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Qual è la vita che difendiamo?

Ultimo Aggiornamento: 08/09/2009 19:39
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  In un'anteprima del bimestrale dell'Università Cattolica del Sacro Cuore "Vita e Pensiero"
due opinioni a confronto sui concetti che stanno alla base dell'attuale dibattito bioetico

Qual è la vita che difendiamo?


La rivista dell'Università Cattolica del Sacro Cuore "Vita e Pensiero" propone un dibattito sul tema "Bioetica, in che senso parlare di "vita"?". Pubblichiamo integralmente i due articoli messi a confronto nel numero in uscita il 9 settembre.

di Lucetta Scaraffia

Durante il viaggio in Africa del Papa, mentre ferveva la battaglia su preservativi e Aids, su una vignetta umoristica di un quotidiano italiano due personaggi si domandavano:  "La Chiesa difende la sacralità della vita?" diceva l'uno. E l'altro:  "Anche quella dei virus!". Lasciando da parte la malignità insita nella scenetta, bisogna ammettere che essa toccava un problema:  cosa vuol dire difendere la vita? Qual è la vita che difendiamo? Che cosa è la vita? Sono domande che non ci si pone di solito, preferendo lasciare nel vago tutta la questione:  proprio per questo risulta estremamente interessante e stimolante la lettura di uno degli ultimi saggi di Ivan Illich (La construction institutionelle d'un nouveau fétiche:  la vie humaine, in Oeuvres complètes, ii, 2005) che affronta di petto il problema segnalando quelli che sono, secondo lui, i pericoli che corre la cultura cattolica nel farsi difensore di questo concetto.

Secondo Illich, la Chiesa intrattiene una relazione istituzionale con una sorta di nuova entità chiamata "vita", che è diventata il soggetto di nuovi discorsi, e di cui si parla come di qualcosa di prezioso, minacciato e raro. Qualcosa che si presta a una gestione istituzionale ed esige la formazione di "specialisti" sempre nuovi. Chi usa questa nozione, scrive Illich, dimentica che essa ha una storia specifica dell'Occidente, che "l'accettazione di una vita sostanzializzata come realtà divinamente conferita si presta a una corruzione della fede cristiana".



Oggi il termine "vita" - lamenta Illich - è usato a proposito e sproposito per qualsiasi cosa, si parla di "vita umana sulla Terra" che è al centro della mitologia delle nuove scienze ecologiche, è un nuovo genere di costruzione sociale che nessuno oserebbe mettere in questione. È suscettibile di essere gestita, migliorata e valutata in termini di risorse disponibili, cosa che non faremmo mai quando parliamo di "persona". Questa "gestione" della vita ha il potere di designare norme di salute, di educazione, di sviluppo e altri idoli moderni - scrive Illich - e la mancanza in rapporto a questi "valori" è vissuta come un bisogno che, a sua volta, si traduce in un diritto.

Le Chiese, utilizzando il loro potere di creare dei miti, nutrono, consacrano e santificano questa nozione astratta di vita umana che non ha nulla a che vedere con la tradizione cristiana. Si permette così a questa identità spettrale di rimpiazzare progressivamente la nozione di "persona" alla quale è ancorato l'umanesimo dell'individuo occidentale. Questo processo di sostituzione del termine "persona umana" con il concetto astratto di vita, sostiene Illich, è iniziato quando la "mano d'opera" è diventata oggetto di studio, di promozione, di investimento e di miglioramento, cioè da quando questo concetto in sé astratto ha preso l'aspetto di una realtà compatta. Oggi i bambini imparano a pensare in termini di "risorse umane" e non di persone umane. Ed è proprio questa esperienza quotidiana di una esistenza gestita che ci porta a prendere per reale un mondo di entità fittizie come l'educazione universale, lo sviluppo sociale, il "progresso" delle cure della salute, utilizzando parole che suggeriscono qualcosa di positivo perché scientifico, moderno, avanzato.

