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VI DI PASQUA

Ultimo Aggiornamento: 16/05/2009 16:22
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16/05/2009 16:22

Commento al Vangelo del 17 maggio
Il Consolatore
VI Domenica di Pasqua
15.05.2009
di Giuseppe GRAMPA
Parroco di S. Giovanni in Laterano, Milano


Il Vangelo di questa domenica ci propone parole del Signore che preparano al tempo della sua assenza, o meglio al tempo di una sua diversa presenza in mezzo a noi. Due parole assai diverse: l’una di conforto, l’altra di messa in guardia.
Il tempo dopo Gesù non sarà tempo vuoto, sarà tempo abitato dallo Spirito di Gesù, che qui viene chiamato Paraclito, cioè Colui che è chiamato a stare accanto, vicino. Il termine può essere tradotto con “avvocato”, cioè colui che è chiamato ad assistere e quindi Consolatore: una presenza, quella dello Spirito, che appunto colma il vuoto lasciato dalla conclusione dell’esperienza terrena di Gesù. Annunciando questo dono, Gesù sottolinea con insistenza il legame tra lo Spirito e la sua Persona. È Gesù stesso che manda questo Spirito: «Io vi manderò». E lo Spirito Santo, il Paraclito o Consolatore, infatti, darà testimonianza a Gesù. Per comprendere bene questa funzione dello Spirito, bisogna ricordare che l’evangelista Giovanni colloca questa promessa dello Spirito nella cornice di un processo che il mondo intenta contro Gesù. Compito dello Spirito sarà proprio quello di schierarsi dalla parte di Gesù prendendone le difese. Lo Spirito di Gesù non ha altre parole da dire che si aggiungano a quelle dell’evangelo di Gesù. Chi pensa allo Spirito come a una nuova sorgente di rivelazione, come a una sorta di nuovo tempo dopo quello del Padre e del Figlio, cade in errore. Dopo la Parola, dopo Colui che è la Parola, ovvero la piena definitiva manifestazione di Dio, non vi è altra parola, altra comunicazione, altra rivelazione. E lo Spirito suggerirà ai discepoli tutte e solo le parole di Gesù, farà entrare sempre più profondamente nell'intelligenza delle sue parole, cioè della sua Persona.

Una nuova stagione

La seconda parola: la promessa del dono dello Spirito è collocata in una cornice drammatica: i discepoli saranno scacciati dalla comunità ebraica, subiranno anche la morte. Queste parole riflettono la condizione dei discepoli di Gesù, il loro difficile rapporto con il mondo ebraico dal quale pure provengono, ma che li ostacola nel loro annuncio dell’evangelo. Queste parole non valgono solo per la prima generazione cristiana: sono parole permanenti e che dicono una situazione di conflitto che può determinarsi tra discepoli dell’evangelo e mondo. Non voglio dire che il discepolo dell’evangelo sia sempre e comunque in conflitto con il mondo. Sono felicemente alle nostre spalle i tempi di diffidenza, di estraneità, tra chiesa e mondo moderno. Dobbiamo al Concilio l’apertura di una nuova stagione nei rapporti tra Chiesa e mondo, rapporti che si esprimono soprattutto nel dialogo. Ma la fedeltà all’evangelo può, talvolta, portare in rotta di collisione con il mondo e la sua logica. I martiri non appartengono solo ai primi secoli della storia cristiana: uomini e donne che hanno dato la vita per l’evangelo sono nostri contemporanei.
Vorrei, infine, sostare su una parola di Gesù che trova, purtroppo, una terribile attualità: «Viene l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio». Dare la morte in nome di Dio: non è forse questa la logica dei fanatismi di tutti i tempi? Più volte Papa Benedetto ha alzato la sua voce contro tutti i tentativi di congiungere il nome di Dio all’esercizio della violenza. Così ha scritto nella sua prima Lettera: «In un mondo in cui al nome di Dio viene collegata la vendetta o perfino il dovere dell’odio e della violenza, questo - dell’amore di Dio - è un messaggio di grande attualità e di significato molto concreto». E martedì scorso a Gerusalemme ha solennemente dichiarato: «Non dovrebbe esserci posto tra queste mura per la chiusura, la discriminazione, la violenza e l’ingiustizia. I credenti in un Dio di misericordia, si qualifichino essi ebrei, cristiani e musulmani, devono essere i primi a promuovere questa cultura di pace».

La presunzione di disporre di Dio

Il fanatismo è una malattia propria della coscienza religiosa. È la pretesa dell’uomo o dell’istituzione religiosa di disporre di Dio fino al punto di imporlo, dimenticando che solo nella libertà vi è autentico cammino di fede. Oggi noi siamo giustamente preoccupati per le forme di fanatismo islamico, ma non dobbiamo dimenticare che in altre stagioni della storia tanto sangue è stato versato nel nome della fede cristiana, appunto credendo di rendere culto a Dio spargendo il sangue dei cosiddetti “nemici della fede”. La presunzione di disporre di Dio, d’esserne gli unici depositari autorizzati, ha spesso spinto gli uomini cosiddetti “religiosi” all’intolleranza fanatica, alla violazione della libertà di coscienza, all’uso della forza per imporre comportamenti religiosi che solo la libertà autorizza.. Come i discepoli di Gesù che di fronte al rifiuto di un villaggio di accogliere Gesù vorrebbero invocare dal cielo un fuoco divino vendicatore. Quanto diverso lo stile di Colui che dice: Io sto alla porta e busso. Se uno mi apre entrerò e faremo cena insieme. Non entra con la forza, dando una spallata alla porta: si invita con un segno discreto rivolto alla nostra libertà.
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