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"Dalla Fede il Metodo"

Ultimo Aggiornamento: 03/10/2009 14:10
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21/09/2009 20:02

Non manca Lui, manca il senso del Mistero.
 Per questo mi viene sempre in mente quella frase di Gilbert Chesterton: «I sapienti - si sente dire - non vedono risposta all'enigma della ragione. 
Il male non è che i sapienti non vedono la risposta, ma che non vedono l'enigma», non percepiscono l'enigma, non percepiscono il Mistero.
Per questo Martin Heidegger diceva che «nessuna epoca ha saputo meno della nostra che cosa sia l'uomo».
Tanto è vero che tutto si riduce al sentimento di piacere o di dispiacere.
Guardate che cosa diceva Immanuel Kant (possiamo quasi riconoscerei in queste parole):
 «In che cosa, cioè, ciascuno debba riporre la propria felicità, dipende dal sentimento di piacere o di dispiacere proprio di ciascuno [...]; e quindi una legge necessaria soggettivamente (come legge di natura) è, oggettivamente, un principio pratico del tutto accidentale, che in soggetti diversi può e deve essere diversissimo, e pertanto non può mai fornire una legge».
Il criterio di giudizio è assolutamente soggettivo, e per questo la parola "corrispondenza" (che qui è ridotta a ciò che confa a questo sentimento soggettivo) viene manipolata da ciascuno, dalla scelta di ciascuno.
Per questo vi riporto quello che dice don Giussani in Si può (veramente?!) vivere così? rispetto all'esperienza della corrispondenza, perché mi ha fatto colpo rileggendolo: «II contenuto dell'esperienza è la realtà.
Un uomo è innamorato della tal ragazza: questo è un fatto, è un fenomeno. Il poeta va in giro con le mani in tasca e giunge a questo fatto.
Questo fatto entra sotto il giro d'orizzonte dei suoi occhi, cioè entra dentro l'ambito del suo conoscere.
 Siccome è un fenomeno reale, diventa oggetto di conoscenza. Questo è l'inizio del fenomeno, ma non è tutto.
Di fronte a questo oggetto di conoscenza, gli occhi del poeta si incendiano di curiosità, di simpatia, di approvazione, perché nel fenomeno vede qualcosa che garberebbe avere anche a lui, mentre essendo piccolo poeta quindicenne non l'ha ancora così.
Prova una nostalgia: prova, cioè reagisce con un senso di invidia e con un desiderio di avere anche lui quel fenomeno».
Qui dovrei fermarmi e domandarvi: questo è esperienza?
E questa la corrispondenza? Scommetto che la stragrande maggioranza risponderebbe di sì: provo una nostalgia, provo questa curiosità, provo questa simpatia, dunque mi corrisponde.
E questa è la giustificazione; uno può andare dietro a qualsiasi cosa, e poi giustificare qualsiasi tipo di naturalismo (andare fino in fondo alle proprie nostalgie sentimentali) in nome della corrispondenza, e giustificare anche tra noi qualsiasi stupidaggine in nome della corrispondenza. Spesso per noi corrispondenza è sinonimo di desiderio di avere.
Ma attenzione a come prosegue don Giussani:
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21/09/2009 20:06

«Fin qui non è esperienza, ma qualcosa che si prova, [...j
 "E soddisfazione reale? È risposta vera al mio bisogno?
È felicità? È verità e felicità?".
 Queste sono le esigenze che non nascono in ciò che prova, ma nascono in lui davanti a ciò che prova, in lui impegnato in ciò che prova.
 Queste domande giudicano quello che prova».
Questa, sì, è la corrispondenza!
«Qui diventa esperienza il puro e il mero provare. [...]
 Diventa esperienza quando il provare è nel contempo giudicato dai criteri del cuore: se è veramente vero, se è veramente bello, se è veramente buono, se è veramente felice. In base a queste domande ultime del cuore, a questi criteri ultimi del cuore, l'uomo governa la sua vita».
Altrimenti è un moccioso che segue quello che prova senza giudicarlo!
Per questo la confusione del provare con la corrispondenza è quello che ci impedisce, alla fine, di riconoscere qual è la corrispondenza di Cristo.
Non è soltanto che sbaglio in continuazione - che già sarebbe abbastanza -, ma che non capisco qual è la novità che Cristo introduce.
Per questo pensiamo di non vedere la risposta, ma in realtà non vediamo l'enigma. Infatti «una risposta è capita solo nella misura in cui uno sente la domanda addosso a sé». Solo costui capisce la risposta.
Per questo niente è più incredibile di una risposta data a un problema che non si pone.
 E tu vedi subito quando una persona ha questa umanità, quando c'è l'umano e quando no. Sempre mi ricordo dell'esempio di Cleuza, che un istante dopo avere ascoltato che perfino i capelli del proprio capo sono numerati - ed eravamo li in settecento a sentirlo - ha subito sperimentato la corrispondenza impossibile.
«Possiamo tornare a casa», ha detto a Marcos.
 Perché ha capito? Perché?
Perché sentiva l'enigma molto di più che tanti tra noi sapienti che eravamo lì, molto di più! Da cosa si è visto che lei ha capito, cioè che per lei la fede era conoscenza?
 Da come l'ha giocata nel reale davanti a tutti e molto più di tutti.
Il giudizio sulla eccezionaiità di Cristo, sulla corrispondenza impossibile, è possibile soltanto a chi ha questo umano.
Se manca l'umano, anche se abbiamo davanti la Presenza, la scambiamo con qualsiasi soddisfazione a buon mercato.
Allora la fede per noi non è conoscenza, rimaniamo smarriti come tutti.
In fondo non capiamo: noi che siamo i sapienti non capiamo un cavolo.
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21/09/2009 20:09