In questo deserto semantico pieno di echi confusi, noi abbiamo bisogno di un "feticcio prestigioso" che ci permetta di presentarci come nobili difensori di valori sacri:  nel passato lo sono stati "la giustizia sociale", "la pace nel mondo", oggi il nuovo feticcio è "la vita". Ci sono i difensori della vita e i loro avversari, ma in sostanza chi gestisce la vita è la medicina:  per questo la Chiesa si è conquistata una nuova posizione sociale che offre un quadro a queste attività mediche sotto le spoglie di un discorso etico.
L'Occidente cristiano - scrive Illich - ha dato vita a un tipo di condizione umana assolutamente singolare, venuto a maturazione in quello che Ellul chiama "il regime della tecnica", tale da aprire un nuovo ruolo alle istituzioni che creano miti, moralizzano, legittimano, cioè un nuovo ruolo al concetto di "vita". Questo non presenta alcuna somiglianza con le ideologie conflittuali che la Chiesa ha affrontato nella prima fase della secolarizzazione, quando uno Stato nemico tentava di cancellarla:  ora si cerca di rendere superfluo il suo ruolo con dei poteri che promuovono l'assistenza, lo sviluppo e la giustizia. Gesù ha detto "io sono la Vita" e non una vita, pertanto essere semplicemente viventi non significa possedere questa Vita. Del resto, nell'Evangelium vitae Giovanni Paolo II dice che "la vita che il Figlio di Dio è venuto a donare agli uomini non si riduce alla sola esistenza nel tempo".

Oggi invece il termine - ribadisce Illich - viene usato per definire una sostanza, di cui il medico si assume piena responsabilità, che le tecniche possono prolungare. Ma questa idea di vita, considerata come un possesso, come un valore, una risorsa nazionale, un diritto, è una nozione esclusivamente occidentale, ricorda Illich. I movimenti cristiani di difesa della vita hanno svolto un ruolo di primo piano nella costruzione sociale di questo idolo, perché, egli denuncia, oggi incombe una tentazione deplorevole sulle confessioni cristiane:  "quella di collaborare alla creazione sociale di un feticcio che, in una prospettiva teologica, rappresenta il travestimento, come idolo, della vita rivelata".

Il termine "vita" in questa concezione sostanzializzata è entrato in scena nei primi anni dell'Ottocento, quando Lamarck forgiò il termine "biologia" per definire un nuovo campo di indagine, la "scienza della vita". Dopo Lamarck la vita non è più una questione eterna, ma la trivializzazione delle esplorazioni della ricerca scientifica per tutta una serie di fenomeni come la riproduzione, la fisiologia, l'ereditarietà, l'organizzazione, l'evoluzione, ecc.

Si crea una nuova coscienza, che non si muove più nell'ambito della comprensione della natura come vivente, come matrice da cui nascono tutte le cose:  con la rivoluzione scientifica si afferma infatti il modello meccanicista, che diventa l'unica spiegazione del mondo, operando quello che la scienziata Caroline Merchant ha definito come "morte della natura". Come spiegare la presenza di forme viventi in un cosmo morto? Secondo Illich, la risposta a questo problema è la nozione di vita sostanzializzata, che diventa una formula passepartout per colmare questo vuoto.

Ed è proprio attraverso questa nozione di vita che l'homo oeconomicus, cioè quello che il postulato utilitarista considera un essere definito dai bisogni, diviene il referente della riflessione etica. Il concetto di vita tende infatti a vuotare di contenuto la nozione legale di persona - i medici non sono più responsabili di un paziente, ma di una vita - e questo feticcio astratto ci fa credere, da un secolo, che la "preservazione della vita" costituisca un fine supremo dell'azione umana e dell'organizzazione sociale.
 
