Benvenuto in Famiglia Cattolica
Famiglia Cattolica da MSN a FFZ
Gruppo dedicato ai Cattolici e a tutti quelli che vogliono conoscere la dottrina della Chiesa, Una, Santa, Cattolica e Apostolica Amiamo Gesu e lo vogliamo seguire con tutto il cuore........Siamo fedeli al Magistero della Chiesa e alla Tradizione Apostolica che è stata trasmessa ai santi una volta per sempre. Ti aspettiamo!!!

 
Pagina precedente | 1 | Pagina successiva

La “Caritas in veritate” e il mondo del lavoro

Ultimo Aggiornamento: 18/09/2009 06:54
Autore
Stampa | Notifica email    
OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
11/09/2009 07:10

La “Caritas in veritate” e il mondo del lavoro

L'Arcivescovo Crepaldi presenta l’enciclica al Comitato esecutivo della CISL

(Qui potete accedere direttamente all'Enciclica Caritas in veritate , qui invece c'è il Trhend dedicato dal nostro Forum all'Enciclica del Papa: "Caritas in Veritate" - Carità nella Verità: nuova Enciclica Sociale di Benedetto XVI )


ROMA, giovedì, 10 settembre 2009 (ZENIT.org).-

Per la rubrica di Dottrina sociale della Chiesa riportiamo di seguito la prima parte dell'intervento pronunciato il 9 settembre da mons. Gianpaolo Crepaldi, Arcivescovo-Vescovo di Trieste e Presidente dell’Osservatorio internazionale “Cardinale Van Thuân”, in occasione della presentazione dell’enciclica “Caritas in veritate” al Comitato esecutivo della CISL
La seconda parte verrà pubblicata il 17 settembre prossimo.



* * *

1. Come tutte le encicliche sociali anche nella Caritas in veritate si possono riscontrare due livelli. Un primo livello, decisamente il più importante, riguarda l’ottica sintetica assunta dall’enciclica e quindi la prospettiva di ampia portata che essa indica. Questo livello non sarà superato dai tempi, perché non tratta di nessuna problematica specifica particolare, ma legge la storia umana alla luce del Vangelo ed esprime una sapienza cristiana. Un secondo livello è dato poi dalle singole tematiche specifiche esaminate dall’enciclica le quali, pur essendo in molti casi di ampia portata e non certo legate alla cronaca, risentono delle caratteristiche di questo nostro tempo. Ciò non vuol dire che in futuro queste parti dell’enciclica saranno automaticamente superate, perché come sappiamo la “storia degli effetti” arricchisce il senso di quanto pronunciato oggi e, paradossalmente, molte cose affermate oggi possono sprigionare meglio la loro verità domani. In ogni caso è bene sempre tenere distinti, ma non separati, i due livelli per una corretta ermeneutica dei documenti del magistero sociale.

Il mio intento, in questa presentazione dell’enciclica, è in relazione alla distinzione ora fatta: dapprima cercherò di mettere a fuoco la prospettiva sintetica e di fondo indicata dall’enciclica; poi esaminerò un settore particolare – quello del mondo del lavoro, naturalmente, dato il luogo in cui mi trovo – per vedere come risulti illuminato dalla prospettiva di fondo precedentemente evidenziata.

2. Presentando l’enciclica nella Sala Stampa della Santa Sede il 7 luglio scorso, ho utilizzato una espressione scritta da Joseph Ratzinger nell’ormai lontano 1967, in una tra le sue opere più importanti – “Introduzione al Cristianesimo” – per esprimere la prospettiva generale dell’enciclica, il nocciolo di quanto essa vuole dirci: “Il ricevere precede il fare” 1. In cosa può ultimamente consistere il messaggio di una enciclica sociale se non di riannunciare di nuovo e sempre il primato di Dio nella costruzione della società? Questo ha fatto la Rerum novarum, per la quale “non c’è soluzione della questione sociale fuori del Vangelo”; questo ha fatto anche la Caritas in veritate affermando che “l’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo” (n. 8). Nessuna sorpresa, quindi, da questo punto di vista. La sorpresa semmai deriva ad un altro aspetto della questione: l’annuncio del primato di Dio viene fatto con la pretesa che esso sia una vocazione che corrisponde ad una attesa. L’intento del magistero di Benedetto XVI – non diverso da quello della Tradizione, ma certamente molto incentrato su questo punto – è non solo, come ovvio, annunciare Cristo, ma sostenere che l’ambito delle cose ordinate dalla ragione attende questo annuncio, ne è capace, sicché accogliendolo riscopre meglio le sue stesse possibilità, si conferma nella propria verità.

