Benvenuto in Famiglia Cattolica
Famiglia Cattolica da MSN a FFZ
Gruppo dedicato ai Cattolici e a tutti quelli che vogliono conoscere la dottrina della Chiesa, Una, Santa, Cattolica e Apostolica Amiamo Gesu e lo vogliamo seguire con tutto il cuore........Siamo fedeli al Magistero della Chiesa e alla Tradizione Apostolica che è stata trasmessa ai santi una volta per sempre. Ti aspettiamo!!!

 
Pagina precedente | 1 | Pagina successiva

Il Corano e la Tradizione

Ultimo Aggiornamento: 11/09/2009 06:02
Autore
Stampa | Notifica email    
OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
14/07/2009 12:55

Valore e interpretazione degli insegnamenti della prima generazione musulmana

Il Corano e la Tradizione


La tradizione, il suo significato per cattolici e musulmani e il suo peso nelle odierne società pluraliste, è stato l'argomento al centro dei lavori dell'annuale appuntamento di studi promosso a Venezia dalla Fondazione Oasis. Pubblichiamo la relazione - sul tema "La tradizione vista dalla fede musulmana, ieri e oggi" - di un esperto islamologo, religioso dei Piccoli fratelli di Gesù e membro ordinario dell'Istituto domenicano di studi orientali del Cairo.

di Michel Cuypers

La religione islamica, nella fede e nella legge, si basa su due fonti normative fondamentali:  il Corano e la Tradizione (Sunna). Benché il Corano sia primario in quanto rivelazione divina, la Tradizione ne costituisce il complemento indissociabile, a titolo d'esplicitazione e di sviluppo profetico. Contiene infatti le parole e gli atti del profeta dell'islam (gli hadîth) e in secondo luogo dei suoi compagni, trasmettendo l'insegnamento e lo stile di vita del profeta e della prima generazione dei credenti. È insomma un commento vivente del Corano. Gli hadîth sarebbero stati raccolti dai compagni del profeta e da alcuni dei suoi prossimi - le sue mogli, i suoi familiari - poi trasmessi oralmente da una catena di trasmettitori (isnâd) attraverso le generazioni, fino alla loro consegna per iscritto da parte di coloro che hanno raccolto gli hadîth, i "tradizionisti".



La costituzione del corpus scritto delle tradizioni è stata molto più lenta ed esitante di quella del Corano. Dopo un primo secolo di trasmissione orale, è solo nel ii secolo dell'egira che, su ordine del califfo 'Omar ii, è iniziata la compilazione scritta delle tradizioni. Ma è il iii secolo dell'egira il gran secolo delle compilazioni di tradizioni, riunite in vaste raccolte, due delle quali saranno considerate riferimenti incontestabili nel prosieguo della storia islamica:  quella di Bukhârî - che raccoglie 7.275 hadîth - e quella di Muslim - 3.033 hadîth - alle quali verrà dato il nome dei "due autentici" (Sahihayn) perché contengono solo hadîth considerati autentici. Infatti, parallelamente alla pia effervescenza delle tradizioni del ii e del iii secolo dell'egira, e al fine di riunire ovunque il massimo di hadîth possibile - Bukhârî ne avrebbe raccolti 600.000 - si è costituita una "scienza dell'hadîth" che precisa le regole per poter distinguere tra le tradizioni autentiche e quelle apocrife, costruite su misura per sostenere una qualsiasi pretesa politica, ideologica o partigiana. Ci torneremo in seguito.

Benché il Corano sia dunque la fonte primaria e fondamentale delle fede e della legge, la Tradizione non è meno importante nell'organizzazione della fede e della pratica islamiche, poiché si presenta come un'illustrazione delle norme e dei valori della rivelazione coranica, insegnate e vissute dal profeta, modello perfetto dell'ideale islamico che ogni credente cerca d'imitare.

I credenti si nutrono senza sosta della Tradizione, attraverso la quale si sentono in unione viva con il fondatore dell'islam. Essa forma letteralmente la loro coscienza religiosa. Il culto, la predicazione e l'insegnamento si riferiscono a essa in continuazione.

