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La Chiesa che aiuta

Ultimo Aggiornamento: 13/06/2009 07:19
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27/05/2009 18:22

Una colletta per finanziare l'acquisto di generi di prima necessità

La Chiesa in Nigeria in aiuto della popolazione del Delta


Abuja, 27. Sta assumendo i contorni di una vera e propria tragedia umanitaria la situazione in Nigeria, dove da metà maggio è in corso un'offensiva militare delle forze armate regolari contro i militanti del Movement for the Emancipation of the Niger Delta (Mend), nella zona di Gbramatu, nello Stato meridionale del Delta.
Nella guerra che vede contrapporsi le due parti, i civili pagano il prezzo più alto.
Il Delta del Niger, la zona del delta del fiume, è una regione ad alta concentrazione di riserve petrolifere. I gruppi dei miliziani del Mend protestano per i danni provocati dallo sfruttamento del petrolio e chiedono che i ricavi della vendita del greggio vengano dati anche alla popolazione locale. Oltre ai morti, si registrano infatti migliaia di sfollati (secondo le stime sarebbero oltre 3.000) che vivono nelle foreste che coprono l'area, i quali sono privi di assistenza.
La Chiesa in Nigeria si è prontamente mobilitata per organizzare i soccorsi, in particolare promuovendo una colletta e la raccolta di donazioni i cui proventi andranno al sostentamento delle famiglie colpite dalla guerra. Il presidente della Catholic Bishops' Conference of Nigeria (Cbcn), Felix Alaba Adeosin Job, arcivescovo di Ibadan, a tale proposito ha inviato una lettera alle diocesi e alle arcidiocesi chiedendo uno speciale sostegno "per i nostri fratelli e le nostre sorelle che stanno soffrendo". Nella missiva è specificato che le somme raccolte andranno all'ufficio per lo sviluppo e la pace del Segretariato cattolico che a sua volta si
occuperà di distribuire gli aiuti:  si tratta in particolare dell'acquisto di beni di prima necessità come cibo e vestiti e altro materiale d'emergenza. L'arcivescovo ricorda che la colletta "serve a dimostrare che l'amore ancora esiste tra noi". Il presule si sofferma poi sul grave clima di tensione nella nazione, sottolineando che "ora non è il momento di trovare i colpevoli di questa situazione ma di dare sostegno ai fratelli e alle sorelle nel bisogno".
Oltre alla guerra, la lettera dei vescovi parla in particolare del problema dei rapimenti di civili innocenti. I sequestri prima concentrati nel Delta, ora si sono diffusi anche in altre regioni. Il presidente della Cbcn deplora tale pratica, ribadendo che "non è giusto rapire persone innocenti, torturarle, per poi chiedere il riscatto alle rispettive famiglie prima di essere rilasciate. Questo non può essere accettato dalla Chiesa cattolica".
Peraltro, nel corso dell'offensiva militare, le forze armate governative hanno riferito di aver liberato una ventina di ostaggi detenuti dai miliziani.
Nel mese di gennaio, a Port Harcourt, nel sud della Nigeria, si è verificato il rapimento di un sacerdote cattolico, padre Pius Kii, poi rilasciato senza il pagamento di alcun riscatto. Per l'occasione, la Conferenza episcopale ha pubblicato un comunicato nel quale si affermava:  "Pur ringraziando i rapitori per aver ascoltato la voce della ragione e aver rilasciato padre Kii, vogliamo ribadire la nostra posizione sul fatto che il rapimento è un'atrocità e non è il modo migliore di affrontare le ingiustizie economiche e sociali che devono subire le popolazioni del Delta del Niger. Ingiungiamo a coloro che sono impegnati in questo atto incivile ad avere un cambiamento del cuore. Facciamo anche appello al Governo e ai leader della regione affinché trovino una soluzione definitiva ai rapimenti, prima che questo problema degeneri con conseguenze ancora più devastanti".
Le popolazioni che vivono nell'area rivendicano dunque un'equa distribuzione dei proventi derivanti dalla vendita del petrolio, fra l'altro per compensare i gravi danni causati dalle attività estrattive. Infatti, l'inquinamento causato dagli impianti petroliferi ha pesanti ripercussioni sulle tradizionali attività dell'agricoltura e della pesca, oltre che sull'ambiente. I vescovi nigeriani hanno più volte denunciato gli sprechi e le malversazioni legate allo sfruttamento dei bacini petroliferi e il fatto che i proventi del commercio non sono utilizzati a beneficio dei nigeriani.
Da tempo è stata presentata una piattaforma di richieste al Parlamento nigeriano che prevede, fra l'altro, che la proprietà delle riserve petrolifere sulla terraferma e in mare sia conferita alle popolazioni del delta e che le comunità locali debbano partecipare alle decisioni concernenti le attività esplorative e di produzione del greggio.