2) Chi è costui?
Il secondo punto su cui volevo soffermarmi, dopo la corrispondenza, è che questo è l'inizio di un percorso, che culmina nella domanda: chi è Costui che mi corrisponde così?
 Noi siamo circondati, come dicevamo prima, da fatti eccezionali, che a volte fanno scattare la domanda; ma spesso noi questo percorso non lo facciamo e siamo lì, come i giudei, sospesi.
«Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano:
"Fino a quando terrai l'animo nostro sospeso?
 Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente"».
Vogliono, cioè, una risposta che risparmi loro l'impegno del proprio umano, della propria ragione e della propria libertà.
Ma Gesù non cede - mi dispiace... -:
«Gesù rispose loro: "Ve l'ho detto e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste mi danno testimonianza; ma voi non credete, perché non siete mie pecore.
 Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano.
Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio.
Io e il Padre siamo una cosa sola"».
Aveva detto in precedenza: «Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato».
Noi siamo, come i giudei, davanti a delle opere, a dei fatti, a dei testimoni, a questa diversità umana. Vediamo una valanga di segni di un miracolo presente; ma c'è come una paura di perderlo un istante dopo.
 Perché non sappiamo di che si tratta (se uno ha fatto esperienza che l'acqua bagna, è possibile che il giorno dopo abbia il dubbio se bagnerà ancora?).
Cioè, non è conoscenza.
 La nostra paura incomincia nell'istante in cui blocchiamo il percorso della conoscenza, della co-noscenza di quella bellezza che mi ferisce, che io non posso evitare di avere davanti.
A chi può venire la paura che non rimanga, che svanisca dopo un po'? A chi non è arrivato alla fede.
A chi non percepisce in queste opere, in questa bellezza il segno della Sua presenza. E perché non lo percepisce?
Perché si arresta all'apparenza, come i giudei: vedono le opere, ma non arrivano a riconoscere l'origine ultima di esse.
 Per noi è come se questa bellezza che abbiamo davanti fosse staccata da Lui, non fosse documentazione di Lui all'opera in mezzo a noi: stacchiamo sempre il segno dalla sua origine.
Allora i segni non ci confermano che Egli è all'opera, la fede non è una conoscenza di Lui attraverso quello che fa.
Se è Lui, sarà Lui a preoccuparsi di darmi ancora altri segni, sarà Lui a preoccuparsi di rimanere presente, perché è l'unico che ha detto - se noi arrivassimo a riconoscere Chi fa questa bellezza che ci troviamo davanti, non ci verrebbe neanche un pensiero su come rimane - che sarà con noi fino alla fine del mondo.
Come Lui sarà con noi non è un nostro problema.
Se non arriviamo a questa conoscenza vera, siamo sempre nei guai dell'incertezza.
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21/09/2009 20:12

b) Verifica della fede
Ma il percorso non finisce qui.
Una volta riconosciuto, occorre fare la verifica nell'esperienza di questa Presenza che abbiamo riconosciuto.
Dice ancora Ratzinger:
«La fede cristiana non è un sistema [non è un pensiero].
Non può essere presentata come un edificio teorico chiuso.
 È una via, e una via si riconosce solo imboccandola e percorrendola.
Questo vale in un duplice senso: il fatto cristiano non si dischiude a nessuno se non nell'esperienza dell'accompagnarvisi [non si svela Cristo davanti ai nostri occhi se non nella misura in cui si manifesta nel come Lui ci cambia e ci accompagna]; e nella sua totalità consente di essere colto soltanto come cammino storico».
Occorre perciò che noi lasciamo alla fede lo spazio per dischiudere la sua verità, perché si possa mostrare in grado di sostenere la vita, di reggere davanti alle circostanze.
Il nostro Dio è un Dio che si rivela nella storia, non nei nostri pensieri.
 È lì dove svela la Sua diversità rispetto a tutti i nostri idoli.
 Perciò se uno non rischia nel reale, nel lavoro, nella crisi, nella malattia, nei rapporti, nelle circostanze, non potrà venire fuori l'evidenza di cui abbiamo bisogno per aderire ragionevolmente a Cristo.
Perché quello di cui noi abbiamo bisogno è l'evidenza di Cristo nella nostra esperienza, non di ripetere un discorso.
 E non abbiamo bisogno che un altro ce lo spieghi, ma abbiamo bisogno di vederlo noi: che regge alle circostanze, che è in grado di sostenere la vita.
Non abbiamo bisogno della direzione spirituale, ma dell'invito a una verifica nelle circostanze.
 Esattamente questo ci può dare quella certezza di cui abbiamo bisogno.
Solo chi rischia questa verifica può arrivare alla certezza della conoscenza di cui abbiamo tutti bisogno: potere verificare che chi crede nel Figlio ha la vita eterna e fa esperienza del centuplo quaggiù.
Senza di questo l'adesione alla fede non è ragionevole, perché non L'abbiamo conosciuto all'opera. Invece chi verifica può trovare quella certezza.
Scrive a un'amica una mamma che ha avuto un figlio bellissimo, ma con la sindrome di Down:
 «Quello che vorrei dirti è che in questi tre mesi di ospedale io e mio marito siamo stati alle circostanze che si presentavano con un desiderio di abbracciare tutta la realtà per come si è rivelata.
Da circa venti anni io ho incontrato Comunione e Liberazione, ma solo in questa circostanza, in questo fatto, mi si è svelato il mistero della grande Presenza.
Egli c'è, è un fatto, come è un fatto mio figlio. Da questa nostra posizione sono nati tanti bellissimi incontri, rapporti, si è svelata l'unità con i nostri amici. Per questo mi ha colpito la Scuola di comunità che diceva: "stare dentro la realtà chiedendoci chi ce la dà, standoci fino in fondo e chiedendo, domandando fino in fondo da che cosa sono costituita, desiderando, attendendo Colui che mi fa"».
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21/09/2009 20:16

