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Il radiomessaggio di Pio XII del 24 agosto 1939

Ultimo Aggiornamento: 26/09/2009 06:40
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24/08/2009 17:45

Il radiomessaggio di Pio XII del 24 agosto 1939

«Nulla è perduto con la pace

Tutto può esserlo con la guerra»




Sessant'anni fa, la sera di giovedì 24 agosto 1939, all'indomani del patto di non aggressione stipulato tra Germania nazista e Unione sovietica - più noto come Patto Molotov-Ribbentrop - Pio XII, presagendo lo scoppio imminente della guerra, pronunciava il radiomessaggio di cui oggi ripubblichiamo il testo. Quattro giorni prima, Papa Pacelli aveva rivolto ai fedeli delle diocesi venete un discorso per il venticinquesimo della morte di Pio X, di cui pubblichiamo l'ultima parte. 

A tutto il mondo. Un'ora grave suona nuovamente per la grande famiglia umana; ora di tremende deliberazioni, delle quali non può disinteressarsi il Nostro cuore, non deve disinteressarsi la Nostra Autorità spirituale, che da Dio Ci viene, per condurre gli animi sulle vie della giustizia e della pace.
Ed eccoCi con voi tutti, che in questo momento portate il peso di tanta responsabilità, perché a traverso la Nostra ascoltiate la voce di quel Cristo da cui il mondo ebbe alta scuola di vita e nel quale milioni e milioni di anime ripongono la loro fiducia in un frangente in cui solo la sua parola può signoreggiare tutti i rumori della terra.

EccoCi con voi, condottieri di popoli, uomini della politica e delle armi, scrittori, oratori della radio e della tribuna, e quanti altri avete autorità sul pensiero e l'azione dei fratelli, responsabilità delle loro sorti.
Noi, non d'altro armati che della parola di Verità, al disopra delle pubbliche competizioni e passioni, vi parliamo nel nome di Dio, da cui ogni paternità in cielo ed in terra prende nome (Efesini, 3, 15) - di Gesù Cristo, Signore Nostro, che tutti gli uomini ha voluto fratelli - dello Spirito Santo, dono di Dio altissimo, fonte inesausta di amore nei cuori.

Oggi che, nonostante le Nostre ripetute esortazioni e il Nostro particolare interessamento, più assillanti si fanno i timori di un sanguinoso conflitto internazionale; oggi che la tensione degli spiriti sembra giunta a tal segno da far giudicare imminente lo scatenarsi del tremendo turbine della guerra, rivolgiamo con animo paterno un nuovo e più caldo appello ai Governanti e ai popoli:  a quelli, perché, deposte le accuse, le minacce, le cause della reciproca diffidenza, tentino di risolvere le attuali divergenze coll'unico mezzo a ciò adatto, cioè con comuni e leali intese:  a questi, perché, nella calma e nella serenità, senza incomposte agitazioni, incoraggino i tentativi pacifici di chi li governa.

È con la forza della ragione, non con quella delle armi, che la Giustizia si fa strada. E gl'imperi non fondati sulla Giustizia non sono benedetti da Dio. La politica emancipata dalla morale tradisce quelli stessi che così la vogliono.

Imminente è il pericolo, ma è ancora tempo.
Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra. Ritornino gli uomini a comprendersi. Riprendano a trattare. Trattando con buona volontà e con rispetto dei reciproci diritti si accorgeranno che ai sinceri e fattivi negoziati non è mai precluso un onorevole successo.
E si sentiranno grandi - della vera grandezza - se imponendo silenzio alle voci della passione, sia collettiva che privata, e lasciando alla ragione il suo impero, avranno risparmiato il sangue dei fratelli e alla patria rovine.

Faccia l'Onnipotente che la voce di questo Padre della famiglia cristiana, di questo Servo dei servi, che di Gesù Cristo porta, indegnamente sì, ma realmente tra gli uomini, la persona, la parola, l'autorità, trovi nelle menti e nei cuori pronta e volenterosa accoglienza.

Ci ascoltino i forti, per non diventar deboli nella ingiustizia. Ci ascoltino i potenti, se vogliono che la loro potenza sia non distruzione, ma sostegno per i popoli e tutela a tranquillità nell'ordine e nel lavoro.
Noi li supplichiamo per il sangue di Cristo, la cui forza vincitrice del mondo fu la mansuetudine nella vita e nella morte. E supplicandoli, sappiamo e sentiamo di aver con Noi tutti i retti di cuore; tutti quelli che hanno fame e sete di Giustizia - tutti quelli che soffrono già, per i mali della vita, ogni dolore. Abbiamo con Noi il cuore delle madri, che batte col Nostro; i padri, che dovrebbero abbandonare le loro famiglie; gli umili, che lavorano e non sanno; gli innocenti, su cui pesa la tremenda minaccia; i giovani, cavalieri generosi dei più puri e nobili ideali. Ed è con Noi l'anima di questa vecchia Europa, che fu opera della fede e del genio cristiano. Con Noi l'umanità intera, che aspetta giustizia, pane, libertà, non ferro che uccide e distrugge. Con Noi quel Cristo, che dell'amore fraterno ha fatto il Suo comandamento, fondamentale, solenne; la sostanza della sua Religione, la promessa della salute per gli individui e per le Nazioni.

Memori infine che le umane industrie a nulla valgono senza il divino aiuto, invitiamo tutti a volgere lo sguardo in Alto ed a chiedere con fervide preci al Signore che la sua grazia discenda abbondante su questo mondo sconvolto, plachi le ire, riconcilii gli animi e faccia risplendere l'alba di un più sereno avvenire. In questa attesa e con questa speranza impartiamo a tutti di cuore la Nostra paterna Benedizione.


(©L'Osservatore Romano - 24-25 agosto 2009)
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24/08/2009 17:46

Dal discorso del 20 agosto 1939 ai fedeli delle diocesi venete per il 25° della morte di Pio X

La pace frutto della giustizia




Questa benedizione desideriamo, nelle circostanze attuali, che avanti ogni cosa implori la pace:  la pace d'Italia, la pace d'Europa, la pace del mondo. All'ammirabile Pontefice, di cui oggi abbiamo qui con voi rievocato la cara e santa memoria, l'intima angoscia per lo scoppiare della guerra spezzò il cuore, quasi che egli avesse previsto e presentito tutti gli orrori e le stragi del conflitto mondiale. Per la pace il suo Successore, Benedetto XV di f. m. [felice memoria], sospirò, parlò, pregò, invocò quella moderazione negli animi ch'è oblio della lotta nella concordia delle nazioni.

Per la pace il Nostro immediato Predecessore Pio XI, la cui veneranda figura in questo momento sta viva innanzi agli occhi del Nostro spirito insieme con quella di Pio X, fece a Dio, or è quasi un anno, con atto paterno che commosse il mondo, l'offerta della sua vita.

Nell'ora presente, che rinnova acuta l'ansia e la trepidazione dei cuori, Noi stessi, fin dal primo giorno del Nostro Pontificato, abbiamo tentato e fatto quanto era nelle Nostre forze per allontanare il pericolo della guerra e per cooperare al conseguimento di una solida pace, fondata sulla giustizia e che salvaguardi la libertà e l'onore dei popoli. Abbiamo anzi, nei limiti del possibile e per quanto Ce lo consentivano i doveri del Nostro Apostolico ministero, riposti indietro altri compiti e altre preoccupazioni che gravavano l'animo Nostro; Ci siamo imposte prudenti riserve, affine di non renderCi da nessuna parte più difficile o impossibile l'operare a pro della pace, consci di tutto quello che in questo campo dovevamo e dobbiamo ai figli della Chiesa cattolica e a tutta l'umanità.

Noi non vogliamo, né Ci dà il cuore neanche ora di rinunziare alla speranza che i sensi di moderazione e di obiettività valgano ad evitare un conflitto, che secondo ogni previsione supererebbe anche il passato in distruzioni e rovine materiali e spirituali. Noi non cessiamo di confidare che i Reggitori dei popoli nell'ora della decisione rifuggiranno dall'assumere la indicibile responsabilità di un appello alla forza. Ma sopra tutte le umane speranze riposte nel fondo della bontà e nei lumi della sapienza degli uomini, il Nostro sguardo si leva all'Onnipotente, al Padre delle misericordie e al Dio di ogni consolazione.

Da Lui, nelle cui mani sono i cuori al pari che le menti dei Governanti, vogliamo, - uniti in questa memoranda giornata con voi, Venerabili Fratelli e diletti Figli, con tutti i cattolici della terra e avendo altresì presenti nella preghiera tante anime di buona volontà che pur vivono fuori della Chiesa e parimenti aspirano alla pace - vogliamo nuovamente implorare che, nella sua infinita bontà e misericordia verso il genere umano, ponga fine alla guerra, dove ora imperversa, e tutti benignamente preservi dal flagello di nuovi e più immani conflitti sanguinosi.

Sopra questo mondo inquieto e turbato come mare in tempesta faccia Dio apparire e risplendere l'iride della calma, della pace e dell'operosa concordia fra i popoli e le nazioni; e con raddoppiato fervore non cessi di innalzarsi a Lui la istante supplica: 
Da pacem, Domine, in diebus nostris!


(©L'Osservatore Romano - 24-25 agosto 2009)
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La Chiesa di Roma e la guerra


Nell'estate del 1939 l'Europa percorse l'ultimo tratto che la portò a precipitare nell'abisso della guerra. Un abisso che, solo un ventennio dopo la prima catastrofe bellica mondiale, si spalancò con una sequela di orrori inimmaginabili. Dallo smembramento della Polonia - in seguito al patto, troppo spesso dimenticato, tra la Germania nazista e la Russia sovietica - prese infatti avvio il rogo che incendiò gran parte del vecchio continente, il bacino mediterraneo e l'immensa area del Pacifico. Con il mostruoso sterminio del popolo ebraico, distruzioni senza precedenti di civili e di molte città del vecchio continente, fino all'epilogo nucleare, gravido di nuovi incubi, che con l'annientamento di Hiroshima e Nagasaki pose fine al conflitto scatenato dal Giappone e, in questo modo, ai sei anni della guerra più sanguinosa mai vista sulla terra.

La lezione della prima guerra mondiale non servì a nulla e, anzi, ne scaturirono un succedersi di ingiustizie e soprattutto l'affermazione dei totalitarismi - sovietico, fascista, nazista - che portarono l'Europa e buona parte del mondo a soffrire inauditi mali. Di fronte alla guerra la Chiesa di Roma non abbandonò quelle frontiere della pace che faticosamente aveva iniziato a presidiare agli inizi dell'Ottocento e soprattutto a partire dall'ultimo trentennio del secolo, quando la perdita del potere temporale aveva di fatto favorito l'estendersi della sua influenza internazionale.

E se Pio X nei suoi ultimi giorni di vita si era quasi offerto come vittima sacrificale avvertendo l'avvicinarsi del "guerrone", Benedetto XV si adoperò contro l'insensata tragedia europea che, incompreso e insultato dalle parti contrapposte, definì "inutile strage". Mobilitando, tra l'altro, una "diplomazia dell'assistenza" che, silenziosa ed efficace, sarebbe tornata a caratterizzare l'atteggiamento della Santa Sede anche nella seconda guerra mondiale.

Durante i rispettivi incarichi diplomatici, nel cuore  dell'Europa  in  fiamme,  i  futuri  Pio  XI e Pio XII erano stati testimoni diretti del sorgere dei totalitarismi, causa dei mali che si preparavano. E, giunti entrambi alla guida della Santa Sede, nel corso degli anni Trenta videro con lucidità l'inesorabile procedere verso la guerra, che tentarono di contrastare con la diplomazia, la politica concordataria, la fermezza sulla dottrina cattolica, in una consonanza sostanziale non indebolita da personalità e temperamenti tra loro molto diversi. Non fu dunque un caso che la scelta del conclave, rapidissima, s'indirizzasse sul segretario di Stato di Pio XI. E subito Pio XII dovette fronteggiare una situazione che precipitava:  "Nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra" fu l'estremo inutile appello, alla cui stesura pose mano il sostituto Montini, stretto collaboratore del Papa anche nella tenace opera di soccorso presto avviata:  in Vaticano, a Roma, in Italia e in molti altri Paesi, dove accanto a molti cattolici i rappresentanti pontifici - come Roncalli a Istanbul - si prodigarono in ogni modo per soccorrere i perseguitati, senza distinzioni.

Pio XII e coloro che gli sarebbero succeduti sulla sede romana con i nomi di Giovanni XXIII e Paolo VI furono così, nell'infuriare del conflitto, tanto difensori delle ragioni umane e della giustizia quanto testimoni della carità di Cristo. Con una predicazione di pace che Papa Pacelli non interruppe durante la guerra e negli anni successivi:  sostenendo la scelta della democrazia, rifiutando l'attribuzione di una colpa collettiva al popolo tedesco, contrastando il totalitarismo sovietico - che impose regimi dittatoriali a molti Paesi e sparse nuovi mali - e appoggiando senza incertezze la faticosa costruzione di un progetto unitario per quella "vecchia Europa, che fu opera della fede e del genio cristiano" e che tuttavia non era stata capace di ascoltare il radiomessaggio pontificio trasmesso la sera del 24 agosto 1939.

Se in molti modi alla ricostruzione e alla riconciliazione i cattolici hanno saputo dare contributi importanti, la Chiesa di Roma ha simbolicamente chiuso la seconda guerra mondiale con le elezioni papali di Karol Wojtyla - che nel 1989, a quasi cinquant'anni dal suo inizio, vi dedicò una lettera apostolica - e di Joseph Ratzinger, proprio a sessant'anni dalla conclusione del conflitto che i futuri Giovanni Paolo II e Benedetto XVI subirono in prima persona, figli di Nazioni allora contrapposte. Dal punto di vista storico, la duplice scelta del collegio dei cardinali ha dimostrato l'inconsistenza di molti pronostici basati su vecchie convinzioni di carattere politico secondo le quali le elezioni del 1978 e, soprattutto, del 2005 sarebbero state impossibili. La geopolitica della Chiesa, insomma, è diversa. E questo perché, assumendo il passato, guarda all'uomo e al futuro con occhi fissi su una promessa che non sarà delusa.

g. m. v.



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25/08/2009 23:47

La follia della guerra e il primato dell'amore sull'odio nella visione cristiana della pace di Giovanni Battista Montini

Quelle parole inascoltate da chi sognava la guerra


A settant'anni dallo scoppio della seconda guerra mondiale pubblichiamo un ampio estratto del discorso di Paolo VI all'udienza generale del 26 agosto 1964, e alcuni stralci dell'omelia da lui tenuta, il 10 giugno  1969,  al Parco de la Grange di Ginevra, in occasione della sua visita in Svizzera.

All'approssimarsi del XXV anniversario dello scoppio della seconda guerra mondiale risorge nel Nostro animo il commosso ricordo della sera del 24 agosto 1939, quando, per ragione del Nostro servizio alle dipendenze del Papa Pio xii, di venerata memoria, Noi avemmo la ventura di assistere all'atto della radiodiffusione di quel suo messaggio, vibrante di forza e di angoscia, nel quale la voce sua fu grave e solenne, come quella di Profeta di Dio e di Padre del mondo.

Quelle parole rimasero inascoltate da chi sognava la guerra rapida e decisiva, apportatrice di potenza e di gloria. E la guerra, una settimana dopo, scoppiò. Era la seconda guerra mondiale. La prima, della quale in questi giorni è stato ricordato il cinquantesimo anniversario, non aveva dunque insegnato nulla, con i suoi milioni di morti, di mutilati, di feriti, di orfani e con le sue immani rovine? Per verità, anche dopo la prima guerra mondiale nobili e poderosi tentativi di organizzare le nazioni in società di pace furono compiuti, ma senza quella sufficiente evoluzione degli animi e degli atti internazionali verso la fiducia nella verità e nell'amore che devono rendere fratelli gli uomini e farli intenti a costruire un mondo di reciproco rispetto e di comune benessere.



