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Iconografia e memorie mariane nella civiltà paleocristiana e altomedievale dell'Urbe

Ultimo Aggiornamento: 28/05/2009 19:43
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28/05/2009 19:43

  Iconografia e memorie mariane nella civiltà paleocristiana e altomedievale dell'Urbe

Nelle più antiche chiese di Roma il giardino della nuova Eva


Nel pomeriggio di giovedì 28 maggio a Roma, presso l'Antonianum, viene presentato il libro di Pasquale Iacobone Maria a Roma:  Teologia, culto e iconografia mariana a Roma dalle origini all'altomedioevo (Todi, Tau Editore, 2009, prefazione di Gianfranco Ravasi, pagine 129, euro 22). Pubblichiamo l'intervento di uno dei relatori.

di Fabrizio Bisconti



Guardare al percorso seguito dalla fortuna dell'immaginario mariano a Roma, attraverso la ricca produzione iconografica, ma anche per il tramite delle manifestazioni liturgiche, spirituali o di quelle legate alla devozione popolare, significa percorrere un itinerario complesso e nutrito sicuramente dal pensiero della Chiesa dell'Urbe e dai Pontefici che, con i loro gesti, hanno fatto la storia di una comunità cresciuta attraverso i secoli della tarda antichità e dell'altomedioevo, ma vuol dire anche rilevare gli apporti, le connotazioni, le accezioni offerte dalle altre Chiese e, specialmente nella stagione bizantina, da quella d'Oriente.

Per molto tempo, si è ritenuto che il pensiero cristiano della prima comunità romana attribuisse a Maria un ruolo marginale, nell'ambito di una civiltà essenzialmente cristologica, volta a definire soltanto il nodo, pure essenziale, del nesso tra Vergine e Madre, che connota le prime disquisizioni teologiche, avviate già nel ii secolo da Giustino, il quale risponde alle urgenti istanze dei pagani e dei giudei, secondo il metodo tipologico delle oppositae qualitates:  in esse si propone un drammatico "faccia a faccia" tra Eva, che, quando era ancora vergine e incorrotta, concepì la parola del serpente e partorì disobbedienza e morte, e Maria che, all'annuncio dell'angelo, rispose:  avvenga la tua parola (Luca, 1, 38).

Il nodo saliente del parto verginale attraversò i primi secoli, tematizzandosi nel pensiero dello Pseudo Ippolito, il quale, nel iii secolo, definì la dinamica dell'Incarnazione del Verbo.
In questo elementare laboratorio teologico, dal quale emergono le esperienze e gli esperimenti dell'incipiente pensiero mariano, corollario funzionale alle emergenti questioni cristologiche, si affacciano le prime manifestazioni iconografiche, le quali riflettono, in maniera quasi testuale, l'atteggiamento patristico e la posizione della costituita Chiesa romana. Tali manifestazioni si attestano nel corso del iii secolo, simultaneamente alla definizione organizzata della Chiesa di Roma e costellano i più antichi cimiteri del suburbio romano. Il fenomeno è, in parte, dovuto a ragioni esclusivamente conservative, nel senso che le catacombe romane, per lo più obliterate in corrispondenza del sacco del 410, sono rimaste "blindate" sino al 1500, quando, a una ad una, nell'atmosfera tesa della controriforma, ricomparvero e mostrarono le testimonianze di una fede antica, genuina, eppure già mossa da alcune controversie di carattere specialmente cristologico. La decorazione degli edifici di culto più antichi, invece, scomparve in seguito alle manipolazioni e alle stratificazioni, talché occorre attendere gli anni centrali del v secolo per intercettare i primi segni di una iconografia propriamente mariana nelle Chiese dell'Urbe.

Ma torniamo alle catacombe ed, in particolar modo, lungo il tracciato della via Salaria Nova, dove, proprio nel Cinquecento, si riscoprì, da parte degli antiquari guidati dal grande archeologo maltese Antonio Bosio, uno dei più estesi cimiteri ipogei del suburbio romano, organizzato in due piani e sfruttato per le deposizioni di una grande comunità, che si attestò presso queste catacombe, sfruttando un terreno offerto dalla nobildonna Priscilla, dell'antica gens degli Acilii.