e) La fede è un metodo di conoscenza
Così la fede può tornare a essere conoscenza.
La fede è un metodo di conoscenza!
Questo cammino drammatico fa parte della certezza, amici, del superamento della separazione fra sapere e credere.
 La storia non è inutile, le circostanze attraverso cui il Mistero ci fa passare non sono inutili; sono la possibilità di vedere, che si sveli davanti ai nostri occhi chi è Colui in cui crediamo.
Attraverso questa storia noi abbiamo conosciuto Colui in cui crediamo.
Crediamo, come i discepoli, perché abbiamo visto; non crediamo per un sentimentalismo o perché abbiamo deciso di credere, di creare la fede.
Lo abbiamo visto all'opera, le Sue opere parlano di Lui.
Questo è il superamento della separazione tra sapere e credere.
 Noi abbiamo visto, quando abbiamo fatto questo percorso, i tratti inconfondibili della Sua presenza. Altro che riduzione della fede al senso religioso e al sentimento!
Chi ha accettato questa sfida che ci ha fatto don Giussani, chi ha accettato di percorrere tutto il cammino della fede come cammino di conoscenza, potrà testimoniarlo, come tanti ce lo testimoniano.
 Perché, nelle circostanze che ognuno ha da vivere, che cosa viene fuori?
Che nessuno, quando ha fatto questo percorso, può fare fuori l'esperienza di corrispondenza che ha vissuto e che vive.
La corrispondenza è il segno che attraverso i fatti (una quantità sterminata di esperienze, di eventi e di prodigi) abbiamo potuto toccare con mano la Sua presenza in mezzo a noi (tanto è vero che sono rimasti nella memoria, sono penetrati in ogni fibra del nostro essere).
La corrispondenza in ogni singola persona - perché uno può stare in piedi solo grazie a questo -: è il Signore di ogni cuore, e per questo è il Signore di tutti.
Il cristianesimo, quando facciamo questa strada, è un fatto che nessuno può strapparci di dosso, che resiste a qualsiasi crisi, a qualsiasi crollo, a qualsiasi terremoto. Anzi, qualsiasi crisi, qualsiasi sfida, è l'occasione per riconoscerLo all'opera.
 È lo spettacolo della Sua presenza all'opera nel reale, non nei nostri pensieri.
È la certezza di Lui che cresce.
 E per questo c'è una gratitudine infinita nei Suoi confronti, per Lui che si rende così presente nella nostra vita.
Che cosa si è rivelato più consistente di qualsiasi altra cosa, di qualsiasi sfida?
Questa appartenenza a Lui, come ci testimoniavano i nostri amici di L'Aquila: un'appartenenza alla Presenza che nessuno può sconfìggere. La consistenza della nostra vita dipende dal rapporto con questa Presenza.
Il valore della nostra vita dipende da questo rapporto, da questa familiarità: ma chi sei Tu che ti prendi cura così del mio niente?
Questa è la grandezza del carisma a cui apparteniamo: appartenere a una storia, a un'esperienza di fatti che ci rendono protagonisti, non nel senso di avere potere, ma di riconoscere una Presenza che risponde, che corrisponde all'attesa del nostro cuore, anche in mezzo a tutte le difficoltà e a tutte le condizioni.
Per questo tutto mi è dato per riconoscere i tratti inconfondibili della Sua presenza in mezzo a noi, che si rivelano non nei nostri pensieri, ma nella vita.
Si capisce perché san Paolo diceva con gratitudine:
«È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati».
Per questo domandiamo: non lasciarmi mai, Presenza che sempre mi sorprendi !
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[Modificato da (Zacuff) 21/09/2009 20:17]
22/09/2009 13:25

Tralascio la lezione di Sabato pomeriggio che tratta "La contemporaneità di Cristo".
Passo direttamente alle domande di Savide Prosperi (uno dei tanti presente agli Esercizi della Fraternità di CL

e relative risposte di don Carron.



 Domenica 26 aprile

 Don Pino. Non sappiamo come è accaduto duemila anni fa, in quale ora, in quale angolo della casa della Madonna, ma nel nostro nulla, nel nostro bisogno di significato, di verità, di affezione, di positività, siamo umilmente certi che quello che accade ora è quello che è iniziato in quell'istante.
Non "come" è accaduto, ma "quello che" è accaduto accade.

Angelus

Lodi

ASSEMBLEA

Davide Prosperi. Sono arrivate molte domande, e abbiamo constatato che la maggior parte convergevano su tre questioni, fondamentalmente: primo, che cos'è la corrispondenza?
Secondo, una richiesta di approfondimento su un punto ripetuto più volte in entrambe le lezioni, che cioè manca l'umano.
Terzo, il lavoro dell'ascesi.
Evidentemente questo colpisce perché, ripensando al cammino fatto in questi anni con l'insistenza continua sull'io, viene da domandare: perché continuiamo a non capire?
Allora comincio subito con la prima domanda:
«Abbiamo capito cosa non è la corrispondenza, abbiamo intuito che ciò che corrisponde istintivamente va sottoposto a un giudizio per diventare esperienza.
Cos'è, allora, la corrispondenza?».

Juliàn Carrón. Ci soffermiamo a spiegare che cos'è l'esperienza, perché senza prenderci il tempo per capire che cosa essa è, noi non abbiamo lo strumento per fare un cammino umano.È da qui che provengono tutti i guai, nel modo con cui facciamo la Scuola di comunità, nel modo in cui viviamo.
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22/09/2009 13:49

Così niente è utile, perché se tutto quello che viviamo non è giudicato - e non si capisce come si può giudicare senza vedere la corrispondenza o meno -, allora non facciamo un cammino umano.
Io ricordo che questa per me è stata forse la questione più rilevante dell'incontro con il movimento: che metteva nelle mie mani uno strumento per fare il mio cammino umano. Senza questo non si capisce nemmeno la fede.
Perciò, prendiamoci un attimo di tempo per ripartire da questo.
 Perché non si tratta dell'ultima nota dell'ultima pagina del ventesimo libro di don Giussani!
È l'inizio del PerCorso: che cosa è l'esperienza.
Allora, servendoci dei mezzi tecnici adeguati, proviamoci: ritorniamo a scuola, amici !


ESPERIENZA

 L'esperienza, dice don Giussani (come abbiamo sentito ieri), di solito la riduciamo a provare.
Questo mi sembra che dalla domanda si capisca: perché ci sia esperienza, non basta provare.

PROVARE

Ai miei studenti facevo questo esempio: immaginate che stiamo imparando un certo tipo di problema di matematica e l'insegnante, dopo avercelo spiegato, ci dia da svolgere un esercizio a casa.
Vi ricordate come facevate quando eravate piccoli?
Portavate a casa il compito e provavate a cercare di rispondere al problema.
Voi, finito di fare il compito, eravate sicuri di avere risolto il problema in modo adeguato? Evidentemente no.
 E facendolo cinque volte invece di una, avreste saputo se la quinta era risolto meglio che la prima? No.
E facendolo duecentomila volte? No.
 Che cosa vuoi dire questo?
Che solo provando (cioè facendo duecentomila volte il tentativo di risolvere il problema) io non sono sicuro di avere imparato niente.
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22/09/2009 13:54

La vita può diventare questo: un insieme di prove, di tentativi da cui non impariamo niente.
Capite perché don Giussani insiste?
Se noi rimaniamo soltanto nel provare, non impariamo niente della vita, non facciamo esperienza.
Perché questo provare diventi esperienza occorre - secondo fattore - emettere un giudizio.