(©L'Osservatore Romano - 28 maggio 2009)

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31/05/2009 11:25

Il Rinnovamento Carismatico al servizio degli ultimi

di Alessandra Nucci

ROMA, venerdì, 29 maggio 2009 (ZENIT.org).- Sono 40mila, di cui oltre 320 provenienti dalla sola Europa, i partecipanti attesi al grande raduno organizzato a Kkottongnae, in Corea del Sud, dall'ICCRS (International Catholic Charismatic Renewal Services), l'organizzazione ecclesiale di diritto pontificio presso la Santa Sede, che opera per il raccordo fra le realtà carismatiche cattoliche presenti in tutto il mondo.

L'iniziativa, che si svolgerà dal 1 al 9 giugno, è frutto della collaborazione fra l'ICCRS e il Rinnovamento carismatico cattolico di Corea, e si chiama "Love in Action", Amore in azione, perché si incentra sul servizio ai poveri, fatto con amore.   Spesso il Rinnovamento carismatico, in quanto movimento di preghiera, viene considerato avulso dalla realtà. "Con questa iniziativa, invece - spiega il direttore dell'Iccrs, Oreste Pesare -  noi vogliamo testimoniare di tante realtà sociali di servizio nate dal Rinnovamento in tutto il mondo, per sottolineare che tutti possono servire l'uomo, ma quando si opera nella carità è diverso:  il cuore si trasforma”. “E' sempre dallo Spirito – continua poi – che nascono i servizi che non sono 'soltanto' umanitari. In questo abbiamo preso ad  esempio Madre Teresa di Calcutta, che con la sua testimonianza trasformava i cuori, la gente la incontrava e si convertiva". L'iniziativa internazionale è organizzata insieme alla comunità coreana di Kkottongnae, "scelta specificamente  - hanno scritto in un comunicato congiunto la presidente dell'Iccrs Michelle Moran e padre Thomas Oh TaeSoon, coordinatore dell'evento - perché è un meraviglioso esempio di luogo in cui i frutti dello Spirito Santo si rivelano in abbondanza, nel prendersi cura degli ultimi". I partecipanti a "Love in action" avranno la possibilità di partecipare direttamente a questo lato profondamente umano della fede e dell'esperienza carismatica, collaborando per qualche giorno come volontari nel servizio ai circa tremila assistiti della comunità; servizio a poveri e ammalati, di cui anche alcuni in stato vegetativo persistente. "Questo evento assume una importanza rilevante - chiosa Oreste Pesare - perchè testimonia che il primo carisma dello Spirito è l'amore, senza il quale ogni altra manifestazione ordinaria o straordinaria non ha alcun valore". Al termine della settimana ci sarà un pellegrinaggio ai molti luoghi sacri ai cattolici in Corea, Paese in cui la storia della Chiesa è singolare e diversa da tutto il resto del mondo, perché il cattolicesimo vi è stato accolto e diffuso da laici. In preparazione ad "Amore in azione" il Rinnovamento coreano ha attivato da mesi un'équipe di migliaia di intercessori, intenti a pregare nel solco della rinnovata attenzione alla preghiera dettata dalla "Novo Millennio Ineunte", e propria anche dell'attuale Pontificato.