Anche il dramma di furore e di sangue della prima guerra mondiale ebbe dai Nostri Predecessori ammonimenti sapienti e pressanti, guida di deplorazione e di dolore. È errato, è assolutamente antistorico accusare un Papa mite ed umano come San Pio X - e si è pur osato scriverlo - di corresponsabilità nello scoppio della guerra del 1914. Ed è poi ancora echeggiante, come terribilmente vera, nel cuore di quanti quella guerra hanno sofferta, la celebre parola di Benedetto XV di "inutile strage", riferita alla guerra stessa. Anche allora la voce del Vicario di Cristo, se ebbe echi profondi nei cuori dei popoli e tardi riconoscimenti nelle menti dei pensatori e degli storici, non ebbe che scarsa ed inefficace accoglienza da parte dei Governanti delle Nazioni e dei Dirigenti della pubblica opinione.

La diffidenza, che ha circondato gli interventi ammonitori del magistero pontificio, non Ci scoraggia a rinnovare i Nostri paterni richiami alla pace, quando l'ora della storia, anzi il dovere del Nostro apostolico ufficio lo richieda. La solenne e suggestiva parola, che il Nostro immediato Predecessore Giovanni XXIII, di felice ricordo, rivolse al mondo con la sua Enciclica Pacem in terris, non è risonata invano; il mondo sentì ch'essa aveva il duplice fascino della sapienza e della bontà. Sembra a Noi che la ricorrenza anniversaria, cinquantenaria l'una, venticinquesima l'altra, delle due guerre mondiali, che hanno insanguinato la prima metà del nostro secolo, offra occasione propizia per fare eco a quei messaggi di pace e per mantenerne vivo ed operante il tonificante ricordo e monito.

È la pace un bene supremo per l'umanità che vive nel tempo; ma è un bene fragile, risultante da fattori mobili e complessi, nei quali il libero e responsabile volere dell'uomo gioca continuamente. Perciò la pace non è mai del tutto stabile e sicura; deve essere ad ogni momento ripensata e ricostituita; presto si indebolisce e decade, se non è incessantemente richiamata a quei veri principii che soli la possono generare e conservare.

Ora Noi assistiamo a questo preoccupante fenomeno:  il decadimento di alcuni basilari principii, su cui la pace deve fondarsi e di cui si credeva raggiunto, dopo le tragiche esperienze delle due guerre mondiali un fermo possesso. Nello stesso tempo vediamo rinascere alcuni pericolosi criteri, che di nuovo servono a guidare una miope ricerca dell'equilibrio, o meglio d'una instabile tregua nelle relazioni delle nazioni e delle ideologie dei popoli fra loro.
Di nuovo si oscura il concetto del carattere sacro e intangibile della vita umana, e si vanno nuovamente calcolando gli uomini in funzione del loro numero e della loro eventuale efficienza bellica, non in ragione della loro dignità, dei loro bisogni, della loro comune fratellanza.

Si avvertono nuovi sintomi d'una rinascita di divisioni e di opposizioni fra i popoli, fra le varie stirpi e fra le differenti culture:  guidano questo spirito di divisione gli orgogli nazionalistici, le politiche di prestigio, la corsa agli armamenti, gli antagonismi sociali ed economici. Ritorna il concetto illusorio che la pace non possa fondarsi che su la terrificante potenza di armi estremamente micidiali, e mentre da un lato, nobilmente ma debolmente si discute e si lavora per limitare e per abolire gli armamenti, dall'altro, si continua a sviluppare e a perfezionare la capacità distruttiva degli apparati militari.

Di nuovo viene meno il terrore e l'esecuzione della guerra come mezzo vano per risolvere con la forza le questioni internazionali, mentre in diversi punti della terra esplodono in scintille paurose episodi bellici, estenuando la capacità mediatrice degli organi istituiti per mantenere sicurezza alla pace e per rivendicare al metodo delle libere e onorevoli trattative diplomatiche la prerogativa esclusiva delle procedure risolutive.

Risorge così l'egoismo politico o ideologico come espressiva direttiva della vita dei popoli; si attenta alla tranquillità di intere nazioni organizzandovi dal di fuori propagande sovversive e disordini rivoluzionari; si abusa perfino della declamazione pacifista per favorire contrasti sociali e politici
Risorgono l'egoismo, l'interesse esclusivista, la tensione passionale, l'odio fra i popoli; e viene meno il culto della lealtà, della fratellanza e della solidarietà; viene meno l'amore!

Se la sicurezza dei popoli riposa ancora sull'ipotesi d'un legittimo e collettivo impiego della forza armata, Noi dobbiamo ricordare che la sicurezza può riposare ancor più sullo sforzo della mutua comprensione, su la generosità d'una leale e vicendevole fiducia, sullo spirito di collaborazione programmatica, in comune vantaggio ed in aiuto specialmente ai Paesi in via di sviluppo. Riposa cioè sull'amore!
Ed è ancora di quest'aurea parola che Noi faremo menzione ed elogio per distendere sulle memorie delle atroci guerre passate il candido manto della pace.

Lo vorremmo disteso sui cimiteri di guerra, affinché fossero in essi composte le salme dei caduti che ancora attendono il gesto dell'ultima umana pietà e aspettano che gli orfani parenti le possano visitare e onorare; ed affinché il tragico sonno di tante vittime tenesse sveglio nelle generazioni superstiti e successive l'ammonitrice memoria del terribile dramma che non deve ripetersi più!
Lo vorremmo innalzato, come vessillo d'amicizia e di speranza, sopra i padiglioni dei consessi internazionali, a gloria ed a conforto di quanti con sapienza e con rettitudine lavorano per rendere i popoli fratelli.

Lo vorremmo trasfigurato nell'orizzonte della storia presente e futura, quasi a lasciar trasparire che la sua luce ideale non può che venire dal sole del Dio vivente:  senza la fede in Dio, come può essere la pace sincera, libera e sicura?

Uomini di buona volontà! ascoltate la Nostra umile voce, fraterna e paterna, che rievocando le memorie incancellabili dei due immani conflitti non proietta sulla scena presente del mondo fantasmi vuoti e paurosi, ma vuol far giungere nell'intimo dei cuori l'invito alla riflessione saggia e responsabile, l'esortazione a collocare sopra ogni interesse, sopra ogni valore quello dell'umana dignità e della fraterna concordia, il presagio della letizia e della prosperità, che non possono mai più nascere dalla guerra, ma dalla pace nella sincerità e nella bontà.


(©L'Osservatore Romano - 26 agosto 2009)
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27/08/2009 15:25

Vent'anni fa la lettera apostolica di Giovanni Paolo II  in occasione del 50° anniversario dell'inizio della seconda guerra mondiale

«Mi hai gettato nella fossa profonda»


Vent'anni fa, il 27 agosto 1989, in occasione del 50º anniversario dell'inizio della seconda guerra mondiale, veniva resa nota la lettera apostolica di Giovanni Paolo II che oggi ripubblichiamo.

Ai miei fratelli nell'Episcopato,
ai sacerdoti e alle famiglie religiose,
ai figli e alle figlie della Chiesa, i governanti,
a tutti gli uomini di buona volontà.
L'ora delle tenebre
"Mi hai gettato nella fossa profonda, nelle tenebre e nell'ombra di morte" (Salmi, 88[87], 7). Quante volte questo grido di sofferenza si è dovuto levare dal cuore di milioni di donne e di uomini che, dal 1° settembre 1939 alla fine dell'estate 1945, sono stati scossi da una delle tragedie tra le più devastanti e tra le più disumane della nostra storia!
Mentre l'Europa era ancora sotto il trauma dei colpi di forza, che erano stati perpetrati dal Reich e che avevano condotto all'annessione dell'Austria, allo smembramento della Cecoslovacchia e alla conquista dell'Albania, il primo giorno del mese di settembre 1939, la Polonia si vedeva invasa ad Occidente dalle truppe tedesche e, il 17 dello stesso mese, ad Oriente dall'Armata Rossa. La distruzione dell'esercito polacco e il martirio di un intero popolo dovevano purtroppo essere il preludio alla sorte che sarebbe stata ben presto riservata a numerosi popoli europei e, successivamente e nella maggior parte dei cinque continenti, a molti altri.



Infatti, sin dal 1940 i Tedeschi occuparono la Norvegia, la Danimarca, l'Olanda, il Belgio e metà della Francia. Durante quel periodo, l'Unione Sovietica, già ampliatasi con una parte della Polonia, si annetteva l'Estonia, la Lettonia e la Lituania e toglieva sia la Bessarabia alla Romania che alcuni territori alla Finlandia.
Poi, come un fuoco distruttore che si propaga, la guerra e i drammi umani, che inesorabilmente l'accompagnano, cominciarono a debordare rapidamente dalle frontiere del "vecchio continente" per divenire "mondiali". Da una parte, la Germania e l'Italia portarono i combattimenti oltre i Balcani e nell'Africa mediterranea, e, dall'altra, il Reich invase improvvisamente la Russia. Infine, nel distruggere Pearl-Harbour, i Giapponesi spinsero gli Stati Uniti d'America in guerra a fianco della Gran Bretagna. Terminava l'anno 1941.
Fu necessario attendere il 1943, con il successo della controffensiva russa che liberò la città di Stalingrado dalla morsa tedesca, perché si producesse una svolta nella storia della guerra. Le forze alleate da una parte e le truppe sovietiche dall'altra riuscirono, al prezzo di combattimenti accaniti che, dall'Egitto a Mosca, inflissero sofferenze indicibili a milioni di civili indifesi, a sconfiggere la Germania. Questa, l'8 maggio 1945, offerse la propria incondizionata capitolazione.
Ma la lotta continuò nel Pacifico, Per affrettarne il termine, due bombe atomiche, all'inizio del mese di agosto dello stesso anno, furono lanciate sulle città giapponesi di Hiroshima e di Nagasaki. All'indomani di questo spaventoso avvenimento, il Giappone presentò a sua volta la domanda di capitolazione. Era il 10 agosto 1945.
Nessun'altra guerra ha talmente meritato il nome di "guerra mondiale". Essa fu pure totale, infatti non è possibile dimenticare che alle operazioni militari terrestri si aggiunsero combattimenti aerei e navali in tutti i cieli e i mari del globo. Intere città furono soggette a distruzioni impietose, che immersero popolazioni terrorizzate nell'angoscia e nella miseria. Roma stessa fu minacciata e l'intervento di Papa Pio XII evitò all'"Urbe" di diventare un campo di battaglia.
Ecco il buio quadro degli avvenimenti dei quali oggi facciamo memoria. Questi fatti provocarono la morte di cinquantacinque milioni di persone, lasciarono i vincitori divisi e l'Europa da ricostruire.

Ricordarsi

Cinquant'anni dopo, abbiamo il dovere di ricordarci davanti a Dio di quei fatti drammatici, per onorare i morti e per compiangere tutti quelli che questo dilagare di crudeltà, ha feriti nel cuore e nel corpo, completamente perdonando le offese.
Nella mia sollecitudine per tutta la Chiesa e nella mia attenzione al bene dell'intera umanità, non potevo lasciar trascorrere questo anniversario senza invitare i fratelli nell'Episcopato, i sacerdoti, i fedeli come pure tutti gli uomini di buona volontà a riflettere sul processo che ha condotto tale conflitto sino agli abissi della disumanità e della desolazione.
Sento, infatti il dovere di ricavare una lezione da quel passato perché non si possa mai più rinnovare il fascio di cause capaci di innescare nuovamente un'analoga conflagrazione.
È ormai noto per esperienza che la divisione arbitraria di nazioni, lo spostamento forzato di popolazioni, il riarmo senza limiti, l'uso incontrollato di armi sofisticate, la violazione dei diritti fondamentali delle persone e dei popoli, la non osservanza delle regole di comportamento internazionale come l'imposizione di ideologie totalitarie non possono che condurre alla rovina dell'umanità.

Azione della Santa Sede

Dall'inizio del suo pontificato, il 2 marzo 1939, Papa Pio XII non mancò di lanciare un appello per la pace, che tutti erano concordi nel considerare seriamente minacciata. Alcuni giorni prima dello scoppio delle ostilità, il 24 agosto 1939, egli pronunciò delle parole premonitrici, l'eco delle quali riecheggia ancora:  "Un'ora grave suona nuovamente per la grande famiglia umana (...). Imminente è il pericolo, ma è ancora tempo. Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra" (Nuntius radiophonicus, die 24 augusti 1939:  "Acta Apostolicae Sedis" 31 [1939] 333-334).



Purtroppo l'avvertimento di quel grande Pontefice non fu affatto ascoltato e il disastro arrivò. Non avendo potuto contribuire ad evitare la guerra, la Santa Sede si sforzò - nei limiti dei suoi mezzi - di circoscriverne l'estensione. Il Papa ed i suoi collaboratori vi lavorarono incessantemente, sia a livello diplomatico che nell'ambito umanitario, senza lasciarsi trascinare a schierarsi da una parte o dall'altra, in un conflitto che opponeva popoli di ideologie e religioni differenti. In questo lavoro la loro preoccupazione fu anche quella di non aggravare la situazione e di non compromettere la sicurezza delle popolazioni sottomesse a prove non comuni. Ascoltiamo ancora Papa Pio XII, quando a proposito di ciò che accadeva in Polonia, dichiarò:  "Noi dovremmo dire parole di fuoco contro simili cose, e la sola ragione che ce ne dissuade è di sapere che, se parlassimo, renderemmo ancora più dura la condizione di quegli sfortunati" (Actes et Documents du Saint-Siège relatifs à la seconde guerre mondiale, 1970, vol. i, p. 455).
Alcuni mesi dopo la conferenza di Yalta (4-11 febbraio 1945) e all'indomani della fine della guerra in Europa, lo stesso Papa, indirizzandosi - il 2 giugno 1945 - al sacro Collegio, non mancò di rivolgere la propria attenzione al futuro del mondo e di perorare la vittoria del diritto:  "Le Nazioni, segnatamente quelle medie e piccole, reclamano che sia loro dato di prendere in mano i propri destini. Esse possono essere condotte a contrarre, con il loro pieno gradimento, nell'interesse del progresso comune, vincoli che modifichino i loro diritti sovrani. Ma dopo aver sostenuto la loro parte, la loro larga parte, di sacrifici per distruggere il sistema della violenza brutale, esse sono nel diritto di non accettare che venga loro imposto un nuovo sistema politico o culturale che la grande maggioranza delle loro popolazioni recisamente respinge (...). Nel fondo della loro coscienza i popoli sentono che i loro reggitori si screditerebbero se, al folle delirio di un'egemonia della forza, non facessero seguire la vittoria del diritto" ("Acta Apostolicae Sedis", 37 [1945] 166).

L'uomo disprezzato

Questa "vittoria del diritto" resta la miglior garanzia del rispetto delle persone. Ora, quando ci si volge a quei sei, terribili anni, non si può che essere giustamente inorriditi per il disprezzo di cui l'uomo e stato oggetto.
Alle rovine materiali, all'annientamento delle risorse agricole e industriali dei paesi devastati da combattimenti e distruzioni, che sono giunte sino all'olocausto nucleare di due città giapponesi, si sono aggiunti massacri e miseria.
Penso, in particolare, alla sorte crudele che fu inflitta alle popolazioni delle grandi pianure dell'Est. Io stesso ne sono stato lo scosso testimone a fianco dell'Arcivescovo di Cracovia monsignor Adam Stefan Sapieha. Le disumane richieste dell'occupante del momento hanno colpito in modo brutale gli oppositori e le persone sospette, mentre le donne, i bambini ed i vecchi erano sottomessi a costanti umiliazioni.
Non si può neppure dimenticare il dramma causato dallo spostamento forzato di popolazioni, che furono gettate sulle strade d'Europa, esposte ai pericoli, in cerca di un rifugio e di mezzi per vivere.
Una speciale menzione deve essere, altresì, fatta per i prigionieri di guerra che, nell'isolamento, nella spoliazione e nell'umiliazione, hanno anch'essi pagato, dopo l'asprezza dei combattimenti, un altro pesante tributo.
È doveroso infine ricordare che la creazione di governi imposti dall'occupante negli Stati dell'Europa centrale e orientale è stata accompagnata da misure repressive ed anche da una moltitudine di esecuzioni capitali, per sottomettere le popolazioni refrattarie.