PROVARE + EMETTERE UN GIUDIZIO

Rimaniamo al nostro esempio: tornavamo il giorno dopo a scuola e facevamo il paragone tra il tentativo che noi avevamo fatto e la soluzione illustrata dall'insegnante alla lavagna. Così potevamo fare il paragone tra il nostro tentativo (la nostra prova) e la risposta esatta.
Senza giudicare io non capisco, non posso essere certo. E chiaro fin qua?
Allora si capisce perché don Giussani insiste sul fatto che noi non possiamo imparare niente, non possiamo fare veramente esperienza, se rimaniamo soltanto al provare e non emettiamo un giudizio su quello che proviamo.
Ma per emettere un giudizio - evidentemente - occorre un criterio di giudizio.

CRITERIO DI GIUDIZIO

Nel nostro esempio, chi ci dava il criterio di giudizio? L'insegnante.
Ma qui sorge la grande questione che affronta don Giussani: c'è qualche insegnante che possa darmi il criterio di giudizio per quello che io provo nella vita?
 Se c'è qualche guru che ha questa pretesa, è un presuntuoso e mi prende in giro.
Sarebbe come dire: «Poverino, tu non capisci: te lo spiego io».
E questo è quello che succede quando noi affidiamo a qualcun altro il criterio di giudizio.
E se noi affidiamo a qualcun altro il criterio di giudizio, siamo schiavi di un altro, siamo - spiega don Giussani - alienati.
E perciò si può difendere la persona, si possono difendere tutti i diritti dell'uomo, tutto quanto volete, ma se togliamo alla persona il criterio di giudizio, le togliamo la dignità. Perché è come dire: «Tu sei scemo: te lo spiego io».
C'è una modalità di stare tra di noi che è proprio questa: «
Tu non capisci, te lo spiego io».
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22/09/2009 13:59

Questo non va bene, perchè ci fa rimanere sempre infantili, alienati: dobbiamo sempre chiedere al capo, Io a un movimento così non ci sto!
Perché va contro il criterio di giudizio della prima pagina del PerCorso, capite?
Va contro, cioè, quello che don Giussani ci ha proposto.
Allora, qual è il criterio di giudizio?
Il criterio di giudizio non può essere fuori di noi, perché altrimenti saremmo alienati.
Allora il criterio di giudizio ha una prima caratteristica: è dentro di noi.


CRITERIO DI GIUDIZIO
• Dentro di noi

Vi faccio degli esempi, perché così capiamo tutti.
 Poniamo che Davide, per un infortunio, abbia il braccio ingessato.
Va dal medico dicendogli: «Guardi, il gesso mi fa un male tremendo, ho molto dolore». Il medico gli risponde: «Non ti fa male. E impossibile che ti faccia male: sono il Premio Nobel del gesso! E impossibile che ti faccia male».
Davide tornerebbe a casa e direbbe: «Non mi fa male: è il Premio Nobel del gesso, non mi fa male»? Io posso anche essere scemo, ma so, eccome, quando il gesso mi fa male, capite?
Il criterio è dentro di me, non in qualche guru o esperto fuori di me.
Tanto è vero che se insiste, vado a cercarmi un altro medico! E qualcun altro che mi dice quando qualcosa mi fa male o io - pur essendo, magari, scemo - fin li ci arrivo?
Si potrebbe obiettare: «Eh, certo, l'esempio del gesso è facilissimo perché si capisce, ma la libertà?».
Se qualcuno viene da me e mi dice che la libertà è che io rimanga in carcere per tutto il resto della vita, perche nell'ultimissimo congresso di filosofia i più grandi geni dell'universo hanno stabilito così?
Andrei in carcere?
Sappiamo tutti che cos e la libertà, o andiamo in carcere perché l'hanno deciso gli esperti? Potremmo fare degli esempi fino a mezzanotte.
Il criterio è dentro di noi.
Allora - e qui viene la seconda caratteristica - ciascuno decide a sua discrezione?
No: il criterio è dentro di noi, ma non lo decidiamo noi!
 (continua)
54

23/09/2009 12:42

cRITERIO DI GIUDIZIO
• Dentro di noi •
Ma non lo decidiamo noi

 Il criterio di giudizio non lo decidiamo noi. Noi non decidiamo - è l'esempio che ho sempre fatto - neanche il numero delle nostre scarpe. Il criterio per le scarpe adeguate è dentro di me, ma non lo decido io.
4
23/09/2009 12:47

Se potessimo deciderlo, figuratevi che risparmio quando ci sono i saldi (ma non ci sarebbero i saldi, proprio perché ognuno adatterebbe il criterio di giudizio)!
Ci viene da ridere, ma è così.
 È così evidente che non lo decidiamo noi, che dobbiamo sottometterci al criterio che troviamo m noi: non c'è un'altra scarpa che quella che mi corrisponde.
Perciò il criterio e dentro di me, è nel mio piede, tanto è vero che se mi metto una scarpa che è piccola, il piede grida: «Non è questa!».
 È un giudizio- «Non è questa».
Questo è oggettivo o lo decidiamo noi (alcuni mi hanno detto che lo decidono loro: «Compro le scarpe più economiche che poi magari si adattano». Va benissimo, arriviamo a questa follia, tanta è la confusione!)?
Il criterio di giudizio è dentro di noi, ma non lo decidiamo noi, e oggettivo.
E qual è il criterio di giudizio che abbiamo dentro di noi e che non decidiamo noi, per entrare in tutto e potere fare esperienza, cioè emettere un giudizio su quello che proviamo?

Don Giussani l'ha chiamato "esperienza elementare": l'insieme di esigenze e di evidenze che costituiscono il nostro umano (verità, giustizia, amore, felicità).

