Benvenuto in Famiglia Cattolica
Famiglia Cattolica da MSN a FFZ
Gruppo dedicato ai Cattolici e a tutti quelli che vogliono conoscere la dottrina della Chiesa, Una, Santa, Cattolica e Apostolica Amiamo Gesu e lo vogliamo seguire con tutto il cuore........Siamo fedeli al Magistero della Chiesa e alla Tradizione Apostolica che è stata trasmessa ai santi una volta per sempre. Ti aspettiamo!!!

 
Pagina precedente | 1 | Pagina successiva

Il Concilio Vaticano II e la sua corretta interpretazione

Ultimo Aggiornamento: 19/10/2009 13:08
Autore
Stampa | Notifica email    
OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
10/09/2009 10:59

DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
ALLA CURIA ROMANA IN OCCASIONE
DELLA PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI NATALIZI

Giovedì, 22 dicembre 2005

Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,
cari fratelli e sorelle!

Expergiscere, homo: quia pro te Deus factus est homo - Svegliati, uomo, poiché per te Dio si è fatto uomo” (S. Agostino, Discorsi, 185). Con quest’invito di Sant’Agostino a cogliere il senso autentico del Natale di Cristo, apro il mio incontro con voi, cari collaboratori della Curia Romana, in prossimità ormai delle festività natalizie. A ciascuno rivolgo il mio saluto più cordiale, ringraziandovi per i sentimenti di devozione e di affetto, di cui si è fatto efficace interprete il Cardinale Decano, al quale va il mio pensiero riconoscente. Iddio si è fatto uomo per noi: è questo il messaggio che ogni anno dalla silenziosa grotta di Betlemme si diffonde sin nei più sperduti angoli della terra. Il Natale è festa di luce e di pace, è giorno di interiore stupore e di gioia che si espande nell’universo, perché “Dio si è fatto uomo”. Dall’umile grotta di Betlemme l’eterno Figlio di Dio, divenuto piccolo Bambino, si rivolge a ciascuno di noi: ci interpella, ci invita a rinascere in lui perché, insieme a lui, possiamo vivere eternamente nella comunione della Santissima Trinità.

Con il cuore colmo della gioia che deriva da questa consapevolezza, riandiamo col pensiero alle vicende dell’anno che volge al suo tramonto. Stanno alle nostre spalle grandi avvenimenti, che hanno segnato profondamente la vita della Chiesa. Penso innanzitutto alla dipartita del nostro amato Santo Padre Giovanni Paolo II, preceduta da un lungo cammino di sofferenza e di graduale perdita della parola. Nessun Papa ci ha lasciato una quantità di testi pari a quella che ci ha lasciato lui; nessun Papa in precedenza ha potuto visitare, come lui, tutto il mondo e parlare in modo diretto agli uomini di tutti i continenti. Ma, alla fine, gli è toccato un cammino di sofferenza e di silenzio. Restano indimenticabili per noi le immagini della Domenica delle Palme quando, col ramo di olivo nella mano e segnato dal dolore, egli stava alla finestra e ci dava la benedizione del Signore in procinto di incamminarsi verso la Croce. Poi l'immagine di quando nella sua cappella privata, tenendo in mano il Crocifisso, partecipava alla Via Crucis nel Colosseo, dove tante volte aveva guidato la processione portando egli stesso la Croce. Infine la muta benedizione della Domenica di Pasqua, nella quale, attraverso tutto il dolore, vedevamo rifulgere la promessa della risurrezione, della vita eterna. Il Santo Padre, con le sue parole e le sue opere, ci ha donato cose grandi; ma non meno importante è la lezione che ci ha dato dalla cattedra della sofferenza e del silenzio. Nel suo ultimo libro “Memoria e Identità” (Rizzoli 2005) ci ha lasciato un’interpretazione della sofferenza che non è una teoria teologica o filosofica, ma un frutto maturato lungo il suo personale cammino di sofferenza, da lui percorso col sostegno della fede nel Signore crocifisso. Questa interpretazione, che egli aveva elaborato nella fede e che dava senso alla sua sofferenza vissuta in comunione con quella del Signore, parlava attraverso il suo muto dolore trasformandolo in un grande messaggio. Sia all'inizio come ancora una volta alla fine del menzionato libro, il Papa si mostra profondamente toccato dallo spettacolo del potere del male che, nel secolo appena terminato, ci è stato dato di sperimentare in modo drammatico. Dice testualmente: “Non è stato un male in edizione piccola… È stato un male di proporzioni gigantesche, un male che si è avvalso delle strutture statali per compiere la sua opera nefasta, un male eretto a sistema" (pag. 198). Il male è forse invincibile? È la vera ultima potenza della storia? A causa dell'esperienza del male, la questione della redenzione, per Papa Woytiła, era diventata l'essenziale e centrale domanda della sua vita e del suo pensare come cristiano. Esiste un limite contro il quale la potenza del male s'infrange? Sì, esso esiste, risponde il Papa in questo suo libro, come anche nella sua Enciclica sulla redenzione. Il potere che al male mette un limite è la misericordia divina. Alla violenza, all'ostentazione del male si oppone nella storia – come “il totalmente altro” di Dio, come la potenza propria di Dio – la divina misericordia. L'agnello è più forte del drago, potremmo dire con l'Apocalisse.

Alla fine del libro, nello sguardo retrospettivo sull'attentato del 13 maggio 1981 ed anche sulla base dell'esperienza del suo cammino con Dio e con il mondo, Giovanni Paolo II ha approfondito ulteriormente questa risposta. Il limite del potere del male, la potenza che, in definitiva, lo vince è – così egli ci dice – la sofferenza di Dio, la sofferenza del Figlio di Dio sulla Croce: “La sofferenza di Dio crocifisso non è soltanto una forma di sofferenza accanto alle altre… Cristo, soffrendo per tutti noi, ha conferito un nuovo senso alla sofferenza, l'ha introdotta in una nuova dimensione, in un nuovo ordine: quello dell'amore… La passione di Cristo sulla Croce ha dato un senso radicalmente nuovo alla sofferenza, l'ha trasformata dal di dentro… È la sofferenza che brucia e consuma il male con la fiamma dell'amore… Ogni sofferenza umana, ogni dolore, ogni infermità racchiude una promessa di salvezza… Il male… esiste nel mondo anche per risvegliare in noi l'amore, che è dono di sé… a chi è visitato dalla sofferenza… Cristo è il Redentore del mondo: ‘Per le sue piaghe noi siamo stati guariti’ (Is 53, 5)” (pag. 198 ss.). Tutto questo non è semplicemente teologia dotta, ma espressione di una fede vissuta e maturata nella sofferenza. Certo, noi dobbiamo fare del tutto per attenuare la sofferenza ed impedire l'ingiustizia che provoca la sofferenza degli innocenti. Tuttavia dobbiamo anche fare del tutto perché gli uomini possano scoprire il senso della sofferenza, per essere così in grado di accettare la propria sofferenza e unirla alla sofferenza di Cristo.

In questo modo essa si fonde insieme con l'amore redentore e diventa, di conseguenza, una forza contro il male nel mondo. La risposta che si è avuta in tutto il mondo alla morte del Papa è stata una manifestazione sconvolgente di riconoscenza per il fatto che egli, nel suo ministero, si è offerto totalmente a Dio per il mondo; un ringraziamento per il fatto che egli, in un mondo pieno di odio e di violenza, ci ha insegnato nuovamente l'amare e il soffrire a servizio degli altri; ci ha mostrato, per così dire, dal vivo il Redentore, la redenzione, e ci ha dato la certezza che, di fatto, il male non ha l'ultima parola nel mondo.

Due altri avvenimenti, avviati ancora da Papa Giovanni Paolo II, vorrei ora menzionare, se pur brevemente: si tratta della Giornata Mondiale della Gioventù celebrata a Colonia e del Sinodo dei Vescovi sull'Eucaristia che ha concluso anche l'Anno dell’Eucaristia, inaugurato da Papa Giovanni Paolo II.

La Giornata Mondiale della Gioventù è rimasta nella memoria di tutti coloro che erano presenti come un grande dono. Oltre un milione di giovani si radunarono nella Città di Colonia, situata sul fiume Reno, e nelle città vicine per ascoltare insieme la Parola di Dio, per pregare insieme, per ricevere i sacramenti della Riconciliazione e dell'Eucaristia, per cantare e festeggiare insieme, per gioire dell’esistenza e per adorare e ricevere il Signore eucaristico durante i grandi incontri del sabato sera e della domenica. Durante tutti quei giorni regnava semplicemente la gioia. A prescindere dai servizi d'ordine, la polizia non ebbe niente da fare – il Signore aveva radunato la sua famiglia, superando sensibilmente ogni frontiera e barriera e, nella grande comunione tra di noi, ci aveva fatto sperimentare la sua presenza. Il motto scelto per quelle giornate – “Andiamo ad adorarlo” – conteneva due grandi immagini che, fin dall'inizio, favorirono l'approccio giusto.

Vi era innanzitutto l'immagine del pellegrinaggio, l'immagine dell'uomo che, guardando al di là dei suoi affari e del suo quotidiano, si mette alla ricerca della sua destinazione essenziale, della verità, della vita giusta, di Dio. Questa immagine dell'uomo in cammino verso la meta della vita racchiudeva in se ancora due indicazioni chiare. C'era innanzitutto l’invito a non vedere il mondo che ci circonda soltanto come la materia grezza con cui noi possiamo fare qualcosa, ma a cercare di scoprire in esso la “calligrafia del Creatore”, la ragione creatrice e l'amore da cui è nato il mondo e di cui ci parla l'universo, se noi ci rendiamo attenti, se i nostri sensi interiori si svegliano e acquistano percettività per le dimensioni più profonde della realtà. Come secondo elemento si aggiungeva poi l'invito a mettersi in ascolto della rivelazione storica che, sola, può offrirci la chiave di lettura per il silenzioso mistero della creazione, indicandoci concretamente la via verso il vero Padrone del mondo e della storia che si nasconde nella povertà della stalla di Betlemme. L'altra immagine contenuta nel motto della
Giornata Mondiale della Gioventù era l'uomo in adorazione: “Siamo venuti per adorarlo”. Prima di ogni attività e di ogni mutamento del mondo deve esserci l'adorazione. Solo essa ci rende veramente liberi; essa soltanto ci dà i criteri per il nostro agire. Proprio in un mondo in cui progressivamente vengono meno i criteri di orientamento ed esiste la minaccia che ognuno faccia di se stesso il proprio criterio, è fondamentale sottolineare l'adorazione. Per tutti coloro che erano presenti rimane indimenticabile l’intenso silenzio di quel milione di giovani, un silenzio che ci univa e sollevava tutti quando il Signore nel Sacramento era posto sull'altare. Serbiamo nel cuore le immagini di Colonia: sono una indicazione che continua ad operare. Senza menzionare singoli nomi, vorrei in questa occasione ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile la Giornata Mondiale della Gioventù; soprattutto, però, ringraziamo insieme il Signore, perché in definitiva solo Lui poteva donarci quelle giornate nel modo in cui le abbiamo vissute.

La parola "adorazione" ci porta al secondo grande avvenimento di cui vorrei parlare: il Sinodo dei Vescovi e l'Anno dell’Eucaristia. Papa Giovanni Paolo II, con l'Enciclica Ecclesia de Eucharistia e con la Lettera apostolica Mane nobiscum Domine ci aveva già donato le indicazioni essenziali e al contempo, con la sua esperienza personale della fede eucaristica, aveva concretizzato l'insegnamento della Chiesa. Inoltre, la Congregazione per il Culto Divino, in stretto collegamento con l'Enciclica, aveva pubblicato l'istruzione Redemptionis Sacramentum come aiuto pratico per la giusta realizzazione della Costituzione conciliare sulla liturgia e della riforma liturgica. Oltre tutto ciò, era veramente possibile dire ancora qualcosa di nuovo, sviluppare ulteriormente l’insieme della dottrina? Proprio questa fu la grande esperienza del Sinodo quando, nei contributi dei Padri, si è vista rispecchiarsi la ricchezza della vita eucaristica della Chiesa di oggi e si è manifestata l'inesauribilità della sua fede eucaristica. Quello che i Padri hanno pensato ed espresso dovrà essere presentato, in stretto collegamento con le Propositiones del Sinodo, in un documento post-sinodale. Vorrei qui solo sottolineare ancora una volta quel punto che, poco fa, abbiamo già registrato nel contesto della Giornata Mondiale della Gioventù: l'adorazione del Signore risorto, presente nell'Eucaristia con carne e sangue, con corpo e anima, con divinità e umanità. È commovente per me vedere come dappertutto nella Chiesa si stia risvegliando la gioia dell'adorazione eucaristica e si manifestino i suoi frutti. Nel periodo della riforma liturgica spesso la Messa considerata come Cena eucaristica e l'adorazione del Ss.mo Sacramento erano viste come in contrasto tra loro: il Pane eucaristico non ci sarebbe stato dato per essere contemplato, ma per essere mangiato, secondo un’obiezione allora diffusa.

Nell'esperienza di preghiera della Chiesa si è ormai manifestata la mancanza di senso di una tale contrapposizione. Già Agostino aveva detto: “… nemo autem illam carnem manducat, nisi prius adoraverit;… peccemus non adorando - Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; … peccheremmo se non la adorassimo” (cfr Enarr. in Ps 98,9 CCL XXXIX 1385). Di fatto, non è che nell'Eucaristia riceviamo semplicemente una qualche cosa. Essa è l'incontro e l'unificazione di persone; la persona, però, che ci viene incontro e desidera unirsi a noi è il Figlio di Dio. Una tale unificazione può soltanto realizzarsi secondo le modalità dell'adorazione. Ricevere l'Eucaristia significa adorare Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui. Perciò, lo sviluppo dell'adorazione eucaristica, come ha preso forma nel corso del Medioevo, era la più coerente conseguenza dello stesso mistero eucaristico: soltanto nell'adorazione può maturare un'accoglienza profonda e vera. E proprio in questo atto personale di incontro col Signore matura poi anche la missione sociale che nell'Eucaristia è racchiusa e che vuole rompere le barriere non solo tra il Signore e noi, ma anche e soprattutto le barriere che ci separano gli uni dagli altri.

L'ultimo evento di quest’anno su cui vorrei soffermarmi in questa occasione è la celebrazione della conclusione del Concilio Vaticano II quarant'anni fa. Tale memoria suscita la domanda: Qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione del Concilio, è stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa resta ancora da fare? Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile, anche non volendo applicare a quanto è avvenuto in questi anni la descrizione che il grande dottore della Chiesa, san Basilio, fa della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea: egli la paragona ad una battaglia navale nel buio della tempesta, dicendo fra l'altro: “Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede …” (De Spiritu Sancto, XXX, 77; PG 32, 213 A; SCh 17bis, pag. 524). Emerge la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall'altra parte c'è l'“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino.

L'ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l'unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti.

Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito. In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisca questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità. Con ciò, però, si fraintende in radice la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di Costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire.