Le persecuzioni contro gli Ebrei

Ma, fra tutte quelle misure antiumane, ve ne è una che resta per sempre una vergogna per l'umanità:  la barbarie pianificata che si è accanita contro il popolo ebraico.
Oggetto della "soluzione finale" pensata da un'ideologia aberrante, gli Ebrei sono stati sottomessi a privazioni e brutalità a malapena descrivibili. Perseguitati inizialmente mediante misure vessatorie o discriminatorie, essi, poi, finirono a milioni nei campi di sterminio.
Gli Ebrei in Polonia, più di altri, hanno vissuto quel calvario:  le immagini dell'assedio del ghetto di Varsavia, come le notizie apprese sui campi di concentramento di Auschwitz, di Majdanek o di Treblinka superano quanto si può umanamente concepire.
Va pure ricordato che questa follia omicida si è abbattuta su molti altri gruppi, che avevano il torto di essere "differenti" o ribelli alla tirannia dell'occupante.
In occasione di questo doloroso anniversario, faccio appello ancora una volta a tutti gli uomini, invitandoli a superare i pregiudizi ed a combattere tutte le forme di razzismo, accettando di riconoscere in ogni persona umana la dignità fondamentale e il bene che vi dimorano, a prendere sempre più coscienza di appartenere ad un'unica famiglia umana voluta e riunita da Dio.
Desidero qui ridire con forza che l'ostilità o l'odio verso l'ebraismo sono in completa contraddizione con la visione cristiana della dignità dell'uomo.

Le prove della Chiesa cattolica

Il nuovo paganesimo e i sistemi, che gli erano connessi, si accanivano certamente contro gli Ebrei, ma si indirizzavano del pari contro il cristianesimo, il cui insegnamento aveva formato l'anima dell'Europa. Mediante la persecuzione del popolo, da cui "proviene Cristo secondo la carne" (Romani, 9, 5), il messaggio evangelico della pari dignità di tutti i figli di Dio veniva schernito.
Il mio predecessore, il Papa Pio XI mostrò la consueta lucidità quando, nell'enciclica Mit brennender Sorge, dichiarò:  "Chiunque eleva la razza o il popolo, o lo Stato o una delle sue forme determinate, i depositari del potere o di altri elementi fondamentali della società umana (...) a regola suprema di tutto, anche dei valori religiosi, e li divinizza con un culto idolatrico, questi perverte ed altera l'ordine delle cose creato e voluto da Dio" (Mit Brennender Sorge, die 14 martii 1937; "Acta Apostolicae Sedis, 29 [1937] 149 et 171).
Questa pretesa dell'ideologia del sistema nazionalsocialista non risparmiò le Chiese, e la Chiesa cattolica in particolare la quale, prima e durante il conflitto, conobbe anch'essa la passione. La sua sorte non è stata certamente migliore nelle contrade, dove si impose l'ideologia marxista del materialismo dialettico.
Tuttavia, dobbiamo rendere grazie a Dio per i numerosi testimoni, noti e ignoti, che - in quelle ore di tribolazione - hanno avuto il coraggio di professare intrepidamente la fede, che hanno saputo ergersi contro l'arbitrio ateo e che non si sono piegati sotto la forza.

Totalitarismo e religione

Infatti, in ultima analisi, il paganesimo nazista e il dogma marxista hanno in comune il fatto di essere delle ideologie totalitarie, con una tendenza a divenire delle religioni sostitutive.
Già ben prima del 1939, in certi settori della cultura europea appariva una volontà di cancellare Dio e la sua immagine dall'orizzonte dell'uomo. Si iniziava a indottrinare in tal senso i fanciulli, fin dalla loro più tenera età.
L'esperienza ha sfortunatamente mostrato che l'uomo consegnato al solo potere dell'uomo, mutilato nelle sue aspirazioni religiose, diventa presto un numero o un oggetto. D'altro canto, nessuna epoca dell'umanità è sfuggita al rischio del chiuso ripiegamento dell'uomo su se stesso, in un atteggiamento di orgogliosa sufficienza. Ma tale rischio si è accentuato in questo secolo nella misura in cui la forza delle armi, la scienza e la tecnica hanno potuto dare all'uomo contemporaneo l'illusione di diventare il solo padrone della natura e della storia. Questa è la pretesa che si trova alla base degli eccessi che deploriamo.
L'abisso morale, nel quale il disprezzo di Dio - e quindi dell'uomo - ha cinquant'anni or sono gettato il mondo, ci fa toccare con mano la potenza del "Principe di questo mondo" (Giovanni, 14, 30), che può sedurre le coscienze con la menzogna, con il disprezzo dell'uomo e del diritto, con il culto del potere e della potenza.
Oggi noi ricordiamo tutto ciò e meditiamo sugli estremismi, cui può condurre l'abbandono di ogni riferimento a Dio e di ogni legge morale trascendente.

Rispettare i diritti dei popoli

Ma quanto è vero per l'uomo è vero anche per i popoli. Commemorare gli avvenimenti del 1939 significa ricordare che l'ultimo conflitto mondiale ha avuto come causa l'annientamento sia dei diritti dei popoli che di quelli delle persone. L'ho ricordato ieri, indirizzandomi alla Conferenza Episcopale Polacca.
Non c'è pace se i diritti di tutti i popoli - e particolarmente di quelli più vulnerabili - non sono rispettati! L'intero edificio del diritto internazionale poggia sul principio dell'uguale rispetto degli Stati, del diritto all'autodeterminazione di ciascun popolo e della libera cooperazione in vista del superiore bene comune dell'umanità.
È essenziale che oggi situazioni analoghe a quella della Polonia del 1939, devastata e frantumata a piacimento da invasori senza scrupoli, non si riproducano più. A tal riguardo non si può impedire di pensare ai paesi, che non hanno ancora ottenuto la loro piena indipendenza, ed a quelli che sono sotto la minaccia di perderla. In tale contesto e in questi giorni è necessario evocare il caso del Libano, dove forze congiunte, che perseguono loro propri interessi, non esitano a mettere in pericolo l'esistenza stessa di una nazione.
Non dimentichiamo che l'Organizzazione delle Nazioni Unite è nata, dopo il secondo conflitto mondiale, quale strumento di dialogo e di pace, fondato sul rispetto della eguaglianza dei diritti dei popoli.

Il disarmo

Ma una delle condizioni essenziali di questo "vivere insieme" è il disarmo.
Le terribili prove subite dai militari e dalle popolazioni civili, al tempo dell'ultimo conflitto mondiale, non possono che incitare i responsabili delle nazioni a fare tutto il possibile perché senza tardare si arrivi all'elaborazione di processi di cooperazione, di controllo e di disarmo, che rendano la guerra impensabile. Chi oserebbe giustificare ancora l'uso delle armi più crudeli, che uccidono gli uomini e distruggono le loro realizzazioni, per risolvere le vertenze tra gli Stati? Come ho avuto occasione di dire:  "La guerra è in sé irrazionale e (...) il principio etico del regolamento pacifico dei conflitti è la sola via degna dell'uomo" (Nuntius ob diem ad pacem fovendam dicatum pro anno Domini 1984", 4, die 8 decembris 1983:  Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VI, 2 [1983] 1278).
È per questo che noi non possiamo che accogliere con favore i negoziati in corso per il disarmo nucleare e convenzionale come per la messa al bando totale delle armi chimiche ed altre. La Santa Sede a più riprese ha dichiarato che stima necessario che le parti giungano almeno ad un livello di armamento che sia il più basso possibile compatibilmente con le loro esigenze di sicurezza e di difesa.
Questi passi promettenti avranno tuttavia possibilità di successo solamente nel caso siano sostenuti e accompagnati da una volontà di intensificare in pari modo la cooperazione negli altri ambiti, specificatamente quelli economici e culturali. L'ultima riunione della conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, tenutasi recentemente a Parigi sul tema della "dimensione umana", ha registrato l'auspicio, espresso da paesi delle due parti d'Europa, di veder instaurato ovunque il regime dello Stato di diritto. Questa forma di Stato appare, infatti, come il migliore garante dei diritti della persona, ivi compreso il diritto alla libertà religiosa, il cui rispetto è un elemento insostituibile della pace sociale e internazionale.

Educare le giovani generazioni

Edotti dagli errori e dalle deviazioni del passato, gli Europei d'oggi hanno ormai il dovere di trasmettere alle giovani generazioni uno stile di vita e una cultura ispirata dalla solidarietà e dalla stima per l'altro. A tal riguardo, il cristianesimo, che ha forgiato così profondamente i valori spirituali di detto continente, dovrebbe essere una fonte di costante ispirazione:  la sua dottrina sulla persona creata ad immagine di Dio non può che contribuire allo sviluppo di un umanesimo rinnovato.
Nell'inevitabile dibattito sociale, dove si affrontano differenti concezioni della società, gli adulti devono darsi l'esempio del rispetto reciproco, sapendo sempre riconoscere la parte di verità che è nell'altro.
In un continente con non pochi contrasti, bisogna che le persone, le etnie ed i paesi di cultura, di credenza o di sistema sociale differenti reimparino incessantemente la mutua accettazione.
Gli educatori ed i mass-media hanno a tal riguardo un ruolo fondamentale. Purtroppo è giocoforza costatare che l'educazione al rispetto della dignità della persona creata a immagine di Dio non è certamente favorita dagli spettacoli di violenza o di depravazione che troppo frequentemente sono diffusi dai mezzi di comunicazione sociale:  le giovani coscienze in via di formazione ne sono turbate e il senso morale degli adulti ne è ottenebrato.

Moralizzare la vita pubblica

La vita pubblica, in effetti, non può prescindere dai criteri etici. La pace si propaga in primo luogo sul terreno dei valori umani, vissuti e trasmessi dai cittadini e dai popoli. Quando si sfilaccia il tessuto morale di una nazione, tutto è da temere.
La vigile memoria del passato dovrebbe rendere i nostri contemporanei attenti agli abusi sempre possibili nell'esercizio della libertà, che la generazione di quest'epoca ha conquistato al prezzo di molti sacrifici. L'equilibrio fragile della pace potrebbe essere compromesso qualora nelle coscienze si risveglino mali come l'odio razziale, il disprezzo per lo straniero, la segregazione del malato o del vecchio, l'emarginazione del povero, il ricorso alla violenza privata e collettiva.
Spetta ai cittadini il saper distinguere tra le proposte politiche quelle che si ispirano alla ragione ed ai valori morali, ed è compito degli Stati il vigilare a che siano bloccate le cause dell'esasperazione o dell'insofferenza di uno o dell'altro gruppo svantaggiato della società.

Appello all'Europa

A voi, uomini di governo e responsabili delle nazioni, ridico ancora una volta la mia profonda convinzione che il rispetto di Dio e il rispetto dell'uomo vanno di pari passo. Essi costituiscono il principio assoluto che permetterà agli Stati e ai blocchi politici di andare oltre i loro antagonismi.
Non possiamo dimenticare, in particolare, l'Europa dove è nato quel terribile conflitto e che per sei anni ha vissuto una vera "passione", che l'ha rovinata e resa esangue. Sin dal 1945, siamo testimoni e attori di lodevoli sforzi condotti felicemente a termine in vista della sua ricostruzione materiale e spirituale.
Ieri, questo continente ha esportato la guerra; oggi gli spetta di essere "artefice di pace". Confido che il messaggio di umanesimo e di liberazione, eredità della sua storia cristiana, saprà ancora fecondare i suoi popoli e continuerà ad irradiarsi nel mondo.



Sì, Europa, tutti ti guardano, coscienti che tu hai sempre qualcosa da dire, dopo il naufragio di quegli anni di fuoco:  che la vera civiltà non è nella forza, che essa è frutto della vittoria su noi stessi, sulle potenze dell'ingiustizia, dell'egoismo e dell'odio, che possono giungere sino a sfigurare l'uomo!

Indirizzo ai cattolici

Terminando, desidero rivolgermi in modo tutto particolare ai pastori e ai fedeli della Chiesa cattolica.
Abbiamo or ora ricordato una delle guerre più omicide della storia, nata in un continente di tradizione cristiana.
Una tale constatazione non può che incitarci ad un esame di coscienza sulla qualità dell'evangelizzazione dell'Europa. La caduta dei valori cristiani, che ha favorito gli errori di ieri, deve renderci vigili circa la modalità con cui oggi il Vangelo è annunciato e vissuto.
Dobbiamo purtroppo osservare che in molti ambiti della sua esistenza l'uomo moderno pensa, vive e lavora come se Dio non esistesse. Esiste qui lo stesso pericolo di ieri:  l'uomo consegnato al potere dell'uomo.
Mentre l'Europa si appresta ad assumere un nuovo volto, mentre sviluppi positivi hanno luogo in certi paesi della sua parte centrale ed orientale e mentre i responsabili delle nazioni collaborano sempre più alla soluzione dei grandi problemi dell'umanità, Dio chiama la sua Chiesa a portare il proprio contributo all'avvento di un mondo più fraterno.
Con le altre Chiese cristiane, malgrado la nostra imperfetta unità, noi vogliamo ridire all'umanità d'oggi che l'uomo è vero solo quando si riconosce di Dio, come creatura; che l'uomo è cosciente della sua dignità solo quando riconosce in sé e negli altri l'impronta di Dio che l'ha creato a sua immagine; che egli è grande solo nella misura in cui fa della sua vita una risposta all'amore di Dio e si mette al servizio dei fratelli.
Dio non dispera dell'uomo. Cristiani, neppure noi possiamo disperare dell'uomo, perché sappiamo che egli è sempre più grande dei suoi errori e delle sue colpe.
Ricordandoci della beatitudine un tempo pronunciata dal Signore:  "Beati gli operatori di pace" (Matteo, 5, 9), desideriamo invitare tutti gli uomini a perdonare e a mettersi gli uni a servizio degli altri, a causa di colui che, nella sua carne, ha una volta per tutte "ucciso l'odio" (Efesini, 2, 16).
A Maria, regina della pace, affido questa umanità, raccomandando alla sua materna intercessione la storia di cui noi siamo gli attori.
Affinché il mondo non conosca più la disumanità e la barbarie, che l'hanno devastato cinquant'anni fa, annunciamo senza stancarci il "Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ora abbiamo ottenuto la riconciliazione" (Romani, 5, 11), pegno della riconciliazione di tutti gli uomini tra di loro.
Che la sua pace e la sua benedizione siano con tutti voi!


(©L'Osservatore Romano - 27 agosto 2009)
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27/08/2009 18:54

  Pio XII e i successori allo scoppio del secondo conflitto mondiale

Sguardo da Papa


di Marco Roncalli

"Un'ora grave suona nuovamente per la grande famiglia umana, ora di tremende deliberazioni (...) È con la forza della ragione, non con quella delle armi che la Giustizia si fa strada. E gl'imperi non fondati sulla Giustizia non sono benedetti da Dio. (...) Imminente è il pericolo, ma è ancora tempo. Nulla è perduto con la pace. (...) Ci ascoltino i forti, per non diventar deboli nella ingiustizia". Era la sera del 24 agosto 1939:  falliti diversi tentativi diplomatici e appresa la notizia del patto di non aggressione tra la Germania di Hitler e l'Unione Sovietica di Stalin con l'annesso protocollo segreto sulla spartizione dell'Europa centro-orientale e in particolare della Polonia, da Castel Gandolfo dove trascorreva l'estate, così Pio XII lanciava alla radio il suo appello per scongiurare la guerra. Accanto a lui il sostituto della Segreteria di Stato, Giovanni Battista Montini, in gran parte autore del testo che stava pronunciando.



Un invito estremo disatteso. L'1 settembre, senza un comunicato ufficiale, le truppe tedesche attaccavano la Polonia, e il 3 settembre Francia e Inghilterra dichiaravano guerra alla Germania (legata all'Italia dal Patto di acciaio). Iniziava così il secondo conflitto mondiale. Angelo Giuseppe Roncalli, il futuro Giovanni XXIII, allora delegato apostolico in Turchia e Grecia, ma al momento in Italia per le vacanze, il 30 agosto - pur dopo aver parlato all'inizio del mese con l'ambasciatore tedesco in Turchia, Franz von Papen - scriveva sul suo diario:  "Io non credo ancora alla guerra vicina:  perché questa comunque riesca sarebbe la fine del fascismo e del nazismo. I capi lo sanno:  e non si può credere che si vogliano gettare ad occhi aperti nell'abisso che li inghiottirebbe. Inutile del resto tormentarsi interiormente fuor di misura. Il Signore tutto vede e tutto provvede per i suoi eletti. Il compito mio episcopale è di supplicare sine intermissione per la pace". Ma l'abisso si era già spalancato e una lunga notte stava calando sull'Europa. "Abbiamo passato, dall'ultima decade di agosto ad oggi, giornate laboriosissime, e attraversate dalle preoccupazioni di tutti, rese più intense per quello che di questo nuovo dramma di sangue è dato da vedere qui. (...) Si vedono cose molto penose, alcune anche da vicino, e non potendo altro, si offre questa sofferenza e questa stanchezza per quegli altri che soffrono di più":  così confidava Montini ai familiari il 4 settembre.