ESPERIENZA ELEMENTARE
insieme di esigenze e evidenze
(verità, giustizia, amore, felicità)

Possiamo usare sinteticamente la parola biblica "cuore" che non è soltanto, come nel linguaggio comune solitamente viene ridotta il sentimento, ma e questo insieme di ragione e affezione.
Proprio quello che don Giussani intende con l'insieme di esigenze e di evidenze.

CUORE

 Questo criterio, l'esperienza elementare, è oggettivo.
E qui ciascuno deve rintracciare nella sua esperienza esempi di questo.
Quante volte uno ha pensato: se riuscissi a trovare quel lavoro, o (quando eravamo più giovani) se potessi andare a quella festa...
Tante volte il lavoro o la testa erano andati alla grande, eppure siamo tornati a casa tristi Come dice Giacomo Leopardi ne La sera del dì di festa: «Già slmilmente mi stringeva il core».
Quante volte le cose vanno alla grande, abbiamo tutto quello che progettiamo, e non ci basta.
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23/09/2009 12:53

Fate esperienza qualche volta di questo?
Vedete come non è soggettivo?
Letteralmente come le scarpe: così oggettivo che, se non trovo corrispondenza, non sono a posto. Per questo la parola-chiave è la parola corrispondenza.

 ESPERIENZA

PROVARE + EMETTERE UN GIUDIZIO
 
CRITERIO DI GIUDIZIO

• Dentro di noi •
Ma non lo decidiamo noi
 
ESPERIENZA ELEMENTARE
 Insieme di esigenze e evidenze
(verità, giustizia, amore, felicità)

CUORE

CORRISPONDENZA


Io ho dentro di me il criterio per sapere che cosa corrisponde alle esigenze del mio cuore. Ma spesso noi ci fermiamo al provare (sento nostalgia, ho desiderio di avere), e allora diciamo:
«Questo è quello che mi corrisponde».
 E questa è la modalità con cui tra di noi si giustifica qualsiasi istintività (diciamola, la parola).
Ma questa è una presa in giro, prima di tutto per te!
Non semplicemente perché sbagli moralmente: sbagli moralmente perché non ti corrisponde, anche se te ne infischi della morale!
 Perché il problema non è che te ne infischi della morale; è che finisci nel nichilismo! La morale è niente rispetto al nichilismo in cui uno finisce rispetto a quell'evidenza che ha dentro di sé.
Provare nostalgia o desiderio di avere non è ancora esperienza.
 Lì vengono suscitate le domande: ma questo è la felicità?
Questo coincide con le mie esigenze, con il criterio che ho dentro di me?
Come quando vai a provare le scarpe: questo paio corrisponde con l'esigenza dei miei piedi?
La confusione che abbiamo si vede chiaramente in come noi usiamo la parola "corrispondenza".
Lo vedevo chiaramente quando mi invitavano a celebrare un matrimonio, e nel dialogo con i fidanzati veniva fuori come, in fondo, pensavano che l'altro li avrebbe resi felici.
E allora io facevo loro capire che l'altro non ti può rendere felice, perché la tua esigenza di felicità - questa esperienza elementare che ti trovi addosso, questa esigenza di verità, di bellezza, di giustizia - è più grande di tutto l'universo, e che provare l'insufficienza e la nullità è la questione più grande della vita.
(continua)
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24/09/2009 13:01

Capite perché don Giussani ci invitava a leggere Leopardi?
Per comprendere che cos'è questa esigenza elementare, che Leopardi aveva così presente, così carnalmente presente.
 Mi stupisce sempre che don Giussani a tredici anni non trovasse altro compagno di strada che un Leopardi.
 Che razza di esperienza del suo umano aveva don Giussani per non trovare altro compagno di strada che uno che diceva così: che tutto è poco, piccino, per la capacità dell'animo!
E don Giussani questo ce l'ha detto sempre, ma noi non lo capiamo! Tutto è poco, piccino, per la capacità dell'animo: la moglie, il lavoro, il successo, la politi-ca... Tutto è poco, piccino, per la capacità dell'animo! Se non capiamo questo, noi siamo come tutti. Perché? Perché confondiamo quello che ci piace con quello che corrisponde. E se noi non incominciamo a giudicare, ci inganniamo in continuazione: non soltanto perché facciamo il male o perché non siamo coerenti con una norma morale.
Ti inganni - il che è peggio - perché non ti corrisponderà mai, non corrisponderà all'esigenza di felicità che provi!
 Dobbiamo decidere se vogliamo prendere sul serio il desiderio di felicità, l'esperienza elementare che ci troviamo addosso, se vogliamo prendere sul serio il nostro umano!
O vogliamo fare - come fanno tutti - quello che ci pare e piace?
Perché per questo non abbiamo bisogno di venire qua, e soprattutto, poi, dire che lo facciamo perché «me l'ha detto Carrón»!
Ma va', va'! Io della corrispondenza ho detto e posso dire solo quel che sto dicendo adesso. Non prendiamoci in giro.
Allora capite che gran lavoro ci sta davanti, se abbiamo questo minimo di tenerezza con noi stessi, questa affezione a noi stessi, se veramente vogliamo il nostro bene, la nostra felicità, la felicità dei nostri amici, la felicità dei nostri figli, la felicità del mondo.
Se noi non facciamo esperienza, non possiamo capire qual è la differenza tra qualsiasi cosa che ci passa per la testa (le nostre immagini) e Cristo.
Perché, alla fine, se il criterio è soltanto quel che mi pare e piace. Cristo diventa un pensiero che mi pare e piace più o meno; non è Chi mi rende possibile la corrispondenza di cui diceva don Giussani, l'unica vera corrispondenza, quella che è impossibile all'uomo se non Lo trova.
Per questo occorre celebrare Cristo, festeggiare Cristo.
Senza questo, capisco bene che tante volte rimaniamo nella confusione rispetto a ciò che abbiamo incontrato.
Perché o non lo abbiamo sperimentato o resistiamo a riconoscere che cosa veramente ci corri- sponde e abbiamo bisogno di giustificare qualsiasi nostra istintività.
È chiaro?
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24/09/2009 13:11

Prosperi. Alla luce di questo, le prossime domande si chiariscono meglio. Seconda. «Manca l'umano: questa espressione è tornata più volte nelle tue lezioni. Ma cosa significa, al contrario, avere l'umano?
A volte questa parola sembra avere contorni molto confusi. Cosa ci aiuta a distinguere l'umano come ne parli tu dalle continue immagini che inevitabilmente ci sorgono?».

