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La Chiesa è carità e verità sull'uomo

Ultimo Aggiornamento: 10/06/2009 09:05
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26/05/2009 06:56

La prolusione del presidente della Conferenza episcopale italiana in occasione dell'apertura dell'assemblea generale

La Chiesa è carità e verità sull'uomo


Pubblichiamo di seguito ampi stralci della prolusione pronunciata dal cardinale Angelo Bagnasco in occasione dell'apertura dell'assemblea generale che si tiene a Roma fino al 29 maggio: 

Venerati e Cari Confratelli,
(...) mai è rituale, nei nostri incontri, il pensiero che rivolgiamo al Papa. Men che meno lo è stavolta, venendo noi da mesi di intensa partecipazione alle tribolazioni che egli inopinatamente s'è trovato ad affrontare per una serie di infelici e prevenute interpretazioni date ad alcuni suoi pronunciamenti. L'ostilità di cui è stato fatto bersaglio ci ha tuttavia riconsegnato la sua figura cresciuta - se possibile - nella considerazione e nell'amore di fedeli e pastori.

Resta per noi incomprensibile come l'umiltà e la bontà d'animo, la finezza e la tranquillità interiore che lo contraddistinguono possano da taluno non essere colte per ciò che sono. E se qui sta il segreto della sua popolarità presso la gente comune, ci sembra di dover osservare che quanto più penetrante si fa la sua parola, tanto più egli si trova esposto a reazioni rigide, se non ostili, da parte di taluni ambienti. Ma perché il cristianesimo non svanisca nell'irrilevanza o nella soggezione verso i moderni potentati, Papa Benedetto mantiene esplicita la novità che proviene dal Vangelo, novità che non è anzitutto una morale, ma una fede:  "Gesù è risorto - ci ripete - è il Vivente e noi lo possiamo incontrare" (Discorso all'Udienza del mercoledì, 26 marzo 2009).
 


La confidenza affidataci lo scorso Giovedì santo circa l'incontro, alla vigilia della sua ordinazione sacerdotale, con la pagina di Giovanni "Consacrali nella verità, la tua parola è verità" (cfr. 17, 17; in Omelia della Messa crismale, 9 aprile 2009), ci suggerisce qualcosa di importante del suo sentirsi consacrato al compito della verità, a qualunque prezzo. (...) E sempre a questo riguardo, la Lettera indirizzata ai Vescovi della Chiesa cattolica, quale "parola chiarificatrice" sulle sue intenzioni e sull'operato della Sede Apostolica, è un documento toccante ed esemplare della sua dedizione alla causa della verità, anzi di più, del suo impegno in prima persona nel cercare di risvegliarla nel prossimo, e in tutta la Chiesa.

Sorprendendo chiunque, infatti, non ha avuto esitazione a innovare anche la forma di comunicazione, pur di superare gli ostacoli e arrivare al cuore dei suoi interlocutori:  "Chi annuncia Dio come Amore "fino alla fine" deve dare la testimonianza dell'amore" (Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica, 12 marzo 2009). Ecco l'ammissione che conta, collegata alla quale c'è l'affermazione delle priorità del suo pontificato, che ci coinvolgono direttamente:  "Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l'accesso a Dio" (ibidem).

Ebbene, non possiamo - noi vescovi d'Italia - non cogliere questa occasione per esprimere un corale quanto intenso grazie al Santo Padre per questa Lettera che rimarrà nella storia della Chiesa come un grido di amore e di verità:  sappia che gli vogliamo bene e siamo con lui ogni giorno; insieme a lui ripetiamo che quando è in gioco la verità non c'è posto nella comunità cristiana per alcun tipo di divisione, perché solo così il mondo potrà aprirsi alla bellezza della fede.