Nel numero ingente dei polacchi travolti dalla guerra c'era anche lo studente universitario Karol Wojtyla:  costretto a fuggire da Cracovia verso est, assieme al padre e a migliaia di concittadini nella speranza di sfuggire all'avanzata della Wehrmacht, salvo apprendere - dopo giornate di marcia - anche dell'invasione russa. A quel punto, meglio il rientro a casa, anche se la bandiera dalla croce uncinata sventolava già sul castello del Wawel e, occupata la città, i tedeschi avevano già organizzato la nuova vita consistente "nello stare in piedi in coda per il pane, o in spedizioni per trovare lo zucchero. E anche in un ardente desiderio di carbone, e di lettura", come scriveva a metà settembre il giovane Karol all'amico Mieczyslaw Kotlarczyk, fondatore del teatro rapsodico.

Queste immagini, tutto sommato ancora sopportabili, saranno però presto cancellate dal volto più crudele degli occupanti decisi ad annientare, assieme alla Polonia, anche la sua cultura. Nel frattempo, la Santa Sede - rimasta senza rappresentanti nel Paese dopo il trasferimento in esilio del Governo polacco, mentre i tedeschi impedivano al nunzio a Berlino, Cesare Orsenigo, di occuparsi della Polonia - manifestava la sua solidarietà come poteva. Ricevendo in udienza una delegazione guidata dal cardinale primate August Hlond, il 30 settembre così Pio XII si esprimeva:  "Cristo, che ha pianto sulla morte di Lazzaro e sulla rovina della sua patria, raccoglie, per ricompensarle un giorno, le lacrime che voi versate sui vostri cari morti e su questa Polonia che non vuole morire". Troppo poco però per il Governo francese, al quale avrebbe subito risposto Montini ricordando "che ogni parola contro la Germania e la Russia sarebbe amaramente scontata dai cattolici sottoposti ai regimi di queste nazioni, con pregiudizio della stessa compagine (...) che il discorso del Santo Padre non ha alcuna parola in favore della subdola pace a cui ora aspirano i vincitori; e che  non  si  può  dubitare  che  la Santa Sede non sia, in fatto di diritto e di giustizia, con quelli che intendono davvero combattere per questi ideali".

Rientrato a Istanbul, Roncalli ha già organizzato soccorsi ai profughi polacchi intensificando quell'esercizio della carità rimasto cifra di una vita intera, e il 30 settembre ha annotato sul diario:  "Il mio dovere di restare fuori dalla politica non può impedirmi di piangere sulla Polonia martirizzata ed uccisa. È una grande nazione cattolica che un'altra volta torna in schiavitù". E aggiunge:  "Quanto accade di questi giorni mette in più trista luce l'opera del principe delle tenebre qui ad perditionem animarum pervagatur in mundo. I due suoi rappresentanti più qualificati nell'ora presente si sono incontrati ed intesi:  governo germanico e bolscevismo russo. Sancte Michael arcangele, defende nos in proelio", conclude citando le ultime parole della preghiera in latino all'arcangelo. In Italia, Chiesa e regime si trovavano di fatto a un bivio, e se la spaccatura definitiva sarebbe arrivata solo più tardi con la crisi del fascismo, Mussolini non avrebbe però potuto contare sull'adesione vaticana alla sua scelta di entrare in guerra. Né la Chiesa cattolica - salvo piccole frange - l'avrebbe poi soccorso nel tenere alto il morale del Paese. Piuttosto, i suoi vertici, Papa Pacelli in testa, furono uniti nel riproporre la linea consolidata in continuità con il magistero precedente:  imparzialità e neutralità della Santa Sede, non disgiunta - in una lettura teologica - dall'individuazione delle ragioni della guerra nell'apostasia del mondo moderno dalla Chiesa, nella fragilità di ogni ordinamento puramente terreno. Una guerra dunque ancora come flagello con il quale Dio richiamava gli uomini al ristabilimento dell'ordine cristiano dal quale gli Stati si erano allontanati. Così molti parroci nelle omelie, così si ripeteva nei seminari.

E a proposito, anche se non ci sono documenti sulla sua prima reazione all'annuncio del conflitto, Albino Luciani era in quel momento vicerettore del Gregoriano di Belluno, piccolo seminario che contava allora poco meno di sessanta alunni, ai quali il futuro Giovanni Paolo I si trovò anche a insegnare diverse materie, là dove arrivarono solo gli echi delle bombe. Nella mobilitazione generale dei giovani italiani, anche Luciani, sottopostosi alla visita di leva, era stato arruolato; tuttavia, alla fine del settembre 1939, grazie al Concordato fra lo Stato italiano e la Santa Sede, era stato subito dispensato dal servizio militare, come dimostrano documenti custoditi nell'archivio della curia vescovile bellunese, potendo così continuare a svolgere la sua attività dentro quel luogo ignorato dalle autorità fasciste dove la vita di formazione continuò con regolarità. Nella disillusione di gran parte della Chiesa nei confronti del fascismo, anche se ciò non implicò volontà di rottura per timore dell'avvento del comunismo in Italia, almeno sino all'occupazione tedesca, quando le cose di fatto cambiarono un po' in tutto il Veneto e innanzi a tanti eventi luttuosi parecchi vescovi veneti - su tutti Girolamo Bortignon, alla guida di Belluno annessa al Terzo Reich - si distinsero nella difesa delle comunità loro affidate.

Oltralpe, il dodicenne Joseph Ratzinger era entrato proprio nel 1939 nel seminario di Traunstein, come scriverà nelle memorie:  "La guerra era ancora lontana da noi, ma il futuro stava davanti a noi inquietante, minaccioso e impenetrabile. Una conseguenza immediata dello scoppio della guerra fu che il nostro collegio venne requisito come lazzaretto. Di conseguenza io e mio fratello riprendemmo ad andare a scuola da casa nostra. Ma il direttore trovò una sistemazione provvisoria, dapprima nel centro termale della città (...) poi nel Collegio femminile delle dame inglesi, a Sparz, sopra la città. La casa era completamente vuota, dal momento che i nazisti avevano chiuso tutte le scuole religiose, così che i seminaristi e il corpo insegnante vi poterono trovare una sistemazione (...) Qui mi riconciliai con il seminario (...) Dovetti imparare ad adattarmi alla vita comune (...) sono grato di questa esperienza, essa è stata importante per la mia vita". E ancora:  "All'inizio la guerra parve quasi irreale. Dopo che Hitler ebbe brutalmente schiacciato la Polonia, in collaborazione con l'Unione Sovietica di Stalin, la situazione sembrò improvvisamente acquietarsi. Le potenze occidentali parevano incerte e sul fronte francese non succedeva praticamente nulla. Il 1940 fu l'anno dei grandi trionfi di Hitler. La Danimarca e la Norvegia vennero occupate; nel giro di poco tempo vennero sottomessi anche l'Olanda, il Belgio, il Lussemburgo e la Francia. Persino delle persone che erano contrarie al nazionalsocialismo provavano una sorta di soddisfazione patriottica:  Hubert Jedin, il grande storico dei Concili, più tardi mio collega di insegnamento a Bonn, dovette, per la sua origine ebraica, lasciare la Germania e trascorrere gli anni del potere hitleriano in esilio involontario in Vaticano (...) Mio padre vedeva con inalterabile chiarezza che la vittoria di Hitler non sarebbe stata una vittoria della Germania, ma dell'Anticristo, e sarebbe stato l'inizio dei tempi apocalittici per tutti i credenti, e non solo per loro. La guerra proseguiva il suo corso inesorabile".



L'impegno di Pio XII, del futuro Paolo VI, della diplomazia della Santa Sede (specie di rappresentanti come Roncalli), dell'Ufficio informazioni del Vaticano per i prigionieri di guerra attivo dal 1939 al 1947, è ben documentato dagli archivi vaticani e non solo. Di questo periodo Wojtyla scriverà:  "Del grande e orrendo theatrum della seconda guerra mondiale mi fu risparmiato molto. Ogni giorno avrei potuto essere prelevato dalla casa, dalla cava di pietra, dalla fabbrica per essere portato in un campo di concentramento. A volte mi domandavo:  tanti miei coetanei perdono la vita, perché non io? Oggi so che non fu a caso".

Nel 1943, il sedicenne Joseph Ratzinger, con gli altri seminaristi della sua classe, reclutato nei servizi di contraerea a Monaco, venne poi trasferito a Gilching, assegnato ai servizi telefonici e dispensato dalle esercitazioni militari con la possibilità di frequentare il Maximilian Gymnasium:  "Ma era terribile dover constatare ogni volta delle nuove distruzioni (...) In questa situazione la maggior parte di noi vedeva come una speranza l'invasione della Francia da parte degli Alleati (...) C'era in fondo una diffusa fiducia nelle potenze occidentali (...) Ma chi di noi avrebbe vissuto tutto questo? Nessuno poteva essere sicuro di uscire vivo da quell'inferno". Invece ce l'avrebbe fatta. Non prima di nuove esperienze come il Servizio lavorativo del Reich nel Burgenland dove fu ripetutamente umiliato da nazisti fanatici, poi la chiamata alle armi vera e propria, che lo vide assegnato alla caserma di fanteria del paese natale, e infine l'internamento in un campo come prigioniero di guerra all'arrivo degli Alleati in cui aveva riposto fiducia, sino al congedo dopo i controlli di rito il 19 giugno 1945.

Poco dopo, l'ingresso nel seminario di Frisinga, fino a quel momento adibito a ospedale militare per prigionieri di guerra stranieri, e quindi la formazione a Monaco. Dove gli studenti, a causa della mancanza di spazio per le distruzioni belliche, dormivano su letti a castello. E dove a Joseph sembrava di trovarsi ancora nella batteria antiaerea. Spazzato via il totalitarismo che alla coscienza aveva sostituito Hitler, il giovane Ratzinger aveva però già scoperto - leggendo pagine di Newman - "che il "noi" della Chiesa non si fondava sull'eliminazione della coscienza, ma poteva svilupparsi solo a partire dalla coscienza".


(©L'Osservatore Romano - 28 agosto 2009)
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28/08/2009 21:17

  L'intervento profetico di Pio XII nel contesto europeo alla vigilia della guerra mondiale

Gli imperi senza giustizia non sono benedetti da Dio


di Roberto Pertici

Eugenio Pacelli fu eletto Papa il 2 marzo 1939 e incoronato il successivo 12 marzo. Tre giorni dopo, la Germania nazista invadeva la Cecoslovacchia, aprendo una fase drammaticamente nuova nella politica continentale, che nel giro di cinque mesi e mezzo avrebbe portato allo scoppio della guerra europea. Fino ad allora Hitler - sia pure con una spregiudicatezza e un'ostentazione di forza assolutamente inedite - non si era in fondo distaccato da una politica "revisionistica" del trattato di Versailles, alla quale praticamente tutta l'opinione pubblica tedesca si era mostrata favorevole fin dagli anni Venti. Gli stessi partiti che avevano appoggiato la repubblica di Weimar avevano giudicato quel trattato un diktat ingiusto e punitivo:  fra l'altro, esso aveva distaccato dalla madrepatria un gran numero di tedeschi, che ora si ritrovavano nella non invidiabile posizione di "minoranze etniche" nei paesi confinanti.

La classe dirigente della repubblica - si pensi all'azione internazionale del ministro degli Esteri Gustav Stresemann - aveva cercato di precostituire un terreno favorevole alla revisione del trattato attraverso il ritorno della Germania nel club delle grandi potenze europee, il suo ingresso nella Società delle Nazioni, una politica di accordo con la Francia, addirittura col vagheggiamento di una futura federazione europea:  insomma con una politica estera "democratica" e "societaria". Dopo la sua Machtergreifung ("presa del potere") all'inizio del 1933, Hitler ne aveva adottata una ben diversa (uno dei suoi primi atti era stato proprio l'abbandono della Società delle Nazioni), basata sul riarmo, sulla minaccia della guerra, sul ricorso alle vie di fatto:  si deve riconoscere che essa gli aveva procurato un successo dopo l'altro (riannessione plebiscitaria della Saar, rimilitarizzazione della Renania, Anschluss dell'Austria), ingigantendone l'immagine nell'opinione pubblica tedesca, ma anche al di fuori della Germania.

Questa serie di successi era stata resa possibile anche dalla risposta delle potenze occidentali:  mentre gli Stati Uniti restavano fedeli alle scelte isolazionistiche dell'immediato dopoguerra, Francia e Gran Bretagna condussero una politica rimasta nota col nome di appeasement, che era mossa - come la migliore storiografia ormai riconosce - da ragioni non tutte spregevoli, ma che certo diede a Hitler l'impressione di potere continuamente e impunemente giocare al rialzo. Tale politica culminò nella conferenza di Monaco, alla fine di settembre del 1938, dove Chamberlain e Daladier sacrificarono l'integrità territoriale della repubblica cecoslovacca, loro tradizionale alleata, per esaudire le richieste tedesche sui Sudeti (ma della disgregazione della Cecoslovacchia avrebbero approfittato anche la Polonia e l'Ungheria).



Ora, con l'invasione del 15 marzo 1939 e la proclamazione di un protettorato tedesco sulla Boemia e la Moravia, la Germania nazista andava decisamente oltre ogni rivendicazione "revisionistica" e - si potrebbe dire - gettava la maschera:  mostrava cioè il carattere assolutamente espansionistico della sua politica internazionale. Il successivo 21 marzo, il governo di Berlino rinnovava alla Polonia le richieste già presentate altre tre volte, a partire dal 24 ottobre dell'anno precedente:  la restituzione della città libera di Danzica, abitata da una maggioranza tedesca, e il consenso alla costruzione di una autostrada e di una ferrovia extraterritoriali tra la Germania e la Prussia Orientale, che il trattato di Versailles aveva resa un'enclave tedesca in terra polacca con la creazione del cosiddetto "corridoio di Danzica".

La risposta franco-inglese non si fece attendere:  alla fine di marzo, i governi di Londra e di Parigi annunciarono che avrebbero garantito l'indipendenza e l'integrità territoriale della Polonia contro eventuali aggressori, facendo così intendere che la politica di appeasement era finita e che un attacco a Varsavia avrebbe comportato una guerra generale in Europa. Si è molto discusso sulle possibilità concrete - praticamente nulle - che gli alleati occidentali avevano di portare aiuto a una Polonia aggredita e sui motivi per cui analoghe garanzie non fossero offerte all'Unione Sovietica, visto che solo una grande alleanza tra Francia, Gran Bretagna, Unione Sovietica e Polonia avrebbe potuto rallentare l'escalation hitleriana:  Stalin vi scorse una conferma del proposito da lui attribuito alle potenze occidentali di dirottare verso l'Unione Sovietica l'aggressività germanica, proposito che nei fatti non esisteva, ma che il dittatore georgiano dava per scontato.