 Carrón. La confusione, come vedete, è rispetto a questo criterio di giudizio, perché esso non viene fuori da ciò che provo, ma davanti a ciò che provo: in me umanamente impegnato in ciò che provo. Per questo occorre l'umano.
Se io riduco il mio umano soltanto a quello che mi pare e piace, è il crescere costante della confusione.
Grazie alla corrispondenza, al di là delle immagini, uno comincia ad avere un criterio per giudicare quando c'è veramente l'umano e quando no.
 Ma quante volte vi è capitato di tornare da una festa o di ottenere il lavoro o di finire l'università, eppure di sperimentare una profonda insufficienza?
C'è bisogno che vi dica io l'esperienza che fate voi?
Non la condividiamo tutti?
La questione è se noi, quando ci rendiamo conto di questo, siamo leali con l'esperienza che facciamo, con quello che viene fuori nell'esperienza. Perché per continuare ad andare dietro alle cose che ci paiono e piacciono dobbiamo negare l'esperienza della non-corrispondenza.
Non è che non abbiamo tutte le spie accese, ma tutte!
E siamo ben coscienti della differenza tra le immagini e il vero giudizio di corrispondenza! Occorre che ci aiutiamo in questo, che ci sfidiamo a questo in continuazione, perché altrimenti noi rimaniamo sempre nella confusione, tanto più in una situazione generale come quella di cui parlavamo ieri.
Per questo occorre fare un lavoro veramente importante. e non incominciamo a fare esperienza e a essere leali così con la nostra esperienza - per distinguere quello che mi pare e piace da quello che mi corrisponde -, rimaniamo sempre più confusi.
 E la cosa non è senza conseguenze: facciamo quello che ci pare e piace e non siamo contenti, raggiungiamo quello che bramiamo e non siamo contenti.
Cioè manca la corrispondenza col cuore.
Come si distingue?
Si distingue essendo leali con l'esperienza.
Non è che devo spiegarvelo io adesso: guardate, guardate la vostra esperienza. Come l'esempio del gesso: non devo spiegarvelo io quando vi fa male o meno. Sapete voi quando il gesso vi fa male, o no?
Sapete voi quando siete contenti, o no?
Sapete voi quando siete veramente realizzati nella vostra vita, o no?
Allora, se noi non giudichiamo (non vediamo che cosa è quello che ci corrisponde), rimaniamo sempre più confusi.
(continua
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03/10/2009 13:36

Prosperi. «Si può approfondire il concetto di ascesi, inteso come lavoro dell'intelligenza e della volontà?
Come questo lavoro sostiene la certezza che Cristo salva la mia circostanza?
Come la compagnia sostiene questo lavoro personale di ascesi?».

Carrón. Il lavoro dell'ascesi è giudicare, ci ha detto don Giussani.
L'unica modalità per incominciare ad avere esperienza della liberazione è giudicare. Se noi non giudichiamo, rimaniamo sempre più confusi e sempre più incastrati.
La vita è questo continuo giudizio su tutto quello che accade.
Noi dobbiamo decidere o meno di partecipare a questa avventura offertaci da don Giussani, perché altrimenti ripetiamo soltanto frasi sue senza capire, e alla lunga questo ci stufa perché non cambia niente della vita, perché è come se non si potesse imparare più niente dalla vita.
Il lavoro dell'ascesi è questo paragone costante di quello che io ho in mente, le mie immagini, quello che io penso che sia la vita, quello che io penso che mi renda felice, con quello che realmente mi rende felice.
E questo occorre che io ve lo spieghi, di nuovo, o lo riconoscete voi stessi? Mettere in gioco questo è la decisione della vita.
La nostra vita, appartenere al movimento, è partecipare a questa avventura. Altrimenti il carisma è morto e sepolto - capite? -, al di là del fatto che siamo qui in ventiseimila, perché quello che ci ha comunicato don Giussani come esperienza, come strada umana, noi non lo facciamo.
 E questa è la grande decisione che occorre prendere alla fine degli Esercizi:
siamo disponibili a fare questo lavoro, a partecipare a questa avventura della conoscenza (in modo da potere incominciare a distinguere il bianco dal nero), o no? Perché ciò su cui facciamo più fatica è questo giudizio.
 E poi, siccome non giudichiamo, domandiamo a un altro che risolva le questioni per noi.
In che cosa la compagnia ci sostiene?
Se, invece di spiegare, ti sfida.
Gesù che cosa ha fatto con i discepoli?
 Ha forse risparmiato loro il lavoro del giudizio?
Dal primo istante:
«Venite e vedete, giudicate voi».
 Non ha perso neanche un minuto a spiegare: «Venite e vedete, giudicate voi».
59
03/10/2009 13:40

Gesù parte dal presupposto che loro non sono così scemi da non capire se quello che vedono corrisponde loro o meno.
 E quando - nell'episodio che abbiamo tante volte richiamato - tutti Lo abbandonano. Gesù ancora una volta non risparmia nulla:
«Anche voi volete andarvene?».
Non dice, quando resta solo con i discepoli: «Almeno voi restate, per carità, non lasciatemi solo!».
Corre il rischio di rimanere da solo, pur di non risparmiare il giudizio ai suoi: «Anche voi volete andarvene?».
Dicendo questo li sta forse incoraggiando ad andarsene?
No, sta aiutandoli a fare quel lavoro di ascesi: perché senza questa domanda di Gesù, i discepoli sarebbero potuti anche rimanere, ma formalmente, senza capire. Gesù, sfidandoli, che cosa fa?
Fa prendere loro consapevolezza dell'esperienza che hanno fatto, e fa uscire dalle viscere della loro esperienza il perché rimangono:
«Se andiamo via da Te, dove andiamo?».
 Questa consapevolezza è venuta fuori grazie a Uno che è veramente un amico: non si è messo a spiegare, li ha sfidati, e così loro sono rimasti con una consapevolezza e una certezza che prima non avevano. Tra di noi siamo amici così, o no?
Altrimenti ci prendiamo in giro, perché l'amicizia è la sfida costante al rapporto col Mistero.
Questo è sconvolgente di don Giussani, perché l'unico che prende sul serio tutti i fattori di quello che il Mistero ci ha dato (questo cuore per giudicare tutto) è lui.
 Ci mette nelle condizioni migliori di fronte alla sfida di Gesù ai discepoli:
 «Volete andarvene o no?
Devo spiegarvi Io che cosa sono per voi?
 Che cosa avete avuto voi nell'esperienza? Che cosa avete conosciuto voi?».
Così, nei discepoli, è venuta fuori la ragione per rimanere.
Noi non rimarremo cristiani, la nostra fede avrà una data di scadenza - ve lo assicuro -, se non facciamo questo lavoro, perché non sapremo perché rimaniamo qua e quando cambieremo l'umore penseremo che stiamo meglio da un'altra parte.
Senza questo lavoro di ascesi non capiamo la ragione ultima per cui siamo qua.