I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso. I Vescovi, mediante il Sacramento che hanno ricevuto, sono fiduciari del dono del Signore. Sono “amministratori dei misteri di Dio” (1 Cor 4,1); come tali devono essere trovati “fedeli e saggi” (cfr Lc 12,41-48). Ciò significa che devono amministrare il dono del Signore in modo giusto, affinché non resti occultato in qualche nascondiglio, ma porti frutto e il Signore, alla fine, possa dire all'amministratore: “Poiché sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto” (cfr Mt 25,14-30; Lc 19,11-27). In queste parabole evangeliche si esprime la dinamica della fedeltà, che interessa nel servizio del Signore, e in esse si rende anche evidente, come in un Concilio dinamica e fedeltà debbano diventare una cosa sola.

All'ermeneutica della discontinuità si oppone l'ermeneutica della riforma, come l'hanno presentata dapprima Papa Giovanni XXIII nel suo discorso d'apertura del Concilio l'11 ottobre 1962 e poi Papa Paolo VI nel discorso di conclusione del 7 dicembre 1965. Vorrei qui citare soltanto le parole ben note di Giovanni XXIII, in cui questa ermeneutica viene espressa inequivocabilmente quando dice che il Concilio “vuole trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti”, e continua: “Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell'antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell'opera, che la nostra età esige… È necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata” (S. Oec. Conc. Vat. II Constitutiones Decreta Declarationes, 1974, pp. 863-865).

È chiaro che questo impegno di esprimere in modo nuovo una determinata verità esige una nuova riflessione su di essa e un nuovo rapporto vitale con essa; è chiaro pure che la nuova parola può maturare soltanto se nasce da una comprensione consapevole della verità espressa e che, d’altra parte, la riflessione sulla fede esige anche che si viva questa fede. In questo senso il programma proposto da Papa Giovanni XXIII era estremamente esigente, come appunto è esigente la sintesi di fedeltà e dinamica. Ma ovunque questa interpretazione è stata l’orientamento che ha guidato la recezione del Concilio, è cresciuta una nuova vita e sono maturati frutti nuovi.
 
Quarant’anni dopo il Concilio possiamo rilevare che il positivo è più grande e più vivo di quanto non potesse apparire nell’agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo che il seme buono, pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così anche la nostra profonda gratitudine per l’opera svolta dal Concilio.

Paolo VI, nel suo discorso per la conclusione del Concilio, ha poi indicato ancora una specifica motivazione per cui un'ermeneutica della discontinuità potrebbe sembrare convincente. Nella grande disputa sull'uomo, che contraddistingue il tempo moderno, il Concilio doveva dedicarsi in modo particolare al tema dell'antropologia. Doveva interrogarsi sul rapporto tra la Chiesa e la sua fede, da una parte, e l'uomo ed il mondo di oggi, dall'altra (ibid., pp. 1066 s.). La questione diventa ancora più chiara, se in luogo del termine generico di “mondo di oggi” ne scegliamo un altro più preciso: il Concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra Chiesa ed età moderna. Questo rapporto aveva avuto un inizio molto problematico con il processo a Galileo. Si era poi spezzato totalmente, quando Kant definì la “religione entro la sola ragione” e quando, nella fase radicale della rivoluzione francese, venne diffusa un'immagine dello Stato e dell'uomo che alla Chiesa ed alla fede praticamente non voleva più concedere alcuno spazio. Lo scontro della fede della Chiesa con un liberalismo radicale ed anche con scienze naturali che pretendevano di abbracciare con le loro conoscenze tutta la realtà fino ai suoi confini, proponendosi caparbiamente di rendere superflua l’“ipotesi Dio”, aveva provocato nell'Ottocento, sotto Pio IX, da parte della Chiesa aspre e radicali condanne di tale spirito dell'età moderna. Quindi, apparentemente non c'era più nessun ambito aperto per un’intesa positiva e fruttuosa, e drastici erano pure i rifiuti da parte di coloro che si sentivano i rappresentanti dell'età moderna. Nel frattempo, tuttavia, anche l'età moderna aveva conosciuto degli sviluppi.

Ci si rendeva conto che la rivoluzione americana aveva offerto un modello di Stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella seconda fase della rivoluzione francese. Le scienze naturali cominciavano, in modo sempre più chiaro, a riflettere sul proprio limite, imposto dallo stesso loro metodo che, pur realizzando cose grandiose, tuttavia non era in grado di comprendere la globalità della realtà. Così, tutte e due le parti cominciavano progressivamente ad aprirsi l’una all'altra. Nel periodo tra le due guerre mondiali e ancora di più dopo la seconda guerra mondiale, uomini di Stato cattolici avevano dimostrato che può esistere uno Stato moderno laico, che tuttavia non è neutro riguardo ai valori, ma vive attingendo alle grandi fonti etiche aperte dal cristianesimo. La dottrina sociale cattolica, via via sviluppatasi, era diventata un modello importante tra il liberalismo radicale e la teoria marxista dello Stato.

Le scienze naturali, che come tali lavorano con un metodo limitato all'aspetto fenomenico della realtà, si rendevano conto sempre più chiaramente che questo metodo non comprendeva la totalità della realtà e aprivano quindi nuovamente le porte a Dio, sapendo che la realtà è più grande del metodo naturalistico e di ciò che esso può abbracciare. Si potrebbe dire che si erano formati tre cerchi di domande che ora, durante il Vaticano II, attendevano una risposta. Innanzitutto occorreva definire in modo nuovo la relazione tra fede e scienze moderne; ciò riguardava, del resto, non soltanto le scienze naturali, ma anche la scienza storica perché, in una certa scuola, il metodo storico-critico reclamava per sé l'ultima parola nella interpretazione della Bibbia e, pretendendo la piena esclusività per la sua comprensione delle Sacre Scritture, si opponeva in punti importanti all’interpretazione che la fede della Chiesa aveva elaborato. In secondo luogo, era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato moderno, che concedeva spazio a cittadini di varie religioni ed ideologie, comportandosi verso queste religioni in modo imparziale e assumendo semplicemente la responsabilità per una convivenza ordinata e tollerante tra i cittadini e per la loro libertà di esercitare la propria religione. Con ciò, in terzo luogo, era collegato in modo più generale il problema della tolleranza religiosa – una questione che richiedeva una nuova definizione del rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo. In particolare, di fronte ai recenti crimini del regime nazionalsocialista e, in genere, in uno sguardo retrospettivo su una lunga storia difficile, bisognava valutare e definire in modo nuovo il rapporto tra la Chiesa e la fede di Israele.

Sono tutti temi di grande portata su cui non è possibile soffermarsi più ampiamente in questo contesto. È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione. È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma. In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti – per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia – dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole.

Bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni, solo i principi esprimono l’aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare.

Così, ad esempio, se la libertà di religione viene considerata come espressione dell'incapacità dell'uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l'uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità, è legato a tale conoscenza. Una cosa completamente diversa è invece il considerare la libertà di religione come una necessità derivante dalla convivenza umana, anzi come una conseguenza intrinseca della verità che non può essere imposta dall'esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo solo mediante il processo del convincimento. Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il
Decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello Stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa. Essa può essere consapevole di trovarsi con ciò in piena sintonia con l'insegnamento di Gesù stesso (cfr Mt 22,21), come anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi.

La Chiesa antica, con naturalezza, ha pregato per gli imperatori e per i responsabili politici considerando questo un suo dovere (cfr 1 Tm 2,2); ma, mentre pregava per gli imperatori, ha invece rifiutato di adorarli, e con ciò ha respinto chiaramente la religione di Stato. I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede – una professione che da nessuno Stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della coscienza. Una Chiesa missionaria, che si sa tenuta ad annunciare il suo messaggio a tutti i popoli, deve impegnarsi per la libertà della fede. Essa vuole trasmettere il dono della verità che esiste per tutti ed assicura al contempo i popoli e i loro governi di non voler distruggere con ciò la loro identità e le loro culture, ma invece porta loro una risposta che, nel loro intimo, aspettano – una risposta con cui la molteplicità delle culture non si perde, ma cresce invece l'unità tra gli uomini e così anche la pace tra i popoli.

Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi; essa prosegue “il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio”, annunziando la morte del Signore fino a che Egli venga (cfr Lumen gentium, 8). Chi si era aspettato che con questo “sì” fondamentale all'età moderna tutte le tensioni si dileguassero e l’“apertura verso il mondo” così realizzata trasformasse tutto in pura armonia, aveva sottovalutato le interiori tensioni e anche le contraddizioni della stessa età moderna; aveva sottovalutato la pericolosa fragilità della natura umana che in tutti i periodi della storia e in ogni costellazione storica è una minaccia per il cammino dell'uomo. Questi pericoli, con le nuove possibilità e con il nuovo potere dell'uomo sulla materia e su se stesso, non sono scomparsi, ma assumono invece nuove dimensioni: uno sguardo sulla storia attuale lo dimostra chiaramente. Anche nel nostro tempo la Chiesa resta un "segno di contraddizione" (Lc 2,34) – non senza motivo Papa Giovanni Paolo II, ancora da Cardinale, aveva dato questo titolo agli Esercizi Spirituali predicati nel 1976 a Papa Paolo VI e alla Curia Romana. Non poteva essere intenzione del Concilio abolire questa contraddizione del Vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori dell'uomo.

Era invece senz'altro suo intendimento accantonare contraddizioni erronee o superflue, per presentare a questo nostro mondo l'esigenza del Vangelo in tutta la sua grandezza e purezza. Il passo fatto dal Concilio verso l'età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come “apertura verso il mondo”, appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in sempre nuove forme. La situazione che il Concilio doveva affrontare è senz'altro paragonabile ad avvenimenti di epoche precedenti. San Pietro, nella sua prima lettera, aveva esortato i cristiani ad essere sempre pronti a dar risposta (apo-logia) a chiunque avesse loro chiesto il logos, la ragione della loro fede (cfr 3,15). Questo significava che la fede biblica doveva entrare in discussione e in relazione con la cultura greca ed imparare a riconoscere mediante l'interpretazione la linea di distinzione, ma anche il contatto e l'affinità tra loro nell'unica ragione donata da Dio.

Quando nel XIII secolo, mediante filosofi ebrei ed arabi, il pensiero aristotelico entrò in contatto con la cristianità medievale formata nella tradizione platonica, e fede e ragione rischiarono di entrare in una contraddizione inconciliabile, fu soprattutto san Tommaso d'Aquino a mediare il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica, mettendo così la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo tempo. La faticosa disputa tra la ragione moderna e la fede cristiana che, in un primo momento, col processo a Galileo, era iniziata in modo negativo, certamente conobbe molte fasi, ma col Concilio Vaticano II arrivò l’ora in cui si richiedeva un ampio ripensamento. Il suo contenuto, nei testi conciliari, è tracciato sicuramente solo a larghe linee, ma con ciò è determinata la direzione essenziale, cosicché il dialogo tra ragione e fede, oggi particolarmente importante, in base al Vaticano II ha trovato il suo orientamento. Adesso questo dialogo è da sviluppare con grande apertura mentale, ma anche con quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione aspetta da noi proprio in questo momento. Così possiamo oggi con gratitudine volgere il nostro sguardo al Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa.

Infine, devo forse ancora far memoria di quel 19 aprile di quest'anno, in cui il Collegio Cardinalizio, con mio non piccolo spavento, mi ha eletto a successore di Papa Giovanni Paolo II, a successore di san Pietro sulla cattedra del Vescovo di Roma? Un tale compito stava del tutto fuori di ciò che avrei mai potuto immaginare come mia vocazione. Così, fu soltanto con un grande atto di fiducia in Dio che potei dire nell'obbedienza il mio “sì” a questa scelta. Come allora, così chiedo anche oggi a tutti Voi la preghiera, sulla cui forza e sostegno io conto. Al contempo desidero ringraziare di cuore in quest'ora tutti coloro che mi hanno accolto e mi accolgono tuttora con tanta fiducia, bontà e comprensione, accompagnandomi giorno per giorno con la loro preghiera.

Il Natale è ormai vicino. Il Signore Dio alle minacce della storia non si è opposto con il potere esteriore, come noi uomini, secondo le prospettive di questo nostro mondo, ci saremmo aspettati. L'arma sua è la bontà. Si è rivelato come bimbo, nato in una stalla. È proprio così che contrappone il suo potere completamente diverso alle potenze distruttive della violenza. Proprio così Egli ci salva. Proprio così ci mostra ciò che salva. Vogliamo, in questi giorni natalizi, andargli incontro pieni di fiducia, come i pastori, come i sapienti dell'Oriente.

Chiediamo a Maria di condurci al Signore. Chiediamo a Lui stesso di far brillare il suo volto su di noi. Chiediamogli di vincere Egli stesso la violenza nel mondo e di farci sperimentare il potere della sua bontà.

Con questi sentimenti imparto di cuore a tutti Voi la Benedizione Apostolica.

 

© Copyright 2005 - Libreria Editrice Vaticana

__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
10/09/2009 11:12

INCONTRO DEL SANTO PADRE CON IL CLERO DI BELLUNO-FELTRE E TREVISO AD AURONZO DI CADORE 25.07.2007

...
Domanda. – Io ho l’ultima domanda e sarei molto tentato di metterla via, perché si tratta di una domanda piccola e dopo nove volte che vostra Santità ha saputo trovare la strada per parlarci di Dio e portarci molto molto in alto, mi pare quasi banale e povero quello che sto per chiederle, ma ormai lo faccio. Si tratta di una parola per quelli della mia generazione, per noi che ci siamo preparati durante gli anni del Concilio, poi siamo partiti con entusiasmo e forse anche con la pretesa di cambiare il mondo, abbiamo anche lavorato tanto ed oggi siamo un po’ in difficoltà, perché stanchi, perché non si sono realizzati molti sogni ed anche perché ci sentiamo un po’ isolati. I più anziani ci dicono "Vedete che avevamo ragione noi ad essere più prudenti" ed i giovani qualche volta ci trattano da "nostalgici del Concilio". La nostra domanda è questa: "Possiamo ancora portare un dono alla nostra Chiesa, specialmente con quell’attaccamento alla gente che ci sembra ci abbia contraddistinto? Ci aiuti a riprendere speranza e serenità….