Quella di Illich è una denuncia pesante, ma non del tutto nuova:  per certi aspetti, infatti, Illich riprende un filo di pensiero già elaborato da Michel Foucault nelle lezioni tenute al Collège de France dal 1978 al 1979 (Naissance de la biopolitique, 2004). Anche Foucault vede all'origine dei cambiamenti che coinvolgono la vita umana il concetto di "capitale umano", che apre la possibilità di reinterpretare in termini economici tutto un ambito che fino a oggi poteva essere considerato di fatto non parte della sfera economica, come il corpo umano. Da questo momento, invece, l'economia si assume il compito di analizzare il comportamento umano e la sua razionalità. Il capitale umano, cioè la vita umana, è composto da elementi innati e acquisiti:  in teoria, il nostro corredo genetico, l'elemento innato, non costa niente ma già alla fine degli anni Settanta Foucault prevedeva che, con i progressi della genetica, avrebbe potuto diventare un bene economico.

Proprio la rarità dei buoni corredi genetici, infatti, avrebbe potuto essere oggetto di controllo, di filtro, di miglioramento sempre al fine di ottenere un capitale umano, quindi una qualità della "vita", più elevati.
Intuizioni, queste di Foucault, confermate dalla realtà attuale:  oggi le tecnologie che riguardano la vita (bio-tecnologie, nano-tecnologie) costituiscono un fattore determinante nell'economia mondiale. Chi è capace di padroneggiare le nuove tecnologie, e di esportare questo sapere, è avvantaggiato nell'equilibrio di forze mondiale.

Ma questa vita trasformata in bene economico, su quale teoria scientifica si fonda? Nel libro che ha dedicato al concetto di vita, lo studioso della scienza André Pichot (Histoire de la notion de vie, 1993), dopo avere ripercorso la storia di questa nozione nella biologia, arriva a vederne il senso ultimo nella biochimica (soprattutto nella forma di "biologia molecolare") che ha messo in evidenza la perfetta identità della natura della materia, e delle leggi che la governano, fra gli esseri viventi e gli oggetti inanimati. Ma ridurre la vita a formule biochimiche viene considerato da Pichot come il tentativo della biologia di sbarazzarsi della nozione di vita, di cui non si sa cosa fare nel lavoro scientifico.

Si trova così costretto ad ammettere che il problema della specificità dell'essere vivente non è affrontato dalla biologia moderna. Pichot propone allora una definizione di essere vivente come "entità disgiunta per la sua evoluzione individuale" da quella dell'ambiente in cui vive. Per cui morire sarebbe "raggiungere il proprio ambiente ed evolvere con lui (cioè cessare di differenziarsi)". Il fisico premio Nobel Erwin Schrodinger, uno dei fondatori della biologia molecolare, nella sua opera What is life? (1944) scrive che "la vita appare essere un comportamento ordinato e regolamentato dalla materia". Quindi, già prima della scoperta del Dna (1953), situa lo studio del funzionamento del vivente al livello psico-chimico, cioè al di fuori della questione della vita stessa.

La storica della scienza Lily Kay dimostra come nella nozione di "codice", così come in quella di "programma genetico", si nasconde l'idea di decifrare la vita - Crick e Watson hanno annunciato la scoperta del Dna con la frase "abbiamo scoperto il segreto della vita" - con l'intento di dominarla, superando i limiti della morte. Il proseguimento della vita in sé diviene così un obiettivo indipendente da ogni altra dimostrazione culturale, sociale o politica. Il mantenimento e l'allungamento della vita diventano la base del bio-potere esercitato dallo Stato, a tal punto che la salute e la sicurezza vanno a costituire, all'alba del xxi secolo, la vera posta in gioco della lotta politica.

Vediamo quindi come il sapere scientifico, che incarna l'onnipotenza della ragione, distrugge il regime cristiano di immortalità trasformando la morte in una sconfitta biologica, in una malattia.