Questo era l'inquietante panorama internazionale che il nuovo Pontefice si trovò davanti:  lo affrontò con uno staff di collaboratori di prim'ordine, come il segretario di Stato cardinale Maglione, che proveniva da una lunga carriera diplomatica culminata nella nunziatura di Francia, il sostituto monsignor Montini e il segretario degli Affari ecclesiastici straordinari, monsignor Tardini. Tre uomini assai diversi fra loro per personalità e stile, che lavoravano spesso con una notevole penuria di mezzi e di informazioni, ma a cui gli osservatori contemporanei erano concordi nell'attribuire un intuito straordinario sugli uomini e sulle cose.
Si è molto scritto, anche di recente, sul diverso atteggiamento che Pio XII avrebbe mostrato rispetto al suo predecessore e si è tornato a rimproverargli l'approccio diplomatico e pragmatico alla crisi del 1939, rispetto a quello "profetico" dell'ultimo Pio XI. Ma tutte queste osservazioni non tengono alcun conto, appunto, del turning point costituito dall'invasione tedesca di Praga. Con grande acutezza e assoluto realismo lo notava già negli anni Ottanta Owen Chadwick, confrontandosi coi diari e la corrispondenza diplomatica del ministro britannico presso la Santa Sede, Osborne:  "La politica vaticana - annotava lo storico inglese - cambiò dall'oggi al domani. In parte era una questione di priorità. Pio XI aveva denunciato il maltrattamento delle Chiese da parte dei nazisti, o si era opposto alle misure antisemitiche di Mussolini, e in generale aveva difeso la giustizia e la libertà. Tutti questi obiettivi validi furono ritenuti improvvisamente secondari rispetto a uno scopo supremo, quello di aiutare le potenze europee a non distruggersi reciprocamente. Per il Vaticano, quindi, in quel momento non serviva un Papa che imitasse Pio XI nel denunciare il razzismo, l'antisemitismo e l'idolatria dello Stato. Le denunce aumentano la tensione. Questa era la convinzione del Papa e dei suoi stretti collaboratori. Era anche l'opinione del ministro britannico presso la Santa Sede".

La vertenza fra Germania e Polonia era certamente la più gravida di pericoli, ma non era la sola:  dalla fine del 1938, l'Italia fascista aveva aperto un contenzioso con la Francia riguardante una serie di rivendicazioni irredentistiche su Tunisi, la Corsica, Gibuti, e così via. Con l'offensiva di pace del 3 maggio 1939, la Santa Sede cercò di far fronte a entrambi i problemi:  propose una conferenza a cinque - Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Polonia - che cercasse di "comporre pacificamente le questioni che tengono in disaccordo la Germania e la Polonia, la Francia e l'Italia e le altre che da queste dipendono". Come si vede, anche l'iniziativa vaticana evitava di coinvolgere l'Unione Sovietica, con cui d'altronde la Santa Sede non aveva rapporti diplomatici.

La via dell'iniziativa diplomatica, che veniva allora intrapresa, presentava certo numerosi rischi e sembrò non priva di ambiguità ad alcuni degli interlocutori europei:  un primo pericolo era quello di operare una riedizione della conferenza di Monaco, questa volta a spese della Polonia. Inoltre essa finiva per riconoscere una qualche centralità all'Italia di Mussolini, che si sperava potesse giocare il ruolo del moderatore delle richieste tedesche, come si diceva che avesse fatto a Monaco. Così il Vaticano evitò di commentare l'invasione italiana dell'Albania nell'aprile del 1939 e chiese preventivamente, attraverso il padre Tacchi Venturi, l'assenso del Duce al proprio progetto. Mussolini si disse d'accordo:  nei confronti della Germania, egli inaugurava quell'atteggiamento dell'"alleato che si smarca", che portò avanti con non poche doppiezze e ambiguità fino al giugno del 1940. In ossequio a una tradizione di lunga data della politica estera italiana, riteneva che si trattasse di una posizione da cui l'Italia poteva trarre vantaggio.

Le proposte vaticane non ebbero successo:  il possibilismo inglese fu neutralizzato dalla dura opposizione francese perché la Francia non voleva discutere del proprio contenzioso con l'Italia in una qualche conferenza internazionale; Hitler fece parlare brevemente il nunzio Orsenigo e poi iniziò uno dei suoi sproloqui, assicurandogli che la situazione internazionale stava migliorando; il 22 maggio Mussolini strinse il Patto d'acciaio con la Germania nazista. Ciò nonostante, anche nei mesi successivi, fino alla fine d'agosto, la diplomazia vaticana fu all'opera per cercare di fermare la corsa verso la guerra:  l'estremo tentativo fu il messaggio di Maglione al presidente polacco del 30 agosto 1939, in cui si proponeva che la Polonia non si opponesse alla restituzione di Danzica alla Germania e che aprisse con essa una trattativa su tutti gli altri problemi. Quel messaggio ricalcava ad litteram un testo suggerito da Mussolini a Tacchi Venturi:  in questo momento anche il dittatore italiano voleva evitare di essere trascinato in una guerra europea e infatti, poi, scelse la non belligeranza.

Si è detto dei rischi:  la Santa Sede veniva a trovarsi in una situazione che altre volte avrebbe sperimentata nel secolo xx, quella di avere di fronte uno "Stato canaglia" - in questo caso la Germania nazista - che minacciava evidentemente la pace internazionale. Che fare? L'ambasciatore francese in Vaticano, Charles-Roux, un buon cattolico che tuttavia faceva strenuamente (né poteva essere altrimenti) gl'interessi del suo paese, avrebbe preferito una politica tutta diversa:  un papato che cercasse di essere la guida morale delle nazioni e prendesse posizione in base al diritto di natura, giungendo a condannare solennemente l'aggressione e la violazione dei trattati.

Gli rispondeva già allora il collega Osborne - e lo storico di oggi non può non trovare ragionevoli le sue argomentazioni - che i pastori di una Chiesa universale non potevano seguire una politica che avrebbe reso le Chiese cattoliche della Germania e dell'Austria ancora più odiate dal loro governo semipersecutore, senza esser sicuri di conseguire un qualche risultato. E per il momento c'era una causa morale più alta:  impedire una guerra mondiale. Certo - bisogna aggiungere - questo imponeva una serie di consapevoli rischi:  quello di trovarsi in compagnie poco piacevoli (come quella di Mussolini), di sembrare scarsamente sensibili alla causa di una nazione profondamente cattolica come quella polacca, di dare credito (almeno pubblicamente) alle intenzioni di pace di Hitler. Ma una cosa balza agli occhi leggendo le note e gli appunti di Maglione e dei suoi collaboratori:  la certezza che quei rischi fosse doveroso correrli, la necessità insomma di "farsi tutto a tutti" per evitare lo scoppio di una guerra, in cui fra l'altro la Polonia - non era difficile prevederlo - si sarebbe trovata comunque in solitudine di fronte ai carri armati tedeschi.

Eppure il culmine di quella complessa vicenda fu proprio un momento "profetico". Il 22 agosto circolò per le cancellerie europee la notizia di un imminente patto fra Hitler e Stalin:  sarebbe stato in effetti concluso a Mosca il giorno seguente, dando alla Germania il via libera per l'attacco alla Polonia. Il ministro degli Esteri inglese, lord Halifax, telefonò a Osborne affinché pregasse il Pontefice di lanciare un "ultimo appello alla ragione, con tutto il peso e l'influenza di cui dispone". Osborne incontrò Tardini, cercando perfino di suggerirgli alcuni temi per l'eventuale appello papale:  il prelato romano e Montini, prepararono quattro bozze e Pio XII scelse quella più "pastorale", elaborata in gran parte proprio dal Sostituto.

Nel suo radiomessaggio del 24 agosto, il Papa cercò e trovò allora le vie della ragione e quelle del cuore:  "Noi li [i potenti d'Europa] supplichiamo per il sangue di Cristo, la cui forza vincitrice del mondo fu la mansuetudine nella vita e nella morte. E supplicandoli, sappiamo e sentiamo di aver con Noi tutti i retti di cuore; tutti quelli che hanno fame e sete di Giustizia - tutti quelli che soffrono già, per i mali della vita, ogni dolore. Abbiamo con Noi il cuore delle madri, che batte col Nostro; i padri, che dovrebbero abbandonare le loro famiglie; gli umili, che lavorano e non sanno; gli innocenti, su cui pesa la tremenda minaccia; i giovani, cavalieri generosi dei più puri e nobili ideali. Ed è con Noi l'anima di questa vecchia Europa, che fu opera della fede e del genio cristiano. Con Noi l'umanità intera, che aspetta giustizia, pane, libertà, non ferro che uccide e distrugge. Con Noi quel Cristo, che dell'amore fraterno ha fatto il Suo comandamento, fondamentale, solenne; la sostanza della sua Religione, la promessa della salute per gli individui e per le Nazioni". E aggiunse:  "Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra. Ritornino gli uomini a comprendersi. Riprendano a trattare. Trattando con buona volontà e con rispetto dei reciproci diritti si accorgeranno che ai sinceri e fattivi negoziati non è mai precluso un onorevole successo".

Il Pontefice non addossava a questo o quel governo la responsabilità della crisi:  ciò avrebbe comportato la fine di ogni canale diplomatico con lo "Stato canaglia". Ma anche a Charles-Roux non sfuggì il significato antitedesco di alcuni passi del messaggio pontificio:  "È con la forza della ragione, non con quella delle armi, che la Giustizia si fa strada. E gl'imperi non fondati sulla Giustizia non sono benedetti da Dio. La politica emancipata dalla morale tradisce quelli stessi che così la vogliono". Resta poi evidente - ed è ancora un'osservazione di Owen Chadwick - che un appello mondiale per la pace, per le più alte ragioni morali, avrebbe fatto apparire iniquo l'aggressore al momento dell'attacco. Quella sera lord Halifax, che era un uomo profondamente cristiano, citò commosso il discorso pontificio nel suo messaggio radiofonico al popolo inglese. Il 31 agosto, un secondo messaggio papale veniva consegnato agli ambasciatori di Italia, Germania, Francia, Polonia e Gran Bretagna perché lo inoltrassero ai rispettivi governi. Il giorno dopo, 1 settembre 1939, alle 4.45 del mattino, la Wehrmacht forzava i confini polacchi.


(©L'Osservatore Romano - 29 agosto 2009)
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29/08/2009 20:47

Il secondo conflitto mondiale nel cinema

Ciak si spara


di Emilio Ranzato

Enfatici o realistici, costruiti su documenti storici o sulla retorica nazionalista, i film che affrontano il tema della guerra puntano spesso a rappresentare non solo gli avvenimenti drammatici, ma anche le motivazioni che hanno portato al conflitto. Che siano reduci disillusi o generali patriottici, eroi senza macchia o incalliti antimilitaristi, i protagonisti deducono dal loro punto di vista parziale un giudizio più generale su una tragedia che li supera e li travolge.

Fra le cinematografie principali quella americana è l'unica in cui la produzione di film sulla seconda guerra mondiale ha assunto un carattere, per così dire, istituzionale. Al fine di piegare il ferreo isolazionismo della società di fine anni Trenta, infatti, l'amministrazione Roosevelt necessita dell'insostituibile potenziale di persuasione del grande schermo, e pur di accaparrarselo scende a compromessi con l'industria cinematografica sospendendo le vertenze giuridiche riguardanti la presunta posizione di monopolio delle majors.



L'idillio fra Hollywood e governo si riflette soprattutto nella produzione che va dall'attacco di Pearl Harbor del 1941 alla fine delle ostilità e poco oltre. In questo lustro scarso i film bellici - come Obiettivo Burma! di Raoul Walsh, Missione segreta di Mervyn LeRoy, I sacrificati di Bataan di John Ford - presentano quasi tutti caratteristiche simili e in linea con i precetti della propaganda governativa:  l'azione deve contemperare la necessità di mostrare le imprese delle forze armate con quella di non presentare la guerra come qualcosa di orribile e sbagliato, e quindi di non indugiare su dettagli particolarmente cruenti. Un altro aspetto che aiuta a denotare la scelta interventista come qualcosa di giusto e largamente accettato è l'atmosfera di perfetta armonia fra il plotone protagonista - selezionato salomonicamente fra tutte le etnie e le estrazioni sociali che compongono la comunità americana - e il leader di grado più alto, il quale assume il proprio ruolo con piglio paterno e ispirato ai principi di uguaglianza, sensibilità e giustizia.

Le cose però cambiano in modo sottile già a partire dalla fine degli anni Quaranta, ossia quando si comincia a respirare quell'atmosfera da guerra fredda che porterà allo stillicidio di altri conflitti, fra l'altro non più ampiamente condivisi come quello contro il nemico nazista. In film come Bastogne di William Wellman, Cielo di fuoco di Henry King, Iwo Jima, deserto di fuoco di Allan Dwan, c'è un'enfasi particolare nel modo in cui i personaggi che rappresentano le gerarchie militari sono costretti a insistere sulla necessità di combattere; e i soldati del plotone se ne addossano il compito non più ispirati da un sacro fuoco, ma semplicemente con la filosofia di chi affronta uno sporco lavoro che qualcuno deve pur fare. In Da qui all'eternità di Fred Zinnemann realizzato nel 1953 durante la guerra di Corea - la prima conseguenza delle tensioni con il mondo comunista - la rappresentazione del conflitto mondiale scivola addirittura sullo sfondo, mentre in primo piano rimangono i dissapori all'interno dell'esercito.

Allo stesso stato d'animo devono ascriversi i primi film che parlano del difficile rientro dei reduci alla vita civile. Pur partendo da intenti propagandistici e mantenendo sicuramente sempre un tono patriottico, I migliori anni della nostra vita di William Wyler è forse la prima opera a sfondo bellico che ha il coraggio di mostrare tanto le difficoltà del reinserimento dei militari in società, almeno dal punto di vista psicologico, quanto, ben più concretamente, le mutilazioni che i reduci portano sul proprio corpo, sottolineando così le ombre di una guerra considerata comunque giusta.

Ma nell'immediato dopoguerra anche un genere di film che non si interessa direttamente della rappresentazione del conflitto dice qualcosa sulla difficile situazione dei reduci:  si tratta del noir. Capostipiti del genere come la Dalia azzurra di George Marshall o Solo chi cade può risorgere di John Cromwell, oppure epigoni più misconosciuti come Il bandito senza nome di Joseph L. Mankiewicz, fanno del reduce una congeniale variante di antieroe.

Di recente, infine, la seconda guerra mondiale è tornata sugli schermi hollywoodiani più che altro come pretesto per riflessioni più ampie, di carattere esistenziale, come in La sottile linea rossa di Terrence Malick, o di revisionismo storico alla luce di un esame di coscienza, come nel dittico di Clint Eastwood Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima, in cui emblematicamente la stessa battaglia viene raccontata dal punto di vista delle opposte fazioni. Ma non sono mancati anche revival più classici e patriottici come Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg.


 
In Italia invece si è passati direttamente da una produzione propagandistica, di poco conto, durante i primi anni della guerra, alla breve ma intensa stagione del neoralismo. Se i film di Vittorio De Sica di questi anni si concentrano più sulle conseguenze del conflitto, Roma città aperta e Paisà di Roberto Rossellini affrontano direttamente il tema della resistenza all'occupazione nazista e della liberazione con lo stile partecipato ma mai melodrammatico che farà scuola.

De Sica e Rossellini torneranno molti anni dopo a parlare della guerra rispettivamente con La ciociara e Il generale Della Rovere, dove però la maggior professionalità della confezione coincide anche con una maggiore retorica. Sempre intorno agli anni Sessanta escono invece buoni film di retrospettiva e in alcuni casi di revisionismo come La lunga notte del '43 di Florestano Vancini, Tutti a casa di Luigi Comencini, Estate violenta di Valerio Zurlini, Il processo di Verona di Carlo Lizzani.

Un argomento sul quale il cinema italiano è tornato più d'una volta è stato quello della Shoah. In Kapò di Gillo Pontecorvo l'atto di accusa contro la corruzione morale, oltre che fisica, dei campi di sterminio viene annacquata a tratti da toni sensazionalistici. Ne Il giardino dei Finzi Contini un De Sica ormai lontano dai suoi momenti migliori mette in scena il dramma delle deportazioni senza slanci di sincerità e con uno stile che indulge alla maniera e al calligrafismo. Pasqualino settebellezze di Lina Wertmüller, storia di un guappo che attraversa tutti i drammi della guerra, compresi i lager, con un ambiguo spirito di sopravvivenza, ha il coraggio di mettere in scena le bassezze morali dell'individuo di fronte al dolore altrui, ma rischia continuamente di scivolare nel nichilismo. Più di recente Roberto Benigni con il suo La vita è bella ha giocato la rischiosa carta dell'umorismo poetico chapliniano per parlare della persecuzione contro gli ebrei. Al di là di alcune mancanze dal punto di vista registico, è forse l'opera più delicata sull'argomento del nostro cinema, anche se ha ricevuto alcune sporadiche critiche da esponenti del mondo ebraico, come Steven Spielberg. Pochi anni prima anche Roberto Faenza aveva affrontato il tema della Shoah con il suo misconosciuto Jona che visse nella balena, opera pudica e sincera.