Il pellegrinaggio che egli ha compiuto in questo mese di maggio in Terra santa si è rivelato uno degli atti più espressivi del suo pontificato. Solo un Papa così preoccupato dei tentativi di scindere il Gesù della storia dal Cristo della fede, poteva testimoniare una gioia tanto speciale "di vedere, toccare e assaporare, in preghiera e contemplazione, i luoghi benedetti dalla presenza fisica del nostro Salvatore" (Discorso sul Monte Nebo, 9 maggio 2009). Un viaggio che non solo ha mantenuto le sue non facili promesse, ma è stato occasione per rivelare il disegno inderogabilmente religioso che sottostà all'intera azione di Benedetto XVI. Anche nei momenti in cui più cruciale tende a farsi la provocazione politica, egli non si distacca dalla sua visione squisitamente biblica e, anzi, su di essa costruisce le risposte che sono attese sul fronte umanitario come su quello diplomatico, sul fronte interreligioso come su quello ecumenico.
 
Forte solo dell'amicizia verso ciascuna delle parti contrapposte, egli ha ogni volta articolato il suo pensiero sulla comune responsabilità delle grandi religioni monoteiste, schierandosi ripetutamente dalla parte dei più deboli, di coloro che più soffrono per l'inimicizia e le guerre. Nei confronti dell'ebraismo - ha dichiarato - c'è per la Chiesa cattolica "un legame inscindibile" (ibidem); mentre al mondo islamico ha proposto "un'alleanza di civiltà" basata su un dialogo che fa leva sul concetto di razionalità che è proprio di ogni vera fede religiosa (Discorso ai Capi Religiosi Musulmani, 9 maggio 2009). Se equivoci avevano potuto sorgere all'indomani di Ratisbona o per il grave negazionismo di taluno, questo viaggio ha  definitivamente  chiarito  le  posizioni. E ha reso evidenti a tutti l'affetto e il sostegno del Papa verso le esigue minoranze cattoliche che in quella regione sono oggi più che mai tentate dalla fuga.

Lo ringraziamo anche per la visita che egli ha compiuto, il 28 aprile scorso, ai fratelli terremotati dell'Abruzzo. Si è immerso in quel popolo profondamente segnato dalla paura, dal dolore per i propri morti, e dal senso di inesorabile sconfitta che resta in chi, in pochi secondi, perde le cose di una vita e la storia di una famiglia. Non c'è commentatore che non abbia colto la dolcezza del suo approccio, il tratto umanissimo dei suoi incontri, il calore del suo sguardo, il vigore delle sue parole. (...) È l'intrecciarsi di gesti - tra quanti sono rimasti vittime del sisma, e coloro che sono accorsi - ad aver fatto emergere i tratti di un'Italia per qualcuno insospettabile, forte di una sua dignità intrinseca, di una compostezza e una fierezza nella sventura che si potevano pensare smarrite. Anche osservatori laici vi hanno letto le tracce di una religiosità radicata che emerge nelle situazioni più critiche. Sotto i colpi della tragedia, il nostro Paese viene fuori per quello che è il suo volto vero, la sua storia profonda, il suo deposito di valori, i suoi riferimenti più tenaci, che animano dal di dentro la modernità stessa.

Per la gente terremotata, per questi nostri amati fratelli, il difficile però è ancora in agguato. È quando passa l'emergenza e subentra l'apparente normalità, infatti, che i colpi più duri si fanno sentire. Per questo non possiamo allentare e non allenteremo la nostra vicinanza. La Caritas che con prontezza si è messa in moto dislocando le sue risorse, si sta ora organizzando per un'assistenza prolungata che mobiliterà persone ed esperienze, secondo una partecipazione territoriale che assicura da una parte un aiuto capillare e dall'altra sempre ulteriori coinvolgimenti. Per questa sua attività, e per l'aiuto concreto che desideriamo mettere nelle mani dell'arcivescovo dell'Aquila, si sta impiegando il raccolto della colletta effettuata nelle parrocchie, oltre al fondo di cinque milioni immediatamente stanziato dalla nostra Conferenza. Ma non possiamo non incoraggiare tutte le iniziative che, sul modello dei gemellaggi, si vanno adottando per rendere sistematici gli aiuti e indirizzare le offerte dei cittadini verso obiettivi precisi. Sappiamo poi che in questi casi è importante che l'opinione pubblica resti attenta e vigile:  la ricostruzione dovrà essere sollecita, senza intoppi e senza sprechi.