Le catacombe di Priscilla - come si diceva - si svilupparono in due piani, dei quali quello più superficiale sfruttò cavità già create dai pagani, nella specie di cunicoli idraulici e lacinie di una miniera abbandonata. Ebbene, proprio nel cuore di una cava di arenaria, spunta, nella sommità di un nicchione, un affresco, tanto provato nella conservazione quanto suggestivo e significativo per la storia del culto mariano a Roma.

Si tratta della prima immagine della Madonna che sia giunta fino a noi e che risale agli anni Trenta del iii secolo. L'affresco, che propone uno stile rapido ma perfettamente collocabile nell'esperienza artistica che si consuma nel mondo romano durante l'età severiana, è parte di una sorta di cantiere che dagli anni iniziali del secolo giunge alla piena stagione costantiniana. La nostra scena, infatti, fu aggiunta quale complemento di un quadro in stucco della fine del iii secolo, che rappresenta due pastori in un ameno giardino fiorito, per alludere a un eden beato, entro cui, di lì a qualche anno, si incastonò la scena di cui si sta ragionando:  una scena semplice, costituita da sole tre immagini, eppure vibrante, viva e vivace per l'intreccio degli sguardi dei personaggi, che sottende un significato raffinato, che travalica il luogo evangelico a cui si ispira e si inserisce coerentemente nel dibattito cristologico, che mina la coesione della Chiesa romana proprio in quel frangente.

Maria appare come una madre premurosa, che stringe al grembo il neonato il quale, con un improvviso movimento, volge il piccolo capo verso l'osservatore, come se fosse richiamato dalle parole del terzo personaggio, che si staglia solennemente, vestito di tunica e pallio, mentre indica, con la destra un astro che brilla tra i rami di quel giardino, di cui si è detto, che rappresenta l'universo, verso cui l'enigmatico personaggio proferisce le sue parole. L'uomo è stato variamente interpretato, ma è inutile riconoscervi Giuseppe, per comporre una improbabile Sacra Famiglia, o un pastore per creare, comunque, una precoce scena di presepe, è meglio virare i nostri pensieri verso i profeti dell'Antico Testamento, che si riferiscono alla venuta del Messia.

Varie profezie si affollano attorno a questo enigmatico personaggio:  si è pensato a Balaam, che annunciò "la stella che spunta da Giacobbe" (Numeri, 24, 17); si è pensato ad Isaia, che profetizza il parto verginale (Isaia, 7, 14); si è pensato a Michea, che fa esplicito riferimento a Betlemme di Efrata, da cui uscirà colui che deve essere il dominatore di Israele, in perfetta coerenza con il salmo 110, 3 che recita "Dal grembo, prima della stella del mattino, ti ho generato".



Ma, forse, il nostro personaggio non va identificato con un profeta particolare e la scena, letta globalmente ci mette dinanzi ad un suggestivo faccia a faccia tra le due economie testamentarie, dove il profeta rappresenta genericamente la personificazione della profezia messianica e la natività traduce in figura l'attuazione della profezia e, dunque, del mistero dell'incarnazione.

Negli stessi anni o di lì a qualche decennio, furono concepite nello stesso cimitero, in contesti figurativi più complessi, la prima rappresentazione dell'adorazione dei Magi e quella dell'annunciazione. La prima scena, dipinta nella cosiddetta Cappella Greca, contempla i tre re che si affrettano, disposti in fila, verso il Bambino, seduto sul grembo di Maria che, solennemente assisa in trono, raffigura la "cattedra", il tabernacolo in cui si verifica la manifestazione epifanica del salvatore.

