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Giovanni Crisostomo De sacerdotio

Ultimo Aggiornamento: 14/09/2009 15:27
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Mentre si sprezza il capriccio mutevole della folla, bisogna però troncare i maligni sospetti e le insinuazioni calunniose

III. Qual altra cosa pertanto bisogna disprezzare? La gelosia e l’invidia: non è bene temere e paventare oltre misura le intempestive calunnie (poiché il capo necessariamente deve sopportare biasimi irragionevoli) né il passarvi sopra con troppa bonarietà; ma anche se sono false e scagliate da gente volgare, bisogna studiarsi di soffocarle repentinamente. Nulla infatti contribuisce più della folla a creare una fama buona o cattiva; avvezza ad ascoltare e parlare senza criterio, ripete a casaccio tutto quanto le viene all’orecchio, senza preoccuparsi affatto se sia vero o falso. Non bisogna quindi stare noncuranti della folla, ma troncare al più presto i maligni sospetti, sforzandosi di convincere i maldicenti quand’anche fossero dei più irragionevoli, né lasciare alcun mezzo intentato per distruggere la cattiva opinione. Se poi, pur avendo noi posto in opera ogni mezzo, i calunniatori non vogliano persuadersi, allora conviene disprezzarli; ché se taluno si lascerà abbattere per simili vicende, non potrà mai far nulla di nobile e degno d’ammirazione; l’abbattimento e le continue ansie hanno funesta efficacia per spegnere l’energia dello spirito e piombarlo in estrema sfinitezza. Il vescovo ha da comportarsi coi suoi sudditi come un padre coi figli ancor molto piccini; come non ci conturbiamo qualora questi ci insultino o ci percuotano, o se piangano, né molto diamo loro retta quando ridono e ci fanno festa, così non bisogna lasciarci soggiogare dalle lodi della folla né essere oppressi per i suoi biasimi, quando sono mossi senza motivo. Ma ciò è difficile, o caro, e forse anche, credo, impossibile; non so se ad alcun uomo riesca di non gioire delle lodi; or chi ne gioisce è naturale che nutrisca desiderio di riceverne, e chi desidera di riceverne è giocoforza che sia rattristato, sfiduciato, agitato e afflitto quando gli venga negata la lode.

Come quelli che godono della ricchezza, qualora cadano in miseria restano oppressi, e assuefatti com’erano alle mollezze non possono adattarsi a vivere grossolanamente, così anche i bramosi di elogi, non solo se vengano ingiustamente biasimati, ma anche se non sono costantemente acclamati, si sentono l’anima sfinita come per farne, specialmente quando per avventura ne fossero stati [prima] lautamente pasciuti, o quando per soprappiù sentono che altri riscuote applausi. Quali brighe e quali affanni credi tu non abbia pertanto a incontrare chi si espone al cimento del magistero con lo stimolo di questa bramosia? L’anima sua non sarà mai libera da ansie e tormenti, come non può essere il mare libero da marosi.

L’eloquenza esige un costante esercizio per conservare la sua efficacia

IV. Ma non potrà sottrarsi a un assiduo travaglio neppure quando possieda gran potenza di parola, cosa che non è facile trovare se non in pochi; poiché, essendo l’eloquenza frutto di studio anziché dono di natura, quando pure alcuno ne abbia raggiunto il culmine, ne perde affatto l’esercizio se non alimenta questa sua facoltà con costante diligenza e fatica; onde il travaglio diviene maggiore per i più istruiti che per i più idioti; non è infatti eguale a questi e a quelli il danno della trascuratezza, ma è di tanto maggiore, di quanto diverso è il corredo di cultura degli uni e degli altri. A questi ultimi nessuno muoverebbe rimprovero se parlando espongono solo inezie; quelli invece se non mettono in mostra cose sempre superiori alla fama in che tutti li tengono, subito sono fatti segno a critiche; inoltre agli altri si prodigano grandi elogi anche per piccolo merito, ma se i pregi di quelli non sono molto meravigliosi e abbaglianti, non soltanto si nega loro la lode, ma anche si scagliano loro contro numerosi vituperi; già, gli uditori siedono giudici non tanto delle cose dette, quanto del dicitore, onde quanto più uno supera tutti gli altri nell’eloquenza, tanto più gli è d’uopo di laboriosa cura. A lui invero non è lecito soggiacere nemmeno a ciò che è comune alla natura umana, cioè al non fare perfettamente ogni cosa, ma se i suoi discorsi non sono proporzionati all’altezza della sua rinomanza, ne esce carico degli scherni e delle critiche innumerevoli di tutti. Nessuno considera che un abbattimento sopravvenuto, le lotte e le preoccupazioni, spesso anche l’irritazione, possono oscurare la limpidezza del pensiero e impedire che i concetti vengano espressi con chiarezza, né che essendo egli in tutto uomo, non gli è possibile mantenersi sempre dello stesso umore e sempre col vento in poppa, ma naturalmente deve talvolta venire meno e mostrarsi al disotto del proprio livello; nulla, come dico, di tutto questo vogliono considerare, ma gli fan colpa di tutto come se giudicassero d’un angelo. È poi particolarmente proprio dell’uomo il far poco caso di grandi e numerosi pregi che si trovino in persona vicina; se invece in essa appaia una colpa, per quanto piccola e d’antica data, ognuno se ne accorge tosto, se ne fa severo censore e a ogni occasione vi ritorna sopra; onde spesso un difetto piccolo e comune sminuì la fama di molti e grandi uomini.

V. Vedi, o ottimo, che v’è bisogno di operosità sopra tutto per chi è fornito d’eloquenza; e oltre all’operosità gli occorre anche tanta tolleranza quanta non ne occorre a tutti quelli di cui ti ho parlato sopra. Molti infatti gli si oppongono di continuo senza ragionare, nulla avendo da rinfacciargli, ma solo eccitati dall’essere egli in fama presso tutti: bisogna ch’egli sappia sopportare la fastidiosa gelosia di costoro. Non riuscendo essi a celare quest’odio loro maledetto, che ingiustamente nutrono, vengono a ingiurie, a maligne critiche, calunniando di nascosto e imperversando a faccia aperta; onde un’anima che cominciasse ad affliggersi e irritarsi per ciascuno di questi incontri, morrebbe anzi tempo di crepacuore. Non solo da se stessi gli fanno guerra, ma s’adoperano anche per avere l’aiuto di altri; e spesso scelto qualcuno che non sa affatto ben parlare, cominciano a levarlo a cielo con lodi, e vanno magnificandolo oltre il suo merito, gli uni facendo ciò per ignoranza, gli. altri per ignoranza ed invidia al tempo stesso, più per togliere la fama a quell’altro, che per far apparire mirabile chi in realtà non è tale. Ma quel generoso non ha da combattere soltanto contro costoro, bensì spesso anche contro la rozzezza di tutto il popolo. Poiché il pubblico non è composto tutto di uomini eccellenti, ma la maggior parte dell’assemblea sono gente volgare, mentre gli altri poi, pur essendo più istruiti dei primi, tuttavia sono lontani dal poter apprezzare l’eloquenza molto più di quanto il volgo sia al disotto di loro; sicché rimangono a stento uno o due che possiedano tale capacità. Quindi accade necessariamente che chi meglio parla, spesso raccoglie minori applausi e talvolta persino ne rimane privo affatto. Anche di fronte a questi ingiusti apprezzamenti deve comportarsi con fortezza e perdonare a quelli che ciò fanno per ignoranza, e quelli che invece vi sono spinti da invidia, compiangerli come miserabili e degni di pietà; né deve stimare che il suo valore venga menomato per i giudizi sì degli uni che degli altri.