Ma allora, sarebbe questa la nozione di "vita" a cui fa riferimento il discorso cattolico? Foucault ci mette in guardia, come Illich, dalla trasformazione degli esseri umani in entità astratte ed economicamente gestibili, come il "capitale umano"; Pichot spiega quale sia, oggi, il problema della biologia nei confronti della nozione di vita:  di sicuro, nessuna delle definizioni da lui analizzate corrisponde all'idea di "vita" oggi utilizzata dal nostro contesto culturale. Se ne può dedurre che si tratta di un termine vago, dal significato facilmente manipolabile - si può dire che quella di Eluana "non è vita", ad esempio - che si presta a un controllo delle istituzioni e a un utilizzo ideologico. Niente a che vedere con il complesso - e unico - significato di persona, né tanto meno con il concetto di Vita di cui ha parlato Gesù. Non sarebbe meglio, allora, invece che di vita in senso astratto, parlare dei problemi delle singole creature - siano essi embrioni o feti, o malati senza speranza di guarigione - e difenderle, occuparsi della loro condizione fragile e delle possibilità di intervenire per proteggerle da tentativi di distruzione?

Bisogna riflettere sulla provocazione di Illich:  i cattolici devono essere capaci di trasmettere l'amore per la Vita come è intesa nelle parole di Gesù, una Vita che diventa amore per le creature sofferenti, e non continuare a diffondere e sostenere un concetto biologico astratto che è estraneo alla nostra tradizione, che spesso ci rende ideologici e poco credibili.


(©L'Osservatore Romano - 9 settembre 2009)
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Parole pericolose nel gioco degli equivoci


di Adriano Pessina

La parola bioetica unisce di fatto due questioni "vitali":  quella del bìos, termine che in senso lato indica la vita, umana e non, e quella dell'èthos, che indica la vita che gli uomini costruiscono e conducono insieme, esprimendone così il senso (significato e direzione). In fondo la bioetica sorge, anche nell'intuizione dell'oncologo Potter, che è stato tra i primi, se non il primo, a coniare questo termine, per difendere la vita e non semplicemente per tutelare le scelte e le volontà degli uomini. Ma il concetto di vita è molto esteso. Gli uomini amano usare con una certa disinvoltura le parole che coniano, oscillando tra usi equivoci e usi analoghi, ed è abbastanza evidente che il termine vita è di fatto predicato, cioè riferito, a contesti tra loro molto differenti. Siamo soliti parlare della vita politica, della vita religiosa, della vita sociale, della vita degli uomini, della vita degli animali.



E se ora usiamo il termine qualità della vita per indicare stati di salute, non possiamo dimenticare che questo vocabolo è stato pensato e usato all'interno dell'economia. Non si può certo dubitare della centralità della nozione di vita, che fin dall'antichità è servita per indicare esperienze e conoscenze che riguardavano l'uomo e Dio, la vita spirituale e la vita eterna. E dobbiamo ad Aristotele il tentativo di distinguere viventi e non viventi attraverso il concetto di anima, attribuito alle piante, agli animali e all'uomo. L'anima, come principio immanente e vitale, dava ragione dell'unità del vivente e della pluralità delle sue funzioni, che nell'uomo culminavano nell'attività cognitiva.

Ed è grazie a questa definizione della vita umana che, in seguito, nella tradizione cattolica il concetto teologico di persona potrà essere attribuito anche all'uomo, e non soltanto a Dio e agli angeli. Ma si può ancora parlare di vita, oggi che della vita si è impadronito il linguaggio delle scienze sperimentali? La Chiesa non dovrebbe sottrarsi, come scrive Lucetta Scaraffia, sulla scorta di alcune letture di testi di Illich, Foucault, Pichot, a un riferimento a un concetto "biologico astratto" di vita e tornare a parlare di persona o promuovere la Vita "come è intesa nelle parole di Gesù", evitando così di essere fraintesa? Personalmente ritengo che la questione possa essere affrontata anche da un'altra angolatura.

