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Medici e malattie che segnano una vita

Ultimo Aggiornamento: 12/06/2009 06:46
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Medici e malattie che segnano una vita

Con un padre calzolaio ammalarsi era vietato


Mercoledì 10 giugno esce il libro Si ringrazia per le amorevoli cure prestate (Venezia, Marsilio, 2009, pagine 304, euro 18), con la prefazione di Lucetta Scaraffia. Anticipiamo un estratto dall'introduzione dell'autore.

di Stefano Lorenzetto

Sono uno degli ultimi italiani nati in casa. Contento di esistere, quell'11 luglio del 1956 non mi rendevo conto che l'appuntamento con i medici era solo rinviato di cinque giorni e che sarei rimasto in balìa loro, all'ospedale, per i due mesi successivi. Né potevano immaginarlo i miei genitori e i miei quattro fratelli, che a una simile evenienza non erano per nulla preparati.

Mio padre, in particolare, fuggiva i camici bianchi come il peccato. Da artigiano che lavorava in proprio era considerato, benché calzolaio, alla stregua di un imprenditore e quindi non poteva contare sull'assistenza di una cassa mutua. Visite, medicine, ricoveri doveva pagarseli fino all'ultima lira; ammalarsi era vietato:  sarebbe stata la catastrofe economica per l'intera famiglia, che tirava avanti col "libretto di povertà" rilasciato dal Comune di Verona. 

Dev'essere per questo che il giorno in cui col trincetto si squarciò il pollice sinistro fino all'osso, mentre tagliava un pezzo di cuoio, preferì ricucirsi il dito da solo col filo che usava per i guardoli.
A maggior ragione era a pagamento l'ostetrica. "Quella di Marzana, la Emma, arrivava col biroccino", un segno di distinzione degno di Giovanni Pascoli, che nel lessico di mia madre va inteso in un solo modo:  costava tanto.

Marzana è una frazione a 8 chilometri dal capoluogo. Le gravidanze in casa Lorenzetto si concludevano lì, dove abitavano i nonni materni. Mio padre restava a lavorare in bottega, a Verona. Assisteva al parto solo mia nonna.

Ma col secondogenito il servizio della levatrice non si rivelò all'altezza. La mamma fu còlta da un'imponente emorragia "prima de secondàr", cioè prima che la placenta fosse espulsa.
Ancor oggi, a 87 anni, ricorda d'aver sentito nelle orecchie il ronzio ovattato della vita che se ne va. Dalla camera da letto, posta al primo piano, il sangue colava così copioso da filtrare attraverso le fessure del pavimento di assi e gocciolare sul tavolo della cucina al pianterreno.

La nonna, vedendo che la figlia stava per morire dissanguata, implorava la Emma di praticarle un'iniezione. "Non posso. E se poi la placenta resta dentro, che facciamo?", si rifiutava l'ostetrica. "Alòra preghèmo", concluse rassegnata mia nonna. Scese in cucina e s'inginocchiò davanti all'altarino della Madonna di Pompei, alla quale era molto devota. L'emorragia cessò. Dal terzogenito in poi, i parti a Marzana furono perciò sospesi e l'incarico venne affidato alla levatrice di Borgo Venezia, la signora Ferro, che arrivava a piedi, anziché col biroccino, anche perché abitava nella piazza della chiesa, 500 metri da casa nostra.

La nuova ostetrica tranquillizzò mia madre:  "Non stia a pensare, io ho capito com'è fatta lei:  invece di spingere, si addormenta. Ma appena spunta la testa, le faccio una bella iniezione e così il bambino non torna indietro". Alle 12 suonò la sirena dello stabilimento Rossi. Alle 12.05 il terzogenito era fuori. Il papà, che aveva la bottega sotto casa, poté salire subito a vederlo.