Ché anche un eccellente pittore e superiore nell’arte a tutti gli altri, qualora vedesse un quadro dipinto da lui con ogni cura censurato da profani, non avrebbe per certo da avvilirsi e riputare cattiva l’opera sua in forza del giudizio di quelli; come nemmeno dovrebbe giudicare meravigliosa e affascinante un’opera in sé cattiva, sol perché desta l’ammirazione degli idioti. L’artefice ottimo dev’essere anche giudice lui solo delle opere sue, e queste s’hanno a ritenere buone o cattive quando l’intelletto che le ha prodotte avrà dato questi suffragi, senza neppur badare all’opinione degli estranei, soggetta a errore e incompetente. Ora chi affronta il cimento del magistero non deve badare agli elogi degli estranei, né l’anima sua deve essere abbattuta qualora gli siano negati, ma componendo i suoi discorsi in guisa da piacere a Dio (questo dev’essere per lui il criterio supremo per giudicare dell’ottima fattura d’essi, non gli applausi, né gli elogi), se verrà lodato anche dagli uomini, non rifiuti i loro encomi, ma se gli uditori non glie ne concedono, non ne vada in cerca né se ne affligga. Sufficiente sollievo delle fatiche, e maggiore di ogni altro sarà per lui la coscienza del suo sforzo di indirizzare e disporre il suo insegnamento in modo da incontrare l’approvazione divina.

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14/09/2009 12:00

L’oratore sacro ha bisogno di grande fede e fortezza d’animo

VI. Se egli invece viene ad essere soggiogato dal desiderio di lodi irragionevoli, nessuno vantaggio ricaverà dalle sue molte fatiche né dalla sua bravura nel parlare, perché l’anima non potendo poi sopportare i biasimi inconsiderati del volgo, rallenta nell’ardore e cessa di applicarsi con cura al magistero della parola; bisogna perciò esercitarsi soprattutto nel disprezzo delle lodi., ché se non si unisce questo, non basta il saper ben parlare per serbare in vigore questa facoltà. Ma se alcuno consideri bene anche la condizione di chi non è riccamente fornito di questa dote, troverà che anch’egli non ha minor bisogno di sprezzare l’applauso; egli infatti sarà nella necessità di commettere molti falli, trovandosi al disotto dell’opinione comune; incapace di rivaleggiare coi predicatori famosi, non si periterà di tendere loro insidie, nutrire invidia contro di essi, di biasimarli ingiustamente e di macchiarsi di molte simili colpe, tutto osando quand’anche avesse da perderci l’anima, pur di riuscire ad abbassare la fama di quelli fino al livello della propria nullità. Inoltre rifuggirà dai sudori necessari per l’opera sua, come se l’anima gli fosse gravata da torpore; e invero il molto travagliarsi per ottenere una scarsa messe di applausi, basta per abbattere e avvolgere in profondo letargo colui che non sa sprezzare la lode; anche l’agricoltore quando lavora un terreno poco produttivo e deve coltivare la ghiaia, presto abbandona la fatica, se non sia sostenuto da grande tenacia nel continuare la sua impresa, o se non tema il sovrastare della carestia.

Se coloro che pur sanno parlare con molta autorità hanno bisogno di tanta cura per conservarsi questa loro dote, colui che non ha messo nulla in serbo, ma deve tuttavia porsi in grado di potersi presentare al pubblico, a quali difficoltà, turbamenti e angustie non dovrà sottostare, per raccogliere da grande fatica qualche piccolo frutto? Che se poi uno di quelli che stanno più in basso di lui e occupano una carica inferiore, riesca ad acquistarsi per questo lato una maggior rinomanza, allora ci vuol proprio un’anima quasi celeste, per non cadere in preda all’invidia né lasciarsi abbattere dallo scoramento; perché l’essere egli superato nel successo per opera d’un suo subalterno, mentre egli è posto in maggior dignità di grado, e sopportare ciò generosamente, non è virtù comune, ma propria di un’anima d’acciaio. Quando il più favorito sia persona affabile e moderata assai, allora il rammarico diventa in qualche modo sopportabile; ma se è un tipo arrogante, borioso e avido di gloria, sarebbe a quell’altro più desiderabile la morte ogni giorno, tanto questi gli renderà amara l’esistenza, censurandolo apertamente, schernendolo di nascosto, sottraendogli gran parte dell’autorità, bramoso di tutta usurparsela.

E in tutto ciò ha come appoggio sicuro l’audacia nel parlare e il favore della plebe a suo riguardo e l’essere nelle grazie di tutti i sudditi. E non vedi tu quanta brama di discorsi si è ora infiltrata nelle anime dei Cristiani e come quelli che vi danno opera sono in onore non solo presso i pagani, ma anche tra i fedeli? E chi sopporterebbe questa confusione, che mentre egli predica, tutti se ne stiano zitti e stimino di essere importunati, sospirando la fine del discorso come liberazione da un tormento; mentre invece l’altro anche se parla a lungo, l’ascoltano con entusiasmo, e accennando egli a finire si conturbano, e se fa di tacere, si adontano?

Sono cose che se anche ora ti sembrano piccole e disprezzabili, per non averle tu ancora provate, bastano però a spegnere l’entusiasmo e paralizzare le energie dello spirito, se uno levandosi al disopra di ogni umano affetto non si studi di comportarsi come le potenze incorporee, le quali non soggiacciono né a invidia né a vanagloria, né ad altra simile infermità. Se dunque v’ha un uomo di tale tempra che sappia mettere sotto i piedi questa belva inafferrabile, invincibile e selvaggia che è la pubblica opinione e troncarne le numerose teste, anzi da non lasciarle né anche da principio spuntare, quegli potrà agevolmente respingere i frequenti assalti e godere come di un porto tranquillo; ma finché non ne sarà liberato, egli imporrà all’anima sua una guerra molteplice, continuo affanno, e il peso dello scoramento e d’ogni altra angustia. E a che enumerare le rimanenti difficoltà? Nessuno può né dirle né comprenderle, se non si sia trovato egli stesso in mezzo a queste brighe.


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14/09/2009 15:17

Libro sesto

Riepilogo. Difficoltà del ministero e virtù necessarie. Conclusione della difesa.
Il pensiero di dover rendere conto al Giudice supremo della salute spirituale dei sudditi, incute grande timore.


I. Così stanno le cose quaggiù, come hai udito; quelle poi che riguardano l’altra vita, come potremo sopportarle, essendo noi costretti a rendere ragione di ciascuno di coloro che ci furono affidati? Il danno non si limiterà allora alla vergogna, ma trarrà seco una punizione eterna. Se già l’ho ricordato, non tralascerò ora di ripetere il detto: "Siate ubbidienti ai vostri prelati e siate ad essi soggetti, poiché essi vegliano come dovendo rendere conto delle anime vostre" (Eb. 18,17); ché il timore di questa minaccia mi agita continuamente lo spirito. Se per chi scandalizza minimamente uno solo "conviene che gli sia sospesa al collo una pietra da mulino e venga precipitato nel mare" (Mt. 18,6) e se "quanti offendono la coscienza dei fratelli, peccano contro lo stesso Cristo" (1Cor. 8,12), chi infligge tanta rovina non a uno, o due, o tre, ma a un popolo intero, che cosa non dovrà soffrire in pena e quale castigo non avrà da riceverne? Né si può incolpare l’inesperienza, né rifugiarsi nella scusa dell’ignoranza, né addurre come pretesto la violenza e la costrizione subita: tale pretesto potrebbe farlo valere chiunque fra i sudditi, qualora fosse il caso, riguardo alle proprie colpe, più facilmente di quello che un capo possa addurlo a scusa delle colpe altrui. E perché mai? perché chi é incaricato di correggere l’ignoranza degli altri e porre in guardia contro la guerra diabolica quando s’avvicina, non potrà certo pretessere l’ignoranza propria, né dire: "Non ho udito la tromba, né ho potuto prevedere la battaglia". Poiché, per questo, come dice Ezechiele, t’ha fatto sedere, per suonare la tromba anche per gli altri e preannunziare le calamità future. Onde la pena sarà inesorabile, anche se uno solo andasse perduto. Ché "se all’avvicinarsi della spada, dice, la sentinella non suoni la tromba al popolo, per annunziarla, e la spada venendo prenda un uomo, questi veramente per colpa sua é rapito, ma del sangue di lui domanderò conto alla sentinella" (Ez. 33,6).