Essa costituisce anche, insieme al Corano, un riferimento indispensabile per le scienze religiose. All'esegesi coranica fornisce un tesoro d'interpretazioni e di asbâb al-nuzûl, quelle "occasioni della rivelazione" che offrono la ragione storica per la quale tale versetto o tal altro sarebbe stato rivelato. Essa fornisce delle norme per la teologia (kalâm) e il diritto canonico (fiqh). Prima di tutto s'impone la norma coranica. Ma, in assenza di norma rivelata, è la tradizione che fa autorità. Se la tradizione non è esplicita su un argomento, si farà ricorso ad altre due fonti secondarie della legge che sono state accettate o rifiutate in modo diverso secondo le scuole giuridiche, in ragione della loro origine umana:  il consenso comunitario (ijmâ', difficilmente praticabile) e lo sforzo razionale (l'ijtihâd, che non può essere imposto a tutti, in ragione della sua parte di soggettività).

Ma la tradizione alimenta anche in modo più ampio l'immaginario collettivo islamico, fornendo riferimenti storici e culturali e facendo rivivere la prima generazione esemplare dei credenti. Essa gioca così un ruolo importante nella re-islamizzazione attuale del mondo islamico, preoccupato di tornare alla sua purezza originaria. A tal proposito va segnalata l'importanza della Sîra, la "vita del profeta", scritta da Ibn Ishâq (morto nel 678) e rifondata da Ibn Hisham (morto nell'833). Benché non faccia parte del corpus degli hadîth, questa biografia gode d'uno statuto quasi canonico, e svolge un ruolo considerabile nella devozione dei credenti verso il profeta e la prima comunità islamica. Accordando ampio spazio ai fatti d'armi del profeta, la Sîra descrive anche nel dettaglio il suo modo di vivere nel quotidiano, cosicché la sua Sunna ("via") può servire da modello per il credente nel suo comportamento materiale, morale e spirituale.

Tutto ciò che abbiamo detto riguarda direttamente la maggioranza ortodossa sunnita dell'islam. Anche lo sciismo ha una sua Tradizione, ma questa non si riferisce allo stesso corpus né alle stesse catene di trasmettitori. Le parole e gli atti riportati non sono solo quelli del profeta, ma più in generale quelli della "gente della casa" (Ahl al-bayt) - cioè il profeta, sua figlia Fatima e suo marito 'Ali, con i due figli Hasan e Husayn - e degli imam successivi. I trasmettitori devono anche loro far parte della discendenza del profeta. La principale raccolta di tradizioni sciite è quella di Kulayni (morto nel 940) che conta più di 16.000 citazioni.

Fin dai primi tentativi di mettere per iscritto gli hadîth, i dotti musulmani hanno avvertito il bisogno d'assicurarsi della loro autenticità. Questa necessità diede vita a una "scienza dello hadîth". Essa ha sviluppato soprattutto una critica esterna, centrata sulla validità della catena dei trasmettitori (isnâd). Le domande che vengono avanzate in questo campo sono del tipo:  i diversi trasmettitori sono stati realmente in contatto, così da poter trasmettere la parola in una catena continua, a partire dai compagni e fino ai compilatori del corpus? Erano moralmente e intellettualmente affidabili? Non servivano una causa settaria o politica deviante?

Questa scienza ha dunque preso la forma d'uno studio biografico di tutti i personaggi inclusi nelle catene di trasmettitori delle raccolte di hadîth, tra i quali spiccano in primo luogo i compagni del profeta, primi testimoni. Un classico del genere, il Libro delle Classi (Kitâb al-tabaqât) del tradizionista Ibn Sa'd (morto nell'845) riunisce circa 4.250 notizie biografiche.

La critica è giunta a classificare gli hadîth secondo la loro maggiore o minore validità, a partire dagli hadîth solidi (o sani), per passare a quelli buoni, accettabili, passabili e fino a quelli deboli o francamente falsi, apocrifi. Il successo delle raccolte di Bûkhârî e Muslim dipende precisamente dal grande numero di hadîth "solidi" in esse contenuto. Gli hadîth considerati come più solidi - e di conseguenza unanimemente accettati - sono quelli trasmessi in modo identico da numerosi compagni del profeta e attraverso molteplici catene concordanti di garanti.