Risposta. – Grazie, è una domanda importante e che io conosco molto bene. Anch’io ho vissuto i tempi del Concilio, essendo nella Basilica di San Pietro con grande entusiasmo e vedendo come si aprivano nuove porte e pareva realmente essere la nuova Pentecoste, dove la Chiesa poteva nuovamente convincere l’umanità, dopo l’allontanamento del mondo dalla Chiesa nell’Ottocento e nel Novecento, sembrava si rincontrassero di nuovo Chiesa e mondo e che rinascesse nuovamente un mondo cristiano ed una Chiesa del mondo e veramente aperta al mondo. Abbiamo tanto sperato, ma le cose in realtà si sono rivelate più difficili. Tuttavia rimane la grande eredità del Concilio, che ha aperto una strada nuova, è sempre una magna charta del cammino della Chiesa, molto essenziale e fondamentale. Ma perché è andata così? Prima vorrei forse cominciare con un’osservazione storica. I tempi di un post-Concilio sono quasi sempre molto difficili. Dopo il grande Concilio di Nicea - che per noi è realmente il fondamento della nostra fede, di fatto noi confessiamo la fede formulata a Nicea – non è nata una situazione di riconciliazione e di unità come aveva sperato Costantino, promotore di tale grande Concilio, ma una situazione realmente caotica di lite di tutti contro tutti. San Basilio nel suo libro sullo Spirito Santo paragona la situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea ad una battaglia navale di notte dove nessuno più conosce l’altro, ma tutti sono contro tutti. Era realmente una situazione di caos totale: così descrive con colori forti il dramma del dopo Concilio, del dopo Nicea, San Basilio. Poi 50 anni dopo, per il Concilio primo di Costantinopoli, l’imperatore invita San Gregorio Nazianzeno a partecipareal Concilio e San Gregorio Nazianzeno risponde: No, non vengo, perché io conosco queste cose, so che da tutti i Concili nasce solo confusione e battaglia, quindi non vengo. E non è andato. Quindi non è adesso, in retrospettiva, una sorpresa così grande come era nel primo momento per noi tutti digerire il Concilio, questo grande messaggio. Immetterlo nella vita della Chiesa, riceverlo, così
che diventi vita della Chiesa, assimilarlo nelle diverse realtà della Chiesa, è una sofferenza, e solo nella sofferenza si realizza anche la crescita. Crescere è sempre anche soffrire, perché è uscire da uno stato e passare ad un altro. E nel concreto del dopo-Concilio dobbiamo constatare che vi sono due grandi cesure storiche. Nel dopo-Concilio, la cesura del ‘68, l’inizio o l’esplosione - oserei dire - della grande crisi culturale dell’Occidente. Era finita la generazione del dopoguerra, una generazione che dopo tutte le distruzioni e vedendo l’orrore della guerra, del combattersi e constatando il dramma delle queste grandi ideologie che avevano realmente condotto le persone verso il baratro della guerra, avevamo riscoperto le radici cristiane dell’Europa e avevamo cominciato a ricostruire l’Europa con queste ispirazioni grandi. Ma finita questa generazione si vedevano anche tutti i fallimenti, le lacune di questa ricostruzione, la grande miseria nel mondo e così comincia, esplode la crisi della cultura occidentale, direi una rivoluzione culturale che vuole cambiare radicalmente. Dice: non abbiamo creato, in duemila anni di cristianesimo, il mondo migliore. Dobbiamo ricominciare da zero in modo assolutamente nuovo; il marxismo sembra la ricetta scientifica per creare finalmente il nuovo mondo.

E in questo – diciamo – grave, grande scontro tra la nuova, sana modernità voluta dal Concilio e la crisi della modernità, diventa tutto difficile come dopo il primo Concilio di Nicea. Una parte era del parere che questa rivoluzione culturale era quanto aveva voluto il Concilio, identificava questa nuova rivoluzione culturale marxista con la volontà del Concilio; diceva: questo è il Concilio. Nella lettera i testi sono ancora un po’ antiquati, ma dietro le parole scritte sta questo spirito, questo è la volontà del Concilio, così dobbiamo fare. E dall’altra parte, naturalmente, la reazione: così distruggete la Chiesa. La reazione – diciamo – assoluta contro il Concilio, la anti-conciliarità e – diciamo – la timida, umile ricerca di realizzare il vero spirito del Concilio. E come dice un proverbio "Se cade un albero fa grande rumore, se cresce una selva non si sente niente perché si sviluppa un processo senza rumore" e quindi durante questi grandi rumori del progressismo sbagliato, dell’anti-conciliarismo cresce molto silenziosamente, con tante sofferenze e anche con tante perdite nella costruzione di un nuovo passaggio culturale, il cammino della Chiesa.

E poi la seconda cesura nell’89. Il crollo dei regimi comunisti, ma la risposta non fu il ritorno alla fede, come si poteva forse aspettare, non fu la riscoperta che proprio la Chiesa con il Concilio autentico aveva dato la risposta. La risposta fu invece lo scetticismo totale, la cosiddetta post-modernità. Niente è vero, ognuno deve vedere come vivere, si afferma un materialismo, uno scetticismo pseudo-razionalista cieco che finisce nella droga, finisce in tutti questi problemi che conosciamo e di nuovo chiude le strade alla fede, perché è così semplice, così evidente. No, non c’è nulla di vero. La verità è intollerante, non possiamo prendere questa strada. Ecco: in questi contesti di due rotture culturali, la prima, la rivoluzione culturale del ’68, la seconda, la caduta potremmo dire nel nichilismo dopo l’89, la Chiesa con umiltà, tra le passioni del mondo e la gloria del Signore, prende la sua strada. Su questa strada dobbiamo crescere con pazienza e dobbiamo adesso in un modo nuovo imparare che cosa vuol dire rinunciare al trionfalismo. Il Concilio aveva detto di rinunciare al trionfalismo – e aveva pensato al barocco, a tutte queste grandi culture della Chiesa. Si disse: cominciamo in modo moderno, nuovo. Ma era cresciuto un altro trionfalismo, quello di pensare: noi adesso facciamo le cose, noi abbiamo trovato la strada e troviamo su di essa il mondo nuovo. Ma l’umiltà della Croce, del Crocifisso esclude proprio anche questo trionfalismo, dobbiamo rinunciare al trionfalismo secondo cui adesso nasce realmente la grande Chiesa del futuro.

La Chiesa di Cristo è sempre umile e proprio così è grande e gioiosa. Mi sembra molto importante che adesso possiamo vedere con occhi aperti quanto è anche cresciuto di positivo nel dopo Concilio: nel rinnovamento della liturgia, nei Sinodi, Sinodi romani, Sinodi universali, Sinodi diocesani, nelle strutture parrocchiali, nella collaborazione, nella nuova responsabilità dei laici, nella grande corresponsabilità interculturale e intercontinentale, in una nuova esperienza della cattolicità della Chiesa, dell’unanimità che cresce in umiltà e tuttavia è la vera speranza del mondo. E così dobbiamo, mi sembra, riscoprire la grande eredità del Concilio che non è uno spirito ricostruito dietro i testi, ma sono proprio i grandi testi conciliari riletti adesso con le esperienze che abbiamo avuto e che hanno portato frutto in tanti movimenti, tante nuove comunità religiose. In Brasile sono arrivato sapendo come si espandono le sette e come sembra un po’ sclerotizzata la Chiesa cattolica; ma una volta arrivato ho visto che quasi ogni giorno in Brasile nasce una nuova comunità religiosa, nasce un nuovo movimento, non solo crescono le sette. Cresce la Chiesa con nuove realtà piene di vitalità, non così da riempire le statistiche - questa è una speranza falsa, la statistica non è la nostra divinità - ma crescono negli animi e creano la gioia della fede, creano presenza del Vangelo, creano così anche vero sviluppo del mondo e della società.

Quindi mi sembra che dobbiamo combinare la grande umiltà del Crocifisso, di una Chiesa che è sempre umile e sempre contrastata dai grandi poteri economici, militari ecc., ma dobbiamo imparare insieme con questa umiltà anche il vero trionfalismo della cattolicità che cresce in tutti i secoli. Cresce anche oggi la presenza del Crocifisso risorto, che ha e conserva le sue ferite; è ferito, ma proprio così rinnova il mondo, dà il suo soffio che rinnova anche la Chiesa nonostante tutta la nostra povertà. E direi, in questo insieme di umiltà della Croce e di gioia del Signore risorto, che nel Concilio ci ha dato un grande indicatore di strada, possiamo andare avanti gioiosamente e pieni di speranza.
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
10/09/2009 11:13

Letture ermeneutiche del Concilio Ecumenico Vaticano II

di Agostino Marchetto



Inizierei col ricordare – come premessa – l'importanza vitale del legame profondo tra teologia, storia della Chiesa e diritto. Su questa linea ho lavorato negli ultimi trentacinque anni, come risulta anche dal mio volume, "Chiesa e papato nella storia e nel diritto. 25 anni di studi critici" (Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002).

Aggiungo la considerazione fondamentale sull'importanza e sul valore dottrinale, spirituale e pastorale del Concilio Ecumenico Vaticano II: è "icona" del cattolicesimo, costituzionalmente, comunione anche col passato, con le origini, identità in evoluzione, fedeltà nel rinnovamento. Da qui la necessità di una sua corretta esegesi, di una ermeneutica veritiera, cioè di una interpretazione fondata e rispettosa di ciò che un Concilio Ecumenico è.

"Magno" fu il Vaticano II. Solo gli atti ufficiali sono raccolti in 62 grossi tomi, che formano la base sicura per la giusta recezione e una corretta ermeneutica. Molti però hanno iniziato a tessere la loro tela interpretativa ancor prima della pubblicazione degli atti, indispensabili, riferentisi agli organi direttivi conciliari, basandosi cioè su scritti privati (diari personali), su giornali contemporanei e cronache, pur a volte egregie. Penso a quella del P. Caprile, per esempio.

Qui nasce la questione già del loro vaglio, della critica incrociata, poiché da una pur semplice lettura appaiono discrepanze e varietà di attribuzioni e "meriti" (per certe posizioni alla fine "vincenti"), conoscenze parziali rispetto a complessità di cose sinodali (tela di regolamenti, "pressioni", movimenti, "battaglie" contro il "conservativismo", o la curia, o a difesa della tradizione o dell'avanguardia, magistero del Magistero, o interpretazioni di indirizzo pastorale-ecumenico di Giovanni XXIII).

Con questo non si rifiuta naturalmente l'apporto dei diari, come ha fatto ad esempio E. Mahieu per quelli conciliari del Congar. Essi danno, fra l'altro, sapore e costituiscono "ingredienti" al tutto, ma vanno sottomessi agli atti ufficiali senza scivolare verso una storia di frammenti, una cronaca o un enciclopedismo, con dispersione, dissezione, vivisezione o scorticatura del Concilio stesso. Ricordiamo qui i diari di Chenu, Edelby, Charue – e gli inventari delle carte Suenens e De Smedt –, Congar, Prignon, Betti e Philips, in attesa di quello di Felici. Menzioniamo inoltre i volumi di S. Schmidt su Bea, B. Lai – per Siri – e J. Ratzinger – con due "ricordi" sulla finalità del Concilio e sulle "fonti" della Rivelazione –, nonché – ancora di ricordi si tratta – del Card. Suenens. Per tutto ciò vedasi il mio volume "Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia", Libreria Editrice Vaticana, 2005, pp. 407.

La problematica soggiacente all'utilizzo dei diari è, per molti, legata all'impegno a diminuire l'importanza dei documenti finali conciliari (lo "spirito" del Concilio! Ma è invece spirito di questo corpus), sintesi di Tradizione e rinnovamento (cioè aggiornamento), per fare prevalere una ricerca "mirata" in precedenza, che ci è apparsa ideologica fin dagli inizi. Essa punta solo sugli aspetti innovativi, sulla discontinuità rispetto alla Tradizione. La testimonianza più lampante la troviamo nel volume "L'evento e le decisioni. Studi delle dinamiche del Concilio Vaticano II", a cura di Maria Teresa Fattori e Alberto Melloni.

Il puntare sulla discontinuità è anche frutto dell'attuale tendenza storiografica generale che (dopo e contro Braudel e le Annales) privilegia, nell'interpretazione storica, "l'evento", inteso come discontinuità e mutamento traumatico. Orbene, nella Chiesa, se "evento" non è tanto un fatto importante, ma una rottura, una novità assoluta, il nascere "in casu" quasi di una nuova Chiesa, una rivoluzione copernicana, il passaggio insomma a un altro cattolicesimo – perdendone le caratteristiche inconfondibili –, detta prospettiva non potrà e dovrà essere accettata proprio per la specificità cattolica. Nel citato volume, per conseguenza, si criticano le "ermeneutiche" conciliari di uomini non certamente "chiusi" o contrari al Vaticano II, quali Jedin, Kasper, Ratzinger e lo stesso Poulat. Così risulta che quella che fu una posizione estrema, oltranzista (opposta al "consenso"), nel seno della maggioranza conciliare (v'era pure un'estremità nella minoranza, che poi si manifesterà con lo scisma di Mons. Lefebvre), è riuscita, dopo il Concilio, quasi a monopolizzarne finora la interpretazione, rigettando ogni diverso procedere, vituperandolo magari di anticonciliare (v. G. Dossetti, "Il Vaticano II. Frammenti di una riflessione").

È quindi necessario richiamare qui l'intenzione (al singolare, mentre molti le divaricano) di Giovanni XXIII e di Paolo VI per quanto riguarda il Concilio. Dopo una leggera perplessità iniziale ("un ginepraio"), Montini aderì infatti con tutto il cuore all'impegno conciliare, all'aggiornamento, cioè. Basti pensare alla sua lettera al Card. Cicognani per dare unità alla riflessione su Chiesa ad intra e Chiesa ad extra. Naturalmente, per entrambi, era un aggiornamento pastorale, nella fedeltà al "depositum". A illustrare ciò cito il mio articolo: "Tradizione e rinnovamento si sono abbracciati: il Concilio Vaticano II", in "Rivista della Diocesi di Vicenza", 1999 / n. 9, pp. 1232-1245, e in "Bailamme", n. 26 / 4, Giugno-Dicembre 2000, pp. 51-64). Ne richiamo i sottotitoli: problematica soggiacente; l'intenzione di papa Giovanni e il significato di T(t)radizione; l'intenzione di Paolo VI; un esempio di abbraccio: collegialità e primato; il dialogo e il consenso, in Concilio, per giungere all'abbraccio tra rinnovamento e Tradizione.

Citerò qui soltanto un passo, in cui Paolo VI attesta che "non sarebbe dunque nel vero chi pensasse che il Concilio Vaticano II rappresenti un distacco, una rottura o una liberazione dall'insegnamento della Chiesa, o autorizzi o promuova un conformismo alla mentalità del nostro tempo, in ciò che esso ha di effimero e di negativo" ("Insegnamenti di Paolo VI", vol. IV, 1966, p. 699).

Con questo telone di fondo possiamo ora richiamare la situazione ermeneutica dagli anni '90, rimandando, per chi volesse completare e approfondire, al mio volume sul Concilio.

Diciamo subito comunque che per noi non è buona tale situazione poiché vi appare uno squilibrio, una interpretazione quasi monocorde, cioè non nel senso di quell'abbraccio di cui abbiamo detto in antecedenza.


