 44 n.2, a quattro voci, ha offerto un "rosario" di dieci "Ave Marie". Ma anche un poeta ateo come Louis Aragon in Museo Grévin (1943) faceva ripetere questa preghiera ai prigionieri di Auschwitz. E tutta la storia di Maria da quel giorno in avanti sarà trascritta in modo "laico" e per certi versi scandaloso dal film Je vous salue Marie di Jean-Luc Godard (1985).
Ma il tema originario non può che essere teologico ed è la radice stessa del cristianesimo:  è la persona di Cristo, "non concepita mai dai sensi umani" bensì dalla "purezza senza macchia di Maria" e dall'irruzione stessa del divino nella storia, come canterà Rilke nella sua Annunciazione a Maria.
L'improvvisa e sorprendente maternità di Maria crea, però, sconcerto in un'altra persona evangelica, il promesso sposo Giuseppe.

Nella prassi matrimoniale ebraica antica il fidanzamento era considerato a tutti gli effetti il primo atto del matrimonio stesso. A segnalarci questo sconcerto è l'evangelista Matteo che ci narra un'"Annunciazione a Giuseppe". Leggiamone le battute fondamentali. "Maria, promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe, suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. Mentre stava pensando questo, ecco apparirgli in sogno un angelo che gli disse:  Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quello che in lei è generato viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù; egli, infatti, salverà il suo popolo dai suoi peccati" (1, 18-21). Giuseppe si trova di fronte a una scelta drammatica. Il libro della legge biblica, il Deuteronomio, era chiaro:  "Se la donna fidanzata non verrà trovata vergine, la si farà uscire sulla soglia della casa paterna e la popolazione della sua città la lapiderà per farla morire, perché ha commesso un'infamia in Israele" (22, 20-21). Il giudaismo posteriore aveva attenuato la norma, imponendo però il ripudio:  è ciò che deve fare anche Giuseppe.



Ma egli, da "uomo giusto", cioè mite e buono, vuole scegliere la via segreta, quella di un atto senza clamore, senza denunzia legale e processo ma solo alla presenza di due testimoni, come gli consentiva la legge. Maria se ne sarebbe ritornata alla casa paterna per una vita emarginata e difficile. Ecco, però, l'irrompere dell'angelo:  egli è per eccellenza il segno di una rivelazione divina, come lo è il sogno - se ne contano cinque nel vangelo dell'infanzia di Gesù secondo Matteo - è il simbolo della comunicazione di un mistero. Giuseppe è invitato a perfezionare il matrimonio con Maria, superando ogni perplessità o sdegno, e ad assumere la paternità legale nei confronti del nascituro:  l'imporre il nome - che viene spiegato etimologicamente come "salvatore" ("Gesù" deriva dalla radice ebraica jasha' "salvare") - era un atto tipico della patria potestà. L'origine misteriosa di Gesù Cristo sarà, comunque, oggetto di polemica fin nei primi secoli. Lo scrittore cristiano Origene citava un filosofo platonico del ii secolo, Celso, il quale, a sua volta, rimandava a un giudeo che affermava:  "Gesù era originario di un villaggio della Giudea e aveva avuto per madre una povera indigena che si guadagnava da vivere filando.

Accusata di adulterio, perché resa incinta da un certo soldato di nome Panthera, fu scacciata da suo marito, un artigiano. Errando in modo miserevole, dette alla luce di nascosto Gesù. Costui, cresciuto, spinto dalla povertà, andò in Egitto a lavorare; qui apprese alcune di quelle arti segrete per cui gli Egiziani sono celebri, ritornò dai suoi tutto fiero per le arti apprese e grazie a esse si autoproclamò Dio" (Contro Celso, 1, 28 e 32). Si intravede in questo testo il tentativo di spiegare anche i miracoli di Cristo e forse in quel nome "Panthera" c'è la deformazione del greco parthènos, "vergine", applicato a Maria dai vangeli. Infatti, la verginità è nel racconto evangelico un dato importante a livello teologico:  Cristo, anche se è generato nella pienezza di una maternità e dell'umanità, non è frutto della "carne" e del "sangue", cioè non deriva dai puri e semplici meccanismi biologici di una generazione creaturale. In lui c'è il sigillo del divino ed è a questo che è finalizzata la verginità della madre.