Con l'ultimogenito "la storia fu contestata", pudica perifrasi materna per dire che andò storto qualcosa. Che cosa, l'ho voluto capire bene per la prima volta solo a 52 anni. Così, una domenica di settembre del 2008, sono andato a raccogliere l'intervista più coinvolgente fra le quasi 600 realizzate nell'ultimo decennio:  quella a mia madre che parla di me. Credo che tutto sia dipeso dalla mancata preparazione al parto. Mezzo secolo fa le donne concepivano spesso senza nemmeno sapere come. Venuto il tempo, partorivano nello stesso letto in cui avevano concepito. E questo era tutto. Per evitare il peggio sarebbe stato sufficiente un lettino ginecologico col poggiagambe a incavo, ma non credo che si potesse noleggiare. Fatto sta che mentre l'ostetrica mi stringeva la testa nel tentativo di estrarmi, operazione difficoltosa quando devi afferrare 4 chili e 2 etti di cristiano, la mamma ci mise del suo, serrando all'improvviso le gambe per una fitta più dolorosa delle altre. Potevo cavarmela con un cefaloematoma, molto comune nei neonati durante il travaglio. Andò peggio.

Erano le 8.40 di sera ed era mercoledì. La prima notte fu tutta un lamento, flebile quanto opprimente. Venuta l'alba, mia nonna, che aveva assistito al parto stavolta al fianco di mio padre, proruppe in un ordine di accorata drammaticità:  "Bepi, ciapa un bicér de acqua, che batesèmo el butìn! Parché, son sincera, a me mama gh'è morto un fiól in 'sta maniera qua". Avendo la madre della suocera partorito otto figli, papà si convinse che la statistica era da tenere nel debito conto. Da quel momento il bicchiere d'acqua restò sempre pronto sul comodino.

Mia madre ha impresso nella memoria che "perdevo" il collo, cioè assomigliavo alle galline riverse sul bancone del pollivendolo. Apparivo sempre imbambolato e non cercavo il suo seno:  "Se non ci fossi stata io a svegliarti, non avresti nemmeno reclamato il latte". Assente per ferie il dottor Gaetano Fioravanti, il pediatra di famiglia che spesso ci visitava gratis, furono chiamati d'urgenza prima il medico condotto e poi "un dotór che stava al ponte Navi", i quali valutarono il mio intorpidimento in un modo davvero singolare:  "Questo bimbo è solo un gran mangione, fa delle scorpacciate".

Inutilmente la puerpera cercò di convincerli che si stavano sbagliando, e di grosso. Decise a quel punto di seguire il suo istinto materno e di accelerare le pratiche per un battesimo come Dio comanda. Il sabato mattina raccolse le forze, scese nella salumeria del signor Rino, porta a porta con la bottega di mio padre, e domandò al negoziante se per favore le lasciava usare il telefono. Chiamò la sorella a Marzana e la pregò di scendere a Verona l'indomani:  "Dovresti far da madrina al mio Stefano".

Il sacramento mi fu amministrato nella chiesa di San Giuseppe Fuori le Mura. Cerimonia scabra. Niente pranzo. Alla fine del rito, mia zia fu molto esplicita con la sorella e se ne uscì con un'espressione che tradotta dal dialetto veneto suona pressappoco così:  "Sono addolorata, ma non ci vedo dentro niente di bello nemmeno io". La conferma che mia mamma non avrebbe mai voluto sentire. "Sai che faccio? Ti lascio qui e corro dal dottor Orlandi, che vede tanti di questi casi", soggiunse la madrina.

Il dottor Orlandi abitava a Quinto di Valpantena, tutt'uno con Marzana. Non l'ho mai conosciuto. Ma lui ha conosciuto me. È stato il primo vero medico della mia vita. Sento di volergli un gran bene e sono sicuro che un giorno, da qualche parte, troverò il modo di dirglielo. Mi sarebbe piaciuto almeno sapere il suo nome di battesimo, un nome di santo, il mio santo protettore. Purtroppo nessuno se lo rammenta. Fa niente. Quando avremo l'occasione, lo riconoscerò dallo sguardo. È per questo che ci saranno dati occhi nuovi, non è vero?