Certo, qualcuno è infastidito, e persino irritato, dal fatto che la Chiesa, in particolare la Chiesa cattolica, torni con insistenza a farsi promotrice della "difesa della vita" e consegni al pensiero filosofico e alla cultura secolarizzata l'immagine di una sacralità della vita, che va ben al di là del concetto, tutto moderno, di dignità della vita. Difendere la vita è un progetto opposto rispetto a quello del "governare la vita". Ed è questa la tentazione rinascente nell'epoca della tecnologia e della possibilità della manipolazione genetica ed eugenetica. Il nuovo antropocentrismo occidentale coltiva la speranza di poter finalmente fare della vita, non soltanto della vita umana, ma della vita tout court, l'oggetto della propria scelta e della propria progettualità. In fondo, il venire al mondo è, per ogni essere umano, l'esperienza di una passività originaria, di una dipendenza costitutiva, di un legame che è anche la radice dell'umano, perché si nasce da altri uomini e si diventa uomini in mezzo ad altri uomini. La vita umana non è una cosa che si aggiunge all'umano, è il concreto esserci qui e ora di qualcuno:  non si può, infatti, farsi astrattamente promotori della dignità umana, della persona umana, senza farsi promotori della vita umana.

Ma questo non significa che la vita non sia niente in sé, o si riduca alla corporeità, su cui si esercita la ricerca e la sperimentazione scientifica.

Infatti, anche se la biologia, per definizione, sembrerebbe occuparsi della vita, in realtà si occupa sempre ed esclusivamente di corpi viventi, cioè di organismi, o di materia vivente, cioè di cellule, tessuti, organi e via dicendo. In fondo, sappiamo che cosa sono e come funzionano i viventi, ma ignoriamo che cosa sia la vita in sé. Inoltre il concetto di vita è più esteso di quello di corpo e di vivente e, infatti, lo usiamo per definire delle relazioni, come quando parliamo della vita sociale, della vita politica, della vita spirituale, della stessa vita "eterna". Nella fede cristiana, la stessa Trinità è definita in termini di relazione tra le Tre Persone divine. Sono molti i motivi per cui la Chiesa ama affermare la sua difesa della vita e non soltanto dell'uomo e dei singoli viventi:  essa non dimentica mai che la vita è sempre partecipazione della stessa vita di Dio creatore.

La mossa teorica con cui alcuni filosofi contemporanei hanno cercato di sostituire alla nozione di vita umana quella di persona umana non è innocente, così come non sono innocenti le parole. Che cosa intendo dire con questa affermazione? In primo luogo voglio mettere in luce che le parole possono nuocere, cioè fare del male quando di fatto stravolgono, in un gioco di equivoci, i significati usuali e ne introducono, di nascosto, altri, non pensati o non pensabili. La parola persona, che ci è così familiare perché in gran parte ereditata dalla tradizione, complessa, articolata e ricca di sfumature, della teologia cristiana, oggi è usata secondo un significato che affonda le sue radici nell'epoca moderna, e nel dibattito contro la teologia trinitaria, e di solito indica l'uomo adulto, cosciente di sé e autonomo:  l'essere razionale coltivato e cullato dalle filosofie di tradizione kantiana e fatto proprio dai modelli di teoria liberale che hanno in Rawls il loro profeta.

Che cosa c'è di male in questa nozione, che di fatto identifica la persona con l'agente morale (cioè con chi agisce liberamente e autonomamente)? In sé nulla, purché sia chiaro che quel termine non indica l'uomo concreto, quello che noi siamo, perché l'uomo non è un astratto essere razionale, ma è un vivente che diviene nel tempo, che inizia a esistere prima di essere cosciente di sé, che può subire la privazione temporanea o permanente della coscienza di sé, che vive la propria soggettività anche quando non sa esprimerla, che nel ciclo quotidiano del sonno e della veglia sperimenta il fatto che la sua vita è più ricca e complessa della stessa coscienza che ne ha. L'epoca moderna ha cambiato l'ordine dei fatti attraverso il celebre motto cartesiano "penso, dunque sono" e la lapidaria frase di Locke, "senza coscienza non c'è persona". In realtà l'esperienza ci dice esattamente l'opposto, non si può pensare se non si è uomini, ma proprio perché l'uomo non è il pensiero o la sua coscienza si può essere uomini senza aver coscienza di sé e senza pensare. Il mito della soggettività ha offuscato, in molti, il senso della realtà, di quel sano realismo ed empirismo che non è mancato a gran parte della tradizione cristiana.