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14/09/2009 15:18

Custodia dei sensi e purezza angelica necessaria al sacerdote

Cessa pertanto di spingermi verso una pena tanto inesorabile: non si tratta né di comando militare né di dignità regia, ma di un’istituzione tale che richiede una virtù angelica. L’anima del Sacerdote dev’essere più pura dei raggi del sole, affinché lo Spirito Santo non lo abbandoni e affinché possa dire: "Vivo non già io, ma vive in me Cristo" (Gal. 2,20). Ché se gli anacoreti del deserto, lontani, dalla città e dai pubblici ritrovi e da ogni strepito proprio di quei luoghi, godendo interamente il porto e la bonaccia, non s’inducono a confidare nella sicurezza di quella loro vita, ma aggiungono infinite altre attenzioni, munendosi da ogni parte e studiandosi di fare o dire ogni cosa con grande diligenza, per potersi presentare al cospetto di Dio con fiducia e intatta purezza, per quanto é possibile alle umane facoltà; qual forza e violenza ti pare che farà d’uopo al vescovo, per sottrarre l’anima sua da ogni macchia e serbarne intatta la spirituale beltà? A lui occorre per certo maggior purezza che a quelli, e frattanto, proprio lui che ne ha maggior bisogno è esposto a maggiori occasioni necessarie, nelle quali può essere contaminato, se con assidua sobrietà e vigilanza non renda l’anima sua inaccessibile a quelle insidie.

La grazia della persona, le movenze affettate, il camminare ricercato, l’esilità della voce, gli occhi imbellettati, la tintura delle gote, la disposizione delle trecce, le chiome impatinate, lo sfarzo delle vesti e la varietà dei monili, la bellezza delle gemme, il profumo degli unguenti e tutte le attrattive di cui va in cerca il sesso femminile, bastano a turbare l’anima qualora non sia bene inaridita con rigorosa temperanza. Del resto nulla di strano che uno sia inquietato da simili cose, ma ciò che riempie di stupore e di sgomento é che il diavolo può percuotere e trafiggere le anime degli uomini mediante oggetti affatto contrari a quelli.

II. Taluni infatti essendo sfuggiti a quelle trappole, caddero in altre assai diverse. Lo sguardo trascurato, la capigliatura ispida, il vestito sudicio, l’aspetto dimesso, i modi semplici, il parlar naturale, l’incesso comune, la voce piana, il vivere in povertà, l’essere oggetto di disprezzo senza appoggio e in abbandono, dopo aver mosso a compassione l’osservatore, finirono per trascinarlo a estrema rovina: onde molti, scampando dalle prime reti tese dai monili, unguenti, abiti sfarzosi, e tutto il resto sopra ricordato, caddero con tutta facilità in queste altre così diverse da quelle, e vi soccombettero. Se dunque mediante la povertà e la ricchezza l’ornamento e l’aspetto dimesso, i modi affettati e quelli trascurati, in una parola mediante tutti gli oggetti sopra enumerati si accende la guerra contro l’anima dello spettatore, e d’ogni intorno gli tendono insidie, come potrà egli respirare, stretto nel cerchio di tanti scogli? quale scampo potrà trovare, non dico per non soccombere alla violenza, ché ciò non é molto difficile, ma per serbare l’anima sua tranquilla e libera da immondi pensieri?

Lascio da parte gli onori che sono cagione di mali infiniti; quelli che provengono dalle donne sbolliscono bensì con l’assiduità della modestia, ma possono anche far cadere chi non sa mantenersi sempre vigilante contro tali insidie; quanto poi a quelli offerti dagli uomini, se uno non li accoglie con molta superiorità di spirito, soggiace a due affezioni contrarie, quali la servile

adulazione e la stolta iattanza, costretto a inchinarsi a quelli che dovrebbero stare a’ suoi cenni, reso aspro contro i minori dal favore accordatogli e spinto così nel baratro della presunzione. Queste cose dico io; ma il danno che da ciò proviene nessuno potrebbe pienamente comprenderlo, senz’averne fatto esperienza, ché a chi si trova all’atto pratico é giocoforza che ne accadano di peggiori e più rovinose.

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Il ministero dedicato al popolo é più difficile che il governo di comunità monastiche

Colui che preferisce la quiete si trova libero da ogni peso: onde se talora un pensiero vano gli suggerisce qualcosa di simile, la fantasia é debole e facile a spegnersi, non somministrandosi dall’esterno per mezzo della visione, materia all’incendio. Inoltre il monaco teme solo per se stesso; se mai é costretto a stare in angustia anche per altri, si tratta d’un numero piccolissimo; e se fossero più numerosi, lo sono sempre meno di quelli che sono nelle chiese, e procurano al prelato cure assai più lievi, non solo per il piccolo numero, ma anche perché tutti sono liberi dalle faccende mondane e non hanno da preoccuparsi né per i figli né per la moglie né per null’altro di simile. Questo li fa più docili ai superiori, ed anche l’aver essi in comune l’abitazione, in guisa che le loro mancanze si possono diligentemente avvertire e correggere, il che é di non piccola importanza per il progresso nella virtù.

Invece la maggior parte di quelli che sono soggetti al vescovo é occupata nelle cure materiali, il che li rende più indolenti per quanto si riferisce alle opere spirituali, onde il maestro deve, per così dire, seminare quotidianamente, affinché la parola del magistero possa con l’assiduità essere finalmente afferrata dagli uditori. La sfondata ricchezza, la posizione elevata, la pigrizia derivante dal lusso, e molte altre cause oltre a queste, soffocano i semi deposti; spesso poi la fitta delle spine non lascia neppur cadere la sementa fino a poter germogliare; anche l’eccesso della tribolazione e le strette dell’indigenza, i soprusi continui e altre cause contrarie alle prime, possono ritrarre dalla sollecitudine per le cose di Dio. Delle loro colpe poi non può venire in chiaro al vescovo neppur la minima parte; e come potrebbe essere diversamente se non conosce nemmeno di vista il maggior numero de’ sudditi?