[Modificato da Cattolico_Romano 31/05/2009 11:26]
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Testimonianza a «L'Osservatore Romano» di una missionaria salesiana che opera a El Daein

In Darfur per restituire dignità alla popolazione


di Alessandro Trentin

"Non si dimentichi la tragedia in atto nel Darfur, dove migliaia di famiglie vivono in condizioni tragiche a causa della guerra. C'è bisogno di ridare la fiducia a queste persone, di aiutarle nel rispetto della loro dignità perché altrimenti non ci sarà futuro per loro":  questo l'appello di una religiosa salesiana di origine indiana, suor Maria Goretti Puthen, lanciato in occasione di un colloquio con "L'Osservatore Romano".

La religiosa, che opera nella martoriata regione del Sudan, dove è in atto un pluriennale conflitto che ha origini politico-etniche, in questi giorni è a Roma per partecipare ad alcuni incontri con associazioni cattoliche, nel corso dei quali con la sua testimonianza diretta pone in luce il dramma delle famiglie che vivono nei campi profughi e la particolare opera missionaria da lei svolta.

La suora opera in un campo profughi nei pressi di El Daein e, assieme ad altre due religiose, cura le attività di una scuola elementare ospitata all'interno di piccole capanne di fango nelle quali ogni giorno si affollano 500 bambini. Suor Maria Goretti spiega che "nel campo vivono 15.000 persone, stipate nelle capanne sparse dentro una grande area senza alcun servizio. Molte di queste vivono nel campo - specifica - da lunghissimo tempo, venticinque o anche trent'anni dall'avvio degli scontri armati tra i gruppi di ribelli". "Riconosci queste persone - aggiunge la suora - perché sono annichilite, in quanto non possono lavorare  e  si sono sempre sfamate del cibo e servite degli aiuti forniti dalle organizzazioni di soccorso, diventando così completamente dipendenti dall'esterno". 

Per proteggersi dalla guerra che si è fatta sempre più cruenta e che non risparmia neppure gli innocenti (secondo le stime finora sarebbero oltre 300.000 i morti e circa tre milioni gli sfollati), la popolazione del Darfur è infatti costretta a vivere nei campi per sfollati, che offrono un minimo di protezione ma tolgono alle persone quella dignità che ogni essere umano desidera e merita.

La religiosa, dunque, insieme con le altre suore, lotta soprattutto per restituire la dignità perduta a queste persone, in collaborazione con i laici del movimento "Italia Solidale del Volontariato per lo sviluppo di Vita e Missione".
Le missionarie salesiane stanno portando avanti un programma di assistenza basato su modalità nuove che non fa leva sulla mera assistenza materiale ma su un processo di recupero della stima e di volontà di riscatto da parte dei rifugiati. "Siamo partite - racconta la religiosa - da un piccolo gruppo di persone, donne soprattutto. Incontrandole ogni giorno e condividendo le loro sofferenze le abbiamo aiutate a sentire nuovamente l'amore per la loro vita e la vita dei loro bambini, e nel campo si sono già formate le prime comunità di "sviluppo di vita e missione". Grazie a queste comunità, nelle quali sono coinvolti anche gli uomini, queste famiglie possono soprattutto uscire da una passività deleteria e recuperare le forze per avviare qualche attività". "Vogliamo salvare questi bambini, raggiungendo le loro famiglie - ribadisce - e gradualmente aiutarle a riappropriarsi della loro dignità per contare solo sulle loro forze".

Sulla scia delle parole di san Giovanni Bosco - "datemi le anime e buttate tutto il resto" - la religiosa evidenzia che l'intento è quello "di lavorare alla scoperta dell'"io potenziale" che è nascosto in ogni persona, per promuovere quella spinta interiore che possa far diventare ogni povero autosufficiente e non più dipendente dagli aiuti esterni".
In pratica la suore stanno attuando in Darfur il modello delle "comunità solidali" creato dal fondatore del movimento "Italia Solidale", padre Angelo Benolli. Il movimento sostiene, attraverso le adozioni a distanza, lo sviluppo in tutto il mondo di piccole comunità locali solidali, mediante una forma di aggregazione naturale tra le famiglie dello stesso territorio, indipendentemente dalle differenze etniche e religiose. Queste aggregazioni, propriamente formate, diventano così autosufficienti e capaci, a loro volta, di aiutare altri nuclei familiari, in una sorta di circolo virtuoso.