In questa luce ascoltiamo, allora, l'annunzio dell'angelo a Maria, dopo il saluto dell'"Ave":  "Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce, lo chiamerai Gesù. Sarà grande e sarà chiamato Figlio dell'Altissimo. Il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine (...) Lo Spirito Santo scenderà su di te, la potenza dell'Altissimo stenderà su te la sua ombra colui che da te nascerà sarà Santo e chiamato Figlio di Dio" (Luca, 1, 32-33.35). È la stessa proclamazione dell'Incarnazione, cioè dell'incontro tra il divino e l'umano in Gesù, che è espressa da Giovanni nella frase essenziale "Il Lògos si è fatto carne" (Giovanni, 1, 14). È per questo che Maria è allusivamente rappresentata come l'arca dell'alleanza del tempio di Sion su cui si stendeva l'"ombra" della presenza divina ed è interpellata dall'angelo nel suo saluto come kecharitomène, "ricolma di grazia" da parte di Dio. Suo figlio sarà, come dice Novalis nei suoi Inni alla notte scritti tra il Natale 1799 e l'Epifania 1800, "frutto infinito di misterioso amplesso". E il filosofo Johann G. Fichte, in un sermone pronunziato nella festa dell'annunciazione a Maria, il 25 marzo 1786, esclamava:  "Ci sembra poco che fra tutti i milioni di donne della terra soltanto Maria fosse l'unica eletta che doveva partorire l'Uomo-Dio Gesù? Ci sembra poco l'esser madre di Colui che doveva rendere felice l'intero genere umano e grazie al quale l'uomo sarebbe divenuto un'immagine della divinità e l'erede di tutte le sue beatitudini?".



(©L'Osservatore Romano - 14 maggio 2009)
[Modificato da Cattolico_Romano 14/05/2009 11:04]
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Davanti alla pietra del Santo Sepolcro

La culla da cui tutto rinasce


di Gianfranco Ravasi

Venerdì, poche ore prima della sua partenza da Gerusalemme per il rientro a Roma, Benedetto XVI suggella il suo pellegrinaggio in Terra Santa recandosi davanti alla pietra del Santo Sepolcro, "testimone silenziosa dell'evento centrale della storia umana", come aveva detto il suo predecessore Giovanni Paolo II il 26 marzo 2000, proprio in quello stesso luogo. A quanti non possono seguire quest'ultima tappa del percorso papale vorremmo ora proporre un pellegrinaggio virtuale, all'interno di questa basilica che più suggestivamente i cristiani d'Oriente chiamano dell'Anàstasis, in greco della "risurrezione". Ed è pur sempre amaro ricordare che questo spazio "testimone dell'evento centrale del cristianesimo" vede la lacerazione della cristianità:  come è noto, tre confessioni, la cattolica (i francescani), la greco-ortodossa e l'armena si dividono rigidamente la basilica del Santo Sepolcro secondo un antico statuto codificato nel 1852. Esso regola persino i tempi delle varie celebrazioni liturgiche:  la stessa custodia del portone d'ingresso è oggetto di un complicato regolamento che riflette una specie di saga che dura da settecento anni.



Infatti la porta è chiusa un quarto d'ora dopo il tramonto, eccettuate le festività; ma nell'interno vegliano alcuni rappresentanti del clero delle tre Chiese per proteggere i propri spazi ed evitare colpi di mano. Decisivo è il possesso delle chiavi, regolato da un accordo antico dell'epoca ottomana. Fino al 1831 la chiave era di proprietà della famiglia musulmana Joudeh, mentre l'apertura era affidata (e lo è tuttora) a un'altra famiglia musulmana, quella dei Nusseibeh. Era quasi il ricorso a un mediatore neutro per impedire che le tensioni tra le comunità cristiane esplodessero, come era accaduto - ancora alcuni mesi fa - con veri e propri assalti e duelli. Ora, fortunatamente, il dialogo ecumenico ha creato un clima generale più pacato:  in questi ultimi anni, a più riprese, le comunità si sono accordate per vari interventi di restauro dell'edificio monumentale e complesso.

La basilica produce, infatti, nel pellegrino un senso di smarrimento perché è frutto di una vera e propria gemmazione architettonica:  da una radice è cresciuto un po' disordinatamente un albero che ha subìto potature e innesti di ogni genere. Tutto era cominciato quando Elena, la madre dell'imperatore Costantino nel 326 aveva identificato il luogo del Calvario e del sepolcro di Gesù. Su di esso l'imperatore romano Adriano (76-138) - per cancellare forse le prime tracce del culto cristiano e, quindi, offrendo una conferma preziosa dell'autenticità del sito - aveva precedentemente eretto un tempietto dedicato a Venere. La chiesa di Costantino fu consacrata nel settembre 335. È curioso, al riguardo, quanto aveva scritto due anni prima, nel 333, un anonimo pellegrino giunto qui dalla lontana Bordeaux:  "Per ordine dell'imperatore Costantino stanno costruendo sul luogo dove il Signore fu crocifisso e sul sepolcro dove fu deposto il suo corpo e da cui risorse il terzo giorno una basilica, casa del Signore. Accanto a essa ci sono cisterne di straordinaria bellezza e dietro di essa una piscina dove battezzano i bambini".

