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Nella sinagoga di Yakar spesso si incontrano musulmani

Ultimo Aggiornamento: 31/08/2009 18:48
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31/08/2009 18:48

La fruttuosa esperienza a Gerusalemme di un'iniziativa avviata dal rabbino Rosen nel 1992

Nella sinagoga di Yakar spesso si incontrano musulmani


di Elisabetta Galeffi

Una folla di uomini dai grandi cappelli a falde nere, di donne immerse in vestiti informi e con in testa fazzoletti pesanti legati dietro la nuca a nasconderne anche i capelli. Tutti sono affaccendatissimi. Chi discute, chi legge, chi prega, chi prepara tè e biscotti in una cucina limitrofa al grande stanzone privo di qualsiasi orpello, che è questa sinagoga di Gerusalemme. È venerdì sera, l'inizio della festa ebraica dello shabbat. Da fuori l'eco delle voci, la concentrazione delle automobili nelle strade circostanti, le luci alle finestre aiutano a individuare il basso caseggiato, altrimenti sperduto in un quartiere residenziale anonimo. Di fatto una sinagoga e i suoi uffici che per il resto della settimana sono del tutto confusi tra giardinetti condominiali, abitazioni laiche, strade uguali, cancelletti infiniti. Collocati in mezzo alla vita quotidiana, un modo per stare in mezzo a persone diverse fra loro.



"Yakar:  centro per un'azione sociale di rilievo" si legge su una targa di una delle porte che conduce all'interno del complesso. Yakar, che significa in ebraico "prezioso", è una sinagoga ebraica ortodossa e insieme un'organizzazione laica che attinge la sua forza dalla stessa dottrina. Potrebbe sembrare una contraddizione, considerato che l'ebraismo ortodosso è la corrente di pensiero in cui si riconoscono gli ebrei fedeli alle forme giuridiche e rituali più tradizionali. Ma è vero fino a un certo punto, perché nell'intenso, instancabile confrontarsi, leggere e rileggere e studiare i suoi libri, il popolo ebraico è capace di produrre nuove correnti di pensiero e rivitalizzare la tradizione antica e le vie alla fede.

Il rabbino Michael Rosen, il fondatore di Yakar a Gerusalemme nel 1992 e prima ancora nei pressi di Londra già nel 1968, diceva che Yakar è "una parodia della vita giudaica ovvero un'esperienza intellettuale e un'esperienza pratica insieme". Per lui "Yakar" era "una ricerca della morte e della vita, il capire il senso del pianto sulla strada", dimostrando il dolore che provava per quanto vedeva accadere nel suo mondo, nella sua terra.

Quando l'ho conosciuto circa tre anni fa nell'estate della guerra libanese, era già molto provato fisicamente dalla malattia degenerativa che lo aveva reso quasi cieco, molto curvo e poco rapido nei movimenti. Non aveva però perso un minimo dell'avventuroso entusiasmo che l'aveva indotto a rompere le regole e a ospitare in una sinagoga ortodossa uomini e donne senza la testa coperta, cristiani e mussulmani, credenti e laici, israeliani e non.
È morto nel dicembre 2008 a causa di una brutta caduta, che ha dato il colpo fatale a un corpo debole retto da uno spirito indomito.

Il venerdì sera, quando c'è l'attività principale alla sinagoga - cominciò allora raccontando la sua avventura - Yakar ospita circa 500/600 persone:  "Sono orgoglioso se analizzo quali persone vengono". Ed era veramente compiaciuto per la grande capacità di Yakar di contenere qualsiasi tipo di spiritualità, messa a disposizione per la formazione dei ragazzi che vanno in India. Il viaggio spirituale nel Paese asiatico è infatti quello che in Israele fanno, si può ben dire, tutti i ragazzi e le ragazze alla fine del servizio di leva.

"Essere un ebreo ortodosso moderno è prendere i regali di Dio per gli ebrei, prenderli in relazione al mondo in cui viviamo", ecco come spiegò l'apparente contraddizione tra ortodossia e modernità.

"Voglio il meglio per la cultura occidentale, il meglio per qualsiasi cultura in cui vivo. Voglio esser parte di un'identità giudaica al meglio". La fatica fisica di sostenere questa intervista gli si leggeva in viso come il tormento delle luci della telecamera di un'emittente televisiva con base a Gerusalemme che continuava a riprenderlo, mentre seduto quasi immobile nell'angolo della stanza continuava a parlare con grande lentezza. Ma l'esser maestro anche per noi che ebrei non siamo, non lo disturbava affatto, né si risparmiava, fornendo ogni chiarimento. "Quando arrivai qui - continuò - in questo posto c'era una madrassa, ebrei e musulmani che studiavano insieme. Noi abbiamo continuato la stessa tradizione. Prendiamo un soggetto, per esempio Abramo, i musulmani prendono i loro testi, le loro risorse:  il Corano gli Hadith, gli ebrei le loro. Così lavoriamo insieme".

Il rabbino Mikey (così lo chiamavano in sinagoga) aveva voluto che prendesse parte alla sua avventura israeliana un giornalista ebreo, nato in Sud Africa e responsabile per anni di uno dei giornali più impegnati nella lotta contro l'apartheid, Benjamin Pogrund. A Yakar, Benjamin ha iniziato a organizzare eventi fuori dalle stanze della sinagoga. Quando è stato possibile, prima dell'intifada e nei tempi di relativa pace, ha organizzato incontri tra ebrei ortodossi della sinagoga e palestinesi nei Territori. Solo chi è vissuto per un po' in Israele può capire la forza rivoluzionaria di una decisione del genere.

"Costruire contatti e creare fiducia" è la formula che vuol sintetizzare il programma di Yakar, rifacendosi a quanto successo in Sud Africa. Alle riunioni che vanno da seminari di studi spirituali ad assemblee molto tecniche in cui si forniscono informazioni dettagliate su fatti di cronaca, partecipano giornalisti, filosofi, professori universitari, scienziati della politica e sono organizzati ancora oggi in collaborazione con un'organizzazione palestinese che ha le stesso speranze di migliorare i rapporti tra israeliani e palestinesi.
Diceva il rabbino Roses, che, si capiva, amava meno le formule e molto i pensieri:  "Se tu hai dentro di te una conosciuta, profonda identità, non sei impressionato dagli altri che hanno identità diverse da te. Ma anzi li comprendi con le loro debolezze e comprendi te stesso e le tue debolezze. Bisogna credere nel tentativo di comprendere le menti, i sogni e le aspirazioni di persone differenti da noi senza esserne impauriti, questo è un punto educativo assolutamente basilare. Il mio lavoro è aprire le porte e dare una speranza a una società mista".

Finita l'intervista, sono andata in giro con un microfono, seguita da uno stupefatto cameraman palestinese che non credeva ai suoi occhi, ma che come me si incuriosiva per quell'eterogeneo gruppo di uomini e donne in un incredibile interno. Abbiamo intervistato e ripreso ragazzi stranieri, rabbini di altre scuole, una suora cattolica che passava a Yakar le sue ferie.
A un ragazzo giunto a Gerusalemme dagli Stati Uniti ho chiesto:  "Cosa significa essere rabbino?". "Io chiamo rabbino chi è mio maestro, quando studio, attraverso il suo esempio, la via che lui mi indica. Allora è "il mio rabbino"".


(©L'Osservatore Romano - 31 agosto - 1 settembre 2009)
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