Cerco di spiegarmi, in poche parole, affrontando una questione complessa, ma per certi versi decisiva. Oggi si sente spesso dire che la domanda intorno alla persona umana deve iniziare con un chi è e non con che cosa è. Credo che sia, benché in buona fede, un abbaglio metodologico quello che inizia a porre la questione ultima al posto della questione prima. Infatti, soltanto perché so che cosa è una persona umana posso anche sapere che costitutivamente, ontologicamente, è un soggetto, che la soggettività è inscritta nella sua concreta corporeità, quella che si palesa nella sua microscopica origine corporea e che si dipana nel tempo. Solo a certe condizioni, di salute e di sviluppo, questa soggettività diventerà cosciente di sé:  ma si può diventare coscienti di sé soltanto se questo sé è già inscritto nella concreta vita umana, in quella nuda qualità della vita umana che è la costante della stessa persona umana. Il pensiero o la coscienza non creano la persona, la rivelano, la illuminano. Ma non si può illuminare, rivelare, manifestare ciò che non c'è. E la soggettività che già c'è è quella propria della vita umana, così che si può dire che la soggettività antropologica è la condizione perché si manifesti la soggettività psicologica (che determina la personalità) e la soggettività morale (ciò che determina l'essere buono o no dell'uomo).

Ebbene, la cultura contemporanea ha come annientato questa soggettività ontologica, sostanziale, che è la vita umana, in nome della soggettività psicologica e morale (per questo alcuni hanno detto che Eluana non era più una persona). Il progetto di manipolazione della vita embrionale (della soggettività embrionale) e di abbandono o eliminazione della soggettività segnata dallo stato di incoscienza (come nei casi dei cosiddetti "stati vegetativi") nasce in nome e in forza di questo culto della persona che, a ben vedere, è il frutto avvelenato del platonismo, cioè di quel dualismo tra anima e corpo, tra vita psichica e vita corporea, tra vita umana e vita personale, tra il che cosa è e il chi è dell'uomo, che governa gran parte delle teorie contemporanee.

Tommaso d'Aquino, con una mossa teorica che gli permetteva di conservare l'analogia del termine persona per esprimere la fede nella Trinità divina e per parlare dell'uomo, creatura voluta da Dio in sé, scriveva:  "Perciò la persona, in qualsiasi natura, indica ciò che è distinto in quella natura:  cioè nella natura umana significa questa carne, queste ossa, questa anima, che sono principio di individuazione per l'uomo; le quali cose, pur non facendo parte del significato di persona, tuttavia fanno parte di quello di persona umana" (Summa Theologiae, i, q. 29, a. 24).

L'individuo, il soggetto, perciò non è la sua anima, non è la sua razionalità, la sua coscienza, è questo concreto essere umano vivente che viene alla vita attraverso la trasmissione della vita. La filosofia di Tommaso ci permette, nel suo concreto realismo, di guardare nel microscopio elettronico per vedere come la vita umana sia da sempre qualificata come vita personale. Ma tutto ciò non è possibile se la nozione di vita è dissolta, vanificata, desostanzializzata a favore di una nozione di persona disincarnata, formale, procedurale.