La politica, che con generale apprezzamento si è subito attivata attraverso le iniziative di prima emergenza, dovrà ora curare che per l'inizio dell'autunno tutte le famiglie abbiano una sistemazione adeguata. Nello stesso tempo dovrà assicurare l'avvio di quei piani di ricostruzione che solo se contingentati negli obiettivi e nei tempi daranno alle comunità sotto sforzo il senso di una progressiva uscita dall'emergenza. I territori colpiti, com'è noto, hanno alle spalle una cultura secolare che, nelle diverse epoche, ha prodotto testimonianze d'arte e di fede di incalcolabile valore. Si valuta che siano circa tremila i monumenti da recuperare:  tra questi - ci permettiamo di dire - urgono maggiormente le chiese, e non solo per il loro singolare carico di storia e di arte, ma perché va data una risposta alle esigenze di culto della popolazione. (...) Le generazioni passate hanno visto nelle chiese e nelle basiliche che si andavano costruendo l'affermazione della loro soggettività e del loro genio. Allo stesso modo, nelle energie e nel coraggio investiti senza risparmio per il pieno e funzionale recupero di tali manufatti, la presente generazione scorgerà un traguardo degno di non minore ammirazione.



Il terremoto, che è tornato a colpire duramente l'Italia, ha colto il nostro Paese in una condizione sociale ed economica duramente provata dalla crisi che, iniziata l'estate scorsa negli Stati Uniti, si è rapidamente diffusa in tutto il mondo. Nei mesi scorsi non sono mancate le occasioni per esprimere, come Chiesa cattolica, le considerazioni che questo contesto suggerisce. Osserviamo oggi che c'è una comprensibile ansia volta a scrutare, e dunque quasi anticipare, i segni di uscita dal tunnel in cui ci troviamo. E per la verità non mancano le voci che si arrischiano in previsioni quasi rasserenanti, che tutti naturalmente vorrebbero vedere confermate. Eppure, questo pare a noi il momento in cui la crisi tocca in modo più diretto, quasi cruento, la realtà ordinaria delle famiglie per le quali torniamo ad auspicare un fisco più equo. La disoccupazione, in particolare, sta intaccando anche le zone a più radicata tradizione industriale. Contraendosi gli ordinativi e le commesse, dalle imprese viene azionata la leva occupazionale, talora in tempi e modi alquanto sbrigativi, come si trattasse di alleggerire la nave di futile zavorra. Invece, proprio il patrimonio di conoscenze e di esperienza garantito dalle persone che lavorano sarà la base realistica da cui ripartire, una volta passato il peggio.

Intanto, a patire le maggiori ripercussioni è la fascia dei precari. È noto come nell'ultimo decennio i posti di lavoro flessibili avessero fornito un apporto decisivo alla riduzione della disoccupazione, che ora registra un brusco aumento dovuto principalmente alla perdita di posti di lavoro non garantiti. Per questi lavoratori gli ammortizzatori previsti sono davvero modesti. Ma l'incertezza ha da tempo attecchito anche nell'area del lavoro stabilizzato, che sta infatti conoscendo l'inquietudine della cassa integrazione, quando non del licenziamento. Riferendosi a questi fenomeni, Benedetto XVI in visita domenica scorsa a Montecassino invitava "i responsabili della cosa pubblica, gli imprenditori e quanti ne hanno la possibilità a ricercare, con il contributo di tutti, valide soluzioni alla crisi occupazionale, creando nuovi posti di lavoro a salvaguardia delle famiglie" (Omelia in Piazza Miranda a Cassino, 24 maggio 2009).

Si tratta di situazioni infatti che appesantiscono molto il tessuto sociale, allargando le disuguaglianze e riducendo la serenità di non poche comunità. La crisi, in altre parole, sta ora producendo i suoi effetti più deleteri sull'anello più debole della nostra popolazione. Come pure sull'economia già precaria dei Sud del mondo, in cui è previsto un aumento di quasi cento milioni di nuovi poveri.

(...) In questo scenario potrebbe risultare importante, per le nostre Chiese, sperimentare una prossimità ancora più concreta al mondo del lavoro. Intendo riferirmi alla vicinanza che i sacerdoti possono esprimere, ad esempio, accostando anche regolarmente le persone là dove esse lavorano - cappellani del mondo del lavoro, appunto - testimoniando, anzitutto attraverso un'attitudine all'ascolto, la considerazione che il Dio di Gesù Cristo ha del lavoro umano.