Questo è il punto centrale della Caritas in veritate: siccome il cristianesimo è la religione “dal volto umano” e il Dio cristiano dice un grande “sì” all’uomo2, tutto l’ambito umano, compreso il lavoro, ne viene illuminato, invitato a prendere coscienza della propria verità, sostenuto e incoraggiato ad essere maggiormente se stesso, purificato dalle ideologie e dagli interessi di parte. Cristo, ci dice la Caritas in veritate, non è venuto a dirci come dobbiamo lavorare, è venuto a illuminare il lavoro; non è venuto a dirci come dobbiamo essere imprenditori, è venuto ad illuminare la realtà dell’economia. Senza negarle o sovrapporvisi dall’esterno, ma svelandone più in profondità il senso autonomo, la pienezza della loro vocazione. In questo consiste la “laicità” della religione cristiana. Sembrerebbe una contraddizione: da un lato si afferma il primato di Dio e dall’altro ci si dice rispettosi della laicità, ossia del’autonomia metodologica dei diversi livelli della realtà. Ebbene, la Caritas in veritate viene a dirci che non c’è contraddizione. Cristo non toglie niente di quanto è umano, lo fa meglio emergere dall’interno in tutta la sua umanità. Un mondo del lavoro che fosse organizzato secondo questa luce non sarebbe meno tale, la realtà del lavoro non verrebbe negata o sminuita, ma valorizzata.

3. Cosa c’entra tutto questo con il primato dal ricevere sul fare? Quanto viene da Dio lo si può solo ricevere, ed oscurato Dio, l’uomo si illude di poter fare tutto con le sole sue forze. Comincia così il disastro del fare senza che prima ci sia il ricevere. Dio è la fonte ultima della gratuità e del dono, è la Verità e la Carità, che possono solo essere ricevute e non possono venire prodotte. Oscurato Dio, si indeboliscono la luce della verità e la spinta della carità e tutta la vita sociale si impoverisce. La Caritas in veritate ci dice che abbiamo bisogno di verità e carità, abbiamo bisogno di quanto non possiamo produrre e che ci rimane indisponibile. Questo è evidente anche esaminando la nostra normale esistenza umana senza infingimenti. Quello che non possiamo produrre è la cosa più produttiva, quella più indispensabile. Scriveva un economista: «In realtà, nella moderna economia c’è molto più sacrificio, fiducia, cooperazione e coordinamento che non self-interest, che apparentemente è considerato guidare l’attività economica nella forma normale di mercato. La moderna economia funziona perché centinaia di migliaia di perfetti estranei possono fidarsi. Essi sono sufficientemente responsabili e affidabili per far volare in sicurezza gli aeroplani, perché i cibi venduti nei negozi corrispondano alle descrizioni delle etichette, per mantenere le promesse e così via»3. Abbiamo sentito ripetere fino alla nausea, in occasione della recente crisi finanziaria, che si trattava di una crisi di fiducia. Ma abbiamo inteso fino in fondo il significato di questa espressione? La Caritas in veritate la chiama necessità che il senso ci sia donato e che non lo produciamo noi. Io mi fido di un altro quando vedo che nel nostro incontro c’è qualcosa che ambedue presupponiamo, qualcosa che precede e fonda il nostro rapporto e che è ad esso irriducibile. Lo scopo della finanza non è la finanza, lo scopo del mercato non è il mercato, lo scopo del lavoro non è il lavoro, questo ci viene a dire la Caritas in veritate.

Ma questo riconoscimento è il presupposto indispensabile perché la finanzia, il mercato e il lavoro siano veramente se stessi e non cadano completamente nella disponibilità degli interessi. Senza una luce ricevuta non ce la fanno.