Il "gruppo di Bologna"


Di fatto quel gruppo di studiosi di Bologna – diciamo così –, guidati dal Prof. G. Alberigo, e ben coadiuvati da una affiatata squadra di autori (anche di Lovanio, e non solo), che si trovano fondamentalmente in una stessa linea di pensiero, sono riusciti, con ricchezza di mezzi, industriosità di operazioni e larghezza di amicizie, a monopolizzare ed imporre una interpretazione – secondo noi – scentrata, grazie specialmente alla pubblicazione di una "Storia del Concilio Vaticano II", edita da Peeters/Il Mulino, in cinque volumi, già tutti usciti in lingua italiana e in cammino di conclusione in francese, inglese, spagnolo, tedesco, portoghese, russo e giapponese. La gravità della conseguente situazione potrà essere rilevata dalla lettura delle mie presentazioni dei volumi dellopera nella già citata mia ricerca (pp. 93-165). Per essere concreto vi leggo qualche mia critica alle "Conclusione e alle prime esperienze di ricezione" affidate a G. Alberigo nel V volume. L'autore vi riprende i suoi punti di vista di sempre, già da noi molte volte criticati. Mi riferisco alla contrapposizione tra Giovanni XXIII e Paolo VI, alla questione della "modernità" (cosa significa?) e al passaggio, indebito, da questa, all'"umanità". Ci riferiamo allo spostamento del baricentro conciliare dall'assemblea (e relativi Acta Synodalia) alle commissioni (e ai diari personali), alla tendenza a considerare "nuovi" schemi che tali non sono, al giudizio di "acefalia" dell'assemblea conciliare, alla visione di parte circa la libertà religiosa.

Intendiamo ancora riferirci all'ispirazione riduttiva del Synodus Episcoporum; alla "disparità tra i vari atti approvatiŠ: il loro grado di elaborazione e di corrispondenza alle linee di fondo del Vaticano II è vistosamente diseguale" (ci chiediamo: chi giudica al riguardo?); alla svalutazione dei voti dei Padri, allo svilimento del codice di diritto canonico e, al contrario, all'amore per la "legge stralcio". Altresì mi riferisco, in accento critico, al richiamo della "settimana nera" – che nera non è, ma fu quella del chiarimento –; alla "Nota Explicativa Praevia" (con cui si sarebbe voluto precostituire "una norma ermeneutica"); alla pretesa "lunga attesa" trascorsa dalle decisioni conciliari alla loro attuazione, che avrebbe giustificato "spontaneità tumultuose"; alla riforma della curia "in un'ottica ecclesiologica neo-accentratrice e pertanto incoerente proprio con il Vaticano II". Intendiamo riferirci anche al "silenzio conciliare" (il concilio restò "muto": è veramente così?) su alcuni argomenti (fini del
matrimonio, generazione responsabile e celibato sacerdotale); al "trauma suscitato in tutto il mondo cristiano dall'enciclica "Humanae vitae"; alla necessità di un nuovo criterio di interpretazione per il Vaticano II; alla reiterata difesa della canonizzazione conciliare di papa Giovanni; alla svalutazione dei testi conciliari rispetto all'evento, e alla critica alla loro edizione tipica e, per interposta persona, agli Acta Synodalia curati da Mons. Carbone.

Ma la grande questione ("transizione epocale?"), che riceve risposta affermativa, è posta nel capitolo successivo dallo stesso Alberigo sempre nel V volume della "Storia". In esso il pensiero dell'autore è un po' meno drastico e più limato nell'espressione, in qualche caso, di quanto fosse in antecedenza (v. per esempio quella giusta affermazione "non sono esistiti un concilio della maggioranza e un concilio della minoranza, tanto meno un concilio dei vincitori e uno dei vinti. Il Vaticano II è il risultato di tutti i fattori che vi hanno concorso"). Ne prendiamo atto anche noi con piacere, dopo tanto scrivere, nei precedenti volumi, contro una minoranza "anticonciliare".

Tuttavia, anche in questo ultimo capitolo, Alberigo continua ad esporre i suoi noti punti di vista, per noi ampiamente criticabili poiché inficiati da evidente ideologia. Tralasciamo varie questioni, pur importanti, e consideriamo che l'autore propone il Vaticano II "anzitutto come evento" e poi anche come "corpus delle sue decisioni". Va qui la nostra opposizione a tale priorità. Se poi si intende evento come lo vede oggi la storiografia profana, che abbiamo già considerato, nel senso cioè di rottura rispetto al passato, non possiamo accettare una tale qualifica (v. la nostra nota su "L'evento e le decisioni"Š in A. H. C., 1998, pp. 131-142, e in "Apollinaris", 1998, pp. 325-337).

L'evento è poi presentato, giustamente, con legame all'"aggiornamento", ma passato attraverso il filtro di Chenu, e alla "pastoralità", però anche qui con un ulteriore ricorso a tale teologo e la menzione di una contrarietà al suo "atteggiamento di ricerca" da parte del compianto Mons. Maccarrone.

Pastoralità e aggiornamento, per Alberigo, avrebbero posto "congiuntamente le premesse per il superamento della egemonia della Œteologia, intesa come isolamento della dimensione dottrinale della fede e sua concettualizzazione astratta, come anche quella del Œgiuridismo", con affermazioni assai gravi: "La fede e la chiesa non appaiono più coestensive con la dottrina, la quale non ne costituisce neppure la dimensione più importanteŠ. L'adesione alla dottrina, e soprattutto a una singola formulazione dottrinale, non può più essere il criterio ultimo per discernere l'appartenenza all'Unam Sanctam".

Comunque, proprio in tema di ecumenismo, Alberigo torna a sostenere che gli osservatori acattolici "erano stati sostanzialmente membri, sia pure sui generis (informali) del concilio", durante il quale vi fu una "communicatio in sacris" sia pure imperfetta. L'autore così continua: "In questo modo è emersa – sia pure in filigrana – nel Vaticano II una concezione pastorale-sacramentale del cristianesimo e della chiesa, che tende a sostituire una precedente concezione dottrinale-disciplinare". A sostituire? Domando stupito.

Segue il capitolo "Fisionomia della chiesa e dialogo col mondo", con iniziali equivoci di termini e differenziazione, sul tema, tra papa Giovanni e Paolo VI. L'autore nota diversità tra i due papi pure rispetto al Vaticano I: "Così papa Paolo si è trovato ad insistere sulla Œcostituzione gerarchica sino a introdurre la possibilità di una Œcomunione gerarchica. Ne è derivata una difficoltà di piena sintonia con l'ecclesiologia della maggioranza conciliare, che aveva preferito non riprendere la qualifica della chiesa come Œcorpo mistico, difficoltà culminata nella Nota Explicativa Praevia al terzo capitolo di Lumen Gentium". Quanti salti mortali, anche in seguito, per differenziare i due papi.

Un altro punto scottante è quello illustrato sotto il titolo "Il Vaticano II e la tradizione". A questo proposito, per l'autore, nel confronto tra testi preparatori e finali vi è "sostanziale continuità", ma anche "discontinuità rispetto al cattolicesimo dei secoli della cristianità medievale e del periodo posttridentino. Non emergono novità sostanziali, ma uno sforzo Š per riproporre l'antica fede in termini comprensibili all'uomo contemporaneo". Eppure, subito dopo, ecco riapparire la distinzione tra Chiesa e Regno di Dio (in modo tale che non si considera che essa ne è il germe e l'inizio). ponendosi così "le premesse per un superamento dell'ecclesiocentrismo, e perciò per una relativizzazione della stessa ecclesiologia, eŠ per un ricentramento della riflessione cristiana".

Il Prof. Alberigo introduce quindi la visione di un "parallelismo delle forze: episcopato-papa-curia-opinione pubblica". Vi è qui indulgenza per un certo psicologismo (timore, stanchezza, apatia, marginalizzazione), chiamata in causa di conferenze episcopali continentali, che non esistono, creazione di analogie senza fondamento (con lobby parlamentari, con le "nazioni" dei concili tardo-medievali), richiamo (che valeva per tutti, e non solo per il Coetus dei tradizionalisti) degli ammonimenti di Paolo VI contro l'organizzazione di gruppi all'interno del Concilio e del "test della gelosia che ha frenato quasi tutte le commissioni".

Il trattamento che Alberigo riserva alla curia è pure il solito. Vi fu una sua "egemoniaŠ sia sulla fase antepreparatoria che su quella preparatoria". Essa fu "un polo di tutta la vita del Vaticano II, Š un polo che aveva una propria visione della chiesa, di cui era gelosa", e qui si fanno i nomi del Card. Ottaviani, di Mons. Felici, dei Segretari di Stato, che "hanno avuto un imponente influsso sul concilio, sia direttamente che condizionando il papa". E non si avvede Alberigo che, specialmente i Segretari di Stato, sono i più vicini collaboratori del Papa stesso, la sua longa manus. "La massima incidenza – continua l'autore – del condizionamento curiale si è avuta anzitutto nel peso che gli schemi preparatori hanno esercitato sino alla fine sui lavori conciliari ". C'è qui permanenza nell'equivoco: gli schemi non erano curiali.

Alberigo riprende, successivamente, noti suoi pensieri sul "primo piano dell'azione dello Spirito e non del papa o della chiesa e del suo universo dottrinale" per quanto riguarda il Concilio, sulla dottrina sociale della Chiesa, su un Concilio "guidato", sul metodo e sul confronto con le scienze "profane" e con la riflessione teologica di matrice protestante, sull'"accettazione della storia". Si parla di "un rapporto organico tra storia e salvezza", superandosi "la dicotomia tra storia profana e storia sacra. [...] Così la storia viene riconosciuta come Œluogo teologico'". Noti pensieri sono ancora da lui presentati circa l'uso rigoroso del metodo storico-critico e l'appesantimento del Vaticano II per "un certo numero di decreti d'ispirazione preconciliare", pur concedendo Alberigo che il Concilio "abbia complessivamente trasceso le attese".

La nostra presentazione critica va pure verso la asserita "novità" di questo Concilio se, oltre quanto si dice delle diversità legittime rispetto ai precedenti, si vuol significare che i criteri della "pastoralità" e dell'"aggiornamento" erano "da troppo tempo inconsueti – anzi, estranei – al cattolicesimo", svalutando l'autore, al tempo stesso, l'aspetto giuridico (le decisioni conciliari sarebbero "orientative e non precettive").

Sempre in tema istituzionale, l'autore attesta anche, erroneamente, un "rovesciamento delle priorità [...] consistente nell'abbandono del riferimento alle istituzioni ecclesiastiche, alla loro autorità e alla loro efficienza come il centro e il metro della fede e della chiesa". È affermazione grave e squilibrata se si pensa pure che, anteriormente, Alberigo aveva asserito: "L'egemonia del sistema istituzionale sulla vita cristianaŠ aveva toccato l'apice con la qualifica dogmatica del primato e dell'infallibilità magisteriale del vescovo di Roma. [...] Sono invece la fede, la comunione e la disponibilità al servizio che fanno la chiesa; sono questi i valori guida sui quali si misura la inadeguatezza evangelica della struttura e dei comportamenti delle istituzioni". Ma perché opporre così le cose? Mi domando.

Da ciò si trae la conclusione che "la ricezione del Vaticano II – e forse la sua stessa comprensione – siano ancora incerti e embrionali". Non saremmo così radicali e in ogni caso Alberigo non dovrebbe specialmente richiamare a proprio sostegno il Sinodo straordinario del 1985, che si oppose a ermeneutiche come la sua. E come può del resto l'autore condannare un presunto appiattimento ecclesiale sulle istituzioni secolari quando continuamente egli propone una democratizzazione della Chiesa? Poteva il Concilio fare di più? egli si chiede infine. "La domanda è imbarazzante e la risposta precaria", ma Alberigo la dà, rivelando sue delusioni. Eppure il Vaticano II – non ecumenico "strictu (sic!) sensu". Perché? – "ha lasciato una chiesa cattolica ben diversa da quella in seno alla quale si era aperto". A questo punto l'autore chiama "a consulto" Jedin, Rahner, Chenu, Pesch, Vilanova e Dossetti per introdurci alla "terza epoca della storia della Chiesa" (così Pesch, che mi trova molto critico), e definire l'evento Concilio Vaticano II "mutamento epocale" e "transizione epocale". Infatti "da un lato esso è punto di arrivo e di conclusione del periodo posttridentino e controversista, e – forse – dei lunghi secoli Œcostantiniani; da un altro lato è anticipazione e punto di partenza di un nuovo ciclo storico".

E noi che diremo al riguardo? Ripeteremo, anzitutto, che non accettiamo la prospettiva di staccare evento e decisioni conciliari, e poi preciseremo ancora una volta che esso, per noi, è un grande avvenimento, non una rottura, una rivoluzione, la creazione quasi di una nuova Chiesa, l'abiura del grande Concilio tridentino e del Vaticano I, o di ogni altro Concilio ecumenico precedente. Svolta certo vi fu, ma, con immagine stradale, essa non è inversione "a U". C'è stato insomma un "aggiornamento", e il termine spiega bene l'evento, la coprensenza di "nova et vetera", di fedeltà ed apertura, come dimostrano, del resto, i testi approvati in Concilio, tutti i testi.

L'evento, dunque, è un sinodo ecumenico (v., di M. Deneken, "L'engagement oecuménique de Jean XXIII," in Revue des Sciences Religiesuse", 2001, pp. 82-86), per cui non è da considerarsi pregiudizio analizzarlo come tale, a partire da quello che esso è per la fede cattolica, pur con una sua caratteristica propria, che non può contraddire quanto altri Concili ecumenici hanno definito. È evento di unità, di consenso. La Chiesa, poi, fu sempre amica dell'umanità, anche se ciò non significò naturalmente amicizia con la modernità tout court, e in che senso, poi? Alberigo si inclina a pensare che "gli elementi di continuità con la tradizione conciliare sono considerevoli, ma anche quelli di novità sono rilevanti e forse di più". Noi non facciamo questione di quantità, ma di qualità, di evoluzione fedele, non di rivoluzione sovvertitrice. E sarà la storia a dirci se il Vaticano II verrà considerato una "transizione epocale", una "svolta epocale". Non ci resta che attendere e operare, intanto, tutti, per una giusta, vera, autentica "ricezione" di questo Concilio, non solo nelle sue novità, ma anche nella sua continuità con la grande Tradizione cristiana, ecclesiale, cattolica. Se mi sono molto occupato qui del Prof. Alberigo, è perché vi trovo la radice di tanta erronea ermeneutica.

Per continuità di trattazione ricorderò qui pure il volume "Il Concilio inedito. Fonti del Vaticano II", a cura di M. Fagioli e G. Turbanti, con due citazioni significative. La prima concerne la "sistemazione dell'archivio e la pubblicazione ufficiale degli atti [che] sembrano voler porre anche pregiudiziali significative sull'autenticità delle possibili interpretazioni del concilio stesso. In effetti Paolo VI ha sempre mostrato una preoccupazione e una viva inquietudine per le conseguenze che le interpretazioni parziali (sic!) dei documenti avrebbero potuto portare nella disciplina ecclesiastica, temendo che nel processo di ricezione potessero prevalere tendenze radicali e che si potessero creare seri fenomeni di scollamento nella compagine ecclesiale". E non è preoccupazione legittima per un papa? Gli autori lo concedono solo in parte poiché "il controllo dalla documentazione disponibile [...] finisce per rendere definitiva un'immagine precisa del concilio che alla luce di altre fonti risulta tutto sommato parziale". In che senso? ci permettiamo di chiedere. Certamente è quella data dai documenti ufficiali, che lasciano aperta le ricerca di altri contributi ("fonti diverse"), ma non in grado di andare contro ciò che risulta "ex actis et probatis".