Anche la produzione francese è caratterizzata da pellicole complesse che per lo più si prefiggono di rendere conto delle luci e delle ombre della guerra senza troppi intenti retorici. René Clément ha dedicato all'argomento una mezza dozzina di film, fra i quali è giusto ricordare Operazione Apfelkern, caso raro di film bellico in cui la finzione si mescola con la realtà documentaria, e Giochi proibiti, in cui il dramma della guerra viene amplificato dallo sguardo infantile dei due giovanissimi protagonisti. Alain Resnais, prima ancora d'esordire nel cinema di finzione con Hiroshima mon amour, storia d'amore sul filo della memoria che però non manca di sottolineare le atrocità della guerra, aveva firmato uno dei primi grandi documentari sulle deportazioni antisemite con Notte e nebbia. Un altro regista d'oltralpe che è tornato più d'una volta sull'argomento è Jean-Pierre Melville. Noto più che altro per i suoi noir, Melville ha adattato la sua visione pessimista a un film di guerra particolarmente duro e senza speranza:  L'armata degli eroi. Ma ha anche firmato un'opera più raccolta e delicata con Il silenzio del mare.

Altri film francesi che mettono in scena la seconda guerra mondiale senza alcuna concessione all'eroismo sono Weekend a Zuydcoote di Henri Verneuil e Cognome e nome:  Lacombe Lucien di Louis Malle, il quale a sua volta firmerà un toccante film sul dramma ebraico con Arrivederci ragazzi.
Meno sfumature presenta la cinematografia britannica, quasi sempre declinata in toni patriottici e spettacolari ma comunque coinvolgenti, come nel caso di Eroi del mare di Noël Coward e David Lean, La primula Smith di Leslie Howard e naturalmente Il ponte sul fiume Kwai, sempre di Lean. Ci sono comunque film misconosciuti che vanno controcorrente, come l'antimilitarista La mia vita comincia in Malesia di Jack Lee.

Film giapponesi sull'argomento, pur riscuotendo un grande successo all'interno dei confini nazionali, raramente li hanno oltrepassati a causa del loro taglio fortemente nazionalista. Fra le poche eccezioni c'è L'arpa birmana di Kon Ichikawa, canto antimilitarista in cui l'azione bellica gradualmente si scioglie in favore di una superiore contemplazione da parte del bonzo cui appartiene la voce narrante.
Lo stesso discorso vale per la filmografia sovietica, dove non a caso uno dei pochi film memorabili è anche quello più pacifista:  L'infanzia di Ivan, opera prima di Andrej Tarkovskij.


(©L'Osservatore Romano - 30 agosto 2009)
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31/08/2009 18:44

Il 1° settembre 1939 l'esercito tedesco dava inizio all'invasione della Polonia

La guerra dei cinquant'anni


A colloquio con Ernesto Galli della Loggia:  "Il secondo conflitto mondiale è finito concretamente solo nel 1989"
di Andrea Possieri

Sono trascorsi settant'anni da quel primo settembre del 1939 che dette inizio, con l'invasione della Polonia da parte della Germania, allo scoppio della seconda guerra mondiale, ovvero il più grande conflitto planetario nella storia dell'umanità. Combattuta dal 1939 al 1945, si trattò di una guerra "totale" che investì tutti i continenti coinvolgendo le popolazioni civili in pari misura delle forze militari - la stima delle vittime, approssimativa, supera i 50 milioni di morti, più della metà dei quali civili - e costringendo i Paesi coinvolti a uno sforzo produttivo, economico e tecnologico, senza precedenti. La cartina politica di tutto il sistema mondiale ne uscì ridisegnata spostandone i centri di potere e le sfere di influenza. Ne parliamo con il professore Ernesto Galli della Loggia, docente di Storia  contemporanea  presso l'Università  San  Raffaele di Milano nonché  editorialista del "Corriere della Sera".


 
A distanza di sette decenni, è possibile identificare, ancora oggi, le conseguenze della seconda guerra mondiale sul sistema politico internazionale?

Sono almeno due le conseguenze della seconda guerra mondiale i cui effetti si riverberano ancora oggi nell'attuale sistema socio-politico:  innanzitutto la vittoria della democrazia nell'emisfero nord del pianeta e, poi, la cancellazione politica dell'Europa come centro di potenza. Ovviamente quando parlo di vittoria della democrazia non mi riferisco soltanto all'assetto istituzionale, ovvero all'affermazione del parlamentarismo in un regime di libera competizione elettorale, ma anche e soprattutto a quel grande ammasso di valori culturali - dall'individualismo al pacifismo finanche alla secolarizzazione, tanto per citarne solo alcuni - che nel loro insieme vanno a costituire il modello liberal-democratico. Un modello politico che si lega, in modo inscindibile, anche nella sua dimensione valoriale, con la difesa del libero mercato e lo sviluppo economico.

L'affermazione di questo modello liberal-democratico, però, non significò un ritorno al sistema politico preesistente la nascita e lo sviluppo dei regimi totalitari.

La seconda guerra mondiale ha significato anche l'eliminazione radicale di una parte significativa delle culture politiche europee che fino alla prima metà del Novecento erano state le protagoniste assolute dello scenario politico. Penso, per esempio, alla cultura nazional-nazionalista che era stata l'anima delle famiglie politiche europee di tipo borghese-liberale e che venne spazzata via completamente con la fine del conflitto mondiale. E con essa, per molti decenni, fu messa al bando, dal sistema politico scaturito dalla guerra, anche l'idea stessa di "destra" intesa come categoria politica rappresentativa di un'opinione pubblica moderata. Non a caso, nel secondo dopoguerra, i partiti d'ispirazione cristiana che andarono al potere vennero eletti proprio come dei succedanei di quella porzione dell'opinione pubblica moderata che tradizionalmente costituiva l'elettorato della destra. Inoltre, a questo dato già di per sé estremamente interessante, se ne aggiunge un altro. Nell'Europa occidental-continentale, infatti, al declino delle culture politiche liberal-nazionali ha corrisposto anche l'eclissi del militarismo, che aveva rappresentato una componente importante delle culture politiche pre-belliche. Dopo la fine del conflitto, infatti, il militarismo viene messo al bando, quasi coperto di abominio.

Questo processo, però, forse non investe l'area danubiano-balcanica.

Queste dinamiche non investono l'Europa  orientale  per  un motivo molto semplice. Oltre la "cortina di ferro", infatti, quelle culture politiche d'ispirazione liberal-nazionale non solo riescono a sopravvivere al conflitto bellico ma si pongono come argine alla palese politica snazionalizzatrice dei regimi comunisti e si auto-rappresentano, con successo, come le autentiche detentrici dell'idea nazionale.

La guerra mondiale rappresentò, quindi, una cesura radicale rispetto al mondo pre-bellico. Non trova, però, che questo avvenga con caratteristiche estremamente differenti rispetto ai cambiamenti "antropologici" prodotti dalla prima guerra mondiale?

Se vogliamo costruire uno schema interpretativo sintetico, che tenga conto delle variabili socio-culturali e di quelle politico-simboliche, possiamo affermare che la prima guerra mondiale ha mandato all'aria il lungo Ottocento, ovvero il cosiddetto mondo cristiano-borghese. Dopo la grande guerra, per circa venti anni, vi fu una situazione socio-politica in cui si cercò di ricostruire dalle macerie un mondo nuovo, senza capire, però, quale elemento politico-culturale avrebbe fatto da collante al nuovo sistema politico. La seconda guerra mondiale ha sancito, invece, che quell'elemento di coagulo fosse la democrazia liberale. E questo discorso ha valore, si badi bene, sia per il sistema politico europeo che per i Paesi della galassia sovietica, a partire dalla Russia, perché la fine della seconda guerra mondiale andrebbe collocata più realisticamente nel 1989. È solamente a partire dal 1989, con la fine dell'ordine di Yalta, che si sono potuti stipulare, infatti, i trattati di pace che hanno ristabilito le frontiere europee spartendole in maniera concorde. In particolare, il trattato tra la Germania unita e la Polonia e l'accordo di pace tra l'Urss e gli Stati Uniti.

Secondo la sua interpretazione, nel 1989 non è finito soltanto il cosiddetto "lungo dopoguerra" ma si è conclusa la seconda guerra mondiale. È così?

Solamente nel 1989 è finita concretamente la seconda guerra mondiale. D'altronde, le guerre finiscono con un trattato di pace e finché è rimasto aperto il contenzioso della nuova frontiera tra Polonia e Germania - che la Repubblica democratica tedesca non riconosceva - non si può ritenere concluso il conflitto. Inoltre, altro particolare non proprio irrilevante, gli Stati Uniti non hanno mai riconosciuto diplomaticamente l'annessione dei Paesi baltici da parte dell'Urss. Gli Stati Uniti, infatti, hanno sempre concesso, per 50 anni, il rango di rappresentanti diplomatici ai rappresentanti dei Paesi baltici e, in più, non hanno mai consegnato all'Unione Sovietica le riserve auree che le banche di quei Paesi avevano depositato a Washington.

Quindi una guerra che si conclude sul confine orientale laddove era iniziata. Ma spostiamo l'attenzione sui due momenti cruciali che precedettero lo scoppio del conflitto:  ovvero la politica dell'appeasement, che di solito viene esemplificata con la Conferenza di Monaco del settembre 1938, e il cosiddetto "Patto Molotov-Ribbentropp" del 23 agosto 1939.

La politica dell'appeasement è stata, prima di tutto, uno stato d'animo diffusissimo nell'opinione pubblica occidentale, soprattutto in quella inglese. Si trattò di uno stato d'animo scaturito dall'aver provato sulla propria pelle gli effetti devastanti della prima guerra mondiale e quindi dalla volontà di non voler più sentir parlare di guerra. Era una sorta di fortissimo rifiuto psicologico della guerra e, al tempo stesso, la consapevolezza che intorno alla prima guerra mondiale c'era stata una colossale costruzione di bugie e di menzogne. Con l'aggravante che il Trattato di Versailles che aveva sancito la fine della guerra mostrò, ben presto, tutti i suoi limiti. Questo stato di cose dispose l'opinione pubblica inglese a un atteggiamento di rifiuto di qualsiasi politica repressiva nei confronti della Germania che inevitabilmente implicasse l'uso della forza armata. Occorre inoltre aggiungere il particolare, non trascurabile, che in una porzione delle classi dirigenti inglesi, nonché in quelle francesi, era presente anche l'idea che, tutto sommato, se bisognava proprio scegliere tra fascismo e comunismo era meglio optare per il fascismo. Alcuni circoli dell'alta aristocrazia inglese, per esempio, erano addirittura filonazisti o comunque sia visceralmente anticomunisti. Insomma, il clima culturale dell'epoca era dominato da una profonda sfiducia nei confronti dei valori della democrazia liberale.

Oltre all'esistenza di questo stato d'animo diffuso non vi fu anche una politica concreta di difesa degli interessi nazionali soprattutto da parte inglese?

Senza dubbio ci fu anche una politica razionale di difesa degli interessi britannici. La classe dirigente anglosassone, infatti, fin dall'inizio - e a differenza di quella francese che ebbe un atteggiamento fortemente punitivo-rivendicativo nei confronti della Germania - era notevolmente condizionata da un'opinione pubblica che aveva delle forti perplessità sul Trattato di Versailles e sull'entità delle sanzioni imputate alla Germania. I Governi inglesi cercarono di trovare, a differenza di quelli francesi, un accomodamento con la Germania di Weimar e cercarono di non calcare la mano sulla delicatissima questione delle riparazioni di guerra. E questo avvenne non certo per uno spirito di magnanimità ma perché, rispetto alla Francia, la Gran Bretagna aveva una diversa collocazione strategica ed era interessata, da sempre, a un equilibrio di potenza nel vecchio Continente. La presenza di una Germania mediamente forte sullo scacchiere europeo contribuiva a realizzare il disegno egemonico britannico.


 
Non vi fu, forse, anche una sbagliata interpretazione del nazismo?

Sicuramente sì. Oltre allo stato di rifiuto psicologico della guerra e al gioco diplomatico vi fu anche una clamorosa sottovalutazione e un colossale fraintendimento del fenomeno nazista. Quasi nessuno pensava che Hitler avrebbe poi mantenuto fede alle sue parole e alle sue promesse deliranti. Certamente, però, ci fu anche chi lo intuì ben presto. Per esempio, Winston Churchill, subito dopo il riarmo della Renania nel 1936, sostenne che bisognava sviluppare una forte opposizione alla strategia hitleriana ma purtroppo non venne ascoltato.

Invece il "Patto Molotov-Ribbentropp", che venne siglato una settimana prima dell'invasione tedesca della Polonia, rappresentò, oltre che un'alleanza inedita, un'iniziativa politico-militare non certo riassumibile solamente in uno stato d'animo.

I sovietici si fecero guidare, molto probabilmente, dalla più gelida ragion di Stato. Dopo la primavera del 1939 quando la Gran Bretagna, prima, e la Francia, poi, si schierarono a fianco della Polonia si capì che ormai la guerra dipendeva soltanto da Hitler e che quindi si era a un passo dalle operazioni militari. I sovietici cercarono di ottenere i maggiori guadagni possibili mettendo da parte le ragioni ideologiche e facendo prevalere soltanto le ragioni di interesse strategico.

Quali furono le conseguenze politico-militari di questo patto tedesco-sovietico?

Si potrebbe schematizzare dicendo che il "Patto Molotov-Ribbentropp" ebbe grossomodo due fasi. All'inizio fu un patto di non aggressione che, però, implicava la spartizione della Polonia. Nel volgere di poche settimane, inoltre, si trasformò anche in un accordo di cooperazione economica di straordinaria importanza perché l'Unione Sovietica fornì moltissimo materiale strategico alla Germania nazista, per esempio materie prime. Infine, si trattò anche di un patto di collaborazione politica, perché dopo l'attacco dell'Urss ai Paesi baltici fu prevista una sfera di influenza tra la Germania e l'Unione Sovietica nell'Europa orientale.

Stando così le cose, soprattutto per quel che riguarda la prima fase della guerra, ovvero dal settembre 1939 al giugno del 1941, non resta difficile definire la seconda guerra mondiale soltanto come un conflitto antifascista?

Sicuramente si trattò di una guerra antifascista visto che la Gran Bretagna e la Francia combattevano contro le potenze dell'Asse. Tuttavia, era anche una guerra implicitamente anti-comunista, o meglio anti-sovietica. E questo senza ombra di dubbio. Nella primavera del 1940, tanto per fare un esempio, prima che la Francia fosse sconfitta, erano allo studio dei progetti franco-inglesi, per bombardare alcuni impianti petroliferi in Urss, nel Caucaso, che rifornivano le armate tedesche. Tutti consideravano l'Unione Sovietica un alleato della Germania e quindi un nemico da combattere. Era talmente ovvio che l'Urss fosse alleata della Germania che in Francia il Partito comunista francese fu immediatamente messo fuori legge e i deputati comunisti che non si erano dissociati furono accusati di alto tradimento, ovvero di essere degli alleati della Germania.

La situazione paradossale, a tratti farsesca, avvenne forse con l'occupazione nazista di Parigi quando alcuni comunisti rimasti a Parigi chiesero il permesso ai tedeschi di pubblicare l'Humanité, il proprio organo di stampa.

Anche se il permesso non venne accordato, la richiesta testimonia sia lo sbandamento politico-ideologico dell'epoca che la consapevolezza dell'alleanza tra la Germania di Hitler e l'Unione Sovietica di Stalin. Tuttavia, c'è un altro aneddoto interessante che ci rimanda al clima del periodo. Lo si può ricavare dai diari di Joseph Goebbels, quando il ministro del Reich per l'Educazione popolare e la Propaganda racconta, a lungo, delle sue prodezze propagandistiche attraverso le radio che, trasmettendo in inglese e in francese, si fingevano abilmente delle radio inglesi e francesi. Ebbene, la radio che trasmetteva per la Francia, nelle settimane precedenti l'invasione del 1940, si chiamava per l'appunto Radio Humanité, con lo stesso nome del giornale dei comunisti francesi, e aveva come linea politica quella di una radio pacifista di sinistra che si batteva contro le oligarchie capitalistiche francesi che volevano la guerra ai danni degli operai.