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14/09/2009 15:19

La responsabilità dinanzi a Dio. Grandezza del rito eucaristico

III. Tali difficoltà offrono al vescovo i suoi rapporti col popolo; ma se alcuno investiga i suoi rapporti con Dio, troverà che le altre sono al confronto un nulla, tanto maggiore e più complessa é la cura che questi richiedono. Colui il quale é mallevadore di tutta una città, ma che dico città? di tutto il mondo, e che deve propiziare Iddio per le colpe di tutti, non solo de’ vivi ma anche de’ trapassati, di quale virtù non dev’essere egli fornito? Io non stimo possa bastare per tale intercessione né la fiducia di Mosè, né quella di Elia. E per vero [il vescovo], come custode di tutto il mondo e padre di tutti, si presenta a Dio supplicandolo di sedare le guerre e comporre i disordini, implorando pace, prosperità e privatamente e pubblicamente la pronta liberazione di tutte le calamità da cui ciascuno é afflitto; perciò egli deve tanto superare tutti coloro per i quali intercede, quanto é ragionevole che il prelato superi [in dignità] i suoi subalterni. Quando poi invoca lo Spirito Santo e compie il tremendo sacrificio e viene in assiduo contatto col comune Signore di tutte le cose, in qual grado, dimmi, lo porremo noi? e qual purezza e austerità non richiederemo da lui? pensa quali hanno da essere le mani che si gran cose amministrano, quale la lingua che pronunzia quelle parole, e come dev’essere più immacolata e santa che mai l’anima che deve accogliere un tanto Spirito? Allora assistono al sacerdote anche gli angeli, onde il Santuario e lo spazio intorno all’altare si riempie di potenze celesti, in omaggio [al Signore] presente. Ciò si può asseverare anche da quanto é altra volta accaduto; io stesso ho udito da un tale raccontare che un certo vecchio, uomo meraviglioso e favorito da rivelazioni, gli aveva confidato d’essergli stata una volta concessa una simile visione, e che durante quel tempo aveva scorto d’improvviso una moltitudine di angeli, com’egli li poteva vedere, cinti di fulgide vesti, facenti corona all’altare e starsene inchinati, in atto simile a’ guerrieri in presenza del re; e io lo credo. Un altro pure mi raccontò, non riferitogli da chicchessia, ma lui stesso esser stato degnato di vedere e udire che coloro i quali stanno per dipartirsi da questa vita, se abbiano partecipato. ai misteri con intatta coscienza, al loro spirare gli angeli in guardia d’onore ne li conducono, per riverenza al sacramento da loro ricevuto. Tu invece non rabbrividisci nello spingere a sì santa azione un’anima come la mia, e nel sollevare alla dignità de’ sacerdoti uno avvolto in sordide vesti e che Cristo respinse anche dal ceto degli altri convitati!

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Il sacerdote é sale della terra e luce del mondo

L’anima del sacerdote deve splendere come luce che illumina tutta la terra, mentre la mia é ravvolta dalla perversa coscienza in si fitta tenebra, che sempre vi sta sommersa né può mai con fiducia volger lo sguardo al suo Signore. I sacerdoti sono il sale della terra, mentre invece la mia insipienza e totale inesperienza, chi le tollererebbe di buon grado, se non voi altri, per la consuetudine d’eccessivo affetto? Ché [il sacerdote] dev’essere non soltanto puro come lo richiede un tanto ministero, ma anche molto prudente e pratico di molte faccende; non deve conoscer gli affari materiali meno di quelli che vi si trovano in mezzo, e tuttavia deve esserne distaccato non meno dei monaci che abitano i monti. Egli deve essere versatile, perché ha da far con uomini che hanno moglie, figli, servitù, sono circondati da grandi ricchezze, trattano la cosa pubblica e occupano alte cariche: versatile, dico, non subdolo, né adulatore né ipocrita, ma pieno di libertà e di franchezza, sapendo però accondiscendere docilmente qualora le circostanze lo richiedano, mostrandosi a un tempo affabile e austero. Non bisogna infatti comportarsi allo stesso modo con tutti i sudditi, come non sarebbe opportuno ai medici procedere con uno stesso criterio con tutti gli ammalati, né al pilota conoscere una sola manovra per combattere contro i marosi. E per vero anche questa nave é premuta da continue tempeste; tempeste che non solo assalgono dall’esterno, ma sorgono anche dall’interno, onde v’è d’uopo di grande accondiscendenza, ma insieme di grande attenzione. Tutte queste cose, sebbene fra loro diverse, cospirano a un fine unico: la gloria di Dio e l’edificazione della Chiesa.

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Confronto tra il monaco e il sacerdote

IV. Grande é la professione monastica e costa molta fatica; ma chi paragoni quei travagli al conveniente disimpegno dell’episcopato, troverà tanta differenza quanta ve n’ha fra un uomo del volgo e un re. Sebbene là sia grande la fatica, tuttavia la lotta é sostenuta in comune dal corpo e dall’anima, anzi nella maggior parte essa dipende dalla costituzione del corpo; se questo non é vigoroso la passione rimane assopita, né può effondersi nell’azione; onde anche gli assidui digiuni, il dormire su nuda terra, le veglie protratte, il non lavarsi, la dura fatica e tutti gli altri esercizi che servono a mortificare il corpo, sono messi in disparte, essendo privo di vigore quello che dovrebbe venire represso. Qui invece l’arte è puramente dell’anima, né ha d’uopo del benessere del corpo per dimostrare la sua virtù. Infatti, a che gioverebbe la forza del corpo per evitare l’arroganza, l’irascibilità, la precipitazione, ed essere invece sobri, prudenti, ordinati, e mostrare tutte le altre doti con cui il beato Paolo ci descrive in tutte le sue parti l’immagine del perfetto vescovo? Non si potrebbe dir ciò riguardo alle virtù proprie dei monaci.

Ma come ai prestigiatori occorrono molti ordigni e ruote e corde e coltelli, mentre il filosofo ha l’arte sua riposta tutta nell’anima senza bisogno di strumenti esterni, così anche nel nostro caso, il monaco ha bisogno della buona costituzione corporale e di luoghi adatti al suo esercizio, che non siano troppo lontani dal consorzio degli uomini, che abbiano la quiete propria delle regioni disabitate e che inoltre non difettino di un’ottima temperatura dell’atmosfera; però che nulla riesce più intollerabile delle intemperie per chi é già estenuato dai digiuni; non parlo poi delle brighe che essi hanno necessariamente per prepararsi le vesti e il vitto, dovendo ogni cosa fare da se stessi. Il vescovo invece non dovrà occuparsi di tutto ciò per servire alle proprie necessità, ma esente da tali lavori, egli partecipa a tutte le manifestazioni della vita che non recano danno, custodendo tutta la sua scienza in serbo nel ripostiglio dell’anima. Che se taluno ammira quelli che se ne stanno in disparte, anch’io direi che ciò è segno di fortezza, non però un saggio sufficiente di tutta

la virtù che è nell’anima: chi siede al timone standosene chiuso nel porto, non offre adeguata prova dell’arte sua, ma se uno riesca a salvare la nave in mezzo al pelago e alla procella, nessuno oserà negare ch’egli sia un ottimo pilota.

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14/09/2009 15:21

La vita solitaria non porge molte occasioni di provare la virtù.