Ancora più essenziale risulta la scena dell'annunciazione che comporta ancora la Vergine seduta in cattedra, mentre ascolta l'annuncio, con il quale si apre la stagione della salvezza.
Dalle catacombe di Priscilla queste scene, non ancora mariane, ma profondamente cristologiche, si diffondono, per decine di volte, negli altri affreschi catacombali, oltrepassando il iii secolo e interessando tutto il secolo seguente, secondo schemi ripetitivi, con l'intento di esprimere concetti forti e cari al pensiero cristiano delle origini, che investono tutta la questione sorta intorno ai grandi temi dell'incarnazione e della natura del Cristo.

Secondo questa dinamica figurativa e con intenti catechetici, in quanto ripetitivi ed essenziali e, dunque, utili strumenti per la scuola del catecumenato rivolta a un uditorio eterogeneo e non aggiornato ai misteri più delicati della nuova religione, le tre scene tornano negli stessi anni nelle officine romane e in quelle provenzali per decorare i sarcofagi marmorei, aprendo le porte a un immaginario iconografico, che diviene più sofisticato e attento alla diffusione degli scritti apocrifi, con riguardo speciale per il Protovangelo di Giacomo e il Vangelo dello Pseudo Matteo, che dedicano pagine vivaci e alternative all'Infantia Salvatoris, tenendo sempre bene presente il nucleo pregnante della cristologia, ma guardando con più attenzione al dogma efesino definito dal concilio del 431.

Questi nuovi materiali ed un'atmosfera teofanica, sostanziata dall'apporto apocalittico, giunto in Occidente negli anni Ottanta del secolo iv per l'attenzione riservata da Ticonio al piccolo libro di Giovanni, nutrono il grande scenario musivo dell'arco di Santa Maria Maggiore, lungo il quale si dispiegano i temi dell'annunciazione a Maria e Giuseppe, dell'adorazione dei Magi, della presentazione al Tempio, della strage degli innocenti, del sogno di Giuseppe, dell'incontro dei Magi con Erode, del Cristo bambino a Sotine, presso il re Afrodisio.

Tutte queste scene, che vedono Maria come coprotagonista, ma sempre presente, si calano - come si diceva - in un habitat teofanico, che culmina nel trono dell'Etimasia, tra i principi degli apostoli e il tetramorfo, mentre le due città gemmate chiudono il manifesto figurativo e si agganciano alle sequenze veterotestamentarie che si dispiegano, come eloquenti prefigurazioni, lungo le navate.

Lo scenario musivo di Santa Maria Maggiore, ora privata della decorazione absidale, ridefinita da Jacopo Torriti, ma sicuramente intonata, come suggerisce l'iscrizione, pure perduta, ma nota dalle sillogi, della controfacciata, al tema della genetrix ignara viri, si propone come un programma pensato e voluto dal Pontefice che, definendosi come Xistus episcopus plebi Dei, autentica la dedicazione della basilica mariana, che diverrà la sede privilegiata della speculazione teologica sulla Theotòkos e sul delicato e mai disatteso problema dell'incarnazione.

Da quel momento, Roma viene connotata da una serie di edifici sacri dedicati alla Madre di Dio e, segnatamente, quelli di Santa Maria Antiqua al Foro Romano, di Santa Maria ad Martyres (Pantheon), di Santa Maria in Trastevere, mentre alcune icone mariane, riferibili all'arco cronologico che, dal vi giunge all'viii secolo, percorrendo, cioè la stagione bizantina e quella altomedievale, ci mettono a contatto con il prodigioso incontro della civiltà orientale con quella schiettamente romana.

Se, infatti, la suggestiva immagine del Monasterium Tempuli, ora nell'Oratorio del Rosario a Monte Mario, sembra ancora debitrice alla cultura figurativa di matrice orientale, le altre quattro icone e, segnatamente, quella di Santa Maria al Foro, quella di Santa Maria ad Martyres, quella di Santa Maria in Trastevere e l'icona di Santa Maria Maggiore, conosciuta come Salus Populi Romani, intrattengono un intimo rapporto con la città, innescando un culto allargato, che toccherà, in quei secoli, i livelli della taumaturgia, assurgendo a simboli di difesa della città dalle avversità e dai nemici.



(©L'Osservatore Romano - 29 maggio 2009)
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