Le comunità utilizzano le donazioni che vengono non da enti od organizzazioni internazionali, ma dai membri stessi del movimento "Italia Solidale" che partecipano alle adozioni a distanza. "Il denaro che quindi viene ricavato con le adozioni a distanza - specifica la religiosa - non rischia di essere disperso inutilmente. Esso viene trasformato in prestiti che servono a finanziare l'avvio di concrete attività lavorative che servono al sostentamento delle famiglie". "In questo modo - afferma suor Maria Goretti - viene salvata la dignità della gente. Ogni persona non si sente così umiliata e percepisce l'aiuto non come un'elemosina, ma come un gesto di solidarietà basato sul rispetto e sull'amore sincero". "Questo modo nuovo di fare missione - prosegue la religiosa - produce una vera e propria trasformazione nella gente. Con i nostri occhi vediamo persone che prima erano inattive, lasciarsi prendere dall'entusiasmo del fare e dalla fame del riscatto per uscire fuori dalla povertà". Nascono così, per esempio, grazie all'assistenza delle suore e dei volontari, piccole attività commerciali o laboratori artigiani, dove i rifugiati si impegnano quotidianamente, ricavando quanto basta per la loro sussistenza. "È stupefacente vedere - conclude la suora - come il lavoro diventa la fonte della rinascita per queste persone. Gli uomini riacquistano tutto quanto il loro orgoglio e, grazie al ritrovato entusiasmo, diventano ottimisti e fiduciosi. C'è persino il caso di un giovane che aveva commesso numerosi reati che ora dirige le attività lavorative insegnando ad altri abitanti del villaggio".

Nel campo di El Daein si sono dunque formate le prime comunità, replicando le esperienze già fatte dai volontari di "Italia Solidale" in varie parti del mondo, tra cui l'India, la nazione dalla quale proviene suor Maria Goretti. Ma nel Darfur, e in Sudan in generale, la presenza "Italia Solidale" si sta estendendo in altre zone.
A oggi sono 25.000 i volontari donatori del movimento che partecipano con l'adozione a distanza a questa "globalizzazione" della solidarietà. I volontari di "Italia Solidale" amano definirsi "semplicemente "persone per le persone"", impegnate ad arrivare alla pienezza della vita, della natura, dello spirito, della verità e dell'amore per ben amare e ben lavorare. Numericamente stimabili in oltre due milioni, i volontari si dividono in tre categorie:  i volontari laici di Italia Solidale, che hanno assunto per primi la nuova cultura missionaria; i volontari laici e missionari del Sud del mondo, oggi appartenenti a una ventina di congregazioni e diocesi e, infine, i volontari donatori. Complessivamente sono novantotto le missioni che fanno capo al movimento.


(©L'Osservatore Romano - 3 giugno 2009)
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Le strutture sono gestite dai missionari e da alcuni volontari

In Benin due case di accoglienza per bambini malnutriti




di Egidio Picucci

La notizia era sui giornali del 18 aprile scorso:  in molti Paesi dell'Africa la spesa per la salute è di 4 dollari l'anno per persona. Peccato che il giornalista non abbia scritto quanto pesano sulla salute dei piccoli - i più esposti alla malattia - la denutrizione, il lavoro in condizioni intollerabili, l'analfabetismo, le guerre, l'abbandono e decine di altre cause legate ai fenomeni naturali, ma più spesso alla cattiveria dell'uomo che ferisce la loro anima. Che qualcuno cerca di salvare.

Nel Benin (come in mille altri Paesi) ci pensano soprattutto i missionari. Ma non da soli. Chi sta in prima linea nell'assistenza di questi infelici, spesso ridotti a vere larve umane, respinti dalle famiglie e dalla società, disattesi dalle strutture governative, ha bisogno di retrovie che mandino "rifornimenti" a tempo debito, e che i missionari del Benin hanno trovato, tra l'altro, nella Rainbow, produttrice di un fortunato cartone animato conosciuto in tutto il mondo.

L'idea di aiuto provvidenziale è partita da Iginio Straffi, l'inventore del cartone, il quale ha dichiarato che i veri valori trasmessi dai personaggi sono l'amicizia, la famiglia, l'onestà e la fiducia in se stessi. Da questi presupposti non gli è stato difficile decidere di dare una famiglia ai bambini che vivono per le strade di Cotonou, costruendo per loro una "Maison d'accueil" a Djèffa. 