V. Pertanto non ci dovrebbe destare un’ammirazione esageratamente grande il monaco, che standosene solo non soffre turbamenti né commette grandi e numerose colpe: egli non ha le occasioni che stimolano e risvegliano l’anima. Invece, quando uno dedicandosi a intere moltitudini e costretto a sopportare i disordini di tutti, sa mantenersi diritto e forte, guidando l’anima fra le tempeste come se fosse in bonaccia, questi sarebbe degno d’essere acclamato e ammirato da tutti, ché ha offerto una prova sufficiente della sua fortezza. Non devi pertanto meravigliarti se io, fuggendo i ritrovi e le compagnie numerose, non vado incontro a molti biasimi, come non sarebbe degno di ammirazione che io dormendo evitassi le colpe, o fuggendo la lotta non m’occorresse di cadere, o astenendomi dal combattere non fossi vinto. Ma chi, dimmi, chi può denunziare e smascherare la mia perversità? questo tetto e questa cella? ma essi non sanno articolare parola. O forse mia madre che più d’ogni altro conosce le mie tendenze? ma fra me e lei non c’è nulla di comune né mai siamo venuti a qualche contrasto, e se anche ciò fosse avvenuto, non c’è madre tanto disamorata e ostile verso la sua prole, da accusare e perseguitare in faccia a tutti senza che alcun motivo ne la costringa, quello che essa ha generato, partorito ed allevato. E tu pure, che più di tutti sei solito a levarmi a cielo con lodi presso chiunque, non ignori che se si sottoponesse a rigorosa prova l’anima mia, la si troverebbe in molte parti viziata; se vuoi persuaderti che io non parlo così per modestia, ricordati quante volte, discorrendosi fra noi di tali faccende, ebbi a dirti che se mi si proponesse di significare in quale condizione vorrei ottenere lode, se nel governo della Chiesa oppure nella vita monastica, io avrei dato coi pieni voti la preferenza alla prima. Né mai ho cessato di esaltare [parlando] con te quelli che sapevano egregiamente disimpegnare quel ministero: or dunque nessuno potrebbe negare che io non avrei fuggito quell’[ufficio] che tanto ammiravo, se ne fossi stato all’altezza. Ma che? nulla é più dannoso nel governo della Chiesa, di questa certa inerzia e trascuratezza, che altri stimano una specie d’ascesi, mentre io penso ch’ella non sia altro se non un velarne della mia propria inettitudine, col quale io posso celare la maggior parte delle mie mancanze, impedendo che siano conosciute. Chi é avvezzo a godere di questa inoperosità e vivere in grande quiete, anche se é dotato di grandi qualità viene conturbato e disorientato dall’inerzia, e la mancanza d’esercizio tronca una parte non piccola delle sue energie: che se poi oltre al tenersi lontano da tali cimenti, é anche di carattere indolente, come appunto é il caso mio, qualora abbia assunto questo ministero non farà più di quanto farebbe una statua di marmo. Ecco la ragione per cui anche di quanti vengono da quel genere di palestra a questi cimenti, pochi ottengono buon esito; la maggior parte di loro vanno incontro al comune biasimo, perdono le staffe e soggiacciono a vicende disgustose e tristi; e nulla di straordinario in questo, che quando gli esercizi e le palestre non sono proporzionati allo stesso genere di cimenti, per nulla differisce uno che sia allenato, da un altro che non sia tale. Infatti colui che scende in questo stadio deve spregiare la gloria, dominare l’irascibilità ed essere pieno di grande prudenza; ora chi preferisce la solitudine non ha occasione di esercitarsi in queste virtù, perché non ha molti che lo molestino, onde sia condotto a reprimere l’impeto dell’animo; non ha ammiratori né acclamatori che lo ammaestrino a tenere a vile gli applausi della moltitudine; né d’altra parte possono [i monaci] darsi piena ragione della grande prudenza che si richiede nel ministero ecclesiastico. Pertanto, quando essi vengono al cimento di lotte delle quali non hanno curato l’esercizio, si turbano, danno nelle vertigini, sono ridotti all’impotenza, e accade spesso che molti, oltre che non ne acquistano, vi perdono anche le virtù che prima possedevano.

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14/09/2009 15:21

Il ministero offre molte occasioni pericolose. Difficile cura del ceto femminile

VI. "Allora Basilio: E che? disse, dovremo noi porre allora al governo della Chiesa persone avvolte negli affari mondani, preoccupate da interessi materiali, impigliate in contese e ingiurie e ripiene di innumerevoli perversità?"

"Calmati, risposi, o mio caro; ché quando si tratta della scelta dei sacerdoti non s’ha nemmeno da pensare a tali soggetti; dico che a quei solitari si deve preferire uno che mentre tratta e pratica con tutti, possa conservare intatta e inalterata la purezza, la calma, la santità, la fortezza, la sobrietà e tutte le altre doti che splendono nei monaci; perché colui il quale avendo molti difetti, pure riesce con la solitudine a celarli e renderli innocui, astenendosi dal trattare con alcuno, posto che sia nel mezzo della bisogna, altro non otterrà se non di rendersi ridicolo, con rischio di peggio.

Ciò appunto sarebbe per poco capitato a me, se la misericordia di Dio non avesse in fretta ritirato il fuoco dal mio capo; chi ha sortito un’indole tale, non può celarla quando venga messo in vista, ma allora tutto viene smascherato; e come il fuoco prova i metalli, così la prova del ministero esamina le anime degli uomini; onde se uno é iracondo, o pusillanime, o vanaglorioso, o millantatore, o se abbia qualsiasi altra pecca, tosto ne discopre e svela i difetti. Né soltanto li rivela, ma li rende più forti e perniciosi: le piaghe del corpo stropicciate, più difficilmente guariscono, e così pure le passioni dell’anima stimolate e irritate imperversano maggiormente, spingendo a maggiori colpe quelli che ne sono agitati. [L’esercizio del ministero] accende in chi non sta’ in guardia la bramosia di gloria, lo rende presuntuoso e avido di ricchezza; lo trascina al lusso, alla rilassatezza, all’indifferenza e a poco a poco ad altri vizi che da questi derivano.

Molte sono là in mezzo le circostanze che possono distruggere il temperamento dell’anima e troncare il retto cammino, e anzitutto le conversazioni con le donne; non lice invero al capo della comunità ecclesiastica e a cui spetta la cura di tutto il gregge, occuparsi soltanto del sesso maschile e trascurare le donne, le quali hanno bisogno di maggiore assistenza essendo esse più facilmente cedevoli alle mancanze; ma chi occupa la carica di vescovo deve prendersi a cuore l’integrità loro, se non in maggiore, almeno in eguale proporzione. Bisogna pertanto visitarle quando sono inferme, consolarle quando sono tribolate, redarguire quelle che si mostrano indolenti e prestare aiuto a quelle che sono oppresse. Ora, nell’esercizio di queste opere, il maligno trova molti accessi, se uno non si munisce con gran cura; lo sguardo colpisce e turba lo spirito, né soltanto quello delle svergognate, ma anche quello delle pudiche; le loro adulazioni soggiogano e i loro favori rendono schiavi, di guisa che la carità ardente, che per se stessa é fonte d’ogni bene, pub divenire fonte d’ogni male per quelli che non l’esercitano con le debite precauzioni. Già di per sé le cure assidue ottundono l’acume del pensiero e da agile lo rendono più pesante del piombo, mentre poi d’altra parte l’irascibile invadendo ravvolge a guisa di fumo tutto l’interno)".

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14/09/2009 15:22

L’insidia della calunnia e la necessità di guardarsene.

VII. Chi potrebbe poi enumerare i danni rimanenti, cioè le ingiurie, le calunnie, le censure mosse dai superiori e dai sudditi, dai saggi e dagli insipienti? Quest’ultima genia specialmente, destituita di retto criterio, é incontentabile e difficilmente ascolta ragioni; ora il buon prelato non deve disinteressarsi neanche di costoro, ma presso tutti deve studiarsi di togliere di mezzo le cagioni delle loro querele, usando molta affabilità e dolcezza, perdonando le accuse ingiustificate anziché adontarsene e montare in ira. Se il beato Paolo temeva di destare sospetto di frode nei suoi discepoli, e perciò si assunse altri nell’amministrazione delle entrate "affinché alcuno non ci abbia da vituperare per questa abbondanza di cui siamo dispensatori" (2Cor. 8,20), come non dovremmo noi adoperarci in ogni maniera per allontanare i cattivi sospetti anche se falsi, privi di qualsiasi fondamento e lontanissimi dalla nostra riputazione? Invero da nessun vizio noi siamo tanto lontani quanto lo era Paolo dal furto: e sebbene egli tanto distasse da questa mala azione, non trascurò tuttavia l’eventuale sospetto della moltitudine, per quanto irragionevole e folle esso fosse; e certo era una follia sospettare qualcosa di simile per quella beata e mirabile anima; ma nondimeno egli molto per tempo toglie di mezzo le cause d’un sospetto tanto stolto e quale niuno poteva concepirlo, tranne che avesse perduto la testa. Non pose in non cale la stoltezza del volgo, né disse: "A chi mai potrebbe venire in animo un tale dubbio a mio riguardo, mentre tutti mi onorano e ammirano sia per i miracoli, sia per l’equità onde la mia vita risplende?" ma tutto al contrario, egli previde e s’aspettò tale maligna supposizione e l’estirpò dalla radice, anzi non permise neppur che cominciasse a formarsi; e per qual motivo? "Perciò, dice, provvediamo al bene non solo dinanzi al Signore, ma anche dinanzi agli uomini" (2Cor. 8,21).