(©L'Osservatore Romano - 6 giugno 2009)
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A colloquio con Ugo Amaldi

I nipoti dei raggi x ci salveranno la vita



Migliaia di studenti italiani hanno studiato sul libro di testo che ha scritto insieme al padre (Edoardo Amaldi, uno dei "ragazzi di Via Panisperna", insieme ad altri nomi leggendari della fisica italiana come Enrico Fermi, Bruno Pontecorvo ed Ettore Majorana); interessato da sempre ai problemi dell'insegnamento e della divulgazione scientifica - nel 1997 è uscito il suo primo cdrom interattivo dedicato agli studenti - Ugo Amaldi non ha mai rinunciato a coniugare la ricerca con le applicazioni pratiche della fisica delle particelle fondamentali, fin dal lontano 1957, quando, giovane ricercatore all'Istituto Superiore di Sanità, iniziò a studiare l'uso terapeutico delle radiazioni ionizzanti.

Nel 1991 ha fatto nascere il Progetto adroterapia. Di che si tratta?

Volevamo portare in Italia la figlia più giovane della radioterapia: l'adroterapia utilizza fasci di protoni (ioni idrogeno) di ioni carbonio e di neutroni, particelle più pesanti degli elettroni (detti adroni, appunto). Produrre protoni e ioni carbonio e accelerarli ad alte velocità per farli penetrare nel corpo è più difficile e costoso che produrre gli elettroni necessari per una terapia convenzionale, ma i vantaggi sono notevoli. Gli effetti biologici sono quelli dei raggi x, ma si possono trattare i tumori profondi radioresistenti ed è possibile seguire il contorno delle neoplasie con precisione millimetrica, risparmiando i tessuti sani circostanti.

Ci sono già strutture dove viene praticata l'adroterapia?

Il Cnao (Centro nazionale adroterapia ontologica) di Pavia, che entrerà in funzione l'anno prossimo, è il quarto centro esistente al mondo; si prevede che nelle tre sale di trattamento nel 2014 saranno curati 2800 pazienti l'anno, nel quadro del servizio sanitario nazionale. Insieme alla fondazione Tera avrà responsabilità nel funzionamento del progetto anche l'Istituto di fisica nucleare nazionale.

Quali tipi di tumori possono essere curati con l'adroterapia?

Gli ioni carbonio sono molto efficaci in caso di big killer come i tumori al fegato e al polmone. In questi giorni abbiamo presentato il progetto di un nuovo tipo di acceleratore lineare Idra (Istituto per la diagnostica radioterapica avanzata) per la terapia dei tumori nei bambini con fasci di protoni. Per i protoni, la fase di ricerca clinica è stata completata; nel mondo sono stati già irradiati 60000 pazienti. Gli ioni carbonio hanno una storia clinica più giovane, con 5ooo persone trattate.

Un bilancio della visita al Large Hadron Collider del Cern di Ginevra?

Il cardinale Lajolo è stato fortunato; ha avuto come "cicerone" Edward Witten, il più grande fisico vivente. È rimasto colpito dalla bellezza del laboratorio e dall'unicità del Cern, un posto che fa lavorare insieme, a un unico progetto, diecimila persone provenienti da tutti i Paesi del mondo. Anche dal punto di vista scientifico il cardinale ha colto il nocciolo della questione: trovare una teoria che unifichi meccanica quantistica e legge di gravità è la sfida della fisica del ventunesimo secolo. (silvia guidi)



(©L'Osservatore Romano - 6 giugno 2009)
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06/06/2009 10:32