La scelta del luogo, lontano dalla città, è dipesa dall'impossibilità di trovarne uno più vicino (Djèffa è a oltre venti chilometri da Cotonou, nel comune di Sèmé Kpodji), ma i missionari, che hanno dovuto aprire una strada d'accesso, vi hanno visto un segno particolare, perché in lingua fon Djèffa vuol dire "terra adatta per un buon riposo":  luogo più che adatto, quindi, per i cinquanta bambini che vi abitano da qualche mese, assistiti da frère Maximin Haissou e da alcune signore che li amano come figli.

Alla cerimonia di inaugurazione hanno partecipato le autorità civili e quelle religiose nella persona di monsignor René-Marie Ehuzu, vescovo di Porto Novo, capitale del Paese. Mathias Gbèdan, sindaco di Sèmé Kpodji, ha promesso l'allaccio idrico ed elettrico, applaudito non solo dai responsabili della maison, ma anche da Monsieur Augustin Bodjrènou, che rappresentava il Ministro della Famiglia e della Solidarietà Nazionale, Madame Djossoumeba. La quale conosce senza dubbio quanto avviene un po' in tutto il Paese, ma specialmente a Zakpoktá, una cittadina (la più povera della nazione, dicono) a poche decine di chilometri da Djèffa, e cioè l'incredibile mercato dei bambini lavoratori destinati in Nigeria; bastano venticinque euro per acquistarne uno, condannato a lavorare nelle cave di sabbia nella vicina nazione, e precisamente ad Abeokuta, capitale storica dell'etnia yoruba. Reclutati da un akowé (maestro) che tutti conoscono, ma contro il quale pare non possa far nulla neppure il Maejt (Movimento africano dei bambini e dei ragazzi lavoratori), i bambini sono comprati nelle campagne e sono portati in motocicletta oltre confine, costretti a cavar sabbia dodici ore al giorno in un'enclave della foresta in mano ai beninesi. La loro condizione è pessima, anche se migliore di quella dei piccoli impegnati nelle miniere d'oro di altri Paesi del continente:  almeno essi lavorano all'aria aperta, riposano la domenica e si sfamano con una manciata di farina di igname (un tubero simile alla nostra barbabietola) che mangiano con pochi grammi di legumi.
Tutti sanno, ma nessuno interviene.

Monsignor Ehuzu ha benedetto i locali:  "Si è data - ha detto - una casa a fanciulli che non sempre, purtroppo, hanno un posto nella società. Spesso si nega loro il diritto di vivere o perché uccisi con l'aborto o perché mandati al massacro nelle guerre che dilaniano il continente. Dio - ha aggiunto il vescovo - non mette nessuno sulla strada e non dovrebbe mettercelo neppure l'uomo". Per questo ha raccomandato ai genitori di interessarsi dei figli e ai figli di rispettare i genitori, "perché - ha precisato - molti finiscono sulla strada proprio perché non hanno obbedito".
Situazione diversa a Ina, nel nord del Paese, dove è stato inaugurato il Foyer St. François (anche questo finanziato dalla Rainbow) che ospiterà i ragazzi che arrivano dai villaggi vicini per frequentare la scuola.

"La condizione in cui vivono i ragazzi che dai villaggi vengono a Ina - ha dichiarato Benon Chabi Tonigbéba, re di Ina - ci preoccupava da anni:  ammassati in stanze senz'aria e senza luce; costretti a pagarsi la pigione lavorando nella campagna; abbandonati a se stessi, non hanno tempo né per studiare né per pregare. Situazioni risparmiate ai loro coetanei di Bembéréké, di N'dali, di Pèrèré e di Nikki, che da tempo hanno il loro Foyer".
A Ina vivono i Bariba ("infedele" in lingua haoussa), parlano una lingua assolutamente non facile, ma molti - re compreso - parlano francese.