Se la catena di trasmettitori era solida, il tradizionista si mostrava incline ad ammettere un hadîth, quale che fosse la verosimiglianza del suo contenuto. La critica interna riguardava essenzialmente l'accordo tra il tono del testo (matn) dell'hadîth e il Corano. In caso d'incompatibilità tra i due, l'hadîth doveva essere considerato, in linea di principio, come falso. Una scuola marginale - lo zâhirismo - non esitò tuttavia ad ammettere che un hadîth potesse abrogare il Corano, in ragione del carattere ispirato delle parole (hadîth) del profeta.

Occorrerà attendere Ibn Khaldûn (morto nel 1406) perché sia proposta un'inversione del metodo critico, accordando una maggiore importanza al testo stesso dell'hadîth piuttosto che alla catena dei trasmettitori:  "Non si deve utilizzare quest'ultimo metodo (la validazione dell'isnâd) se non dopo aver studiato il racconto in sé per conoscere se i fatti che esso racchiude sono plausibili o meno".
Dalla fine del xix secolo si possono distinguere nell'islam due atteggiamenti principali nei confronti della critica alla Tradizione.

Da una parte alcune istituzioni ufficiali perpetuano, fino ai nostri giorni, le posizioni classiche. Citiamo Ali Merad, un autore musulmano modernista:  "In molte università islamiche il ruolo del corpo insegnante pare limitarsi ad assicurare la continuità d'un sapere convalidato da una sorta di consenso comunitario. Per quanto riguarda la Tradizione (e anche la biografia del profeta) la quasi sacralizzazione delle autorità antiche in materia è la regola. Discutere queste autorità, aprire nuove piste di ricerca, significa rompere con un modello culturale che ha funzionato per più d'un millennio e che rimanda alla comunità l'immagine della sua identità, del suo equilibrio socio-culturale, nella continuità con le sue fonti prime".

Ma dall'altra parte emerge una corrente riformista con Sayyid Ahmad Khân (morto nel 1898) in India, al-Afghânî (morto nel 1897) e Muhammad 'Abduh (1905) in Egitto, e i loro discepoli. In nome della purezza della fede, per la quale Dio è il solo legislatore, questi pensatori mantengono due sole fonti normative in islam (il Corano e la Tradizione), escludendo così il consenso e l'ijtihâd. Essi sottomettono la Tradizione a una critica più severa delle catene di trasmettitori e soprattutto del testo stesso. Conservano soltanto un piccolo numero di hadîth, rifiutando le tradizioni che urtano la ragione o il buon senso. Valorizzano il modello degli antichi - le tre prime generazioni di musulmani - i Salaf, per ridare dinamismo alla religione, senza tuttavia rinchiuderla nel suo passato:  il loro scopo è lasciare che l'islam trovi la sua identità e indipendenza in un mondo moderno in piena mutazione.

La posizione riformista sarebbe evoluta in seguito in due direzioni divergenti:  un neo-fondamentalismo legalista e conservatore e un modernismo laicista, che abbandona la Tradizione come fonte normativa.
Per i primi, la scelta dei riformisti di non considerare le due fonti normative secondarie - il consenso e lo sforzo razionale - conduce ad accrescere il ruolo normativo della Tradizione e allo stesso tempo a idealizzare gli antichi, i Salaf, primi trasmettitori delle tradizioni.  In  reazione  alla modernità - di cui si accettano solo i progressi materiali - l'epoca originaria idealizzata diventa il modello da imitare, in un ripiegamento identitario. I Fratelli musulmani (fondati nel 1929) sono  i  rappresentanti principali di questa tendenza.



Per i secondi, la Tradizione perde il suo carattere normativo:  l'autenticità della maggior parte delle tradizioni, sottomesse a una critica razionale più severa, viene messa in dubbio (sul modello di quanto fatto dal celebre islamologo Ignaz Goldziher, morto nel 1921). In alternativa, se ne trattiene soltanto l'aspetto etico e spirituale, a titolo di saggezza e fonte d'ispirazione. Il Corano diventa dunque la sola fonte realmente normativa dell'islam. Una sola Scriptura che non è priva d'influssi da parte del modello protestante (alcuni modernisti sono volentieri chiamati i "Lutero dell'Islam"). Questa liberazione dalle maglie della Tradizione permette d'ipotizzare una nuova esegesi del Corano, oggi richiesta da alcuni intellettuali musulmani. Le "occasioni della rivelazione", attinte agli hadîth, non sono più il metodo privilegiato d'esegesi, come nel passato. Un'esegesi critica è ormai possibile.