Iniziava, così, la vita fisica e spirituale della basilica del Santo Sepolcro che fu danneggiata nel 614 dall'invasione persiana e nel 638 dalla conquista araba della Palestina. Come raccontano antiche cronache, il colpo più duro fu però inferto nel 1009 dal califfo al-Hakim, re d'Egitto e di Palestina, che ordinò di "demolire la chiesa della risurrezione, rimuoverne i simboli e disfarsi di ogni traccia e memoria". Si narra che "si fece a pezzi e si divelse la tomba di Cristo" e che si abbatté ogni struttura "tranne ciò che era impossibile distruggere e difficile svellere per l'asportazione". Eppure questo califfo, considerato pazzo da molti, aveva la madre e la sorella convertite al cristianesimo e suo zio Oreste era stato patriarca di Gerusalemme!

Ma all'orizzonte ormai si profilavano i crociati che, dopo cinque settimane di assedio, il 15 luglio 1099 penetravano nella città santa, capitanati da Goffredo di Buglione. Subito si approntarono i progetti per una nuova grandiosa basilica che inglobasse quanto era rimasto in piedi della chiesa di Costantino. Sorse, così, un poderoso edificio che ospitava al suo interno non solo la rotonda dell'Anàstasis, cioè il Santo Sepolcro, ma anche il Calvario:  come è noto, il Golgota (in aramaico "cranio", donde il latino calvaria) non era un colle, ma solo uno sperone roccioso alto 5 o 6 metri. Il 15 luglio 1149, cinquantesimo anniversario della conquista crociata di Gerusalemme, la basilica veniva consacrata.

Nei secoli successivi non mancarono interventi e ferite di ogni genere, compresi incendi e terremoti. Ma quella che i pellegrini ancor oggi visitano è la stessa possente costruzione crociata, segnata da un ingresso laterale dominato dalla tozza torre campanaria, smozzicata nella parte superiore da un crollo e mai più restaurata se non con un semplice tetto di tegole. Varchiamo, allora, idealmente anche noi quel portale (in passato doppio, ma nel 1187 Saladino murò uno degli ingressi che da allora rimase invalicabile) e, anziché procedere direttamente, svoltiamo subito a destra. Una ripida scaletta ci conduce alla cappella del Calvario, alta 5 metri sul livello della basilica e divisa in due settori. Il primo è di proprietà dei francescani e commemora la crocifissione di Gesù, mentre la croce di Cristo eretta con quelle dei due condannati sul Calvario è posta tradizionalmente nell'altro settore di proprietà greco-ortodossa. Qui un grande Crocifisso rivestito d'argento, un altare e un disco d'argento con un'apertura centrale per mostrare la roccia presentano in modo suggestivo il grande evento della morte di Cristo:  "Verso mezzogiorno il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Il velo del Tempio si squarciò nel mezzo. Gesù gridando a gran voce disse:  "Padre, nelle tue mani affido il mio spirito". Detto questo, spirò" (Luca, 23, 44).

Un'altra scaletta, parallela alla precedente, permette di ridiscendere nell'atrio della basilica ove si nota una pietra di marmo rossastro ornata di lampade e candelieri:  è la "pietra dell'unzione". Secondo la tradizione qui sarebbe stato deposto il cadavere di Gesù per essere "avvolto in bende con oli aromatici, com'è usanza seppellire presso i giudei" (Giovanni, 19, 40). Proseguendo, ecco ergersi davanti a noi, al centro della Rotonda dell'Anàstasis, il tempietto del sepolcro di Cristo di stile misto molto pesante, alto quasi 6 metri, circondato dai candelabri delle varie confessioni cristiane; fu eretto nel 1810 dai greci-ortodossi che hanno la proprietà della tomba di Gesù. Nel Vangelo di Giovanni si legge:  "Nel luogo ove Gesù era stato crocifisso c'era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora deposto. Là dunque deposero Gesù, a motivo della preparazione alla Pasqua, poiché quel sepolcro era vicino" (19, 41-42).