4. Un aspetto della precedenza del ricevere sul fare è di particolare interesse per chi si occupa di lavoratori e di lavoro. Mi riferisco alla questione se venga prima la giustizia o la carità. La giustizia è un fatto naturale, umano, razionale. Della giustizia si occupa la ragion pratica, non c’è bisogno di rivelazione. La carità, invece, non appartiene alla natura ma alla sopranatura. Chi si occupa del mondo del lavoro è molto interessato alla giustizia e tende a pensare che prima debba essere raggiunta la giustizia e poi, eventualmente, si debba anche vivere la carità. Ma se andiamo in profondità vediamo che così non è: senza la carità non è possibile nemmeno la giustizia: “Per vedere i poveri bisogna volerli vedere” – don Mazzolari. Ecco perché la giustizia ha bisogno anche della gratuità e del dono (n. 34), ha bisogno del ricevere prima del fare. Non che la carità sostituisca la giustizia o che la renda superflua: essa la fa essere più giustizia, la illumina con qualcosa che riceviamo e non produciamo. Pensiamo alla giustizia commutativa: è sì una forma di giustizia ma quanto cieca e limitata! Pensiamo alla giustizia sociale: possiamo considerarla veramente tale quella attuata per via politica? Senza un supplemento d’anima la giustizia diventa una “fredda giustizia”. Questo voleva dire Benedetto XI quando nella Deus caritas est affermava che anche uno Stato perfettamente funzionante avrebbe comunque avuto bisogno della carità: non per gli emarginati residuali, ma per funzionare perfettamente. “I poveri li avrete sempre con voi” non vuol dire che dei vinti ai margini del percorso ci saranno sempre – questo è fin troppo evidente – ma significa che senza l’attenzione alla povertà frutto della carità non c’è giustizia. L’attenzione caritatevole ai poveri deve esserci sempre anche prima e dentro la giustizia.

5. Questa logica viene espressa dalla Caritas in veritate con grande insistenza quando essa mostra la necessità del dono e della gratuità dentro, e non solo dopo, la vita economica (n. 36). Pensare che la carità venga dopo la giustizia comporta che la giustizia possa essere fatta anche da delle strutture, senza la responsabilità della persona, il che è stato il grande errore del liberismo economico e dello Stato assistenziale nel periodo della sua decadenza. Pensare, invece, che la carità sia necessaria per la giustizia, vuol dire collocare il gratuito e il dono dentro la normale attività economico produttiva, come elemento di giustizia ed equità ex ante anziché ex post. Vocazione e attesa: la Caritas in veritate fa questa proposta derivandola dal Vangelo, che ci parla della signoria della carità, ma ritiene che sia anche una necessità della società di oggi. Infatti, osserva l’enciclica, non è più possibile che lo Stato faccia da unico ridistributore della ricchezza dato che la ricchezza oggi prodotta in un certo spazio prende la strada di infiniti altri spazi (nn. 24 e 38). L’economia non è più a base spaziale, mentre la politica lo è ancora. Osservazione questa che, come dirò tra breve, riguarda anche il sindacato. Quindi il primato della carità (del ricevere, dato che essa non può essere prodotta) enunciato dal Vangelo trova una conferma in una necessità, o attesa, della stessa economia di oggi.





------------

1) Ho approfondito quelle riflessioni in G. Crepaldi, Introduzione a Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, Cantagalli, Siena 2009, pp. 5-44.
2) Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al IV Convegno nazionale della Chiesa italiana, Verona 19 ottobre 2006.

3) E. Hadas, L’economia, la finanza e il bene: una crisi concettuale, “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa” V (2009) 2, p. 53.

Continua...
[Modificato da Cattolico_Romano 11/09/2009 07:11]
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
18/09/2009 06:54

6. Qualcuno ha osservato che la Caritas in veritate si occupa poco del lavoro e del sindacato[1]. Se consideriamo lo spazio espressamente dedicato a questi problemi si può forse appoggiare questa valutazione. Ma se, come credo sia giusto fare, si tengono presenti le molteplici indicazioni che possono illuminare il mondo del lavoro, come per esempio quelle da me appena indicate, possiamo avere un quadro diverso. Vediamo allora, a questo punto della nostra riflessione, quali sono le ripercussioni nel mondo del lavoro della prospettiva generale che ho sopra indicato, ossia del precedere del ricevere sul fare.