Tale cura, anzi maggiore, si deve usare, non solo per togliere di mezzo e impedire le cattive dicerie quando sono sorte, ma per prevedere da lontano da qual parte possano sorgere e togliere i pretesti che possono provocarle, né aspettare che esse prendano corpo e vadano aggirandosi di bocca in bocca, poiché allora non sarà facile soffocarle, ma molto difficile e presso che impossibile; ciò poi non é privo di danno perché non può accadere senza scandalo di molti. Ma fino a quando seguiterò ad andar in traccia dell’introvabile? ché l’enumerare tutte le difficoltà che qui s’incontrano, sarebbe la stessa cosa che misurare l’acqua del mare. Se anche uno si sia purificato da ogni passione, il ché é impossibile, per giungere a correggere i falli altrui deve sopportare infiniti disagi: se poi s’aggiungono le proprie deficienze, pensa quale abisso di angustie e di affanni non deve patire quegli che voglia vincere i vizi suoi e degli altri!

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Bisogna far fruttare i talenti

VIII. Ma tu, disse Basilio, non devi sopportare fatiche e non hai forse affanni anche standotene solo?

"Ne ho per certo, risposi, anche così; come é possibile infatti, essendo uomo e vivendo questa tribolata vita, starsene affatto libero da pene e lotte? Ma come non é eguale cosa il cadere in un pelago sterminato e il traghettare un fiume, così pure differiscono le pene di questo stato e

quelle dell’altro. Certamente anch’io desidererei, potendolo, essere di aiuto ad altri e ciò é per me oggetto di molto desiderio; ma se non è possibile recare giovamento ad altri, purché almeno mi riesca di porre in salvo me stesso e sottrarmi al naufragio, me ne starò contento anche solo di. Questo".

"E tu credi, disse, che ciò sia gran cosa? e pensi davvero di poterti salvare senza occuparti del vantaggio di altri?".

"Tu dici bene e giustamente, risposi; poiché neppure io posso credere che abbia a salvarsi chi non sopporta alcuna fatica per procurare la salute altrui; neppure quel miserabile infatti, guadagnò nulla col non sminuire il talento, ma appunto il non averlo aumentato ricavandone il doppio, fu la sua rovina. Tuttavia io stimo che all’accusa di non aver salvato altri, seguirà una punizione più mite che all’altra, d’aver io rovinato e me ed altri, essendomi fatto peggiore dopo conseguita sì gran dignità. Ora io reputo che tale sarà la pena quale richiede la grandezza delle colpe; ma assunta che avessi la carica, non solo doppia e tripla, ma d’assai volte maggiore, per averne scandalizzato un numero più grande, e per aver, dopo un maggior onore, offeso Dio che me l’aveva conferito".

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14/09/2009 15:23

Più si richiede da Dio a chi fu elevato a maggior dignità

Per ciò appunto [Iddio] accusando più fortemente gli Israeliti, dimostra ch’essi sono degni di maggior castigo, per esser caduti in colpa dopo tanto onore loro accordato, dicendo una volta: "Voi soli ho io conosciuti di tutte le famiglie della terra; per questo vi punirò di tutte le vostre iniquità" (Am. 3,2). E altra volta: "E de’ vostri figlioli scelsi i profeti, e dalla vostra gioventù quelli da consacrarsi" (Am. 2,11). E prima de’ profeti, volendo dimostrare che le colpe ricevono molto maggior castigo quando sian commesse da’ sacerdoti che non quando lo sono dai privati, impone di offrire per i sacerdoti un sacrificio corrispondente a quello offerto per tutto il popolo, volendo dimostrare che le piaghe del sacerdote richiedono maggior cura, e tanta quanta se ne richiede per il popolo intero; non vi sarebbe bisogno certo di più grande cura se esse non fossero per se stesse più maligne: e tali esse sono appunto, non già per natura, ma perché rese più gravi dalla dignità rivestita dal sacerdote che le ha contratte. E che dico gli uomini che rivestono la dignità? le figlie stesse dei sacerdoti, benché nessun rapporto diretto abbiano col sacerdozio, soggiacciono a più aspro castigo pe’ loro peccati, a causa della dignità paterna; eppure la colpa era eguale in loro e nelle figlie dei privati, sì le une che le altre essendo ree di fornicazione; ma a queste ultime fa più dura la punizione la superiorità d’onore. Vedi con quanta copia d’esempi Iddio ti dimostra che esige maggior pena dal capo che non dai sudditi; però che [Dio] il quale inflisse più grande punizione alla figlia per causa del padre: da questo, che fu ad essa cagione di aumentarle i tormenti, non richiederà per certo eguale pena che dagli altri, ma assai più grande. E ben a ragione; ché il danno non si arresta in lui, ma rovina anche le anime dei più deboli che a lui tengono volto lo sguardo: ciò volendo insegnare Ezechiele distingue il giudizio degli arieti da quello delle pecore.

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14/09/2009 15:24

La vita ritirata protegge un animo debole

IX. Ti par dunque ch’io tema d’un ragionevole timore? E oltre a quanto ho detto [aggiungi] che ora ho pur d’uopo di fatica per non essere totalmente sopraffatto dalle passioni dell’anima, ma nondimeno riesco a tollerare tale travaglio e non mi ritraggo dal combattimento. E per vero anche al presente sono soggiogato dalla vanagloria, ma spesso m’è pur dato di rialzarmi, e conosco le cause della caduta; talora anche faccio severo rimprovero all’anima per essersene resa schiava. Anche al presente sorgono in me desideri viziosi, ma essi accendono una più languida fiamma, non avendo gli occhi esteriori alcun mezzo di porgere esca al fuoco: non mi occorre punto di parlar male d’alcuno o d’intendere altri a parlarne, non avendo io conversazione con alcuno; né potrebbero invero queste pareti dire anche una sola parola. Non mi riesce però egualmente di sottrarmi all’irascibilità, sebbene non vi sia chi mi vi ecciti; ché spesso assalendomi il ricordo d’uomini perversi e delle loro malvagità, mi sommuove lo spirito; per altro quest’agitazione non va fino agli eccessi, ché ben presto l’anima accesa si ricompone, e la persuado a calmarsi, dicendo esser cosa inutile ed estremamente stolta l’affannarsi de’ fatti altrui trascurando le cose proprie. Ma se io andassi fra la moltitudine e cadessi in preda d’infiniti turbamenti, non potrei certamente rivolgermi simili ammonimenti, né trovare le riflessioni che possano esercitare su di me una tale disciplina. Ma come chi è travolto in un precipizio da una corrente o da altra forza, può bensì prevedere la rovina in cui andrà a finire, ma non è dato a lui di escogitare alcuno scampo, così pure io qualora cadessi in si gran turbine di passioni, potrei scorgere la punizione aumentarmisi di giorno in giorno, ma non mi sarebbe agevole come ora serbare il dominio di me stesso: il reprimere in ogni caso queste turbolente malattie [dello spirito] non mi riuscirebbe così facilmente come prima. Ho un’anima inferma e piccina, facile preda non solo di queste passioni ma d’una di tutte più fiera: l’invidia; essa poi non sa sostenere con moderazione né le contumelie né gli onori, ma in modo eccessivo rimane incitata da quelle, da questi soggiogata.