Questo complesso intreccio politico, ideologico e militare spiegherebbe le difficoltà ad accettare univocamente la definizione della seconda guerra mondiale solamente come una guerra antifascista.

Anche la Santa Sede, per esempio, ebbe delle evidenti difficoltà ad accettare l'interpretazione della guerra antifascista come sinonimo di guerra per la libertà, per la semplice constatazione che il conflitto non si era concluso con la vittoria della libertà religiosa in ogni Paese. Anzi, in alcuni storici Paesi cattolici come la Lituania, l'Ungheria e la Polonia, la fine del conflitto significò soltanto l'inizio della dittatura comunista. Da questo speciale angolo visuale, dunque, il denominatore antifascista della guerra non era del tutto accettabile perché non equivaleva automaticamente a un'affermazione di libertà o alla liberazione di un popolo.

Forse anche la complessa vicenda spagnola contribuì a questa interpretazione?

Più che la guerra civile in Spagna direi che ha contato la conoscenza diretta del nazismo, prima, e del comunismo, poi. Basti pensare alla brutalità con la quale il nazismo tentò di sradicare la vita religiosa in Polonia, uccidendo e deportando nei campi di concentramento, oltre che gli ebrei, anche centinaia di preti polacchi. E poi la conoscenza dell'occupazione sovietica nei Paesi baltici con i vescovi del luogo che scrivevano al Papa sulla drammatica realtà del regime comunista.

La differente percezione della guerra ha influenzato anche il dibattito storiografico. Come è mutata la discussione negli anni?

Oggi esiste un dibattito su temi e angoli visuali completamente diversi da quelli che erano in auge nell'immediato dopoguerra o negli anni Sessanta. Adesso si discute moltissimo, per esempio, sul comportamento delle potenze vincitrici nel campo del rispetto dei diritti umani. Un caso tipico è il dibattito sui bombardamenti alleati della Germania. Insomma, c'è una forte discussione sui comportamenti morali di coloro che alla fine del conflitto sembravano essere indenni da ogni pecca. D'altra parte, però, non direi che la responsabilità dei vinti è uscita assolutamente ridimensionata. Un tipico esempio di questo cambio di mentalità, che si riflette non solo nei volumi di storia ma anche nelle opere d'arte, è rappresentato esemplarmente da due film di Clint Eastwood, Lettere da Iwo Jima e Flags of Our Fathers. Entrambi i film raccontano lo stesso episodio, ovvero la battaglia di Iwo Jima, con la sostanziale differenza, però, che il primo, viene visto dalla parte delle forze nipponiche e, il secondo, dalla parte dell'esercito statunitense. Negli anni Cinquanta realizzare dei film come quelli di Clint Eastwood, dove, per esempio, si narrano le vicende del generale giapponese Tadamichi Kuribayashi, sarebbe stato impossibile.

Lei ha citato Tadamichi Kuribayashi che, dal punto di vista giapponese, è stato sicuramente un eroe della guerra. Quali sono le figure militari che giocarono un ruolo decisivo sulle sorti del conflitto?

Direi che il generale Dwight D. Eisenhower e il capo di Stato maggiore delle forze americane George Catlett Marshall, furono senza dubbio i due grandi protagonisti della vittoria militare alleata sul fronte occidentale. Sul fronte avversario, invece, svolsero un ruolo importante, come prestazioni militari eccellenti, Heinz Guderian e Erwin Rommel.

E per quanto riguarda i politici?

Sicuramente, per energia e coraggio, Stalin e Churchill furono dei grandi capi politici. Di sicuro furono quelli che sfiorarono il pericolo più di tutti gli altri.

Invece, da un punto di vista culturale possiamo dire che le opere letterarie sulla seconda guerra mondiale non hanno avuto una produzione paragonabile a quella della grande guerra?

No, non è paragonabile. Perché la prima guerra mondiale registrò degli abissi di disperazione tra i soldati combattenti, tra i quali c'erano molti intellettuali, che produssero poi molti libri, memorie e poesie. La seconda guerra mondiale non produsse questo perché fu una guerra di movimento e non fu una guerra claustrofobico-depressiva come invece fu la grande guerra.

Naturalmente, però, sono stati pubblicati numerosissimi volumi sul conflitto. Se dovesse indicare dei libri sulla seconda guerra mondiale?

Ne sceglierei due:  Vita e destino di Vasilij Grossmann e Suite francese di Irène Némirovsky.

E se, invece, dovesse scegliere dei film?

I film, come accennavo prima, sono notevolmente cambiati col mutare del periodo storico. Nella mia memoria, comunque, è rimasto sempre significativo un film del 1942 La signora Miniver di William Wyler. A questo aggiungerei L'impero del Sole di Steven Spielberg e Lettere da Iwo Jima di Clint Eastwood. Salverei anche i primi minuti di Salvate il soldato Ryan sempre di Spielberg.

La storia naturalmente non si fa con i se. Tuttavia, dopo la capitolazione della Francia nel 1940 la Germania nazista era veramente a un passo dalla vittoria finale e se non ci fosse stato l'attacco all'Unione Sovietica nel 1941 chissà come sarebbe finita.

Oggi possiamo dire con certezza che il destino della guerra si è deciso dal giugno del 1940 al giugno del 1941 quando Hitler, invece di far guerra alla Gran Bretagna, si rivolse contro l'Unione Sovietica per motivi soprattutto ideologici - una sorta di follia razzial-imperiale - perché convinto che gli slavi fossero dei sottouomini e che il Reich andasse costruito a est. Certamente Hitler è stato a un passo dalla vittoria e gli sarebbe bastato rivolgersi a sud, in Africa, per esempio sul Canale di Suez, invece che a est, contro l'Urss, per poter vincere la guerra. La storia, come ha ricordato, però, non si scrive con i se e del resto, allo stesso modo, sarebbe potuto essere fatale agli Alleati anche uno sbarco in Normandia anticipato di un anno, nel 1943. Ma così non è stato. Ed è anche per questo oggi ricordiamo il generale Eisenhower come un grande leader della seconda guerra mondiale.


(©L'Osservatore Romano - 31 agosto - 1 settembre 2009)
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02/09/2009 06:07

Commemorato in Polonia il settantesimo anniversario dello scoppio della seconda guerra mondiale

A Danzica vincitori e vinti


Putin condanna come immorale il patto Molotov-Ribbentropp


 
Varsavia, 1. Sono iniziate a Danzica sotto il monumento agli eroi di Westerplatte la celebrazioni del settantesimo anniversario dello scoppio della seconda guerra mondiale, per le quali sono giunti nella città polacca circa venti capi di Governo, inclusi il premier russo Vladimir Putin, il cancelliere tedesco Angela Merkel, il primo ministro francese François Fillon, il presidente del Consiglio dei ministri italiano Silvio Berlusconi e il primo ministro ucraino, Yulia Tymoshenko. Poco dopo le 4,45 del mattino - ora del primo colpo di cannone partito il 1° settembre 1939 dalla corazzata tedesca Schleswig-Holstein verso la base militare polacca che segnò l'inizio dell'invasione della Germania nazista della Polonia - è stato intonato a Westerplatte l'inno nazionale, la cui prima strofa recita:  "La Polonia non è ancora morta". È così iniziata la prima parte delle commemorazioni riservata solo alle autorità polacche, senza le delegazioni di altri Paesi.
"Westerplatte è il simbolo della resistenza eroica dei deboli contro i più forti", ha detto il presidente Lech Kaczynski ricordando i primi giorni della guerra, quando la Polonia ha dovuto affrontare da sola l'invasione delle truppe di Hitler senza poter contare sull'aiuto di nessuno.
Facendo riferimento al Patto fra i ministri degli Esteri tedesco e sovietico, Joachim Ribbentropp e Wienceslaw Molotov, e all'invasione dei territori orientali della Polonia da parte dell'Armata Rossa il 17 settembre 1939, il presidente Kaczynski ha detto che si trattò di "un coltello conficcato alle spalle della Polonia".
Fra gli eventi tragici della guerra, Kaczynski ha menzionato la Shoah ma anche Katyn (la strage di ufficiali polacchi da parte dei sovietici nel '40). Facendo le debite differenze, Kaczynski ha detto che così come la Germania nazista sterminò sei milioni di ebrei "perché erano ebrei", l'Urss ha trucidato oltre ventimila ufficiali polacchi "perché erano polacchi". Il premier polacco, Donald Tusk, ha ribadito che senza la memoria l'Europa non sarà veramente sicura.
Ma il messaggio più breve e significativo è stato lanciato da uno dei quattro sopravvissuti tra i difensori di Westerplatte. "Mai più la guerra", ha detto Ignacy Skowron, che ha assistito alla cerimonia su una sedia a rotelle. Nel pomeriggio si svolgerà la seconda parte della cerimonia con la partecipazione delle delegazioni estere.
Alla vigilia della sua visita in Polonia per l'anniversario dell'inizio del conflitto, per la prima volta il premier russo Vladimir Putin - giunto ieri sera a Danzica - ha fatto un po' di autocritica storica. E ha condannato come "immorale" il Trattato di non aggressione tra Stalin e Hitler, ossia il Patto Molotov-Ribbentropp del 23 agosto 1939 che segretamente definiva le sfere di influenza di Mosca e Berlino nei Paesi al confine, con i Paesi Baltici in orbita Urss e la spartizione della Polonia, dando avvio la settimana dopo al conflitto.
Ma nello stesso tempo Putin ha evocato le responsabilità di Francia e Gran Bretagna per aver firmato l'anno prima l'accordo di Monaco, che cedeva alla Germania nazista il territorio dei Sudeti, nella speranza di evitare una guerra. "Senza dubbio ci sono tutte le ragioni per condannare il Patto Molotov-Ribbentropp firmato nell'agosto del 1939", ha sostenuto il premier Putin in un articolo scritto per il quotidiano polacco "Gazeta Wyborcza" in vista delle celebrazioni. Tuttavia - ha proseguito - "un anno prima Francia e Gran Bretagna firmarono il noto accordo di Monaco distruggendo ogni speranza di creare un fronte comune contro il nazismo. Oggi comprendiamo che ogni intesa con il regime nazista era inaccettabile dal punto di vista morale e non aveva prospettive. Tuttavia nel contesto di quel periodo l'Unione sovietica fu lasciata sola non solo di fronte alla Germania, mentre gli Stati occidentali rifiutavano la proposta di un sistema di sicurezza collettiva, ma anche di fronte alla minaccia di combattere su due fronti".
Già nel dicembre del 1989 il congresso del popolo dell'Urss aveva duramente denunciato le responsabilità di Stalin e del suo ministro degli Esteri Wienceslaw Molotov per il protocollo segreto del Patto di non aggressione, assolvendo però il popolo sovietico dato che ne era stato tenuto all'oscuro. Ma nell'articolo scritto per il quotidiano polacco il premier russo ha teso la mano a Varsavia invitandola a "voltare la pagina" della seconda guerra mondiale per iniziarne una nuova nei rapporti tra i due Paesi, così come avvenuto con la Germania. Il ministro degli Esteri russo, Serghiei Lavrov, ha criticato questa mattina in un'intervista al quotidiano "Rossisskaia Gazeta" i tentativi di mettere sullo stesso piano la politica di Stalin e quella di Hitler, definendo grondante di revisionismo storico la giornata di commemorazione di Danzica.


(©L'Osservatore Romano - 2 settembre 2009)
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07/09/2009 18:45

«Guerra alla guerra» del 1948 restaurato e presentato al Festival del cinema di Venezia

Pio XII e il suo grido nel deserto


di Luca Pellegrini

Il mondo è lacerato. Le ferite sembrano insanabili. La speranza è crollata sotto i bombardamenti, che non hanno risparmiato nazioni, persone e cose. La ricostruzione latita. Un tale orrore non deve ripetersi. Ora è necessario iniziare una nuova guerra che faccia guerra a se stessa, perché troppo fragile è l'animo umano, troppo volubile il suo cuore. Nel clima di propaganda, all'indomani della fine dei combattimenti, il cinema si inserisce come uno degli strumenti meno vulnerabili e capaci di penetrare maggiormente una società in bilico, spaesata, avvilita. Riconoscono questa grande opportunità anche i cattolici, soprattutto la riconosce Pio XII. Nasce in questo contesto, nel 1948, uno dei documenti cinematografici più interessanti nella storia del Novecento e certamente meno visti dal pubblico di ieri e di oggi:  Guerra alla guerra. Prodotto dalla Orbis con il sostegno del Centro Cattolico Cinematografico, diretto da due registi italiani piuttosto sconosciuti, Romolo Marcellini - già autore del precedente e più famoso Pastor Angelicus girato nel 1942 - e Giorgio Simonelli, il film è stato proiettato a Venezia per la sezione "Questi Fantasmi" curata da Sergio Toffetti.



"Di Guerra alla guerra si è parlato tanto - precisa il curatore - ma quasi nessuno ebbe la possibilità di vederlo perché la sua distribuzione fu quasi inesistente. Si è deciso il restauro, in collaborazione con la Filmoteca Vaticana, lavorando sul positivo e sul controtipo conservati nell'archivio della Cineteca Nazionale, cercando di recuperare quei materiali in grado di farci ottenere la copia migliore possibile".

La sceneggiatura si deve a Diego Fabbri, Turi Vasile e Cesare Zavattini. "Fabbri e Vasile furono le teste pensanti alla base della fondazione della casa di produzione Orbis. Era un tentativo di competere nell'ambito del cinema d'autore, del cinema di regia, con gli altri nascenti poli cinematografici italiani, facendo sì che il cattolicesimo potesse avere in questo settore della comunicazione e dell'arte una sua voce di riferimento, un suo strumento. In questo clima e con queste finalità nasce Guerra alla guerra, che indirettamente ebbe l'approvazione di Papa Pacelli".

Il film è costruito incastrando abilmente documenti visivi dell'epoca entro una narrazione molto chiara, appositamente girata e dal sapore neorealista. Una famiglia felice soffre la perdita di un figlio a causa di un bombardamento, che distrugge completamente anche la loro casa. Le scene di guerra, quelle di morte, violenza, orrore sono, invece, tutte reali e più che mai esplicite e impressionanti per l'epoca, quando la guerra forse la si voleva dimenticare più che rivedere sullo schermo. La fase bellica è preparata contrapponendo alla natura pacifica e idilliaca nella quale l'uomo lavora quotidianamente per la sua necessaria sussistenza, la realtà delle fabbriche nelle quali, come fucine di morte, si costruiscono armi. In questo modo si degrada, si snatura il lavoro umano che cambia la sua finalità, che crea morte anziché vita.

"In qualche modo direi che il film è animato da un pensiero fichtiano - precisa Toffetti. Come all'"io" si contrappone un "non-io", così nel film l'uomo crea manufatti e oggetti che servono alla sua vita quotidiana e per il bene, ma anche strumenti per la sua morte e per il male. Inoltre, siamo in quella particolare stagione della storia italiana in cui il Paese, uscito dalla guerra, sta per passare da un'economia prevalentemente agricola a una industriale e proprio l'industria deve convertirsi definitivamente al bene dell'umanità, contrapponendosi alla stagione precedente in cui era dedita alla distruzione".

Nel film, chiunque tiene in mano un'arma o manovri una macchina da guerra o sganci una bomba sulla popolazione innocente e inerme - vediamo anche l'esplosione dell'atomica - è additato come nemico dell'umanità. Per questo non ci sono divise ed eserciti identificabili, non si fa distinzione tra Paesi, né tra vincitori e vinti.