Il vestibolo del tempietto - detto Cappella dell'Angelo - era l'atrio davanti alla tomba vera e propria, il cui ingresso era chiuso da una pietra rotonda che si faceva scorrere su una guida. Di questa pietra un frammento è conservato su una piccola colonna al centro di questo vestibolo. Una porta minuscola (alta 1,33 metri) immette nel cenotafio vero e proprio nel quale un banco di marmo ricopre la roccia sulla quale era deposto il corpo di Cristo. Sull'altare che lo sovrasta tre quadri della risurrezione attestano la presenza ideale delle tre confessioni cristiane che si spartiscono la basilica (i francescani possono celebrare qui le loro Eucaristie dalle 4 alle 7 del mattino). I lettori che sono stati pellegrini in Terra Santa ricorderanno con emozione l'ingresso in questo sacello.

Per loro vorrei evocare la testimonianza di uno scrittore, Luigi Santucci, morto nel 1999, che fu con me in viaggio in Israele nel 1986 e che lasciò di quell'itinerario un vero e proprio diario spirituale, come usavano fare i pellegrini dell'antichità (famoso è quello della monaca spagnola Eteria, vissuta attorno al 400). Ecco la nota, un po' provocatrice, riguardante la visita alla tomba di Cristo:  "Il giovanissimo pope dalla rada barbetta che monta la sentinella nella camera del sepolcro di Cristo ha un impassibile viso d'angelo. Ma forse è tenuto a odiarmi per la mia faccia inequivocabilmente cattolica... Ho baciato il disco d'argento che segna il punto preciso dove era piantata la croce; ora accarezzo la lastra di marmo che copre lo spazio in cui fu deposto il corpo di Gesù, il frammento della pietra donde il Risorto balzò fuori, per tutti, nella vita. Se oggi volesse rivisitare i suoi luoghi, dovrebbe anche Lui vedersela con le regole postcristiane. Farsi aprire la basilica da quelle due famiglie musulmane che da 700 anni ne detengono le chiavi e l'aprono solo dopo un complesso cerimoniale. E poi fare i conti col rito che è di turno. Penso prima di prender sonno che anche questo mio sdegno non è cristiano. Rivedo il pope adolescente dal viso d'angelo, a guardia del suo e del mio Signore. Penso che in fondo anche la gelosia, questo vampiro del cuore, è pure una forma d'amore. Quanti secoli ci vorranno perché quell'altro sano, universale amore di Lui (ecumenismo oggi lo chiamiamo...) piova dall'alto della croce e ci liberi dalle meschinità che tutti ci fanno arrossire?".

Usciti dal tempietto che custodisce il sepolcro di Cristo, si stende davanti agli occhi del pellegrino la navata centrale della basilica detta il Coro dei Greci. Attorno a esso si aprono diverse cappelle che commemorano i vari eventi della passione e morte di Gesù:  la sua prigione, la divisione delle sue vesti, gli improperi e le torture, san Longino, il nome tradizionale del soldato che trafisse il costato di Cristo crocifisso e che si sarebbe convertito al cristianesimo. C'è anche, sul lato sinistro, una grande cappella detta del Santissimo Sacramento, collegata col convento dei francescani:  è qui che i cattolici celebrano le loro messe durante la giornata, in un ambito tranquillo e silenzioso. All'interno di questa cappella è conservata anche una "colonna della flagellazione" di origine popolare.

Nell'abside del Coro dei Greci si apre una scalinata che discende alla Cappella di Sant'Elena di proprietà degli armeni, eretta con capitelli ed elementi bizantini e crociati. Laggiù un'altra scala conduce in un'antica cisterna romana ora trasformata in cappella del "Ritrovamento della croce":  qui, secondo la tradizione, Elena, madre di Costantino, avrebbe rinvenuto la croce di Cristo. Risaliti sul piano della basilica, proseguiamo lungo la navata laterale che conduce al Calvario da cui siamo partiti. Sotto il Calvario si incontra la cosiddetta Cappella di Adamo nella quale una roccia spaccata in due evocherebbe il terremoto avvenuto alla morte di Cristo (Matteo, 27, 45:  "dopo la morte di Gesù, la terra si scosse, le rocce si spezzarono"). Ora, un'antica credenza popolare giudeo-cristiana riteneva che proprio qui fosse sepolto il primo uomo:  il simbolismo è suggestivo perché il sangue di Cristo sarebbe sceso sul teschio del padre dell'umanità redimendolo dal male con tutta la sua genealogia. È sulla base di questa simbologia che nelle raffigurazioni delle Crocifissioni si usava porre un teschio ai piedi della croce. Un tempo nell'atrio di questa cappella si trovavano le tombe di Goffredo di Buglione e di Baldovino i, i famosi condottieri rispettivamente della prima e della quarta crociata.