Perché negli Stati Uniti crolla la fiducia dei pazienti



Dottore, non ti credo più


di Giulia Galeotti

In Un medico di campagna (1918), il personaggio di Kafka nota come le persone del suo distretto si attendano l'impossibile dal loro dottore:  avendo ormai perso le antiche credenze, pretendono che il medico sia onnipotente. Se anche in Italia v'è oggi un atteggiamento che vede nella scienza e negli scienziati i nuovi profeti, è però indubbio - come attesta il grande fenomeno in crescita dei siti medici fai-da-te - che i pazienti tendono sempre più a farsi la diagnosi da soli, confidando più in se stessi che nella capacità degli esperti. Cogliendo nel segno, già nel 1977 la sociologa Marie R. Haug si chiedeva quali sarebbero state le conseguenze dell'accesso del pubblico alle informazioni e, in particolare, se il cambiamento avrebbe prodotto effetti in termini di autorità.
Del complesso rapporto tra medico e paziente, Jonathan B. Imber, docente di etica e di sociologia al Wellesley College, ha cercato di dare una spiegazione per gli Stati Uniti nel suo recente volume Trusting Doctors. The decline of moral authority in American medicine (Princeton University Press, 2008).
Il saggio - il cui merito è quello di offrire validi spunti di riflessione (spesso validi anche per l'Italia), sebbene alcuni passaggi non siano in toto condivisibili - inizia con un assunto decisamente controcorrente. Secondo Imber fidarsi dei medici è una necessità assoluta nella nostra vita di esseri umani, mentre (e specularmente) il farlo è legato a una parte essenziale della professione medica. Eppure, da tempo, le cose stanno andando in tutt'altra direzione.
Le cause che Imber individua sono sostanzialmente tre. La prima è legata al declino dell'autorità religiosa nella vita quotidiana americana. Il fatto che in passato i pazienti vedessero nei medici i rappresentanti di una vocazione sacra era dovuto, secondo Imber, all'influenza degli ecclesiastici protestanti e cattolici durante il xix e la prima parte del xx secolo. Nel saggio egli ripercorre sia l'enfasi del clero protestante sulla vocazione dei medici (accentuandone la visione come persona integerrima, moralmente retta ed incorruttibile), sia quella dei moralisti cattolici sugli specifici dilemmi che gli operatori sanitari incontrano quotidianamente (il che ha attribuito e riconosciuto loro l'importante capacità di decidere non solo in termini scientifici, ma anche etici e morali). La fiducia dei pazienti nei medici è così venuta costantemente diminuendo man mano che si assottigliava l'influenza e l'autorità della religione, proprio perché a questa era da imputarsi la precedente ascesa della loro autorità. Riferendosi a protestanti e cattolici, Imber non intende richiamarsi alla composizione della categoria medica negli Stati Uniti; come noto, infatti, per decenni, almeno fino alla metà del ventesimo secolo, non solo i medici erano di tradizione protestante, ma esisteva una fortissima discriminazione verso cattolici ed ebrei.
La seconda causa che secondo Imber spiegherebbe il declino dell'autorità morale dei medici, è, invece, da ricollegarsi alla direzione e al tipo di progressi che la medicina ha compiuto. Il fenomeno si sviluppa subito dopo la ii guerra mondiale, momento in cui i medici iniziano a non essere più considerati per la loro integrità personale, quanto piuttosto per le loro competenze tecniche, una sorta di meri esecutori del sapere scientifico. Man mano che è aumentata la fiducia nella tecnologia medica, la figura del singolo dottore ha subito dunque una revisione radicale. Ovviamente l'ottica dalla quale Imber descrive il complesso rapporto è quella del pubblico, dei pazienti, non certo quella dei medici:  se gli operatori sanitari sanno perfettamente che un'ecografia non può mai essere oggettiva (nemmeno nel ventunesimo secolo!), tale consapevolezza manca completamente nel comune sentire.
In questo passaggio verso la perdita di autorità della categoria, hanno ovviamente giocato anche altri elementi, come il fatto che la medicina moderna sia sempre più specializzata, che abbia compiuto enormi progressi in pochissimo tempo, guidata dall'industria del profitto e popolata da pazienti sempre più ansiosi (elementi che per Imber lasciano presagire nuove e non facili scommesse per i medici di domani). L'autore, del resto, inserisce questa crisi, nella crisi più ampia che ha investito tutte le professioni, per cui in generale si è avuto un crollo di fiducia nella capacità degli esperti di affrontare e risolvere i problemi legati alle loro specifiche competenze, siano essi economisti, politici o scienziati.
La terza causa della perdita di autorità dei medici è legata all'aumento di attenzione per la salute delle donne, e alla fallimentare gestione che di questa ha compiuto la medicina americana. I gravi errori nell'introduzione di nuovi farmaci e nei trattamenti per le pazienti che, invece di migliorare, ne hanno spesso danneggiato la salute, hanno avuto un peso determinante (si pensi, tra le altre cose, alle conseguenze della scorretta sperimentazione della pillola, alla talidomide, alle mastectomie, al dietilbetrolo o all'impianto del silicone). Nell'introduzione del celeberrimo Noi e il nostro corpo, il Collettivo delle donne di Boston scriveva "noi tutte avevamo provato lo stesso senso di frustrazione e di rabbia nei confronti dei medici accomodanti e paternalistici che si limitavano a trinciare giudizi". Si tratta di una valutazione condivisa che, penetrando in radice, ha finito per erodere nel profondo fiducia e autorità verso la categoria medica.
La domanda sottesa al saggio di Imber è, dunque, radicale:  se oggi i medici pensano ai problemi in modo nuovo - organizzandosi il lavoro in forme completamente differenti rispetto al passato - mentre i pazienti nutrono scarsissima fiducia in loro come persone, ma enormi attese in loro come esecutori, perché si continua a chiamarli "dottori"? La conclusione dello studioso americano è chiara:  ogni tentativo di definire la professione medica, non può non tenere conto del dato imprescindibile relativo al fatto che quanti la praticano sono persone. Che un medico è qualcosa di più della somma dei suoi titoli di studio e delle sue specializzazioni. E - aggiungeremmo noi - è qualcosa di più della somma delle volontà e delle pretese dei pazienti.