(...) Quanto alla molteplicità degli interventi che le singole Chiese locali stanno mettendo in atto per corrispondere alle urgenze del territorio, c'è da dire che essi si affiancano all'attività ordinaria delle nostre Caritas, ossia ai servizi strutturati di pronto intervento e alle iniziative di accoglienza rivolte a diverse tipologie di emarginazione.

(...) È ormai noto infatti che domenica prossima, 31 maggio, si svolgerà in tutte le nostre parrocchie una Colletta nazionale volta a dare vita a un Fondo di garanzia per le famiglie in difficoltà.
(...) Il consenso, francamente non cercato, che una serie di iniziative caritative adottate nell'ultimo periodo avrebbe procurato alla Chiesa, ha indotto taluno a chiedersi se non sia opportuno concentrarci sul terreno della carità, dove s'incontrano facili consensi, piuttosto che in quello assai più contrastato della bioetica. Ancora una volta veniva con ciò posto l'antico dilemma tra lo smalto dell'amore tradotto in opere e l'opacità che deriverebbe dall'affermazione di certi principi dottrinali. (...) A ben guardare, la vicenda dell'umanità rivela come la persistenza di un amore effettivamente altruista sia in realtà condizionata dall'annuncio della misura intera dell'umano. Fraintendimenti e deviazioni restano incombenti, se non si è costantemente richiamati al valore incomparabile della dignità umana, che è minacciata dalla miseria e dalla povertà almeno quanto è minacciata dal disconoscimento del valore di ogni istante e di ogni condizione della vita. Avere a cuore i temi della bioetica è un modo, non l'ultimo, per avere a cuore l'uguaglianza tra tutti gli esseri umani. Non si può assolutizzare una situazione di povertà a discapito delle altre; ma non si può nemmeno distinguere tra vita degna e vita non degna. Non c'è contraddizione tra mettersi il grembiule per servire le situazioni più esposte alla povertà e rivolgere ai responsabili della democrazia un rispettoso invito affinché in materia di fine vita non si autorizzi la privazione dell'acqua e del nutrimento vitale a chi è in stato vegetativo. È una questione di coerenza.

(...) In questa chiave, e a proposito di un ambito delicatissimo come quello della fecondazione artificiale, non possiamo tacere il rischio strisciante di eugenetica che potrebbe insinuarsi nel nostro costume a causa di interpretazioni della legge 40/2004, che forzosamente vengono avanzate sul piano della prassi come su quello giurisprudenziale. È noto come da oltre un mese sia in corso un serio impegno del nostro laicato che, all'insegna del motto "Liberi per vivere", intende approfondire e fare proprie le ragioni per cui il morire non può diventare un diritto che taluno invoca per sé o per altri. Se una tale pretesa infatti dovesse approdare nella legislazione e da qui attecchire nella mentalità corrente, le conseguenze sarebbero fatali anzitutto sul piano di quegli autentici diritti umani che costituiscono il portato di una intera civiltà. Tra il cosiddetto "diritto a morire" e gli altri diritti non vi è infatti alcuna omogeneità ontologica. È semmai la teoria dell'autodeterminazione che funge in questo caso da dottrina qualificante il discutibile diritto a morire. (...) Nella tendenza a ridurre il compito ecclesiale, e considerare le funzioni sociali come più rilevanti di quelle religiose, è difficile non vedere in azione una sorta di secolarismo edulcorato, ma non per questo forse meno subdolo, che - foss'anche senza volerlo - da una parte lusinga i cattolici e dall'altra li emargina. (...) C'è la preoccupazione che, alla base di simili posizioni un po' disincarnate, s'annidi una cultura neo-illuministica per la quale Dio in realtà c'entra poco - forse nulla - con la vita pubblica:  lo si lascia al massimo sopravvivere nella dimensione privata e intima delle persone. Ma il Vangelo annuncia che Gesù è Dio fatto uomo, è pertinente alla storia e interessato al mondo.