Questa posizione aperta ha tuttavia come contropartita il fatto di situare gli intellettuali musulmani modernisti ai margini della corrente generale dell'islam, che resta massicciamente legata alla Sunna come norma di fede e legge, organicamente connessa al Corano. Si comprende così che le differenti concezioni dei musulmani rispetto alla Tradizione sono al cuore della crisi attuale dell'islam.

Aggiungo, in conclusione, due osservazioni personali, attinte alle mie personali ricerche sul Corano.
In primo luogo, lo studio critico del testo del Corano conduce a comprendere alcuni versetti importanti in modo totalmente differente da quello sviluppato nel corso dei secoli nella tradizione esegetica musulmana. Faccio un esempio particolarmente significativo, il versetto detto "dell'abrogazione":  "Non abrogheremo, né ti faremo dimenticare, alcun versetto senza dartene uno migliore od uguale" (2, 106). Questo versetto è stato sempre compreso, nella tradizione esegetica classica, nel senso che un versetto del Corano ne può abrogare un altro, con il quale si trovi in contraddizione e il versetto abrogante è supposto ovviamente essere successivo a quello abrogato. Letto però nel suo contesto letterario, diventa assolutamente chiaro che questo versetto non parla dell'abrogazione del Corano a opera del Corano, ma dell'abrogazione di certi versetti della Torah - e non della Torah tutta intera - a opera del Corano. La questione si sposta quindi dall'ambito del diritto musulmano (quali sono le norme coraniche abrogate da altre, cronologicamente più tardive?) alle problematiche relative alle relazioni tra l'islam e il giudaismo e le rispettive Scritture. La teoria dell'abrogazione del Corano da se stesso, sviluppata dai giurisperiti (fuqahâ') non ha alcun fondamento coranico.

In secondo luogo, la tradizione esegetica del Corano si è sempre mostrata molto diffidente verso ogni riferimento a testi anteriori, a una tradizione "a monte" del Corano. Nelle prime generazioni, alcuni commentatori del Corano hanno fatto ricorso alle "fonti ebraiche" (le isrâ'îliyyât) ma in seguito esse sono state respinte come sospette a motivo della supposta falsificazione, tahrîf, della Torah. E del resto, dal momento che la rivelazione è concepita come un dettato proveniente direttamente da Dio, ogni ricorso ad antecedenti scritturistici diventa superfluo. In realtà, l'odierno studio testuale mostra sempre più quanto stretto sia il legame tra il testo coranico e tutto un contesto culturale estremamente ricco e variegato, la cui conoscenza si rivela indispensabile per comprendere tutte le sottigliezze semantiche del testo coranico.


(©L'Osservatore Romano - 13-14 luglio 2009)
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
11/09/2009 06:02

Colloquio con il gesuita Paolo Dall'Oglio del monastero siriano di Mâr Musâ

Islam di popolo e tradizione cristiana orientale


È in uscita in questi giorni il nuovo numero della rivista "Oasis" (edizioni Marcianum Press) dedicato al tema della tradizione come fatto decisivo per l'identità e lo sviluppo di ogni uomo. La rivista plurilingue - in italiano, inglese, francese, arabo e urdu - è uno degli strumenti dei quali si avvale l'omonima fondazione internazionale (www.oasicenter.eu). Sul sito, oltre che in libreria, è possibile acquistare la rivista. Pubblichiamo una sintesi del colloquio - che appare appunto nel numero di settembre - con padre Paolo Dall'Oglio, del monastero di Mâr Musâ, in Siria.

di Maria Laura Conte

Un recupero non archeologico della tradizione cristiana orientale per un rinnovato incontro con i musulmani. È questo l'ideale che anima la comunità monastica di Mâr Musâ al-Habashî, in italiano San Mosè l'Abissino. Un monastero che dalle ultime propaggini della catena del Qalamûn si protende verso il deserto siriano, 100 chilometri a nord di Damasco. Abbandonato nel XVIII secolo, il monastero è stato restaurato a partire dagli anni Ottanta da padre Paolo Dall'Oglio che, indirizzato allo studio dell'arabo nell'ambito della Compagnia di Gesù, scelse di fermarsi a vivere nell'eremo disabitato per riappropriarsi del patrimonio siriaco. Ma ogni riappropriazione è sempre una nuova creazione. La sua è certamente una vocazione particolare.