Ritornati alla "pietra dell'unzione", possiamo uscire dalla basilica notando un minareto che si erge di fronte a essa:  appartiene a una moschea costruita nel 1216 a ricordo della preghiera che il califfo Omar fece presso il sepolcro di Gesù, considerato dall'islam grande profeta, quando nel 638 entrò in Gerusalemme conquistandola. La tradizione racconta che il patriarca bizantino della città santa, Sofronio, si dichiarò pronto a consegnare le chiavi di Gerusalemme a Omar se ne avesse preso possesso di persona. Il califfo partì dall'Arabia, giunse alle mura, ricevette le chiavi dal patriarca, garantì l'incolumità della città e dei suoi abitanti e si recò appunto a pregare nella basilica costantiniana del Santo Sepolcro.

Si chiude, così, la nostra visita in spirito alla basilica del Santo Sepolcro o, meglio, della Risurrezione, sulle orme di Benedetto XVI. Noi tutti ogni domenica ripetiamo, rielaborate all'interno del Credo, le parole di una delle prime professioni della fede cristiana, quella che Paolo attorno alla Pasqua del 57 proponeva scrivendo da Efeso la sua prima Lettera ai Corinzi:  "Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e fu sepolto, ma è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture e apparve..." (15, 3-5). Davanti a quel sepolcro in modo diretto, come fanno i pellegrini, o nello spirito, si sosta in preghiera. Potrebbero aiutare a meditare le parole che suggellano quel capolavoro che è la Passione secondo Matteo di Bach. Il doppio corale finale, di una bellezza musicale suprema, è simile quasi a una "ninnananna" rivolta al corpo di Gesù abbandonato alla morte. Non per nulla prima il coro ripete:  Mein Jesu, gute Nacht!, "Mio Gesù, buona notte!". Il sepolcro, infatti, è come una culla da cui Cristo rinasce:  non è forse vero che già la scuola russa di Novgorod nel xv secolo raffigurava nelle icone del Natale la mangiatoia del Bambino col profilo del sepolcro della Risurrezione?

Ecco la preghiera di Bach al Cristo morto ma destinato alla vita:  "Noi ci sediamo e piangiamo e gridiamo a te nella tomba:  Riposa sereno, riposa sereno! Riposate, membra esauste, riposate serene, riposate in pace! La vostra tomba e la pietra funeraria siano un dolce cuscino per la coscienza angosciata e un luogo di riposo per l'anima. In gioia suprema gli occhi s'assopiscono. Noi ci sediamo e piangiamo e gridiamo a te nella tomba:  Riposa sereno, riposa sereno!". Nel 2000, in Inghilterra, è stata pubblicata una biografia di Bach, The learned musician, opera di un professore dell'università americana di Harvard, Christoph Wolff. Ebbene, in essa appariva per la prima volta l'ultima pagina scritta dal grande musicista alle soglie della sua morte, avvenuta a Lipsia il 28 luglio 1750, a 65 anni.

Quel foglio, scoperto in un archivio di Kiev in Ucraina, - come dichiarava il professor Wolff - rivelava "una grafia smisuratamente grande, spigolosa, scomposta. È chiaro che le sue mani non funzionavano più e che la vista lo stava abbandonando". Ma Bach cosa lasciava come estrema testimonianza? Era un mottetto destinato al suo funerale, intitolato Lieber Herr Gott, wecke uns auf, "Caro Signore Dio, svegliaci!", rielaborazione di una composizione dello zio di Bach, Johann Christoph. Commentava Wolff:  "Il musicista era malato e si preparava a morire. Con questo brano - che fu sicuramente eseguito al suo funerale - Johann Sebastian, un uomo fortemente credente, pensava già alla vita dopo la morte". Egli, come ogni cristiano autentico, era certo che il sepolcro non era l'approdo terminale del fiume della vita, ma solo una soglia aperta verso l'eterno e l'infinito di Dio. Una soglia spalancata dalla risurrezione di Cristo:  "Egli, infatti, è risuscitato dai morti ed è primizia di quelli che sono morti!" (1 Corinzi, 15, 20).



(©L'Osservatore Romano - 15 maggio 2009)
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