(...) Nell'ultimo periodo si è parlato molto di immigrazione. In primo luogo a causa del disegno di legge sulla sicurezza che la Camera dei deputati ha approvato in prima lettura, dopo alcune significative correzioni che peraltro non hanno superato tutti i punti di ambiguità. In secondo luogo a causa della concomitante ripresa degli attraversamenti del Mediterraneo che sono tra le modalità - non la più ricorrente ma certo una delle più pericolose - di ingresso irregolare nel nostro Paese. A essi le nostre Autorità hanno infine risposto con la controversa prassi dei respingimenti, già sperimentata in altre stagioni come pure in altri Paesi. Se la sovrapposizione con la campagna elettorale non ha sempre assicurato l'obiettività necessaria a un utile confronto, non può sfuggire il criterio fondamentale con cui valutare questi episodi, al di là delle contingenze legate allo spirito polemico o alla stagione politica. Ossia il valore incomprimibile di ogni vita umana, la sua dignità, i suoi diritti inalienabili. Accanto a questo valore dirimente, ce ne sono altri, come la legalità, l'affrancamento dai trafficanti, la salvaguardia del diritto di asilo, la sicurezza dei cittadini, la libertà per tutti di vivere dignitosamente nel proprio Paese, ma anche la libertà di emigrare per migliorare le proprie condizioni da contemperare naturalmente con le possibilità d'accoglienza dei singoli Paesi, o magari solo per arricchirsi culturalmente. Motivo per cui il singolo provvedimento finisce con l'essere fatalmente inadeguato se non lo si può collocare in una strategia più ampia e articolata che una nazione come l'Italia deve darsi a fronte di un fenomeno epocale come la migrazione di intere popolazioni. La geografia infatti ha connesso un elemento - per così dire - vocazionale, un'indole che connota il Paese in rapporto alla sua collocazione storico-ambientale.

Almeno due ci sembrano allora le domande a questo riguardo decisive:  che cosa facciamo per contribuire a che i figli dei Paesi poveri non si vedano costretti ad affrontare qualunque rischio pur di darsi una speranza di vita? La via della cooperazione internazionale deve diventare un caposaldo trasversale della politica italiana e anche europea, una scelta oculatamente perseguita e dunque anche impegnativa sul fronte delle risorse. Non c'è chi non veda, infatti, che solo migliorando le condizioni economiche e sociali dei Paesi di origine dei nostri immigrati si può togliere al fenomeno migratorio la propria carica dirompente. Ed è un motivo in più questo perché l'Italia si attivi molto nella riformulazione di quei più giusti meccanismi di governo dell'economia mondiale di cui prima parlavamo. L'altra domanda:  cosa facciamo per assicurare un'effettiva integrazione agli immigrati che giungono nelle nostre città? Conta ovviamente il posto di lavoro e una dimora minimamente dignitosa, ma tutto ciò - anche quando è assicurato - non basta. Bisogna evitare infatti il formarsi di enclavi etniche, perché così non solo si scongiurano micro-conflitti diffusi sul territorio, ma si modifica la percezione che non di rado i connazionali hanno circa la presenza di stranieri. Il territorio in senso antropologico è salvaguardato quando c'è, insieme a un fondamentale rispetto, un coinvolgimento orizzontale che provoca l'incontro tra famiglie di provenienza diversa, un'osmosi delle loro esperienze, e uno scambio di forme culturali nel rispetto delle leggi da parte di tutti. Guai a sottovalutare i segnali di allarme che qua e là si sono registrati nel nostro Paese. L'immigrazione è una realtà magmatica:  se non la si governa, si finisce per subirla. E la risposta non può essere solamente di ordine pubblico, anche se è necessario mettere in chiaro diritti e doveri, senza prevedere sconti in nome di un malinteso multiculturalismo che in realtà è solo una giustapposizione tra etnie che non dialogano.