 
Com'è nata in lei la decisione di legare la vita a un monastero siriano?

Quando ho incontrato la tradizione siriaca abitavo a Damasco ed ero studente di arabo e di islam. In una situazione italiana molto polarizzata (eravamo negli anni Settanta), l'ingresso nella Compagnia di Gesù aveva coinciso in me con l'apertura alla profondità delle relazioni tra la Chiesa e le altre culture religiose. Nella capitale siriana vivevo molto con i musulmani, passavo le serate con le confraternite mistiche, i venerdì andavo nelle moschee ad ascoltare le prediche e seguivo i corsi nella facoltà di diritto islamico. Nello stesso tempo mi rendevo conto che, data questa forte esposizione al contesto musulmano, dovevo cercare di radicarmi nell'esperienza cristiana locale. Soprattutto la domenica andavo di chiesa in chiesa per conoscere i bizantini, i maroniti (che già avevo incontrato in Libano) e in particolare i siriaci ortodossi. La loro liturgia oscilla tra siriaco e arabo senza scegliere nessuna delle due lingue in modo esclusivo:  un indizio interessante della dimensione dialettica più o meno riflessa di questa comunità. Ero particolarmente affascinato dalle prediche dell'attuale Patriarca Zakka i che proveniva da un monastero dell'Iraq ed era allora relativamente giovane, essendo appena stato eletto a capo della sua Chiesa. Nelle sue prediche il discorso sgorgava da un'anima locale e si organizzava intorno a un modo di commentare la Sacra Scrittura molto immaginativo, molto simile ai midrashim ebraici, con storie e racconti. Insomma, una lettura semitica della Sacra Scrittura in cui il racconto biblico è commentato da altri racconti e sintetizzato con forza in alcune espressioni paradossali. Ritrovavo così la saggezza e lo stile dei padri del deserto, il gusto dei grandi poeti siriaci, Efrem, Giacomo di Sarug e gli altri. Quell'uomo dispiegava di fronte a me una tradizione vivente e mi mostrava che quella sua tradizione, radicata nel mondo semitico antico, s'era nutrita della solidarietà e della commensalità simbolica con i musulmani lungo quattordici secoli. È importante però comprendere che nel monastero di Mâr Musâ non siamo guidati da un sentimento archeologico e nostalgico. Vogliamo partecipare a ridare disponibilità di fede e di impegno a questa radice tradizionale siriaca perché porti nuovi frutti nel nostro tempo.

Lei si identifica in questa scelta?

Io partecipo pienamente di questa sua scelta, il Patriarca Zakka lo sa e ci vogliamo bene. Quest'uomo è stato un autentico profeta del rinnovamento nella sua Chiesa e lo dimostrano i frutti. La sua Chiesa, pur essendo una delle più piccole tra le comunità orientali, vive un'effervescenza culturale e spirituale. Il monastero che ho rifondato con i fratelli e le sorelle della comunità è più radicalmente (più "cattolicamente" se si vuole) pensato per un'assunzione di responsabilità teologica e spirituale verso il mondo musulmano. Per noi, che siamo uomini e donne consacrati all'amore di Gesù per i musulmani nel contesto arabo islamico e cristiano (minoritario) della Siria di oggi, si tratta di vivere la relazione a Dio e al suo Cristo in un linguaggio che vogliamo già "dialogale", radicato nell'esperienza monastica orientale e al contempo in relazione con l'esperienza mistica musulmana. Quando dico "esperienza mistica musulmana" non intendo una realtà estranea alla vita religiosa della grande maggioranza dei musulmani. Non è che scegliamo il sufismo contro il resto dell'Islam. Per noi si tratta di cogliere la dimensione spirituale e mistica della vita normale dei musulmani, della preghiera, del pellegrinaggio, dell'atmosfera sacra della famiglia, della moschea di quartiere. Tutto questo "quotidiano" della religione islamica nella sua dimensione spirituale. Noi vogliamo rendercelo familiare per empatia spirituale intima.