Prima di tutto vale la pena fare almeno una breve riflessione su un aspetto che di solito viene scansato perché troppo retorico, ma che invece, a mio avviso, ha un considerevole significato pratico e concreto. Anche per il lavoro vale il principio che il suo scopo va oltre se stesso: scopo del lavoro non è il lavoro. Questo perché nel lavoro, in ogni lavoro, c’è qualcosa di gratuito, dato che la persona che lavora è sempre di più del suo lavoro. Era in fondo questa la distinzione tra lavoro in senso soggettivo e lavoro in senso oggettivo della Laborem exercens di Giovanni Paolo II. Di conseguenza c’è sempre una quota di lavoro non pagato o, meglio, che esula dal contratto di lavoro stesso, che si presuppone e che è l’anima stessa del lavoro[2]. Anche per il lavoro vale il principio che i presupposti che non si possono produrre, sono le cose più importanti. E più concrete ed utili, alla fine. Infatti la vera ricchezza prodotta dal lavoro è soprattutto dovuta a questa parte non quantificabile, che esula dai numeri delle statistiche. Il lavoro come vocazione, possiamo dire, è l’aspetto economicamente più rilevante del lavoro. Il lavoro come tecnica è l’aspetto meno rilevate, anche economicamente.

Tanto è vero che molti analisti si sono chiesti se una delle cause della crisi finanziaria ed economica sia proprio questa: l’indebolimento della percezione di quanto nel lavoro c’è necessariamente di irriducibile. Si sta perdendo il senso del lavoro come vocazione. Ripeto: non si tratta di retorica se ciò figura tra le possibili cause – e non all’ultimo posto – della crisi che stiamo attraversando. Mi sembra che questo sia importante per il sindacato, perché fa da linea portante per un certo modo di fare contrattazione. Si dice sempre, o spesso, che nella contrattazione si deve tenere presente la persona del lavoratore. Ma appunto dicendo questo si fa riferimento a quella dimensione del lavoro che trascende il lavoro in senso tecnico e che, se non c’è, debilita anche il lavoro in senso tecnico. Emergono qui aspetti relazionali, ambientali, partecipativi della contrattazione di notevole importanza per un sindacato moderno.

7. La Caritas in veritate ha alcuni passaggi molto interessanti e di grande novità quando afferma, con un certo coraggio per una enciclica, che oggi le espressioni profit e non profit non sono più sufficienti (n. 41). Vedo in questa affermazione una notevole capacità di lettura dei fenomeni attuali ed anche una grande capacità di indicare percorsi da battere. In effetti, la quantità di lavoratori che opera in contesti non indirizzati dal self interest sono molti: «I mercati degli economisti – interazioni di attori economici individualistici, competitivi e self-interested – sono veramente molto difficili da trovare. La maggior parte della gente lavora a casa o in grandi organizzazioni – imprese, università, ospedali. Molti lavorano nei vari settori e agenzie del governo, che gioca un ruolo economico dominante non di mercato. Il lavoro domestico è chiaramente una attività non di mercato, ma così è presumibilmente anche per la maggior parte del lavoro all’interno di organizzazioni basate sul mercato. Come entità, queste possono essere competitive e self-interested (se si possono attribuire questi aggettivi a delle entità), ma per le persone che vi lavorano esse sono prima di tutto organizzazioni gerarchiche che promuovono uno sforzo cooperativo verso certi beni. Se si guarda alla moderna economia come un tutto, la competizione, che pure è presente, svolge un ruolo meno significativo delle leggi, dei regolamenti e dei costumi»[3].

8. Oltre che un dato di fatto così motivabile, l’osservazione di Benedetto XVI è confermata dalle tendenze in corso. Un’impresa sociale, nella forma per esempio della cooperativa, non è propriamente né profit né non profit. Una Società per azioni che stabilisca dei patti parasociali secondo i quali il 30 per cento degli utili vanno destinati a potenziamento delle imprese partners nel terzo mondo; oppure una società di commercio equo e trasparente che garantisca il rispetto delle clausole sociali ma in modo veramente trasparente; oppure una Community Foundation o le imprese che aderiscono alla cosiddetta “economia di comunione”: tutte queste realtà esulano dalla distinzione profit e non profit[4]. Ammettiamo che le scuole, come sembrava da un certo progetto di riforma, si trasformassero in fondazioni: sarebbero collocabili nel profit o nel non profit?