Detto questo, occorre però fare un passo in più. L'insegnamento della fede, infatti, ci consegna un concetto di vita che, per così dire, trascende anche le diverse riflessioni che finora sono state date della vita e ci pone di fronte all'idea della partecipazione alla vita stessa di Dio che avviene nell'Incarnazione. Il Dio della creazione è anche il Dio della storia e nella storia:  la difesa della vita diventa allora un richiamo al fatto decisivo per la fede, della partecipazione di tutta la vita al progetto di Dio, cioè alla sua presenza come Padre e come Fratello in Cristo. La fede cristiana non conosce nessun antropocentrismo che non sia teocentrismo. In questo senso, il Vangelo della vita è anche l'annuncio della salvezza a cui tutto il creato è chiamato, perché, come ricorda san Paolo, "tutta la creazione geme le doglie del parto in attesa della manifestazione...".

Da questo angolo visuale si capisce la differenza che separa l'annuncio cristiano dai progetti ecologisti contemporanei e dall'emergere delle teorie che attribuiscono diritti agli animali e li definiscono persone. Queste teorie sono il frutto maturo di un antropocentrismo radicale, che pone nella soggettività dell'uomo il fondamento del valore e del significato della realtà, il dispensatore di beni e di diritti, il nuovo padrone e signore della vita. L'uomo decide che cosa ha valore in nome delle proprie scelte e delle proprie decisioni:  ciò che riconosce, vale, ciò che non riconosce, non vale nulla, è pura materia.
La vita diventa oggetto di scelta e di selezione, di manipolazione e di progetto:  la vita umana, quella vegetale, quella animale. Nella fede cristiana la vita non è né un feticcio, né un progetto, ha una consistenza e un valore in sé, anche quando non serve all'uomo, persino quando lo minaccia. Il fatto che alcuni viventi mettano in pericolo la vita umana, il fatto che l'uomo debba difendere la sua vita dalla minaccia di altri viventi, il fatto che l'uomo, come ogni altro vivente, si debba nutrire di altri viventi, non significa che questi viventi non abbiano alcun valore in sé, ma soltanto che non tutto ciò che è in sé buono è anche buono per l'uomo.

Cerco di spiegarmi:  quando definiamo velenosi dei funghi o delle bacche, diciamo semplicemente che quei funghi e quelle bacche non sono buoni da mangiare per l'uomo, ma questo non significa che non abbiano alcun significato in sé, o alcuna funzione, perché spesso sono cibo per altri viventi e servono per l'equilibrio della vita di un bosco.
Pensare alla realtà sotto la categoria della creazione significa correggere la prospettiva utilitaristica e introdurre un altro punto di vista sulla vita:  significa fare spazio alla prospettiva della bellezza, della gratuità, dell'imprevedibilità, dell'originalità. Non è una visione ingenua, che ignora l'esistenza degli opposti, che dimentica la fatica, il dolore, il sangue e la morte, i conflitti e le sconfitte:  è una prospettiva che indica il senso (significato e direzione) della storia e del creato.

Questa direzione ha al centro un'affermazione:  la morte non è la parola ultima sulla vita, sulla sua bellezza, sulla sua bontà, sulla sua imprevedibilità e originalità. Non si tratta di amare la vita sofferente, la vita malata, la vita morente, ma di amare la vita malgrado la sofferenza, malgrado il dolore, malgrado la morte. Il malgrado è ciò che va superato, perché il dolore, la sofferenza, la morte non sono in sé degni di amore:  l'amore per la vita, nella fede del Dio vivente, non è un vago sentimento o una spontanea bontà d'animo, è un compito che trova la sua forza nel sentirsi amati sempre dal Dio della vita. Il contributo che la fede può dare al pensiero filosofico, alla riflessione bioetica, alla vita stessa degli uomini, non può essere ridotto nei limiti della pura ragione formale e non può limitarsi ad assecondare le ristrettezze linguistiche di un'epoca che mastica genericamente nozioni scientifiche. La fede non parla di una vita diversa da quella di cui parla la biologia, la genetica, la filosofia:  parla e difende la stessa vita perché in essa coglie impensati riflessi della presenza di Dio.


(©L'Osservatore Romano - 9 settembre 2009)
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