Come la tradizione orientale favorisce l'incontro con i musulmani e che cosa può insegnare all'Occidente?

Penso che le Chiese orientali che hanno vissuto con i musulmani rappresentino un sacramento di buon vicinato e commensalità che dovrebbe essere analizzato e recepito dalla teologia cattolica per poter fare le stesse scelte, urgentissime, nella relazione con l'Islam tanto in Oriente quanto in Occidente. La Chiesa non va all'Islam passando sopra le teste dei cristiani che hanno vissuto con i musulmani nelle stesse città e nelle stesse strade per quattordici secoli. Intendiamoci, ci sono anche molti cristiani orientali che diranno agli occidentali:  "Non fate come noi, separatevi dai musulmani, evitateli perché alla fine vi mangiano come hanno mangiato noi, accogliete noi e rifiutate loro". Sono discorsi che si sentono dalle bocche di alcuni cristiani orientali. Naturalmente non è questa la mia idea né la nostra idea come comunità monastica. Noi riteniamo che in queste terre si sia prodotta una vera sintesi significativa, che le relazioni tra cristiani e musulmani negli stessi quartieri, con i monaci che per secoli hanno ricevuto i musulmani in visita ai monasteri, abbiano un significato riguardo allo statuto teologico dell'Islam nella teologia cristiana. Per dirla in altro modo, i cristiani orientali rappresentano nei fatti, nella pratica, una realtà che ha una rilevanza teologica.

In base alla sua esperienza concreta, esiste in Siria un "islam di popolo"?

Esiste un islam di popolo ed esiste una "Chiesa di popolo". In Siria abbiamo un islam plurale e una Chiesa plurale.

Si tende a distinguere l'islam in fondamentalista e moderato ma fra i moderati si rischia di individuare figure che con l'islam non hanno più molto a che fare... Esiste un islam dove l'esperienza religiosa concreta non sia ridotta a ideologia?

Io la riduzione a ideologia non la seguo perché per criticarla si casca nell'ideologia un'altra volta. Cerchiamo di rimanere sul fenomeno e di analizzarlo. Il fenomeno è questo:  una grande massa di musulmani devoti. Dove la devozione musulmana costruisce un'unificazione dell'esistenza personale, familiare e sociale in una serie di riti, uno stile di vita, un'estetica e un progetto sociale, cioè dei valori. La vita rituale è importantissima, innanzitutto la preghiera:  per i più devoti possono essere le cinque preghiere, per altri una preghiera al giorno, altri saranno assidui solo alla preghiera del venerdì. La preghiera, certamente, ha un'enorme importanza per ritmare e dare spessore alla devozione. Così il pellegrinaggio, naturalmente. Anche il digiuno del ramadan ha una funzione fondamentale:  riportare alla pratica religiosa tutti coloro che slittano verso comportamenti più secolarizzati. Esso è un'occasione di educazione alla fede davvero di massa. A questo si aggiunge il fatto che i devoti musulmani hanno, statisticamente parlando, una moralità più forte. La devozione comporta un impegno morale e, quindi, una sete di democrazia connessa con la correzione della corruzione. Noi ci troviamo con le scuole che miracolosamente funzionano ancora, con gli uffici che bene o male funzionano, con tutta una serie di servizi che funzionano, a causa di un'attitudine religiosa d'umanità sul posto di lavoro, sia nel pubblico che nel privato. Si nota un certo paternalismo, caratterizzato però generalmente da un vero rispetto per la persona in quanto persona religiosa. La persona nell'islam è la persona religiosa, non è la persona avulsa dalla relazione con Dio. La dignità della persona è innanzitutto nel suo stare innanzi a Dio. A tutti i livelli della vita economica e sociale la devozione implica un rispetto della persona umana nella sua dignità.

Questo potrebbe essere definito islam di popolo?