Prosperi. «Tu dicevi che non manca Cristo, ma manca l'umano.
Sembra quasi che l'umano sia una precondizione per riconoscere Cristo come risposta alle proprie esigenze del cuore, mentre se guardo la mia esperienza mi accorgo che la mia umanità è stata fatta fiorire dall'incontro con Cristo e che prima era molto più rattrappita e incapace di individuare le mie esigenze originali.
 Puoi chiarire questo rapporto tra Cristo e l'umano?».
60
03/10/2009 13:45

Carrón. Per potere riconoscere Cristo, per potere riconoscere la diversità di Cristo, occorre in contemporanea l'umano.
 E l'umano ce l'abbiamo tutti. Nessuno può dire che non ha l'umano, perché vorrebbe dire che non è una persona.
Insomma: smettiamo di dire che non ce l'abbiamo!
 L'umano l'abbiamo tutti - possiamo usarlo o no, questo è un altro problema -, e per questo possiamo trovare Chi ci corrisponde.
Se ciascuno di noi pensa al perché è qua, vede che ha almeno intravisto in qualche modo che nell'incontro con certe persone c'era una speranza per sé: che la vita poteva essere più grande, più bella, vissuta in un modo più umano.
Questa condizione c'è perché Dio, che aveva deciso di farci partecipi della felicità inviando il Suo Figlio, ci ha costituito con questo cuore perché noi potessimo riconoscerLo quando Lo avessimo a incontrare.
 Era tutto nel disegno di Dio: ci ha fatto per Lui, per quella pienezza che può darci soltanto Lui.
Ce lo dice la prima pagina della Bibbia: ci ha creati a Sua immagine, cioè ci ha fatti per Lui.
In quel Giardino era tutta la struttura dell'io: ci ha fatto per una convivenza con Lui, per trovare la felicità nel rapporto con Lui.
Secondo tutta la tradizione cristiana il nostro io è questo desiderio di bellezza, di pienezza, che trova il suo compimento nell'Unico che gli corrisponde.
Per questo, fin quando non lo troviamo, il nostro cuore è inquieto.
Allora sì, l'umano - dice don Giussani, e ci risparmia molti ragionamenti - è necessario per riconoscere Cristo, perché è questo paragone che uno fa tra l'esigenza di bellezza che ha e quel che incontra.
 Ed è vero quello che dice la seconda parte della domanda: l'incontro con Cristo fa fiorire l'umano.
 Fa fiorire l'umano perché mi rende consapevole di cosa desidero io, mi ridesta.
Per questo tanta gente poi si arrabbia con il movimento:
«Mi ha ridestato l'umano e poi non compie».
Ma se l'ha ridestato!
Se l'ha ridestato siamo ancora più noi stessi, più umani, e quindi più in grado di cogliere la corrispondenza.
 Perciò, quanto più uno vive l'esperienza cristiana, quanto più uno vive questo rapporto con Cristo, tanto più viene fuori tutta l'ampiezza del desiderio.
Non è che cancella il desiderio, ma siccome è Colui che mi attira di più, mi soddisfa di più, mi rende più felice, allora viene di più fuori tutto il mio desiderio.
61
03/10/2009 13:49

Per questo mi stupisce se poi diciamo che qualsiasi cosa ci corrisponde.
 Questo fiorire dell'io - come vedete - è la condizione per riconoscere Cristo.
Per questo ho bisogno di trovarLo ogni mattina. Cosa sarebbe un giorno - dopo averLo incontrato - in cui io non potessi fare memoria di Lui, cosa sarebbe una mattina senza poter dire Tu a Cristo?
Come per uno che si è innamorato, cosa sarebbe una mattina senza la persona che ama?
Come per il bambino senza trovare il volto della mamma, cosa sarebbe la vita?
Allora la memoria di Cristo non è aggiungere una cosa pesante in più («Uffa, devo anche fare memoria!»).
Sono io a chiederti: ma come fai a vivere senza fare memoria?
 Come riesci a guardare te stesso, ad avere affezione a tè stesso senza fare memoria di Cristo dopo averLo incontrato e aver visto che è l'unico che soddisfa la vita, è l'unico che veramente corrisponde all'esigenza di felicità, di compagnia che hai?
Come fai?!
 Come puoi vivere senza fare silenzio?
Perché il silenzio per noi nasce dall'Avvenimento, che uno resta senza parole davanti all'accadere di questa corrispondenza: ma chi sei Tu, Cristo, in grado di riempirmi la vita così?
Tutto si riempie di silenzio, la Tua presenza mi riempie di silenzio.
Uno resta senza parole, come quando si trova davanti un'esperienza di bellezza, di pienezza, di gratuità, che colpisce così tanto da lasciare senza parole.
Questo è il silenzio.
Il silenzio cristiano nasce dalla Presenza, dalla pienezza della Presenza: non ho altro da dire che fare silenzio per non perderLo.
 Se noi non abbiamo bisogno di questo silenzio, non è che non siamo bravi ciellini: è che non è successo e non succede niente che ci riempia di silenzio.
Non è una serie di precetti: nasce tutto come espressione dell'Avvenimento che riempie la vita di silenzio.