La seconda citazione, poi, riguarda una notizia importante sulla "Storia del Concilio Vaticano II" diretta da Alberigo, e cioè il fatto che "gli studi condotti sino ad ora hanno utilizzato una parte relativamente ridotta di questa massa documentaria". In nota si aggiunge: "Le fonti via via raccolte dall'équipe che ha collaborato alla 'ŒStoria del Concilio' sono state normalmente messe a disposizione comune. Ciò non toglie che ciascun collaboratore della 'Storia' le abbia utilizzate più o meno ampiamente, seconda la propria discrezione, ricorrendo anche a fonti ulteriori e di diverso tipo". È buono a sapersi, poiché ciò conferma il nostro giudizio circa le scelte "ad usum delphini" delle fonti. È una delle grandi debolezze della "Storia" in parola, in cui appare difficile e stentata la combinazione con le fonti ufficiali.

I volumi editi sotto la direzione del Prof. Alberigo sono stati preparati anche da appositi convegni e colloqui, realizzati in vari luoghi e sfociati in pubblicazioni specifiche, le quali hanno il loro significato poiché riaffermano le tendenze sopra delineate. Chi lo desidera potrà trovarne ampia ripresentazione nel già citato mio volume. Segnalerò peraltro, in particolare, "A la veille du Concile Vatican II. Vota et réactions en Europe et dans le catholicisme oriental" (ed. da M. Lamberigts et Cl. Soetens, Leuven 1992), dove Alberigo (ma lo fa anche altrove) fornisce i suoi personali "criteri ermeneutici" per una storia del Concilio Vaticano II da me fortemente criticati. Un incontro di una certa importanza è stato poi realizzato a Klingenthal (Strasburgo), nel 1999, che ha dato origine al volume, in collaborazione, di Mons. Doré e A. Melloni dal titolo "Volti di fine Concilio". Esso raccoglie "Studi di storia e teologia sulla conclusione del Vaticano II". Il pensiero finale è esposto da Mons. Doré, impegnato fondamentalmente in un difficile sforzo di sintesi e di assemblaggio di ciò che altri separano. Anche di questo volume è apparsa una mia recensione su "Apollinaris" LXXIV (2001), pp. 789 - 799.


Ricerche generali sul Concilio e relativa ermeneutica


È intorno al 1995 che ricomincia l'ardita impresa di investigazioni complessive, con sintesi piuttosto "narrative", provvisorie, e fatte un po' in fretta, dell'evento conciliare "as a whole", nel suo insieme. Rischi? Gli autori rimangono legati alla loro visione conciliare di parte e difficile è la ricerca veramente scientifica con meta ermeneutica che richiede una certa sedimentazione nel tempo (cioè una qualche "distanza" dall'avvenimento), un lavoro lungo e paziente di assimilazione e controllo delle "cronache" conciliari e dei contemporanei servizi giornalistici (che tuttora esercitano un grande e nefasto influsso), alla luce degli "Atti Conciliari" completati solo nel 1999.

Rimanendo in Italia, troviamo anzitutto il volume XXV / 1 e 2 della "Storia della Chiesa" iniziata da Fliche-Martin, a cura di M. Guasco, E. Guerriero e F. Traniello. Ivi la trattazione del Concilio Vaticano II fu affidata a R. Aubert, ben conosciuto storico belga. Nella relativa presentazione (v. op. cit., pp. 177-196) osservavo, anzitutto, qualche pecca simile a quelle riscontrate nel "gruppo bolognese", ma con indirizzo più equilibrato.

Comunque la considerazione finale di Aubert, che colloca Paolo VI "pienamente sulla linea tracciata da Giovanni XXIII", dice molto della sua posizione contraria rispetto alla convinzione di Alberigo e di quanti a lui si rifanno, anche fra i belgi. Il capitolo VII illustra poi i testi sinodali, il cui "merito" teologico, per noi, dovrebbe essere più rilevato, anche per quella ricezione da tutti auspicata, oltre ogni parzialità. Infatti, a forza di sottolineare aspetti carenti dei documenti conciliari, ci domandiamo se si lasci sufficiente spazio alla accettazione di quel "magistero dottrinale in un'ottica pastorale" che fu caratteristica del Vaticano II. È una questione generale ed è difficoltà dei giorni nostri, anche se, beninteso, "forza ed autorità dei documenti vanno valutate secondo il genere letterario, i criteri di impegno e i temi trattati".

Sempre in argomento di quell'ermeneutica conciliare, che ci interessa qui maggiormente, ci domandiamo pure se sia giusto asserire – come fa l'Aubert – "il permanere di numerose ambiguità nei testi, nei quali affermazioni tradizionali e proposte innovatrici si trovano frequentemente sovrapposte più che realmente integrate". E ancora: "Tale mancanza di coerenza produsse spesso divergenze di interpretazione, a seconda che si insistesse in modo unilaterale più su certi passi che su altri. Sotto questo aspetto uno studio storico serenamente condotto può consentire di comprendere meglio quali furono le intenzioni profonde della grande maggioranza dell'assemblea, aldilà della preoccupazione di quel Œconsensus' più largo". Noi tuttavia non riteniamo che si possa arrivare al pensiero conciliare in quanto tale, prescindendo dalla preoccupazione di quel "consensus" che fu proprio caratteristica sinodale e che fu cercato non solo per se stesso, ma perché vi si esprimevano la fedeltà alla Tradizione e il desiderio di incarnazione, di aggiornamento. Inoltre soltanto i testi definitivi approvati dal Concilio, e promulgati dal Supremo Pastore, "fanno testo", altrimenti ciascuno li riceverà, come spesso si fa, alla sua maniera, a pretesto per il proprio cammino personale o per la propria preferenza teologica o "di scuola".

Il citato storico belga affronta il medesimo argomento in un'opera a tre mani (R. Aubert, G. Fedalto, D. Quaglioni) dal titolo "Storia dei Concili" (San Paolo, Cinisello Balsamo, 1995), e, più recentemente, a due mani, con N. Soetens, nel XIII vol. dell'"Histoire du Christianisme" (dal titolo "Crise et Renouveau, de 1958 à nos jours") pubblicato nel 2000, sotto la direzione di Jean-Marie Mayeur (vi è anche una traduzione in italiano). In comparazione con lo sforzo precedente, in gran parte ripreso, la collaborazione con Soetens non sembra abbia giovato all'Aubert.

Un po' oltre questo autore, forse in direzione positiva, si è situato, or non è moltissimo, Joseph Thomas, a cui è affidata la trattazione del Vaticano II nel volume collettivo "I Concili Ecumenici", edito dalla Queriniana, a cura di Antonio Zani, nel 2001, in traduzione italiana dal francese del 1989. Il saggio non mi pare ancora sufficientemente calibrato ed equanime.

Pure l'Alberigo si cimentò in un'impresa di sintesi, con l'edizione di una "Storia dei Concili ecumenici" di autori vari, edita a Brescia nel 1990, riservandosi lui la trattazione dei Concili Vaticani. Al Vaticano II sono dedicate una cinquantina di pagine. Ne facemmo una nota e non vi è niente da aggiungere a quanto sopra abbiamo ampiamente osservato.

Non posso mancare, inoltre, di ricordare, uscendo d'Italia, perché indicativo di una combinazione teologica-sociologica, "Vatikanum II und Modernisierung. Historische, theologische und soziologische Perspektiven", (hrsg. F-X. Kaufmann, A. Zingerle, ed. F. Schoening, Paderborn, 1996). Non sono sociologo e quindi non approfondisco il giudizio critico in tale materia, ma molte cose anche in questo caso si dovrebbero dire, almeno quando si sconfina in interpretazioni unidimensionali e per noi arbitrarie sul Concilio stesso. È il caso del prof. Klinger e, meno, del Pottmeyer, in altro contesto però. A proposito della sociologia rifiutiamo che essa sia "signora" della teologia e prendiamo così assai le distanze dal cosiddetto suo "giro" sociologico. Ci pare giusto e cosa assodata. D'altra parte "montanismo" o "neomontanismo" (da cui può derivare – ivi si dice – un "ghetto") sono concetti storico-teologici, su cui cioè lo storico e il teologo devono pure dire qualcosa, come nel caso, per esempio, di "ierocrazia". Con ciò non vogliamo sottovalutare un "progetto interdisciplinare", come fu l'opera in parola, pur riconoscendone i rischi soggiacenti.


Per una corretta interpretazione del Concilio


Di fronte a un così vasto sforzo di ermeneutica – e avremmo potuto maggiormente dilungarci –, pur fondamentalmente unidimensionale, nella linea interpretativa che va per la maggiore, ci si potrebbe sentire forse un po' soli, avendo una posizione ben diversa, anche se consolati da quanto accadde anche per il Concilio di Trento, e pensiamo all'esegesi del Sarpi, poi superata, finalmente. Siamo comunque convinti che la storia, i documenti, i futuri giudizi "ex actis et probatis", faranno giustizia ermeneutica, con il tempo. Ci vuole pazienza intanto, ma anche lavoro, impegno, mezzi.

La nuova fase tuttavia è spuntata – ci sembra – nell'ultimo decennio, e ricordiamo qui, d'inizio, il volume del compianto Prof. L. Scheffczyk (creato poi cardinale) dal titolo "La Chiesa. Aspetti della crisi postconciliare e corretta interpretazione del Vaticano II" (Jaca Book, Como, 1998, con presentazione di Joseph Ratzinger), in cui si auspica un ricupero del senso "cattolico" della realtà della Chiesa, dopo la crisi postconciliare a tale riguardo. L'autore ha messo il dito sulla piaga della odierna ermeneutica, con queste precise parole: "Ogni interprete od ogni gruppo coglie solo ciò che corrisponde ai suoi preconcetti", anche a quelli della "maggioranza" (conciliare).

A questa piaga sfugge comunque proprio colui che è stato custode ed editore degli "Acta", raccolti nell'Archivio del Concilio Vaticano II, voluto con straordinaria preveggenza provvidente da Paolo VI. Mi riferisco a Mons. V. Carbone. Non segnalerò qui i suoi vari studi di chiarimento, in temi chiave di ermeneutica conciliare, ma solamente un volumetto minuto, all'apparenza, eppure eccezionalmente importante, e cioè "Il Concilio Vaticano II, preparazione della Chiesa al Terzo Millennio", Città del Vaticano, 1998. L'opera raccoglie gli articoli pubblicati dall'autore, circa il magno concilio, su "L'Osservatore Romano".

Ancora in una linea positiva, sempre nel campo delle investigazioni conciliari complessive, è l'opera di A. Zambarbieri "I Concili del Vaticano" (San Paolo, Cinisello Balsamo, 1995). Si tratta, anzi, per noi, della migliore sintesi fino ad ora pubblicata, in lingua italiana, anche per il senso storico che la pervade. Vi è comunque, a volte, una certa indulgenza per posizioni create dal vortice ideologico del "gruppo di Bologna", mentre la lacuna più grave si rivela proprio nella presentazione della "Nota Explicativa Praevia". È però – lo ripetiamo con piacere – buona ricerca, con rapide carrellate e presentazione dei vari documenti, frutto anche di approfondita conoscenza della bibliografia. Il discorso è piano e i giudizi calibrati, quasi sempre, lontano dallo stile giornalistico, con affidamento alla guida sicura del P. Caprile, in fatto di cronaca, e puntuali riferimenti, in concreto, agli "Acta" curati da Mons. Carbone.

Mi parrebbe infine ingiusto non citare qui, in contesto positivo, i volumi dal titolo "Paolo VI e il rapporto Chiesa-mondo al Concilio", e "Paolo VI e i problemi ecclesiologici al Concilio", entrambi pubblicazioni dell'Istituto Paolo VI di Brescia. Essi concludevano la "trilogia" di colloqui internazionali di studio appunto sugli interventi di Paolo VI in Concilio, di grande importanza anche per noi.

Più in là però non possiamo andare perché entreremmo, con la bibliografia su papa Montini, in un campo molto vasto, anche se esso concerne altresì il suo impegno conciliare e di esegesi postconciliare. Del resto non ci è nemmeno permesso di affrontare qui il settore ermeneutico, per quanto riguarda il primato pontificio e la relazione primato-collegialità, binomio eminentemente sinodale che ha offerto adito a varie interpretazioni e differenti sottolineature.

Faccio peraltro tre eccezioni, per ricordare, anzitutto, la pubblicazione degli "Atti" dell'importante simposio teologico svoltosi in Vaticano nel dicembre 1996 sul primato del successore di Pietro e poi uno studio completo di R. Tillard su "L'Eglise locale. Ecclesiologie de communion et catholicité". Cito tale opera perché essa indica dove si possa giungere, in direzione della "località", pur prendendo l'avvio dal Vaticano II, nel pendolo dell'orologio teologico, forse a bilanciare l'eccesso precedente di "universalità" quasi disincarnata.

Ma sempre di eccessi si tratta. La terza eccezione riguarda l'opera di J. Pottmeyer "Le rôle de la papauté au troisième millénaire. Une relecture du Vatican I et du Vatican II", uscita a Parigi nel 2001, apparsa però prima in lingua inglese. A noi interessa qui specialmente per la sua esegesi del Vaticano II, da cui risulta un "primato (papale) della comunione". Al papa spetta, cioè, "di rappresentare e mantenere l'unità della comunione universale delle Chiese". Ma la parte dell'opera che noi troviamo "progressista" proprio ad oltranza, con giudizi assai duri, è l'ultima.

Non voglio terminare il mio dire senza riferirmi a tre avvenimenti positivi relativamente recenti, che fanno bene sperare in un cambiamento di tono, in generale, nella ermeneutica conciliare futura. Concludo in tal modo non perché voglia rispettare a tutti i costi il detto "dulcis in fundo", ma poiché ve n'è in verità ragione.

È nato, cioè, or non è moltissimo, un nuovo centro di ricerche sul Concilio Vaticano II presso la Pontificia Università Lateranense. Esso ha organizzato, nel 2000, un interessante convegno internazionale di studio su "L'Università del Laterano e la preparazione del Concilio Vaticano II", e successivamente ha ripetuto lo sforzo scientifico con un altro convegno, sul tema "Giovanni XXIII e Paolo VI, i due papi del Concilio". Il titolo dice già dell'impegno di non mettere in alternativa, in contrasto, quei due grandi pontefici. È significativo, indipendentemente dallo svolgersi degli interventi al congresso.

Ancor più "dolce" è stato per noi il convegno internazionale sull'attuazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, svoltosi in Vaticano a fine febbraio del 2000, e indetto in occasione di quel Grande Giubileo. Vi abbiamo trovato finalmente attenzione a tante nostre preoccupazioni ermeneutiche. Basterà leggere, per comprendermi, il discorso pontificio pubblicato da "L'Osservatore Romano" del 28-29 Febbraio 2000, pp. 6-7. Ne citerò soltanto un passo, il seguente: "La Chiesa da sempre conosce le regole per una retta ermeneutica dei contenuti del dogma. Sono regole che si pongono all'interno del tessuto di fede e non al di fuori di esso. Leggere il Concilio supponendo che esso comporti una rottura col passato, mentre in realtà esso si pone nella linea della fede di sempre, è decisamente fuorviante".