Direi di sì. Sono continuamente ammirato dal fatto che, grazie a questa devozione musulmana, la nave sociale regge il mare e non affonda, perché ci sarebbero mille motivi per affondare:  la corruzione politica, il clientelismo internazionale costruito sui privilegi e sulle caste, l'eccesso di repressione di regime provocata e giustificata dalle derive terroristiche. Questo islam di popolo non è separato dall'islam diciamo "jihadista", non è separabile da un confine netto; è contiguo. In ambito universitario ci potranno essere simpatie verso i gruppi più estremi; quando c'è una crisi come quella di Gaza ci si sente più rappresentati da quelli più arrabbiati. La contiguità si accentua o, al contrario, si allenta a seconda di quanto la propria dignità islamica, la propria aspirazione all'emancipazione, i propri desideri di sviluppo siano più o meno umiliati dai "moderati" al potere. E dal potere internazionale. Di fatto poi questo islam di popolo è quello che va, da secoli, a braccetto con il cristianesimo di popolo. Sono quelli che realizzano la teologia pratica della commensalità, della comunanza, del buon vicinato. Ed è questo, forse, anche il risvolto concreto di ciò che chiamiamo "tradizione". Sicuramente, però, oggi tradizione e comunanza sono consumate dalle tensioni globali. Le tensioni globali rischiano di accentuare lo sbriciolamento di questo spazio e, quando le crisi sono gravi come a Gaza, si può ormai dire che lo spazio è sgretolato. Se per quattordici secoli la realtà di contiguità tra islam di popolo e cristianesimo di popolo ha garantito la convivenza ed è stata storia di tutti i giorni, ora dunque questa tradizione è a rischio.

In passato questo pericolo e questo bisogno non c'erano o non erano così forti come lo sono oggi?

C'erano altri pericoli. In Siria veniamo dal colonialismo, l'impero ottomano. La cultura delle società sul piano locale restava un po' impermeabile alle grandi questioni. Come da noi in Italia nell'Ottocento:  c'erano i Savoia, Garibaldi, ma poi la gente rimaneva quella che era, la società profonda non era molto intaccata dalle tempeste di superficie. Oggi non si può più ragionare così. L'islam radicato sul territorio, rurale o urbano che sia, è in piena tempesta perché gli eventi agiscono - anche a causa dei mass media - fino in profondità. E accelerano i processi, li accentuano. Senza una reazione fortemente cosciente è chiaro che il peso di questa zavorra tradizionale, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, si annullerà e diventeremo prede di movimenti rapidi, frettolosi, superficiali e poveri sul piano culturale. Se lo scatto di consapevolezza non c'è, scatta la consapevolezza jihadista oppure la mitizzazione del passato per farne un'ideologia, o un programma fondamentalista, oppure una base mitologica per le aggregazioni di potere.

Sullo sfondo che ha delineato, come è la situazione della libertà religiosa in Siria?

Nella misura in cui i movimenti islamici vittimisti si impongono (quelli che sostengono la teoria dell'islam perennemente sotto attacco), ciò giustifica molte reazioni, anche le più eccessive. Faccio un esempio:  mi è stato di fatto rifiutato il visto per recarmi in Algeria, pellegrino sulle tracce di padre Charles de Foucauld, perché sono un religioso cattolico. Qui vedo evidente una saldatura tra potere cosiddetto moderato e deriva fondamentalista. In nome di che? Della pace sociale che deve farsi carico del sentimento islamico dell'essere sotto attacco, compreso il presunto attacco proselitista. E quindi, per mantenersi, i poteri moderati cedono agli istinti fondamentalisti. La Siria è abbastanza indenne da questo, però sul territorio si possono manifestare saldature tra le paure provocate dai movimenti islamisti, l'attrazione che essi possono esercitare e la possibilità che il potere voglia strumentalizzarli o strumentalizzarne la repressione a seconda delle situazioni, delle regioni, dei contesti. Anche da qui si esce con una tutela della tradizione - rielaborata e riacquisita con un passaggio teoretico di cui diceva - che fallirà se fallisce il dialogo interreligioso sia in Europa che nel sud del Mediterraneo e nel sud del mondo; Nigeria, Ciad, Sudan. Bisogna immettere nel complesso conflittuale odierno dei capitali di speranza. Bisogna riuscire ad attivare valanghe, effetti-domino. Si tratta di operare in una logica di giustizia e di buon vicinato globali. Avremo il futuro che avremo saputo sognare.


(©L'Osservatore Romano - 11 settembre 2009)
__________________________________________________

Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Nuova Discussione
 | 
Rispondi
Cerca nel forum

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 14:07. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com