Prosperi. Hai detto che la forma della risposta al nostro desiderio è Cristo stesso. «Quando uno si trova male nel proprio lavoro e ne desidera uno più bello, oppure desidera incontrare una donna con cui fare famiglia, oppure due sposi desiderano un figlio, cosa vuoi dire che la forma della risposta al nostro desiderio è Cristo stesso? Cristo è la consistenza della mia vita, ma cosa significa che è la forma del mio desiderio?».

Carrón. Che quel che io veramente desidero è Lui!
Noi tante volte confondiamo i nostri desideri parziali con il desiderio ultimo del cuore, tanto è vero che abbiamo il lavoro e non basta, ci sposiamo e non basta, abbiamo i figli e non bastano.
Perché non bastano?
Perché quello che desideriamo - come dice Leopardi - è qualcosa di più grande.
62
03/10/2009 13:53

Questa è la nostra grandezza, e noi cerchiamo sempre di ridurre la nostra grandezza, perché la nostra grandezza è la grandezza del nostro desiderio.
La vera grandezza dell'uomo, il vero mistero dell'uomo, il vero paradosso dell'uomo è che, essendo limitato, desidera l'infinito.
Questo è quello che non capiamo, amici.
Se noi non capiamo che quello che desideriamo è l'infinito, ditemi: perché dovremmo essere cristiani, perché dovremmo perdere il tempo a stare qua?
Se noi non sperimentiamo che quello per cui il Mistero ci ha fatto è per riempirci di una felicità assolutamente al di là di tutte le nostre previsioni, perché vale la pena essere cristiani?
Se è legittimo avere tutti questi desideri parziali, l'unico che veramente compie il desiderio costitutivo di infinito è Lui.
Per questo la forma della risposta al nostro desiderio è Cristo.
Se non è questo, che cosa significa per noi rincontro con Cristo?
Non avremmo capito la portata dell'incontro con Cristo, e perciò non avremmo chiara la ra-gionevolezza della nostra adesione di fede.
Per questo parlo di data di scadenza se uno non capisce qual è il vero problema a cui ci ha educato sempre don Giussani citando Cesare Pavese: quello che cerchiamo nei piaceri è l'infinito, e nessuno potrà mai smettere di cercare questa infinità.
 E questa è la nostra esperienza: che possiamo avere tutto quello che vogliamo, ma non ci basta, e sempre più ci rendiamo conto che non ci basta.
Perché possiamo dire che non ci basta?
Perché è così oggettivo il criterio in noi, che ci rende evidente che quello che desideriamo è più grande di quello che noi riusciamo a ottenere.
Questo è il paradosso: che il nostro cuore è questo desiderio, ma noi siamo limitati e tutto quello che facciamo è piccolo, è limitato, è incapace di soddisfare questo desiderio dell'infinito.
E per questo o c'è Cristo (Uno che viene da fuori e riempie il cuore) o possiamo incominciare a piangere, perché quello che desideriamo non c'è.
 Ecco perché può festeggiare Cristo solo chi capisce qual è la natura infinita del desiderio. Qualcuno come Leopardi, come sant'Agostino, come la Samaritana.
 Finché non ci rendiamo conto di questo, non possiamo capire che grazia abbiamo avuto incontrando Cristo; non restiamo stupiti che Qualcuno abbia avuto pietà del nostro niente e ci abbia dato quella grazia, assolutamente inaspettata, che nessuno di noi merita e che tanti uomini cercano a tentoni.
Noi abbiamo ricevuto la grazia, ma molte volte è come se non l'avessimo ricevuta, perché viviamo nella confusione, pensando che qualsiasi altra cosa possa rispondere alla natura, alla profondità, alla portata di questo desiderio.
63
03/10/2009 13:57

Quando dico che manca il desiderio nella vita dico che noi non capiamo qual è la natura del nostro desiderio.
Ci manca il Mistero.
Questo ci rende consapevoli che o facciamo questo lavoro, questa ascesi, oppure innanzitutto non potremo essere contenti (anche se riusciamo a ottenere quello che ottengono gli altri), e soprattutto non capiremo veramente e non ci riempirà di gioia il fatto che ci sia Cristo.
 E di avere incontrato don Giussani.

 Prosperi. «Vorremmo capire meglio il passaggio per cui uno segue non la persona, ma l'esperienza della persona, e come questo non diventa un ultimo alibi per applicare comunque la propria misura.
 Per esempio, se segui la persona e questa ti delude o tradisce, spesso nasce l'obiezione sull'esperienza».

Carrón. Bisogna fare il paragone con quello che si vive.
Don Giussani ci ha comunicato l'esperienza che lui ha fatto, e questa è vera anche se io domani tradisco.
 Questo è vero e sarà sempre vero, perché quello che decide della corrispondenza o meno non è quello che dico io o quello che dice don Giussani, ma è quello che ciascuno di noi prova nella propria esperienza quando la giudica.
 Per questo uno segue l'esperienza dell'altro, che te la comunica come può, a tentoni.
Non si segue la persona per un personalismo, perché l'ha detto il capo.
 Questo non è umano, non è umano! Ma se lui ti sta comunicando un'esperienza che sta facendo e a te interessa imparare, seguire lui coincide col seguire l'esperienza che lui fa, in modo che tu possa farla diventare tua.
 E rimarrà tua anche se lui dovesse tradirla.
Io non voglio che ripetiamo le frasi di don Giussani (o le mie), ma che sia nostra questa esperienza, che diventi nostra, perché quando vogliamo qualcosa vogliamo che diventi nostro, come noi desideravamo che quello che ci spiegava l'insegnante di matematica diventasse nostro. Voi non desiderate questo?
 Lo dice don Giussani spiegando l'obbedienza: seguire fin quando, a un certo punto, uno segue se stesso colpito dall'esperienza che fa un altro, perché è così tutt'uno con se stesso, che alla fine segue se stesso colpito dall'esperienza di un altro.
Se non facciamo così, continuiamo a ripetere le frasi di don Giussani, ma non facciamo l'esperienza che fa lui.
Noi seguiamo l'esperienza che fa uno.
 E questo non vuoi dire che allora rimaniamo sulla nostra misura, perché se uno rimane sulla propria misura è perché lo vuole, andando contro quello che emerge con chiarezza dall'esperienza che fa.
Se poi vuole giustificarlo con le sue obiezioni agli errori degli altri, è un problema tutto suo.
 64
(continua)
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