Dolcissimo infine è suonato al nostro orecchio il discorso alla Curia Romana, il 22 dicembre 2005, di papa Benedetto XVI, in cui indicava la corretta ermeneutica conciliare, non di rottura. Vi incoraggio a leggerlo con attenzione (v. "L'Osservatore Romano" del 23 dicembre 2005, pp. 4-6).

Ora il Magistero ci ha chiaramente indicato il corretto cammino ermeneutico del Concilio Ecumenico Vaticano II. Ne siamo profondamente grati al Signore e al papa.

fonte: www.chiesa.espressonline.it
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
10/09/2009 11:13

Intervento di mons. Marchetto sulla corretta ermeneutica del Concilio


L’arcivescovo Agostino Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti e storico del Concilio Vaticano II, è intervenuto oggi all’Accademia dei Ponti a Firenze con una relazione sulle letture ermeneutiche dell’assise conciliare. Ce ne parla Sergio Centofanti.

Mons. Marchetto ha affrontato la questione di “una ermeneutica veritiera, cioè di una interpretazione fondata e rispettosa” di ciò che è stato il Concilio. Una “corretta esegesi” che – se vuole essere tale - si deve basare sugli Atti ufficiali raccolti in ben “62 grossi tomi”. Molti però – ha rilevato – sono ricorsi a scritti privati e diari personali di padri ed esperti conciliari al fine di diminuire l’importanza dei documenti finali per far emergere il cosiddetto “spirito” del Concilio: tutto questo in contrasto con gli esiti ufficiali dell’assise che sarebbero stati egemonizzati dagli uomini di Curia e che quindi non rappresenterebbero l’anima vera del Vaticano II. Si tratta – ha detto – di una tendenza storiografica “ideologica”, che “punta solo sugli aspetti innovativi, sulla discontinuità rispetto alla Tradizione” quasi che col Concilio fosse nata “una nuova Chiesa”, fosse cioè avvenuto il passaggio “ad un altro Cattolicesimo”.

In particolare gli studiosi del Gruppo di Bologna – ha sottolineato mons. Marchetto – “sono riusciti con ricchezza di mezzi, industriosità di operazioni e larghezza di amicizie, a monopolizzare ed imporre” un’immagine del Concilio “distorta e contraddittoria, del tutto mistificatrice”. Secondo questi studiosi da quell’evento sarebbe dovuta nascere una Chiesa “democratizzata” con l’abbandono “del riferimento alle istituzioni ecclesiastiche, alla loro autorità e alla loro efficienza come il centro e il metro della fede”. Il Concilio avrebbe partorito cioè un nuovo tipo di fedele cattolico non più legato “alla dottrina, e soprattutto a una singola formulazione dottrinale”: premessa “per un superamento dell’ecclesiocentrismo, e perciò per una relativizzazione della stessa ecclesiologia”. “Ancora più radicale” del “vortice ideologico” del gruppo di Bologna – nota il presule - è la posizione di Hans Küng.

Corretta ermeneutica invece – sottolinea – è vedere nel Concilio una “sintesi di Tradizione e rinnovamento” non “una rottura, una rivoluzione sovvertitrice” ma una “evoluzione fedele” come ha ricordato Benedetto XVI nel celebre discorso alla Curia Romana, il 22 dicembre 2005: “l’ermeneutica della discontinuità e della rottura” - disse – “si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media” ma “ha causato confusione”. Invece, “l'ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa … che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso”, “silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti”.

fonte: Radio Vaticana
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 31.493
Registrato il: 02/05/2009
Registrato il: 02/05/2009
Sesso: Maschile
19/10/2009 12:55

Contro l'ermeneutica della rottura. Quando Paolo VI difese con parole forti la continuità del Vaticano II.

.

CONCISTORO SEGRETO DEL SANTO PADRE PAOLO VI
PER LA NOMINA DI VENTI CARDINALI

Lunedì, 24 Maggio 1976


Venerati Fratelli Nostri,

Dal giorno in cui, ormai più di tre anni fa, col fissare il numero dei Cardinali elettori, avevamo colmato i vuoti creatisi nel vostro Collegio, questo ha subito perdite dolorose di nostri Fratelli, che tutti ricordiamo con affettuoso rimpianto; d’altra parte, inoltre, alcuni dei suoi membri hanno raggiunto l’età stabilita, per cui essi non possono più partecipare all’elezione del Romano Pontefice. Perciò noi oggi vi abbiamo convocati per creare nuovi Cardinali; e, al tempo stesso, sia per promulgare nomine episcopali, sia per chiedere a voi di pronunciare l’ultimo voto circa le cause di canonizzazione di tre Beati, sia infine per ricevere le postulazioni dei palli.

Sono aspetti tradizionali e noti di ogni Concistoro; ma non per questo meno suggestivi, nel loro significato ecclesiale, e nei loro richiami storici, tanto da rendere ogni volta piena di singolare interesse la celebrazione di questo avvenimento della Chiesa romana. Sì, il Concistoro è un momento particolarmente importante e solenne. Ve ne vediamo compresi, con la vostra partecipazione e con la vostra presenza; e di questo anzitutto vi ringraziamo.

I. Per rimanere alla circostanza che più polarizza oggi l’attenzione della comunità cattolica, anzi di tutta l’opinione pubblica - la creazione di nuovi Cardinali - vogliamo sottolineare che, con essa, noi abbiamo voluto non tardare più oltre a provvedere alle esigenze del Sacro Collegio, tanto più dopo la pubblicazione della Costituzione Apostolica «Romano Pontifici eligendo», nella quale abbiamo sottolineato i compiti particolari e supremi dei suoi componenti, chiamati all’elezione del Papa. E nel colmare i vuoti, come dicevamo, abbiamo seguito i criteri che più ci stanno a cuore: la rappresentatività e il carattere internazionale del Sacro Collegio.
Esso vuole e deve dare in faccia al mondo l’immagine per quanto possibile fedele della santa Chiesa Cattolica, riunita dai quattro venti nell’unico ovile di Cristo (Io. 10, 16), aperta a tutte le genti e a tutte le culture, per assimilarne i valori genuini e farli servire alla buona causa del Vangelo, ch’è la gloria di Dio e l’elevazione dell’uomo. Così – oltre al dovuto riconoscimento a fedelissimi servitori della Sede Apostolica nelle Rappresentanze Pontificie e nella Curia Romana - abbiamo pensato prima di tutto e sopra tutto alle Sedi residenziali, volgendo in particolare lo sguardo alle giovani comunità dall’avvenire promettente e luminoso, unitamente e allo stesso piano di quelle dal passato illustre e dalla storia secolare, ricca di opere e di santità. È come uno sguardo d’insieme che abbraccia tutto l’orizzonte del mondo, ove la Chiesa vive, ama, spera, soffre, combatte: nessuno, dai punti estremi dell’orizzonte, anche dalle terre più lontane, è assente. Che se la rappresentatività delle Chiese orientali sembra oggi ridotta, ciò non significa che minore sia la nostra stima e considerazione verso quelle regioni, che sono state la culla della Chiesa, ne custodiscono tuttora con gelosa cura i preziosissimi tesori di pietà, di Liturgia, di Dottrina, e trovano nei loro Pastori, i Patriarchi, a noi dilettissimi, congiuntamente ai loro collaboratori del rispettivo sacro sinodo patriarcale, l’incoraggiamento, la luce, la forza di coesione. Anzi, ci piace cogliere questa occasione per attestare loro la nostra benevolenza più che affettuosa, assicurandoli del nostro ricordo, della nostra venerazione e della nostra preghiera.

II. Il Concistoro, dicevamo, è un momento particolarmente grave e solenne per la vita della Chiesa, che si svolge nel tempo: e noi non possiamo lasciar passare questa occasione, che ci porta a contatto con voi, senza trattare in presenza vostra aspetti e questioni che ci stanno molto a cuore e che riteniamo di grande importanza; senza farvi parte dei sentimenti che nutriamo nell’intimo. Sono sentimenti di gratitudine e di gioia, da una parte, ma anche di preoccupazione e di pena dall’altra.

1) Il primo sentimento nasce da quell’ottimismo innato – fondato sulle promesse indefettibili di Cristo (Cfr. Matth. 28, 20; Io. 16, 33) e sulla constatazione di fenomeni sempre nuovi e consolanti - che noi abitualmente nutriamo in cuore: è la vitalità, la giovinezza della Chiesa, di cui abbiamo tanti segni. Ne abbiamo avuto la prova nel recente Anno Santo, che tuttora irradia il suo influsso nel nostro spirito. L’essenza della vita cristiana sta nella vita spirituale, in questa vita soprannaturale ch’è dono di Dio: e noi abbiamo il più grande conforto nel vederla svilupparsi in tanti Paesi, nella testimonianza della fede, nella Liturgia, nella preghiera riscoperta e rigustata, nella gioia custodita nella chiarità dello sguardo spirituale e nella purezza del cuore.

Noi vediamo inoltre svilupparsi sempre più e più l’amore dei fratelli, inseparabile dall’amore di Dio, che ispira l’impegno crescente di tanti nostri figli, e la loro solidarietà profonda con i poveri, con gli emarginati, con gli indifesi.

Noi vediamo le linee tracciate dal recente Concilio dirigere e sostenere lo sforzo continuo di adesione al Vangelo di Cristo, in uno sforzo di autenticità cristiana, nell’esercizio delle virtù teologali.

Noi vediamo con commossa ammirazione il fiorire delle iniziative missionarie e, soprattutto, abbiamo non indubbi segni che, dopo una battuta d’arresto, anche il settore più delicato e grave come quello delle vocazioni sacerdotali e religiose, ha una indubitabile ripresa in vari paesi.

Noi vediamo in tutti i continenti molti giovani rispondere generosamente e concretamente alle consegne del Vangelo, e dimostrare sforzo di coerenza assoluta tra l’altezza dell’ideale cristiano e il dovere di tradurlo in pratica.

Sì, venerati Fratelli nostri, veramente lo Spirito è all’opera in tutti i campi, anche in quelli che parevano più inariditi!

2) Ma vi sono anche motivi di amarezza, che non vogliamo certo velare né minimizzare: e nascono specialmente dal rilievo di una polarità, spesso irriducibile in certi suoi eccessi, che manifesta in campi diversi una immaturità superficiale, ovvero una ostinazione caparbia, in sostanza una sordità amara verso gli appelli a quel sano equilibrio, conciliatore delle tensioni, partiti dalla grande lezione del Concilio, sono ormai più di dieci anni.

a) Da una parte, ecco coloro che, col pretesto di una più grande fedeltà alla Chiesa e al Magistero, rifiutano sistematicamente gli insegnamenti del Concilio stesso, la sua applicazione e le riforme che ne derivano, la sua graduale applicazione a opera della Sede Apostolica e delle Conferenze Episcopali, sotto la nostra autorità, voluta da Cristo. Si getta il discredito sull’autorità della Chiesa in nome di una Tradizione, di cui solo materialmente e verbalmente si attesta rispetto; si allontanano i fedeli dai legami di obbedienza alla Sede di Pietro come ai loro legittimi Vescovi; si rifiuta l’autorità di oggi, in nome di quella di ieri. E il fatto è tanto più grave, in quanto l’opposizione di cui parliamo non è soltanto incoraggiata da alcuni sacerdoti, ma capeggiata da un Vescovo, da Noi tuttavia sempre venerato, Monsignor Marcel Lefebvre.

È tanto doloroso il notarlo: ma come non vedere in tale atteggiamento - qualunque possano essere le intenzioni di queste persone - porsi fuori dell’obbedienza e della comunione con il Successore di Pietro e quindi della Chiesa?

Poiché questa, purtroppo, è la conseguenza logica, quando cioè si sostiene essere preferibile disobbedire col pretesto di conservare intatta la propria fede, di lavorare a proprio modo alla preservazione della Chiesa cattolica, negandole al tempo stesso un’effettiva obbedienza. E lo si dice apertamente! Si osa affermare che il Concilio Vaticano II non è vincolante; che la fede sarebbe in pericolo altresì a motivo delle riforme e degli orientamenti Post-conciliari, che si ha il dovere di disobbedire per conservare certe tradizioni. Quali tradizioni? È questo gruppo, e non il Papa, non il Collegio Episcopale, non il Concilio Ecumenico, a stabilire quali, fra le innumerevoli tradizioni debbono essere considerate come norma di fede! Come vedete, venerati Fratelli nostri, tale atteggiamento si erge a giudice di quella volontà divina, che ha posto Pietro e i Suoi Successori legittimi a Capo della Chiesa per confermare i fratelli nella fede, e per pascere il gregge universale (Cfr. Luc. 22, 32; Io. 21, 15 ss.), che lo ha stabilito garante e custode del deposito della Fede.

E ciò è tanto più grave, in particolare, quando si introduce la divisione, proprio là dove congvegavit nos in unum Christi amor, nella Liturgia e nel Sacrificio Eucaristico, rifiutando l’ossequio alle norme definite in campo liturgico. È nel nome della Tradizione che noi domandiamo a tutti i nostri figli, a tutte le comunità cattoliche, di celebrare, in dignità e fervore la Liturgia rinnovata. L’adozione del nuovo «Ordo Missae» non è lasciata certo all’arbitrio dei sacerdoti o dei fedeli: e l’Istruzione del 14 giugno 1971 ha previsto la celebrazione della Messa nell’antica forma, con l’autorizzazione dell’ordinario, solo per sacerdoti anziani o infermi, che offrono il Divin Sacrificio sine populo. Il nuovo Ordo è stato promulgato perché si sostituisse all’antico, dopo matura deliberazione, in seguito alle istanze del Concilio Vaticano II. Non diversamente il nostro santo Predecessore Pio V aveva reso obbligatorio il Messale riformato sotto la sua autorità, in seguito al Concilio Tridentino.

La stessa disponibilità noi esigiamo, con la stessa autorità suprema che ci viene da Cristo Gesù, a tutte le altre riforme liturgiche, disciplinari, pastorali, maturate in questi anni in applicazione ai decreti conciliari. Ogni iniziativa che miri a ostacolarli non può arrogarsi la prerogativa di rendere un servizio alla Chiesa: in effetti reca ad essa grave danno.

Parecchie volte, direttamente, per tramite di nostri collaboratori e di altre persone amiche, abbiamo richiamato l’attenzione di Monsignor Lefebvre sulla gravità dei suoi atteggiamenti, l’irregolarità delle principali sue presenti iniziative, l’inconsistenza e spesso falsità delle posizioni dottrinali sulle quali egli basa gli uni e le altre, e il danno che da essi proviene alla Chiesa intera.