(©L'Osservatore Romano - 6 giugno 2009)
[Modificato da Cattolico_Romano 06/06/2009 10:41]
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Come umanizzare la scienza medica

Una bioetica che unisca le discipline scientifiche con quelle umanistiche



di Antonio Gaspari

ROMA, mercoledì, 10 giugno 2009 (ZENIT.org).- Per superare lo scollamento tra le discipline scientifiche e quelle umanistiche, padre Luca M. Bucci O.F.M., già direttore dell'ufficio diocesano per la pastorale della sanità dell’arcidiocesi di Genova, ha appena pubblicato il libro: “Medical Humanities. Percorsi di ricerca propedeutici alla bioetica” (De Ferrari Editore, Genova, pp. 252, €18,00).

Padre Bucci, autore di “Cristo Medico” e “Perché dei Poveri è il Regno” (Edizioni Camilliane di Torino), ha svolto alcuni lavori scientifici su Medicina e Morale, la rivista di Bioetica del Gemelli, e altre riviste scientifiche, e recentemente ha pubblicato on-line alcuni articoli di Bioetica delle Neuroscienze su www.psicolab.net (Laboratorio di ricerca e sviluppo in psicologia).

Nel libro padre Bucci, che è docente di Scienze Umane all’Università di Genova e di Teologia Morale all’Università Pontificia Antonianum di Roma, sostiene che “occorre una sana filosofia della scienza, che gli anglosassoni ben rendono con l’espressione Medical Humanities”.

Lo sforzo dell’autore è indirizzato da un lato a offrire ai lettori uno strumento metodologico efficace nel suscitare la buona abitudine alla ricerca dei fondamenti; dall’altro a fornire un incentivo, per chi ha responsabilità politiche ed accademiche, alla crescita di contesti culturali, per una migliore qualità della vita attraverso il confronto tra il mondo del pensiero e quello scientifico.