Come le fiere terribili quando sono ben tarchiate e vigorose abbattono quelli che si fanno a pugnare con loro, specialmente se questi sono deboli e inesperti; se invece alcuno le smunga con la fame, addormenta i loro impeti e spegne la maggior parte di loro forza, di guisa che anche chi non è molto valente può cimentarsi con loro in lotta e in caccia, così è anche delle passioni dell’anima: chi le indebolisce riesce a sottoporle a sani ragionamenti; chi invece le nutrisce lautamente rende a se stesso più fiera la lotta contro di esse e se le rende tanto terribili da aver poi a passare tutta la vita in loro schiavitù e sotto il loro incubo.

Or qual è il nutrimento di queste fiere? della vanagloria sono gli onori e le lodi; dell’arroganza, la grande autorità e potestà; dell’invidia, i buoni esiti dei propri colleghi; dell’avarizia, l’ambizione di quelli che possono largire denaro; dell’intemperanza, il lusso e i continui trattenimenti colle donne e via dicendo. Tutte queste passioni, se io esco all’aperto, mi assaliranno e strazieranno l’anima spaventose, e impegneranno meco una guerra più feroce. Mentre invece fin che me ne sto qui ritirato, ci vorrà bensì grande sforzo per soggiogarle, ma pur le soggiogherò con la grazia di Dio e non avranno più altra forza che di latrare. Per ciò io sto attaccato a questa stanzetta, senza uscirne, senza conversazioni né compagnie, e sopporterò di udire infinite altre accuse simili, e me ne purgherei di buon grado, pur dolendomi e rammaricandomi di non poter farlo. Io non potrei agevolmente essere uomo di società e nello stesso tempo serbare intatta la sicurezza presente; onde prego di compatire piuttosto che accusare chi ha voluto sottrarsi a tale cimento.

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Grande timore di Giovanni al pensiero di recare danno alla Chiesa

X. Ma non ti persuado ancora: è dunque tempo di rivelarti anche quello che unicamente tenevo celato e che forse sembrerà a molti incredibile; ma ciò non ostante io non arrossirò di metterlo in pubblico. Che se le cose dette da me saranno prova di coscienza contaminata e d’innumerevoli colpe, poi che Dio, il quale ha da giudicarmi, conosce esattamente tutto, che cosa potrà venirmene di più dalla ignoranza degli uomini? Or qual è dunque il secreto? Da quel giorno in cui facesti nascere in me questo sospetto [di essere mio malgrado consacrato], più volte il mio corpo corse pericolo d’essere totalmente paralizzato, tanto era il timore e l’abbattimento che s’era impadronito dell’anima mia. Considerando io l’eccellenza, la santità, la spirituale bellezza, l’ordine e il decoro della Sposa di Cristo, e d’altra parte pensando ai miei vizi, non cessavo di rimpiangere e quella e me stesso, e continuamente fra gemiti e sgomento andavo dicendo tra me: "Chi dunque poté dare un simile consiglio? o qual gran peccato ha commesso la Chiesa di Dio? come ha ella mosso siffattamente a sdegno il suo Signore, da essere data in balìa di me vilissimo fra tutti, e subire una tal confusione?". Tali cose rivolgendo fra me medesimo, né potendo sopportare pur il pensiero di un fatto così assurdo, io me ne stavo muto come gli epilettici, impotente a nulla vedere o ascoltare. Cessato poi quello sgomento, ché venne pur il tempo in cui cominciò a dileguarsi, vi succedevano le lacrime e lo scoramento; saziatomi di lacrime sottentrava di nuovo il timore conturbandomi, sconvolgendomi e sovvertendomi l’intelletto. In tal tempesta vissi tutto questo tempo, mentre tu ciò ignoravi e credevi che io godessi tranquillità; ma ora tenterò di scoprirti il turbine dell’anima mia, ché anche in vista di ciò ben presto mi darai venia, cessando di muovermi accuse. Or come farò io a svelarti me stesso? ché se tu volessi averne una chiara conoscenza, ciò non potrebbe altrimenti farsi che mettendo a nudo il mio stesso cuore; ma poiché ciò è impossibile, cercherò almeno, come mi sarà dato, di mostrarti con tenue sembianza la caligine del mio sbigottimento, di modo che tu possa averne anche solo un’idea.

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14/09/2009 15:25

Allegoria finale. La fidanzata mistica

Supponiamo che a un uomo sia promessa sposa la figlia del re di tutta la terra che è sotto il sole, e questa fanciulla sia bella d’ineffabile bellezza, tale da sorpassare anche l’umana natura e superare di gran lunga in bellezza le altre donne tutte quante; che oltre a ciò essa possieda tali doti di spirito da lasciarsi indietro assai la schiatta intera degli uomini che furono e che saranno; che per leggiadria di costumi sorpassi tutti i confini della saggezza e faccia impallidire con lo splendore del proprio aspetto la beltà corporale; supponiamo che il promesso sposo sia acceso per questa vergine non solo a cagione di queste doti, ma oltre a ciò senta verso di lei una particolare tendenza, una passione di tal forza da eclissare al confronto anche gli amatori più deliranti che mai siano stati. Poniamo poi che mentre è bruciato da un tal fuoco, venga a sapere che quella sua meravigliosa amata è in procinto di essere sposata da uomo da nulla, ignobile di stirpe, deforme di corpo e più meschino di ogni altro. Ti ho io così rappresentato qualche piccola parte del mio affanno? ti basta ch’io mi limiti a questa immagine? certo credo che basti per rappresentarti il mio sbigottimento, e appunto per darti un’idea di quello, te l’ho esposta. Ma ora verrò ad un’altra rappresentazione, per dimostrarti la grandezza del mio timore e della mia trepidazione.

L’esercito e l’armata navale affidati a un contadinello

XI. Sia dunque un esercito composto di pedoni, di cavalieri e d’uomini di mare; e copra il mare la moltitudine delle triremi, e coprano le campagne e le vette dei monti le falangi dei fanti e dei cavalieri. E riverberi al sole il suo splendore il rame delle armi, mentre contro i raggi di lassù mandati, vibri il fulgore degli elmi e degli scudi: lo strepito delle aste e il nitrito de’ cavalli si levi fino al cielo, né si veda più mare o terra, ma rame e ferro appaia da ogni parte.

Incontro a questi si schierino i nemici, uomini fieri e spietati e sia imminente ormai il momento della battaglia. Indi alcuno preso ad un tratto un garzoncello di quelli che sono allevati nei campi e nulla sanno all’infuori del zufolo e del bastone da pastore, lo rivesta delle armi di rame; lo conduca quindi a torno tutto quanto l’esercito e gli mostri le varie compagnie con i loro comandanti, gli arcieri, i frombolieri, i capitani, i generali, i fanti di grave armatura, i cavalieri, i lanciatori, le triremi e i trierarchi, gli armati che sopra quelle stanno, la moltitudine delle macchine poste sulle navi; gli mostri poi

anche tutte quante le schiere dei nemici e certe facce spaventevoli, la strana foggia delle armi, l’infinita loro moltitudine; i precipizi, i profondi burroni e i dirupi dei monti. Poi gli mostri ancora dalla parte dei nemici e cavalli volanti per via d’incantesimi, e fanti portati per l’aria e ogni opera e specie di magia. Gli venga poi anche enumerando i casi della guerra: nubi di saette, nembi di dardi, quell’immensa caligine, oscurità e tenebrosissima notte prodotta dal nembo degli strali, sì da impedire con la sua densità i raggi del sole, la polvere che non meno della tenebra acceca gli occhi, i torrenti di sangue, i gemiti dei cadenti, le urla di chi sta ancor in piedi, i cumuli dei distesi a terra, le ruote asperse di sangue, i cavalli con i loro cavalieri stramazzati bocconi per la moltitudine dei cadaveri giacenti, la terra di tutto ciò confusamente coperta, e sangue e dardi e frecce e zoccoli di cavalli e teste d’uomini insieme, e braccia e ruote e schinieri e petti trapassati, cervella cosparse sul filo delle spade, punte di saette infrante, e, nelle punte, occhi infilzati. Gli enumeri anche i casi dell’armata navale: delle triremi, quali incendiate in mezzo alle acque, quali affondate in un con i soldati; il mugolio dell’onde, il tumulto dei marinai, il grido delle ciurme, la spuma dei flutti mescolata col sangue che piove su tutte le navi; e cadaveri, altri sui tavolati, altri sommersi, altri galleggianti, altri sbalzati sul lido, altri avvolti dall’onde sì da chiudere alle navi la strada. Indi, mostrati a lui diligentemente tutti

questi luttuosi casi di guerra, vi aggiunga ancora i mali della prigionia e la schiavitù peggiore d’ogni morte; e ciò detto gli imponga senz’altro di salire subito a cavallo e assumere il comando di tutto l’esercito. Or credi tu forse che a quel comando potrà bastare quel garzoncello, o piuttosto al primo aspetto non rimarrà egli subito senza respiro.