Il Foyer è sotto la protezione di san Francesco e luogo - come dicono le parole scritte sul cancello d'ingresso - di studio, di educazione e di amicizia.
Nessuno ha chiesto ai trentuno ragazzi ospiti (il Foyer ne può accogliere ottanta) se le hanno capite e, soprattutto, se le vivranno. C'è da sperarlo con la fiducia di chi ha lavorato per loro, anche perché nel Bénin, come in altri Paesi africani, c'è ansia del meglio, di avere quello che milioni di uomini già posseggono perché hanno saputo, o potuto, tessere la loro storia in modo diverso.


(©L'Osservatore Romano - 3 giugno 2009)
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Iniziativa dei frati della basilica di Sant'Antonio da Padova

In Uganda una casa per i bambini orfani


di Claudio Zerbetto

Una casa-famiglia per i bimbi orfani e per le mamme abbandonate a Mbarara, nel sud ovest dell'Uganda. È quanto prevede il progetto di solidarietà promosso dai frati della basilica di Sant'Antonio da Padova, in occasione della festa liturgica dedicata al santo.
L'iniziativa si è concretizzata dopo il recente viaggio di padre Danilo Salezze, direttore generale del "Messaggero di Sant'Antonio" e ora è stata rilanciata anche dalla rivista mensile pubblicata dai francescani conventuali.
"L'Uganda sembra a prima vista un vero paradiso - afferma padre Danilo Salezze - eppure questo Paese vive il dramma della povertà che provoca sofferenza e morte".
Il direttore racconta delle enormi difficoltà vissute dalla popolazione, spiegando che alla lunga guerra civile, alla miseria e alla fame, si accompagna la piaga terribile della diffusione dell'Aids. Dei trenta milioni di persone infette da hiv nel mondo, due milioni infatti sono ugandesi e l'80 per cento non sa neppure di essere in questa situazione di estremo rischio.
Peraltro non esiste in Uganda una medicina di base, e solo chi può pagare riceve qualche assistenza. Nel Paese l'aids, oltre a fare moltissime vittime, è diventato fra l'altro la causa prima di molte altre situazioni drammatiche, come quella dei milioni di bambini rimasti orfani.
C'è infine un elevato numero di donne malate a causa del virus, le quali sono colpite anche da altre patologie, fisiche o mentali, tutte conseguenza dell'abbandono in cui si trovano.
"A questi bambini e a queste donne, dunque - sottolinea il direttore - sarà dedicata la casa-famiglia Shalom, che rappresenta un segno della solidarietà concreta dei tanti devoti di sant'Antonio sparsi nel mondo". "Il progetto - specifica padre Salezze - nasce in collaborazione con la comunità Yesu Aurire (Gesù è vivo) di Mbarara, fondata da un sacerdote della diocesi di Mbarara, padre Emmanuel Tusiime". "Nel progetto - aggiunge - è coinvolto un gruppo di volontari laici, uomini e donne che hanno conosciuto direttamente il dolore, il lutto, la malattia e l'abbandono, e che oggi sono impegnati nel restituire dignità alle persone che chiedono aiuto".
Per i promotori, l'iniziativa di solidarietà è insieme un modello di assistenza e sviluppo, che si basa su una grande esperienza di fede. "Si tratta di una bellissima esperienza dell'Africa che aiuta se stessa - osserva il direttore - che si prende in mano con le proprie ferite".
Casa Shalom sarà in grado di accogliere fino a un centinaio di persone:  settanta bambini orfani e malati a causa dell'Aids, quindici mamme sofferenti per disturbi psichiatrici con i loro bambini; oltre a un gruppo del personale volontario e medico. Il terreno è già disponibile e la comunità di Mbarara è pienamente coinvolta nell'iniziativa.
Padre Emmanuel pensa già agli sviluppi futuri della casa di accoglienza:  essa sarà collegata all'ospedale e all'università e diventerà un luogo di formazione per gli operatori sociali. L'intera città verrà coinvolta nell'iniziativa, i bambini bisognosi di assistenza saranno così reintegrati nelle famiglie e le donne troveranno un lavoro. Manca per ora il denaro per comprare il materiale e pagare il lavoro degli operai, ma i francescani della basilica di Sant'Antonio di Padova, attraverso la Caritas antoniana, hanno comunque deciso di appoggiare questo progetto, convinti nell'aiuto di tanti amici.


(©L'Osservatore Romano - 12-13 giugno 2009)
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