Nel moltiplicarsi delle distruzioni e degli orrori, mentre nel film ci si domanda:  "mansueti e pacifici, dove sono?", si leva una voce che assomiglia a quella di colui che "grida nel deserto". È la voce di Pio XII, che vediamo ripreso in momenti famosi - l'arrivo al quartiere di San Lorenzo a Roma dopo il bombardamento, quando il Papa è descritto come "la bianca colomba che vola per portare a termine la sua opera di carità" - e in atteggiamenti pastorali meno noti. L'invocazione alla pace, a mano a mano che le atrocità crescono, si fa più insistente:  "Venga la pace", "Servire la pace" e Pio XII diventa il protagonista. Lo scorgiamo in profonda preghiera, mentre conforta e benedice. Quando la logica delle armi prevale sulla ragione, quando il "veleno" circola ovunque e la stessa Roma è in pericolo, la voce fuori campo esclama:  "Vogliono far tacere Cristo". Ma il Padre - così è chiamato il Papa - non tace:  riceve in udienza i potenti del mondo, quelli che ne detengono le sorti prima e dopo la guerra; organizza l'allestimento dei campi di raccolta e di soccorso, ordina di aprire la residenza di Castel Gandolfo e i conventi di Roma per dare rifugio ai dispersi; accoglie, benedice, esorta alla pace e al perdono. "Non sappiamo se Pio XII sia stato direttamente coinvolto nella produzione e fino a che punto l'abbia sostenuta personalmente - spiega Toffetti - ma l'aver concesso l'uso copioso della sua immagine è un implicito avallo del film". "Per questo motivo era importante acquisire la pellicola - aggiunge Claudia Di Giovanni, direttore della Filmoteca Vaticana - e la collaborazione con la Cineteca Nazionale l'ha reso possibile. Ora è nostro desiderio organizzare una speciale proiezione da offrire alla Curia romana, per l'importanza che nel film occupa la figura di Papa Pacelli, per come sono descritti i suoi sforzi per la pace".

La proiezione veneziana è stata introdotta dal breve I figli delle macerie commissionato ad Amedeo Castellazzi, sempre nel 1948, dall'Associazione nazionale combattenti e reduci, squarcio intenso di vita nel quale la voce di una mamma morta invoca la protezione del suo bambino rimasto orfano e abbandonato. Molti dei suoi piccoli compagni abbrutiti e soli si aggirano nei paesi distrutti mentre le bambine sono fortunatamente accolte nei madrinati provinciali gestiti da alcune Congregazioni di religiose. La speranza rinasce da qui e il cinema se ne fa interprete.


(©L'Osservatore Romano - 7-8 settembre 2009)
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26/09/2009 06:40

Fino al 1938 l'offensiva di pace della Santa Sede guardò anche a Est

Quella mano tesa dal Vaticano a Mosca


di Roberto Pertici
 

Nell'anno precedente il patto Ribbentrop-Molotov del 23 agosto 1939 l'Unione Sovietica fu assente dalla "grande politica" europea. Anche l'offensiva di pace vaticana del 3 maggio di quell'anno, di fatto, la escludeva, rivolgendosi solo a Francia, Gran Bretagna, Polonia, Italia e Germania, anche perché - ricordavo - a questa data la Santa Sede non intratteneva rapporti diplomatici con la Russia di Stalin. Eppure nei mesi precedenti, si erano verificate da parte vaticana alcune avances, certo cautissime e del tutto informali, per saggiare le possibilità di un qualche contatto con quel Paese.

Si tratta di una vicenda per molti aspetti ancora da approfondire, ma non priva di significato se la si proietta nel quadro della politica vaticana degli ultimi mesi del pontificato di Pio xi:  nota fin dagli anni Settanta soprattutto grazie alle ripetute rievocazioni di uno dei suoi protagonisti, il dirigente del Partito comunista italiano Ambrogio Donini (I comunisti e la Chiesa di fronte alla guerra, in "Il Calendario del popolo", XXVII, 1971, pp. 265-278), non mi sembra che abbia trovato posto nelle più recenti ricostruzioni di quei drammatici mesi, eppure - lo ripeto - è rivelatrice delle preoccupazioni e delle ansie che percorsero i vertici vaticani nel periodo che va dalla visita di Hitler in Italia nel maggio 1938 alla morte del Papa il 10 febbraio dell'anno successivo.

Ricordiamo solo alcuni episodi:  nel maggio il mancato incontro di Hitler con Pio xi, che lascia Roma per Castel Gandolfo; la precarietà dei rapporti fra la Santa Sede e la Germania nazista per la sua politica persecutoria nei confronti del cattolicesimo tedesco; l'incarico affidato il 22 giugno dal Papa al padre gesuita americano John La Farge di scrivere un enciclica contro il razzismo e l'antisemitismo, che avrebbe dovuto intitolarsi significativamente Humani generis unitas.
Il 14 luglio viene pubblicato in Italia il "Manifesto della razza" e il giorno dopo si ha il primo intervento critico del Pontefice nel suo incontro a Castel Gandolfo con le suore di Notre-Dame du Cénacle:  in quell'estate Pio xi tornerà ad attaccare razzismo e nazionalismo il 28 luglio, il 21 agosto, il 6 e il 18 settembre.

È in queste settimane che i contrasti fra la Santa Sede e Mussolini giungono fino al punto di rottura per la questione dell'Azione cattolica:  si trattò di una crisi, per molti aspetti, più grave di quella del 1931, senza tuttavia presentare analoghe drammatiche manifestazioni pubbliche. Nel settembre si apre la crisi internazionale che porterà alla conferenza di Monaco, durante la quale, il 29 settembre, Pio xi in un drammatico radiomessaggio offrì la propria vita a Dio in cambio della pace e inviò un messaggio al presidente cecoslovacco Benes, leader di un Paese che le democrazie stavano sacrificando.

È significativo che fra il 1938 e l'anno seguente la Santa Sede abbia sentito il bisogno di avviare una serie di sondaggi, ovviamente del tutto informali, con alcuni ambienti dell'emigrazione antifascista italiana. Abbiamo notizie di un contatto in Francia con Carlo Sforza, già ministro degli esteri con Giolitti nel 1920-1921 e poi di nuovo dal 1947 con De Gasperi:  ne accenna egli stesso in una lettera a Gaetano Salvemini del novembre 1941 a proposito del destino dei Patti Lateranensi nell'Italia post-fascista:  "Il Vaticano sa il mio pensiero perché lo dissi ad un suo alto emissario venuto a vedermi in Francia:  non trattato laterano, non concordato, non persecuzione religiosa né anticlericalismo; libertà" (la lettera fu pubblicata nel 1977 da Pier Giorgio Zunino). Ma assai più impegnativo fu il contatto con i comunisti, anche perché - come abbiamo accennato - si sperava che il partito italiano potesse servire da tramite verso l'Unione Sovietica.


 
L'interlocutore vaticano fu monsignor Mariano Rampolla del Tindaro, sottosegretario della Congregazione dei seminari, allora uno fra i più distinti prelati della Curia romana. Non solo per il nome che portava - era pronipote del grande segretario di Stato di Leone xiii - ma per le eminenti qualità intellettuali e la profonda pietà religiosa. Insigne studioso di sanscrito, particolarmente versato nelle lingue classiche, nella Roma degli anni Venti, se n'era fatto maestro a Salvatore Quasimodo, un giovane aspirante ingegnere proveniente da Messina, che già nutriva forti ambizioni letterarie.

Nella Messina dell'immediato dopoguerra - ancora un'immensa distesa di case di legno dopo il terremoto del dicembre 1908 - con suo fratello Federico, aveva curato l'educazione letteraria di un altro giovane siciliano, diplomato in ragioneria, permettendogli così di raggiungere la maturità classica e di iscriversi alla facoltà messinese di giurisprudenza:  Giorgio La Pira - è di lui che si parla - doveva riconoscergli un ruolo anche nel complesso cammino della propria conversione che sarebbe culminato nella Pasqua del 1924.
Il prelato siciliano contava importanti amicizie ai vertici della Segreteria di Stato:  in particolare assai stretto era il suo legame col sostituto monsignor Montini, testimoniato dallo scambio epistolare pubblicato nel 1990 (Una rara amicizia. Giovanni Battista Montini e Mariano Rampolla del Tindaro. Carteggio 1922-1944, a cura di Salvatore Garofalo per l'Istituto Paolo VI. Lo avrebbe ricordato lo stesso Montini, ormai cardinale arcivescovo di Milano, scrivendone a Quasimodo all'indomani dell'assegnazione del premio Nobel:  "Mariano Rampolla è stato per lunghi anni anche a me incomparabile amico di studi, di conversazione, di ministero, di preghiera, amico dell'anima; e lo porto nel cuore con affettuosa memoria, con devota riconoscenza, con attesa di prossimo incontro" (Milano, 25 gennaio 1960).

Il contatto fu stabilito da un altro giovane amico di monsignor Rampolla, il trentenne Fausto Marzi Marchesi, appartenente alla borghesia cattolica romana, che negli anni precedenti aveva soggiornato a lungo nella capitale francese, conquistandosi la fiducia di alcuni esponenti dell'emigrazione comunista:  la preparazione dell'incontro durò circa un anno, ma la data definitiva fu fissata solo dopo la visita di Hitler a Roma.

A metà dell'estate del 1938, monsignor Rampolla lasciò dunque il Vaticano per la Svizzera, dirigendosi nel cantone di Friburgo, che era la meta abituale delle sue vacanze. Il 3 agosto spediva una cartolina da Cournillens all'amico Montini e nei giorni successivi saliva all'abbazia di Valsainte. Qui dovevano raggiungerlo due uomini che provenivano invece da Parigi:  si trattava di due "rivoluzionari di professione", esponenti di punta dell'emigrazione comunista italiana in Francia. Uno, Ambrogio Donini, era stato allievo di Ernesto Buonaiuti all'università di Roma e si era subito distinto come un promettente storico del cristianesimo (nel 1926 aveva pubblicato una monografia su Ippolito di Roma); anche l'altro, Emilio Sereni, studioso di problemi agrari e di storia dell'agricoltura fra i più eminenti della sua generazione, sembrava avviato a un'importante carriera scientifica. Ma entrambi, nel corso del 1926, avevano aderito al partito comunista, passando poi alla clandestinità e all'esilio:  nella Parigi della metà degli anni Trenta, curavano i rapporti fra il loro partito e gli ambienti intellettuali, e - specie Donini - anche quelli col mondo cattolico.

In quella inquieta estate, quando una nuova guerra sembrava alle porte, questi due importanti dirigenti comunisti non si sarebbero mossi dalla capitale francese se non avessero annesso notevole importanza all'incontro con il monsignore siciliano. D'altronde i comunisti erano stati i primi a superare il risentimento - assai diffuso nell'emigrazione antifascista - per la conclusione dei patti del Laterano e a tornare a un approccio realistico, non puramente punitivo, alla questione dei rapporti fra Stato e Chiesa in Italia.

Come succedeva sempre nella loro politica, era stata una svolta della politica sovietica a segnare il cammino:  il vii congresso dell'Internazionale comunista del 1935 aveva lanciato una politica di larghe intese fra le forze "democratiche" - inclusi, qualora fossero stati disponibili, gli stessi cattolici - in funzione antifascista. All'avanguardia nella nuova politica era stato il partito francese:  grande scalpore, e non poche apprensioni, aveva suscitato la "mano tesa" ai cattolici da parte di Maurice Thorez nel messaggio radiofonico del 17 aprile 1936, in vista delle elezioni che avrebbero portato alla vittoria del fronte popolare in Francia. Ma passi analoghi erano stati compiuti anche dal partito italiano, con una serie di impegnativi documenti, in cui si era proclamato "il rispetto assoluto delle opinioni religiose e la difesa della libertà di coscienza delle masse" e la difesa più sincera dei valori della famiglia e della pace:  su questa base si giudicava indispensabile stabilire "contatti permanenti e fraterni con i dirigenti delle organizzazioni cattoliche".

È noto che fu anche per rispondere a queste insidiose avances da parte del comunismo internazionale che Pio xi aveva pubblicato nel marzo 1937 l'enciclica Divini redemptoris sul "comunismo bolscevico ed ateo che mira a capovolgere l'ordinamento sociale e a scalzare gli stessi fondamenti della civiltà cristiana", in cui si era ribadita e articolata la tradizionale condanna dell'ideologia e della "statolatria" comunista. Ma evidentemente - di fronte all'aggravarsi della situazione italiana e internazionale - si stava avvertendo comunque il bisogno di un qualche canale per sondare le posizioni del più attivo fra i partiti antifascisti e per ricercare eventuali contatti anche con la potenza sovietica:  d'altronde - si trattava di una posizione tradizionale della diplomazia pontificia - per salvare alcuni valori fondamentali ed evitare un male maggiore, si potevano ricercare e mantenere contatti anche coi più insidiosi avversari della Chiesa.

È difficile supporre che quella di monsignor Rampolla fosse un'iniziativa assolutamente personale e isolata e che nessuno in Segreteria di Stato ne fosse stato preventivamente informato:  è probabile invece che almeno Montini e forse anche il suo diretto superiore, il cardinale Pacelli, ne fossero a conoscenza. Altre trattative precedenti, destinate poi - a differenza di questa - ad andare in porto (si pensi a quelle sui Patti Lateranensi) erano iniziate in via del tutto informale fra interlocutori che non appartenevano al personale diplomatico:  così Rampolla poteva avere avuto una qualche autorizzazione a quell'incontro, con l'avvertenza che la Santa Sede non doveva sembrare in nessun modo coinvolta nella sua iniziativa.


 
Di cosa parlarono nei loro colloqui quegli uomini così diversi? Ancora Donini ha più volte sottolineato la concordanza dei loro giudizi sulla gravità della situazione internazionale e sui pericoli di guerra e i sondaggi del monsignore siciliano per verificare la sincerità delle aperture comuniste. Poi una sua domanda, che non poteva mancare (la stessa - come s'è visto - che sarebbe stata rivolta negli stessi mesi a Sforza):  quale sarebbe stato l'atteggiamento del Partito comunista nei confronti della Chiesa e della Santa Sede, in caso di una caduta del fascismo e di una sua assunzione di responsabilità di governo? E dei Patti Lateranensi cosa sarebbe successo? Donini e Sereni assicurarono una politica di assoluto rispetto verso la Chiesa, il mantenimento del Trattato del 1929, ma previdero che il crollo del fascismo avrebbe segnato la caduta del regime concordatario (com'è noto, poi, l'atteggiamento comunista - ma anche quello di Sforza - sarebbe stato improntato ad una ben maggiore disponibilità).

Alla fine del colloquio, a bruciapelo, Rampolla chiese ai due comunisti se il loro partito fosse disposto a sondare il terreno a Mosca, in vista di eventuali contatti fra la Santa Sede e il governo sovietico per la normalizzazione dei rapporti diplomatici. Si trattava di riprendere le trattative che soprattutto Eugenio Pacelli, allora nunzio in Germania, aveva condotto negli anni Venti e che si erano interrotte tra il 1928 e il 1929, quando Stalin si era sentito ormai sicuro del proprio potere all'interno dell'Urss e aveva ripreso in grande stile la sua politica antireligiosa. Donini e Sereni risposero assicurando che avrebbero segnalato questa disponibilità, ma che non avevano nessun modo di intervenire nella politica estera sovietica.

L'incontro dell'agosto 1938 non ebbe poi alcun seguito. Donini ne attribuiva la responsabilità al rovesciamento operatosi nella situazione internazionale con i successivi accordi di Monaco; ma chiamava in causa anche il mutamento degli equilibri interni al partito comunista e l'inizio del proconsolato stalinista di Giuseppe Berti, che - di lì a poco - avrebbe ripreso la polemica antivaticana. Ricordava anche di averne scritto una minuta relazione per i vertici del partito che, tuttavia, non era mai giunta nelle mani di Togliatti:  solo nel novembre successivo, gliene avrebbe riferito, riscuotendo il suo pieno consenso. Tuttavia aveva fatto pervenire direttamente da Parigi, ai vertici del governo e del partito sovietico, un estratto di quella relazione, che riguardava i rapporti tra Vaticano e Unione Sovietica. Il tramite era stato "il compagno tedesco che seguiva allora in Francia, per conto del Komintern, il lavoro editoriale dei principali partiti comunisti (...) egli venne poi rinchiuso dai francesi in un campo di concentramento e abbandonato in mano alla Gestapo, dopo l'invasione hitleriana". Potrebbe trattarsi di Willi Münzenberg, il grande organizzatore della propaganda comunista degli anni Trenta in Europa occidentale. In quei mesi il suo legame con Mosca si stava spezzando. Avrà realmente inoltrato a Mosca quella relazione? Sarebbe importante che oggi essa potesse riemergere dagli archivi sovietici.


(©L'Osservatore Romano - 26 settembre 2009)
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