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14/09/2009 15:26

Le forze infernali schierate contro la Chiesa di Cristo e i suoi sacerdoti.

Le ferite dell’anima. Confronto fra la pugna materiale e la lotta spirituale


XII. Né credere che io esageri la cosa con le mie parole, né reputarle [troppo] grandi, perché noi chiusi nel corpo come in una prigione nulla possiamo vedere di ciò che è invisibile; poiché se tu potessi mai scorgere con questi occhi [materiali] la tenebrosissima oste e la furibonda accozzaglia del diavolo, vedresti un apparato di guerra molto maggiore e terribile di questo. Là non v’è rame né ferro, né vi sono cavalli o carri o ruote; non fuoco né strali né alcun ordigno bellico di quelli visibili, ma altre molto più spaventose macchine. A quei nemici non occorre né corazza, né scudo, né spada, né asta; e tuttavia la sola vista di quell’infinito esercito basta a tramortire l’anima che non sia molto ardita e oltre la propria forza non sia favorita copiosamente dalla provvidenza di Dio. E se fosse possibile, sciogliendosi da questo corpo, poter osservare liberamente e senza timore tutta l’oste schierata di quello, e scorgere visibilmente la guerra apprestata contro di noi, potresti vedere non già rivi di sangue, né cadaveri, ma tale strage di anime e tanto aspre ferite, che la descrizione guerresca fatta da me più sopra, sarebbe stimata da chiunque in paragone nient’altro che un giochetto da fanciulli, un trastullo anziché una guerra, tanti sono quelli che ogni giorno vengono colpiti. Le ferite poi non infliggono una eguale morte, ma quella [morte] differisce tanto da questa quanto l’anima differisce dal corpo; poiché quando l’anima tocca una ferita e cade, non giace insensibile come il corpo [morto] ma viene quindi tormentata immediatamente dallo struggimento della mala coscienza; e dopo il trapasso da questa vita, nell’ora del giudizio viene consegnata alla pena eterna.

Che se taluno poi rimanesse insensibile alle ferite del diavolo, il danno per lui si accresce appunto per quell’insensibilità; infatti, chi dopo una prima ferita non prova rimorso, facilmente ne toccherà una seconda e dopo questa un’altra; ché quell’immondo, qualora incontri un’anima intorpidita e noncurante delle prime ferite, non cessa di colpirla fino all’ultimo respiro. E se volessi esaminare il genere di battaglia, la troveresti molto più violenta e svariata; ché nessuno conosce tanta specie di frode e d’inganno quante colui; quel maledetto infatti trae da esse la sua maggior potenza; né alcuno potrebbe nutrire sì implacabile inimicizia contro i suoi più feroci avversari, quale il maligno nutre contro l’umana natura. Se poi alcuno esamini l’accanimento con cui quegli combatte, troverà cosa ridicola il paragonarvi [quello consueto] fra uomini; e se scegliendo le più rabbiose e feroci belve, vorrà contrapporle alla furia di quello, le troverà al confronto mansuetissime e docilissime, tanto furore quegli esala nell’assalire le nostre anime. La durata poi della battaglia qui [fra noi] è breve, e pur nella sua brevità occorrono frequenti intervalli: il sopravvenire della notte, la stanchezza della strage, il tempo di prendere cibo e molte altre circostanze permettono al soldato di riposare, di svestire l’armatura e respirare alcun poco, rifocillarsi con cibo e bevanda e con molti altri mezzi riacquistare il pristino vigore. Ma col maligno, non è dato mai deporre le armi né prendere sonno a chi voglia serbarsi affatto incolume; è forza che l’una o l’altra accada di queste due cose: o cadere e soccombere se si spoglia [delle armi], o rimanere continuamente in piedi armato e vigilante.

Ché quegli senza tregua insiste con tutto il suo campo, spiando le nostre disattenzioni, adoperando egli maggior diligenza alla nostra rovina, che noi stessi alla nostra salvezza. Inoltre il non esser egli da noi veduto e il sopraggiungerci di sorpresa, cose che più d’ogni altra sono causa di infiniti danni per chi non è in continua vigilanza, presentano questa lotta come assai più scabrosa di quella.

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14/09/2009 15:27

Commiato, augurio finale e promessa di amichevole assistenza e di conforto reciproco

XIII. Qui adunque tu volevi che io assumessi il comando dei soldati di Cristo? ma ciò sarebbe stato un guidare l’esercito in pro del diavolo: quando colui che deve porre in

ordine e tenere in disciplina gli altri, è privo d’ogni esperienza e debolissimo, tradendo con la sua incapacità quelli che gli furono affidati, farà da capitano per il diavolo più che per Cristo.

Ma perché gemi? perché versi lacrime? non è degna di compianto la mia sorte, ma di letizia e giubilo.

"Non però la mia, disse, ch’è invece degna d’infinito rammarico! ora soltanto ho potuto comprendere in quale [abisso] di mali mi hai condotto lo sono venuto da te per sapere che cosa potessi rispondere in difesa ai nostri accusatori; tu mi rimandi dopo aver aggiunto affanno ad affanno; già non mi preoccupo più ormai di ciò che risponderò a quelli in difesa, ma piuttosto di ciò che risponderò a Dio riguardo a me stesso e alle mie colpe. Ma ti prego e scongiuro, se alcuna sollecitudine hai delle mie vicende, se alcuna consolazione in Cristo, se alcun conforto della carità, se viscere di compassione; ben sai che tu più di tutti m’hai spinto a questo cimento: porgimi la mano, e non cessare un istante di dire e operare quanto giovi a indirizzarmi, ma più ancora che pee il passato intratteniamo la nostra intima conversazione".

"E io sorridendo: e che potrò io darti, quale aiuto ti potrò fornire per sopportare il peso di tanto ufficio? ma pur se ciò ti è caro, fa’ animo, o diletto; nel tempo in cui ti sarà dato respirare da quelle cure, io ti sarò vicino per confortarti, né alcuna cosa tralascerò di quanto è in mio potere.

A questo punto quegli più dirottamente piangendo si alzò; io abbracciatolo e baciatolo in fronte, lo rimandai confortandolo a sopportare fortemente la sua sorte. Credo, dissi, fidando in Cristo che ti ha chiamato e t’ha preposto alle sue pecorelle, che da questo ministero ti verrà tanta fiducia, che in quel giorno accoglierai pur me pericolante nell’eterno tuo tabernacolo.

NOTA: le citazioni sono spesso riportate, dallo stesso Crisostomo, a memoria, lievemente modificate o abbreviate per motivi stilistici, nei casi in cui sono testuali è utilizzata la LXX o la Volgata

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