Il libro verrà presentato dal Sindaco e  dall'assessore alla Cultura di Rapallo, giovedì 25 giugno alle ore 18:00 al Gran Caffè del Lungomare.Per approfondire il tema su come fare per umanizzare al meglio le scienze mediche, ZENIT ha intervistato padre Bucci.

Perchè un libro su tale argomento?

Bucci: Il terreno culturale italiano è molto problematico; gli atenei sono in difficoltà e non riescono a sviluppare dipartimenti di Medical Humanities, o Scienze Umane applicate alla Medicina, come invece sarebbe opportuno. Ciò sarebbe vantaggioso anche per abbattere steccati ideologici che molto spesso si verificano quando la bioetica è interpretata in modo confessionale.

Ma dico interpretata, perché prima di tutto la bioetica richiede una buona filosofia a monte ed una filosofia della scienza adeguata, capace di affiancare alla conoscenza precisa del dato scientifico – imprescindibile per capire cosa si sta realmente facendo – una antropologia, ovvero un’interpretazione dell’essere umano per quello che veramente è: ovvero un infinito incarnato e non un coacervo predeterminato da leggi chimico-biologiche, peraltro insufficienti a dar ragione della personalità umana, ovvero di chi è l’uomo.

Ma questo non è un fatto di Chiesa né di confessione religiosa; il dato rivelato (biblico o altro) sarà piuttosto solamente una conferma di quanto la ragione già vede e crede a proposito di se stessa, dell’uomo e oserei aggiungere della sua intenzionalità, presente in tutti gli stadi della vita fisica umana. 

 
Lei è medico ed oltre ad insegnare Scienze umane all'Univeristà di Genova, Teologia morale all'Antonianum ha avuto esperieze di docenza anche al Regina Apostolorum dove è nata la prima Facoltà di Bioetica (che a Rapallo, ha una sede del Master). E' vero che nel suo cuore resta l'esperienza medica perdiatrica in Terra Santa? Come concilia le diverse esigenze? 

 
Bucci: La mia esperienza medica non solo in Terra Santa, ma anche in Centr’Africa, e poi anche come cappellano ospedaliero è ovviamente improntata alla relazione umana; ma le ore della giornata sono poche, le persone sono tante.

Questo è l’unico limite che sento nella mia esistenza; ringrazio Paola Binetti, massima esperta di Scienze Umane e Pedagogia Medica, oltre che Neuropsichiatra infantile, in Italia e nel mondo, che nella sua prefazione al mio libro ha notato questo, e infatti dice qualcosa del genere; “traspare da queste pagine il molto tempo, le lunghe ore passate a discutere con studenti e colleghi”; ecco la collega ha fatto proprio centro, senza che io glielo dicessi ha colto nel segno; ed è per questo che oso e penso di poter dire che il libro non ha l’odore acre della teoria, ma profuma di pratica! 

 
Fra le urgenze bioetiche che cosa si sente di segnalare per una riflessione?

Bucci: Un’adeguata riflessione sul logos, ahimè, questo sconosciuto! Lo si traduca come senso, come valore, come ragione ma non razionalistica, come parola per-formatrice, come ragion pratica, come trascendenza, come non manipolabilità, come non riduzione ad oggetto, come irrinunciabilità ad essere ridotto a strumento, come libertà in atto: possiamo definirlo in tanti modi quanti sono i filosofi e/o gli uomini e donne di buona volontà che hanno cercato il significato di essere umani con sincerità ed onestà intellettuale.

Ma è lì che dobbiamo andare per fare bioetica: ecco perché procedere dalle Medical Humanities. Dopo, solo dopo verrà il tentativo di stabilire o almeno identificare la norma etica e/ o quella giuridica; solo dopo una profonda ed attenta ricerca e ruminatio (uso un termine monastico), su chi sia l’uomo, identità che troppo spesso si perde di vista…


 
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