È con profonda amarezza ma con paterna speranza che noi ci rivolgiamo una volta di più a questo nostro Confratello, ai suoi collaboratori e a quelli che si sono lasciati trascinare da essi. Oh, certo, noi crediamo che molti di questi fedeli, almeno in un primo momento, erano in buona fede: comprendiamo anche il loro attaccamento sentimentale a forme abituali di culto o di disciplina che per lungo tempo erano stati per essi di sostegno spirituale e nei quali avevano trovato nutrimento spirituale. Ma abbiamo fiducia ch’essi sapranno riflettere con serenità, senza partito preso, e vorranno ammettere che troveranno oggi il sostegno e il nutrimento che cercano, nelle forme rinnovate che il Concilio Ecumenico Vaticano II e Noi stessi abbiamo decretato come necessario, per il bene della Chiesa, il suo progresso nel mondo contemporaneo, la sua unità. Noi dunque esortiamo, ancora una volta, tutti questi nostri fratelli e figli, li supplichiamo di prendere coscienza delle profonde ferite che, altrimenti, causano alla Chiesa, di nuovo li invitiamo a pensare . . .
È con profonda amarezza ma con paterna speranza che noi ci rivolgiamo una volta di più al nostro Confratello Monsignor Marcel Lefebvre, ai suoi collaboratori; li invitiamo a pensare ai moniti gravi di Cristo su l’unità della Chiesa (Cfr. Io. 17, 21 ss.) e sull’obbedienza dovuta al legittimo Pastore da Lui preposto al gregge universale, come segno dell’obbedienza dovuta al Padre e al Figlio (Cfr. Luc. 10, 16). Noi li attendiamo con cuore aperto, con le braccia pronte all’abbraccio: sappiano ritrovare in umiltà e edificazione, per la gioia del Popolo di Dio, la via dell’unità e dell’amore!

b) Dall’altra parte, in direzione opposta quanto a posizione ideologica, ma ugualmente causa di profonda pena, vi sono coloro che, credendo erroneamente di continuare nella linea del Concilio, si sono messi in una posizione di critica preconcetta e talora irriducibile della Chiesa e delle sue istituzioni.

Perciò, con altrettanta fermezza dobbiamo dire che non ammettiamo l’atteggiamento:

- di quanti si credono autorizzati a creare la loro propria liturgia, limitando talora il Sacrificio della Messa o i sacramenti alla celebrazione della propria vita o della propria lotta, oppure al simbolo della loro fraternità; o praticano abusivamente l’intercomunione;

- di quanti minimizzano l’insegnamento dottrinale nella catechesi o la snaturano secondo il gusto degli interessi, delle pressioni o delle esigenze degli uomini, secondo tendenze che travisano profondamente il messaggio cristiano, come già abbiamo indicato nell’Esortazione Apostolica «Quinque iam anni», 1’8 dicembre 1970, a cinque anni dalla fine del Concilio (Cfr. AAS 63 (1971) 99);

- di quanti fingono d’ignorare la Tradizione vivente della Chiesa, dai Padri fino agli insegnamenti del Magistero, e reinterpretano la dottrina della Chiesa, e lo stesso Vangelo, le realtà spirituali, la divinità di Cristo, la sua risurrezione o l’Eucaristia, svuotandole praticamente del loro contenuto e creando in tal modo una nuova gnosi e introducendo in certo modo nella Chiesa il « libero esame »; e ciò è tanto più pericoloso quando si tratta di coloro che hanno l’altissima e delicata missione di insegnare la Teologia cattolica;

- di quanti riducono la funzione specifica del ministero sacerdotale;

- di quanti dolorosamente trasgrediscono le leggi della Chiesa, o le esigenze etiche da essa richiamate;

- di quanti interpretano la vita teologale come una organizzazione della società di quaggiù, anzi la riducono ad un’azione politica, adottando a questo scopo uno spirito, metodi, e pratiche contrarie al Vangelo; e si giunge a confondere il messaggio trascendente di Cristo, il suo annuncio del Regno di Dio, la sua legge d’amore tra gli uomini, fondato su l’ineffabile paternità di Dio, con ideologie che essenzialmente negano tale messaggio sostituendolo con una posizione dottrinale assolutamente antitetica, propugnando un connubio ibrido tra due mondi inconciliabili, com’è riconosciuto dagli stessi teorici dell’altra parte.

Cristiani simili non sono molto numerosi, è vero, ma fanno molto rumore, credendo troppo facilmente d’interpretare le necessità di tutto il popolo cristiano o il senso irreversibile della storia. Non possono, così facendo, richiamarsi al Concilio Vaticano II, perché la sua interpretazione e la sua applicazione non si prestano ad abusi di sorta; né appellarsi alle esigenze dell’apostolato per avvicinare i lontani o gli increduli: l’apostolato vero è inviato dalla Chiesa per testimoniare su la dottrina e la vita della Chiesa stessa. Il lievito deve essere diffuso in tutta la pasta, ma deve rimanere lievito evangelico. Altrimenti si corrompe anch’esso col mondo.

Venerati Fratelli Nostri! Abbiamo pensato di affidarvi queste riflessioni, consapevoli dell’ora che batte per la Chiesa. Essa è e sarà sempre il vessillo levato tra le Nazioni (Cfr. Is. 5, 26; 11, 12), perché ha la missione di dare al mondo che la guarda, con aria talora di sfida, la verità di quella fede che ne rischiara il destino, la speranza che sola non delude (Cfr. Rom. 5, 5), la carità che salva dall’egoismo che, sotto varie forme, cerca di invaderlo e di soffocarlo. Non è certo il momento dell’abbandono, della diserzione, delle concessioni; né, tanto meno, quello della paura. I cristiani sono semplicemente chiamati a essere se stessi: ed essi lo saranno nella misura in cui saran fedeli alla Chiesa e al Concilio.

Nessuno, pensiamo, vorrà aver dubbi su l’insieme di indicazioni e di incoraggiamenti, che, durante questi anni del nostro Pontificato, noi abbiamo dato ai Pastori e al Popolo di Dio, anzi al mondo intero. Siamo grati a coloro che han fatto un programma di tali insegnamenti, dati con intento sempre sorretto da una viva speranza, da un sereno ottimismo non disgiunto da realismo concreto. Se oggi ci siamo soffermati di più su alcuni aspetti negativi, è perché la circostanza singolarissima e la vostra benevola fiducia ce l’hanno fatto ritenere opportuno. Effettivamente, l’essenza del carisma profetico per il quale il Signore ci ha promesso l’assistenza del suo Spirito, è quella di vegliare, di avvertire sui pericoli, di scrutare i segni dell’alba sull’orizzonte oscuro della notte. Custos, quid de nocte? Custos, quid de nocte? ci mette in bocca il profeta (Is. 21, 11). Finché l’alba serena ridoni la gioia al mondo, noi vogliamo continuare ad alzare la nostra voce per quella missione, che ci è stata affidata. Voi, nostri amici e collaboratori più vicini, potete anzitutto e meglio d’ogni altro farvene l’eco presso tanti nostri fratelli e figli. E mentre ci apprestiamo a festeggiare il Signore che, con i segni della passione e risurrezione gloriosa, ascende alla destra del Padre, dobbiamo, guardando caelos apertos (Act. 7. 56), rimanere pieni di speranza, di gioia e di coraggio. In Nomine Domini! In questo Nome santo tutti vi benediciamo.

Ora ci piace elencare i distinti Presuli, che per i loro meriti abbiam reputato degni di chiamare a far parte, in questo Concistoro, del degnissimo Collegio dei Cardinali.

Essi sono: Ottavio Antonio Beras Rojas, Arcivescovo di Santo Domingo; Opilio Rossi, Arcivescovo tit. di Ancira e Nunzio Apostolico in Austria; Giuseppe Maria Sensi, Arcivescovo tit. di Sardi e Nunzio Apostolico in Portogallo; Juan Carlos Aramburu, Arcivescovo di Buenos Aires; Corrado Bafile, Arcivescovo tit. di Antiochia di Pisidia e Pro-Prefetto della Sacra Congregazione per le Cause dei Santi; Hyacinthe Thiandoum, Arcivescovo di Dakar; Emmanuel Nsubuga, Arcivescovo di Kampala; Joseph Schroffer, Arcivescovo tit. di Volturno e Segretario della Sacra Congregazione per l’Educazione Cattolica; Lawrence Trevor Picachy, Arcivescovo di Calcutta; Jaime L. Sin, Arcivescovo di Manila; William Wakefield Baum, Arcivescovo di Washington; Aloisio Lorscheider, Arcivescovo di Fortaleza; Reginald John Delargey, Arcivescovo di Wellington; Eduardo Pironio, Arcivescovo tit. di Tiges e Pro-Prefetto della Sacra Congregazione per i Religiosi e gli Istituti Secolari; Laszló Lékai, Arcivescovo di Esztergom; Basi1 Hume, Arcivescovo di Westminster; Victor Razafimahatratra, Arcivescovo di Tananarive; Boleslaw Filipiak, Arcivescovo tit. di Plestia; Dominic Ekandem, Vescovo di Ikot Ekpene.

Inoltre, quanto ai due Cardinali che ci siamo riservati in pectore, diamo ora pubblicamente il nome di uno di essi: si tratta di Monsignor Giuseppe Maria Trin-nhu-Khue, Arcivescovo di Hanoi, giunto soltanto ieri a Roma. Riserviamo peraltro ancora il secondo, che sarà pubblicato quando a noi piacerà.

Pertanto, per autorità di Dio Onnipotente, dei Santi Apostoli Pietro e Paolo e Nostra creiamo e nominiamo solennemente Cardinali della Santa Chiesa Romana i Presuli, che abbiamo or ora menzionati.

Di tali Cardinali, i seguenti apparterranno all’ordine dei Diaconi: Opilio Rossi, Giuseppe Maria Sensi, Corrado Bafile, Giuseppe Schröffer, Edoardo Pironio, Boleslao Filipiak.

Gli altri apparterranno all’ordine dei Presbiteri.

Con le necessarie e opportune dispense, deroghe e clausole. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.


© Copyright 1976 - Libreria Editrice Vaticana.

Fonte Vatican.va
OFFLINE
Post: 31.493
Registrato il: 02/05/2009
Registrato il: 02/05/2009
Sesso: Maschile
19/10/2009 13:08

La grande guerra del Concilio.

Alla ricerca della continuità evolutiva del Vaticano II tra interpretazioni ufficiali e forzature "neoteriche".

PKorean War - HD-SN-99-03123


di Brunero Gherardini


Proprio così: "la grande guerra del Concilio". E forse anche al Concilio. Lo dichiara o lo lascia capire Maurizio Crippa dalla prima pagina de "Il Foglio" (XII, n. 266), interamente dedicata all'argomento; e rincara la dose: "la più ponderosa battaglia culturale del Novecento". Si riferisce al convegno celebrato ad Ancona il 10 nov. 2007, per iniziativa del Centro Studi "Oriente Occidente" sul filosofo e filologo svizzero Romano Amerio, ben noto per la sua opera principale Jota unum (1985).

Chi avesse osato citare anche solo occasionalmente Jota unum o il successivo Stat veritas, uscito subito dopo la morte dell'Autore (1997), avrebbe corso il rischio d'esser additato al pubblico ludibrio. Con un linguaggio un po' aulico ma anche con indubbia preparazione filosofica, filologica e teologica, Amerio aveva messo il dito sulla piaga più scottante del momento: la rottura che i "neoterici", come lui chiamava gli'innovatori del Vaticano II, avevan operato ai danni della Tradizione. Era, la sua, un'opera di paziente analisi dell'innovazioni avventatamente introdotte, dei forzati cambiamenti di senso, degli errori evidenti e di quelli più sotterranei ma non per questo meno pericolosi; insomma, un'aperta e coraggiosa denuncia. Un immediato successo, poi un silenzio di tomba. E chi si provava a far della denuncia l'oggetto d'un dibattito serio e responsabile, veniva bollato, con superficiale indelicatezza e mancanza di carità, come anticonciliare. Una mazzolata.

Se non che, oggi anche Amerio potrebbe dire: "Post fata resurgo". Nel 2005 fu al centro d'un convegno a Lugano (i cui Atti son già di pubblico dominio) su "L'umanista, il luganese, il cattolico"; e sempre in quell'anno comparve una sua biografia. È annunciata per il 2008 una nuova edizione di Jota unum. E gli Atti del convegno d'Ancona son già sotto i torchi della benemerita editrice
"Fede & Cultura". Come se non bastasse, "L'Osservatore Romano", "La Civiltà Cattolica" ed uomini di vertice sembrano avallare il convincimento di Divo Barsotti sull'opportunità di fa cadere un tabù a difesa "d'un vero cristiano". Su questo vero cristiano, ecco il convegno d'Ancona.

Ed ecco pure, all'interno di esso, la netta presa di posizione di S.E. Rev.ma Mons. Agostino Marchetto il quale, senza mai nominar Amerio, passa al vaglio le idee dei "neoterici" bolognesi e ne fa polpette. Distrugge, cioè, le conclusioni della scuola fondata da Dossetti (anche a me nota, per averne frequentato da giovanissimo il Centro di Documentazione, dove trovavo ciò che non trovavo altrove su Lutero e la Riforma) e diventata con Alberigo, Melloni ed altri una centrale potentissima dell'avanguardismo cattolico. Il condensato di codesto avanguardismo, ammantatosi di dignità conciliare, si sprigiona da ogni pagina della monumentale storia del vaticano II (specie del V volume) a cura di Giuseppe Alberigo, dove il Vaticano II è studiato, analizzato e descritto non solo come la zona di confine fra un cattolicesimo di tradizione, di dogmi e di canoni ed un cattolicesimo propulsivo, acculturato e comunionale, ma come la forza dirompente che neutralizza il primo ed inaugura il secondo.

In realtà, nella serrata critica di Mons. Marchetto non c’è nulla di nuovo; tutto era già stato detto, papale papale, a varie riprese in articoli e studi poi confluiti nei due grossi volumi: Chiesa e papato nella storia e nel diritto, Vaticano 2002 e Il Concilio Ecumenico Vaticano II, ivi 2005. La sua stella è la Tradizione; e la chiave di lettura della Tradizione stessa e di tutto quanto si muove nella storia è il metodo critico. C’è in lui un piglio battagliero, non disgiunto dalla gioia di rimetter le cose nella loro giusta prospettiva; incarna il “felix qui potuit rerum cognoscere causas” (1). Ciò che oggi colpisce è non solamente e soprattutto l’ermeneutica conciliare della continuità-discontinuità. Pure il Papa ne ha parlato alla
Curia Romana il 22 giugno 2005. Non mi consta che i “neoterici” abbian cambiato convinzione.

Una riaffermazione così perentoria della perenne attualità ed immutato valore della Tradizione era, fin a poco fa, quasi impensabile. Che il Concilio fosse presentato nella linea della continuità evolutiva o in quella d’una netta contrapposizione al passato, l’interesse veniva con forza richiamato dalle “novità” conciliari. D’accordo, “aliter tamen ac taliter”, per motivi nettamente diversi, non impedendo gli uni la preferenza del passato nel presente, precludendola gli altri. Ma, in pratica, il discorso si fermava sul nuovo o perché in esso confluiva l’impeto inarrestabile della pastoralità conciliare, o perché esso costituiva il voltafaccia conciliare al primato verticistico, intellettualistico, giuridico.