9. Ritengo che il sindacato debba affrontare queste tematiche, uscendo lui per primo da queste dicotomie, di cui è espressione la contrapposizione pubblico / privato, interpretando il nuovo e trovando un significativo rapporto con tutte queste nuove realtà. Qui non si tratta più solo del vecchio “terzo settore”, espressione ormai obsoleta e figlia della medesima contrapposizione profit / non profit. Infatti la Caritas in veritate dice che indispensabili elementi di gratuità ci sono in tutti gli ambiti, senza dei quali niente può funzionare. Il sindacato ha una grande vocazione, quella di favorire la coesione sociale, facendosi portatore di rivendicazioni e di autentici valori, di richieste normative e salariali ma anche di spazi di espressione per la persona, spazi in cui le persone, soprattutto i giovani, i non ancora occupati (n. 64), possano rispondere alla loro chiamata e, così, dare il meglio di sé. Così facendo, il sindacato scoprirà nuovi importanti campi di intervento.

10. Tra questi campi nuovi di intervento vorrei richiamare qui i due principali: la famiglia e la vita. Come ho detto prima, la prospettiva proposta dalla Caritas in Veritate è di vedere nelle persone e nelle cose non una nostra produzione ma un dono di senso che ci responsabilizza all’esercizio di una libertà non arbitraria. Ora, questa esperienza si fa prima di tutto in famiglia, dove l’accoglienza reciproca nell’amore e l’accoglienza della vita insegnano la logica del dono. Questo ci rende fratelli. L’enciclica dice che la vicinanza può essere prodotta ma non la fraternità. Quest’ultima va accolta come un dono. Dove se non nella famiglia facciamo questa esperienza? La Caritas in Veritate spiega così cosa significhi che la famiglia è la cellula della società. Senza l’esperienza della gratuità non c’è fraternità. Se questa esperienza non si fa in famiglia – ossia se la famiglia viene indebolita – tutta la società ne risente. Lo stesso si deve dire della vita. L’enciclica ci ricorda che l’accoglienza della vita comporta una ricchezza economica e che ad essa è legato lo sviluppo.

Questi due grandi temi, unitamente ad altre tematiche particolarmente sensibili presenti nell’enciclica, dai drammi provocati dall’ingegneria bioetica a turismo a sfondo sessuale, mi inducono a fare un’ultima considerazione su una problematica di frontiera sulla quale il sindacato sarà fortemente chiamato in causa in futuro, ma su cui mi sembra non si rifletta a sufficienza. Mi riferisco al diritto all’obiezione di coscienza per tutti i lavoratori che entrano in contatto con disposizioni legislative che impongono loro di partecipare operativamente al non rispetto della vita e della famiglia. Non è il caso che io esemplifichi qui le tante situazioni che già oggi interessano moltissimi lavoratori non solo nel campo sanitario, ma anche in quello giuridico ed amministrativo. Né la carità né la verità possono essere un diritto. Infatti esse sono un dono e non si possono produrre, ma solo accogliere. Esiste però il diritto a cercare la verità e la carità e ad attenersi responsabilmente ad esse una volta scoperte.

La Chiesa ha una “missione di verità”. Ma credo che anche il sindacato, nel suo ambito e con le sue modalità, abbia una missione di verità (n. 9). La Chiesa difende la verità dell’uomo e della famiglia perché altrimenti contraddirebbe la creazione. Anche il sindacato, nel suo ambito e con le sue modalità, deve difendere la verità dell’uomo e della famiglia, perché altrimenti diventano impossibili lo sviluppo e la giustizia. Tale difesa passa anche attraverso la difesa della libertà di coscienza del lavoratore.


------------------
1) In senso stretto ne parlano i paragrafi 63 e 64.
2) «Ogni lavoratore è un creatore» (Caritas in veritate 41 che riprende la Laborem exercens).

3) E. Hadas, L’economia, la finanza e il bene: una crisi concettuale cit, p. 53.

4) S. Fontana, L’immateriale nell’economia. Crisi finanziaria e ripensamento di alcune categorie economiche, “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa” V (2009) 1, pp. 8-11.
__________________________________________________

Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Nuova Discussione
 | 
Rispondi
Cerca nel forum

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 01:32. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com