Bisogna che scattino invece i meccanismi di una convivenza che, a partire dall'identità secolare del nostro popolo, si costruisce non in base a moduli autoreferenziali e oppositivi, ma, con passo aperto e dinamico, diventa capace di incontrare altre identità, di contagiarsi positivamente secondo modelli interculturali, pur senza cedere a una logica relativistica e priva di riferimenti marcati. È tempo cioè - come ci capitò già di dire - che si approntino e si perseguano dei veri e propri "patti di cittadinanza" per i quali un'evenienza epocale come l'immigrazione cessa di essere una casualità e diventa occasione per un'"identità arricchita", in grado di accreditare anche dei riferimenti condivisi. Va da sé che le parrocchie assumono, in questo disegno, un ruolo propulsivo che, senza rincorrere proselitismi ma anche senza rinunciare a proporre il Vangelo a tutti, sa farsi collante di vivacità e concreta integrazione nei diversi territori. Su questo fronte, per la verità, le parrocchie e i vari gruppi già si muovono, al di là del clamore e con generoso, quotidiano impegno.

L'ambito nel quale più preoccupante appare l'impatto dello spirito del tempo è quello educativo. Infatti si parla, non a caso, di "emergenza", e non per analogia né per retorica:  su questo fronte percepiamo effettivamente un allarme serissimo, che va via via dilatandosi. E poiché consideriamo l'emergenza educativa il fattore in grado di mettere a repentaglio l'equilibrio di una società e le possibilità concrete di un suo progresso, il Consiglio Permanente ha deciso di farne il tema centrale di questa Assise. (...) Anche tra le figure tradizionalmente dedite a questo impegno, come i genitori e gli insegnanti, sembra farsi strada un atteggiamento di resa, magari non dichiarata ma effettiva, come di un compito evidentemente in contrasto con ciò che interessa alle persone. A molti adulti, oggi, sembra un risultato già soddisfacente riuscire a trasmettere appena le regole del galateo, come a scuola le nozioni principali delle singole materie. Ma ben sappiamo che l'educazione è molto più che istruzione. È il risvegliarsi del soggetto che decide di sé, al di là di ogni determinismo sociale o biologico. (...) Possiamo dire che, in certa misura, il problema dei giovani sono gli adulti! Il mondo adulto non può gridare allo scandalo, esibire sorpresa di fronte alle trasgressioni più atroci che vedono protagonisti giovani e giovanissimi, e subito dopo spegnere i riflettori senza nulla correggere dei modelli che presenta e impone ogni giorno. Sono modelli che uccidono l'anima, perché la rendono triste e annoiata, senza desideri alti perché senza speranza. Ma il cuore dei giovani, anche quando  sembra  inerte  o  prigioniero del nulla, in realtà è segnato da una insopprimibile nostalgia di ideali nobili, e va in cerca di modelli credibili dove "leggere" ciò che veramente riempie la vita.

(...) Sappiamo bene che la risposta nostra all'emergenza educativa passa anche attraverso i sacerdoti. Certo, esistono le associazioni, i movimenti, i gruppi che hanno la loro ragion d'essere nella dinamica propria dell'educazione. Ma anche l'efficacia di queste aggregazioni in certa misura transita per la presenza al loro interno di autentiche figure presbiterali. Se da una parte il numero dei presbiteri ci impone una seria riflessione e soprattutto una più intensa preghiera per chiedere al Padrone della messe nuovi operai del Vangelo, dall'altra siamo provocati a camminare più decisamente sulla via della santità sacerdotale. Non è il numero, infatti, l'elemento decisivo nella missione educativa, e neppure l'età anagrafica - ce lo testimoniano i Santi - ma il fuoco interiore dell'amore di Cristo che ci sospinge e sostiene:  "L'educazione è cosa del cuore" scriveva san Giovanni Bosco (Epistolario, Torino, 1959).

(...) L'"Anno sacerdotale", indetto da Benedetto XVI in occasione del 150° della morte di San Giovanni Maria Vianney,  avrà  inizio il 19 giugno prossimo  in tutta la Chiesa cattolica. Si rivela una circostanza opportuna nella quale i nostri sacerdoti, e noi con loro, potranno rinvigorire il loro rapporto vitale con il Signore Gesù, misurando se stessi e la loro vocazione su quell'apostolica vivendi forma che è traguardo persuasivo di ogni dinamismo apostolico.



(©L'Osservatore Romano - 25-26 maggio 2009)
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