Forse sta proprio qui, nell’enfasi della novità, il punto d’incontro tra critico e criticati. Il critico non lesina riconoscimenti al Vaticano II in quanto tale: lo chiama “icona” del mondo cattolico, “identità in evoluzione, fedeltà al rinnovamento”, e non esita a qualificarlo come “magno”, perché grande sarebbe il valore “dottrinale, spirituale e pastorale”. I criticati ne fanno l’evento che rompe i ponti col passato ed inaugura la novità in assoluto. Formalmente l’uno e gli altri divergono; materialmente ed almeno parzialmente concordano. Ed è su questo che mi permetto di dire la mia. E dirla con la stessa convinzione che muove critico e criticati.

Vissi tutta la stagione conciliare, dalla sua fase preparatoria alla sua celebrazione e successiva ricezione. Dal 1965, l’anno in cui il Vaticano II si chiuse, ad oggi è passato quasi mezzo secolo. A fronte dell’agguerrito staff bolognese, strettamente collegato con spiriti inquieti di Francia, Olanda, Germania, Africa, Asia e Nuovo Mondo, operò in esemplare silenzio un’istituzione vaticana per la retta interpretazione dei documenti conciliari e la pubblicazione integrale dei documenti ufficiali. Da parte sua, il Magistero non cessò mai d’appellarsi al Concilio, auspicandone la fedele applicazione. Tra lo staff bolognese e l’interpretazione ufficiale, storici e teologi di varia estrazione, con differenze riconducibili ai rispettivi ambiti, levavan intanto la loro voce, in appoggio o all’una o all’altra parte.

In quella che ho chiamato interpretazione ufficiale si nascondeva un difetto che, comprensibilmente ma non legittimamente, contagiava la produzione storico-teologica, o almeno quanti, fra storici e teologi, più che della ricerca sulle rispettive fonti, si preoccupavano di riecheggiar il Vaticano II e la sua ufficiale volgata. Un grave difetto, a mio modesto parere: non senza qualche rara eccezione, si giustificava il Vaticano II riproponendolo. Lo stesso difetto si nota nella volgata opposta, alla quale S.E. Mons. Marchetto ha sbarrato la strada, guadagnandosi la stima e la gratitudine di chi né s’entusiasmava alla richiesta d’un Vaticano III, né supinamente accettava la riduzione del II ad una funzione di rottura.

Ciò nonostante, gli spiriti inquieti di casa nostra e di fuorivia non han mai cessato d’esternare il loro scontento per l’inconcludenza del Concilio e, soprattutto, per la sua ricezione a loro giudizio parziale, manovrata da Roma con l’intento di neutralizzare le novità conciliari e ritornar un poco alla volta allo status quo. Lo per esperienza. Almeno due volte, nell’immediato postconcilio, mi ritrovai gomito a gomito col prof. Alberigo, da poco scomparso, a discutere di collegialità, “Nota explicativa praevia” ed ecumenismo. Alberigo aveva sposato la politica detta allora “del carciofo” per ridurre ai minimi termini, foglia dopo foglia, il primato del Romano Pontefice e la sua infallibilità “ex cathedra”, le prerogative della Chiesa e del suo Magistero. In me non poca meraviglia suscitava la “personale infallibilità” del Professore nell’imporre la sua interpretazione, ch’era poi un progetto: sostituire alla Chiesa della dottrina, del magistero e della compattezza unilaterale una Chiesa della comunione. E – ovviamente – della libertà. Qualche anno prima Hans Küng aveva lanciato dalle cattedre dell’antico e del nuovo mondo un patetico appello alla “libertà nella Chiesa”; il sottoscritto gli chiese, senz’averne risposta, come e perché potesse parlare tanto “liberamente”.

A mio modo di vedere, il fatto preoccupante è la coincidenza che ho detto materiale fra la non scientificità dell’interpretazione ufficiale e l’esasperato criticismo dei “neoterici”. Dall’una e dall’altra parte si diffonde un’immagine del Concilio distorta e contraddittoria, che pertanto dovrebb’esser riveduta e corretta. Mons. Marchetto ha lodevolmente riveduto e corretto quella, del tutto mistificatrice, proveniente dalla scuola bolognese. Sarebbe ora opportuno rettificare anche quella ufficiale. Nessuno può negare che il Vaticano II sia stato grande: un Concilio che allinea nell’Aula conciliare oltre 2540 vescovi, 42 uditori laici e 90 osservatori non cattolici (2), ed allarga il proprio orizzonte su quasi tutte le tematiche teologico-culturali del momento, non è una bagatella. Ma proprio questo Concilio, e per sua diretta confessione, rinunzia ad incidere dottrinalmente sul mondo contemporaneo, dichiarando che il valore dogmatico dei propri asserti è quello delle singole verità precedentemente definite, cui tali asserti si riferiscano. Tutto il resto va sotto l’etichetta “pastorale”, ovvero dell’adattamento, dell’inculturazione, del dialogo: insomma di ciò che formalmente è altro rispetto al dogma e alla dottrina. Stando così le cose, non sembra corretto continuar ad esaltare oltre il dovuto il valore “dottrinale” del Vaticano II.

C’è di più. Io pure penso che l’unica chiave di lettura del Vaticano II sia quella della continuità evolutiva. È possibile esprimerla in vari modi, ma il concetto dovrebbe restar sempre quello del valore tradizionale che s’affaccia sulla soglia del presente, concorre ad illuminare e risolverne i problemi e prepara il futuro. Questo ho ininterrottamente insegnato ai miei alunni dal 1964 in poi. Avrei dovuto, forse, aggiungere anche quanto per prudenza tacevo: e cioè che, almeno su alcuni punti, sia il Vaticano II sia la sua interpretazione ufficiale han dato spago ai “neoterici” di Bologna e fuorivia, presentando dottrine nuove, e perfino assolutamente nuove, come se riposassero sul piedistallo della Tradizione. Faccio due soli esempi, emblematici: quello del famoso “subsistit in” e quello della collegialità dei vescovi.

Per dare dell’uno e dell’altro un’interpretazione il più possibile in linea con la dottrina tradizionale m’arrampicai sugli specchi. Richiamai immediatamente l’attenzione al valore metafisico del verbo “subsistere” sia per confermare con esso l’identità della Chiesa di Cristo con la Chiesa una santa cattolica ed apostolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, sia per neutralizzare sul nascere la visione d’una nuova cattolicità, fondata dai “molteplici elementi di santificazione e di verità” esistenti anche oltre i confini della Chiesa romana. Lezione inascoltata. Non solo i “neoterici”, ma gli stessi commentatori di tutt’altro sentire annuivano alla tesi della cattolicità allargata e non pochi decisamente la sostenevano. Più tardi, quando lo stesso Magistero volle per almeno due volte (3) riaffermare l’identità fra Chiesa di Cristo e Chiesa cattolica, si richiamò pure – forse per addolcire la pillola e tacitare le reazioni facilmente prevedibili – al famoso “subsistit in” e non certo in senso restrittivo. Il risultato? Gli acattolici, purtroppo, videro in tutto ciò soltanto il ritorno da “in” del Vaticano II ad “est” della precedente ecclesiologia e se ne lamentarono altamente. Ma un tale lamentato ritorno è una conferma dell’innovazione conciliare circa il concetto e la portata della cattolicità.

Quanto alla collegialità, mi riferisco in particolar modo alle affermazioni di Lumen gentium 22/b, secondo le quali il Romano Pontefice ed il Collegio dei Vescovi hanno sulla Chiesa “piena suprema ed universale potestà”, che tuttavia il Pontefice “può sempre esercitare liberamente”, mentre il Collegio non può “se non consenziente il Romano Pontefice”. Non sfugge all’attenzione del lettore, e soprattutto dello studioso, l’affermazione d’un “a pari” a mala pena temperato. Introdotto da un “subiectum quoque” (è esso pure soggetto) che mette il Collegio sullo stesso piano del Papa, “l’a pari” opera un’insostenibile innovazione rispetto alla struttura piramidale della Chiesa, al concetto di Collegio di per sé sempre composto da membri di pari grado e all’assurdo d’una “potestà piena suprema universale” nelle mani di due distinti titolari. Ad evitare che si movessero al Concilio obiezioni di tale e tanta gravità, escogitai la distinzione tra “quoquepredicativo (oltre a ciò, è anche) e “quoquereduplicativo (è questo ma è anche altro), negando il reduplicativo a favore del predicativo, cosicchè fosse chiaro che il Collegio, nelle forme previste e definite, era “anche” partecipe, col Papa e sotto il Papa, alla piena suprema universale potestà sulla Chiesa, ma non “anch’esso” dotato di tale potestà. La conclusione, pertanto, era quella d’una collegialità intesa quale continuità dei Dodici, sotto la primazialità di Pietro e mai contro o senza di essa. Una continuità, quindi, che fa del Papa, in quanto vescovo, un membro del Collegio, ma che, in quanto vescovo di Roma, cioè in quanto Papa, lo costituisce principio e forma perfettiva del Collegio. Con questa conseguenza: non si danno nella Chiesa due soggetti di pari potestà, ma due esercizi d’una sola e medesima potestà: l’uno del Papa e l’altro del Papa con i Vescovi. i commentatori, tuttavia, ufficiali o no, continuarono e continuano (4) ad enfatizzar una collegialità innovativa e antistorica, agganciandola a precedenti che con essa – ossia con la collegialità da loro declamata – han quasi nulla in comune.

L’innovazione, per lo storico non meno che per il teologo, è evidente. Ed almeno in riferimento a tale innovazione, sia da parte di chi inneggia al Concilio-evento, sia da parte di chi inneggia invece al Concilio-continuità ed evoluzione, non si dicon cose diverse. Resta, peraltro, incontrovertibile la posizione dei “rerum novarum cupidi” che non han mai cessato d’opporre la propria all’interpretazione ufficiale. Disponendo di mezzi ingenti, han potuto affidare la loro volgata del Vaticano II non a qualche bollettino parrocchiale – anche se va detto che in non pochi di questi bollettini, nel quotidiano della Cei ed in quasi tutt’i settimanali cattolici proprio codesta volgata trovò le porte spalancate – bensì a case editrici di grande prestigio e di non inferiore potenza economica.

Ciò che a me, tuttavia, sembrava e sembra inspiegabile, è il modo acritico con il quale dall’una e dall’altra parte si faceva perno sul Vaticano II: lo si giustificava appellandosi ad esso. Non mancava qualcuno – ma era un’eccezione – che andasse alla ricerca delle discussioni preconciliari e di quelle conciliari. Non mancava nemmeno il critico che affondasse le sue ricerche nel terreno della Tradizione e delle fonti. Tuttavia il metodo veramente scientifico o latitava, o era raro. Perfino in alcuni documenti curiali il Concilio vien presentato ed esaltato indipendentemente da una sua analisi storico-scientifica. C’è in ciò una vaga analogia all’Autopistia protestante: un’autogiustificazione intrinseca ai documenti stessi, come se l’esegesi d’un testo conciliare godesse d’una sua immanente evidenza o si risolvesse nella tautologia del medesimo.

Eppure, per un “esegeta” di buona volontà non mancava la possibilità di procedere sulla scorta d’una documentazione sicura. È vero che gli Atti ufficiali del Concilio sono stati integralmente pubblicati in tempi relativamente recenti; ma è anche vero ch’eran disponibili singole documentazioni, ricostruzioni diaristi che, testimonianze di privati, atti delle varie Commissioni. A questo materiale attingevamo a larghe mani, per illustrar dalla cattedra il Concilio ed approfondirne il valore alla luce della Tradizione. Peccato che il metodo critico non sia stato il punto forte dell’esegesi stampata né di quella ufficiale.

A render ancor più ingarbugliata la matassa, prima con una certa cautela, poi, specie in clima voitiliano, sempre più apertamente e spavaldamente, operò il c.d. dialogo ecumenico. Scorrendo i volumi dell’Enchiridion oecumenicum, c’è da spaventarsi: la difesa d’una verità o d’un asserto teologico cattolico sembra, quando c’è, una timida e garbata richiesta di scusa; prevalente è l’aperturismo sempre meno controllato, il cui esito, in nome del Concilio, rivela in non pochi casi il rovesciamento delle posizioni conciliari.

È vero, allora, quanto Mons. Marchetto rimprovera ai progressisti, forse volutamente ignorando che, almeno in parte, anche sul versante opposto qualcuno meriterebbe il medesimo rimprovero: che cioè “la fede e la Chiesa non appaiono più coestensive con la dottrina, la quale non ne costituisce neppure la dimensione più importante… L’adesione alla dottrina e soprattutto ad una singola formulazione dottrinale” ha ormai cessato “d’essere il criterio ultimo per discernere l’appartenenza all’Unam Sanctam”. c’è allora un criterio nuovo? Alberigo l’aveva fatto consistere nel trittico: “fede-comunione-servizio”. Peccato che, d’un siffatto criterio, né il Professore bolognese né i suoi accoliti cogliessero il significato profondo:
* il servizio è comunione in atto, tanto verticale quanto orizzontale;
* la comunioneè un vincolo misterico-sacramentale e giuridico, che trasferisce sul piano della carità fraterna il rapporto personale e sociale con Dio;
* la fede è l’accettazione della rivelazione cristiana quale viene dalla Chiesa proposta a edificazione del singolo e di tutta la compagine cristiana.

Mi chiedo allora se sia davvero questa “la grande guerra del Concilio” e se non sarebbe meglio dire “per” il Concilio. La mia, sia ben chiaro, non è affatto guerra. È adesione alla Fede e fedeltà alla Chiesa.


Note

(1) VIRGILIO, Georgiche, II 489.
(2) LATOURELLE R., Introduzione a AA.VV., Vaticano II. Bilancio e prospettive venticinque anni dopo, Assisi 1987, p. 14. Al suo confronto ogni altro Concilio, anche il celebratissimo Tridentino, s’annebbia.
(3) Alludo alla Dichiarazione Dominus Jesus del 2000 ed ai cinque quesiti del 2007 “riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa”; ma bisognerebbe fermar l’attenzione anche sulla Dichiarazione Mysterium Ecclesiae del 1973, sulla lettera ai vescovi Communionis notio del 1992, nonché alla Costituzione dogmatica Lumen gentium ed ai decreti Unitatis redintegratioOrientalium Ecclesiarum.
(4) Uno degli ultimi, ma non ultimo è KEHL M., Die Kirche. Eine katholische Ekklesiologie, Würzburg 1992.


Tratto da "Divinitas. Rivista internazionale di ricerca e critica teologica
, n.3" (2008), pp. 320 e ss.
Si ringrazia
Rivolti al Signore


Photo
U.S. Army Korea - INCOM 1951, (CC) some rights reserved. Korean War HD-SN-99-03123: Chaplain Dennis Murphy celebrates mass for the men of 65th AAA Bn., at Bolo Point, Okinawa. July 19, 1951. Nelse Einwaechter. (Army) NARA FILE # 111-SC-378561WAR & CONFLICT BOOK #: 1464

Fonte

Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Nuova Discussione
 | 
Rispondi
Cerca nel forum

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 05:19. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com