Benvenuto in Famiglia Cattolica
Famiglia Cattolica da MSN a FFZ
Gruppo dedicato ai Cattolici e a tutti quelli che vogliono conoscere la dottrina della Chiesa, Una, Santa, Cattolica e Apostolica Amiamo Gesu e lo vogliamo seguire con tutto il cuore........Siamo fedeli al Magistero della Chiesa e alla Tradizione Apostolica che è stata trasmessa ai santi una volta per sempre. Ti aspettiamo!!!

 
Pagina precedente | 1 | Pagina successiva

Il Papa, interrogato, risponde "a braccio"

Ultimo Aggiornamento: 16/09/2009 19:43
Autore
Stampa | Notifica email    
OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
16/09/2009 19:04

Il testo che segue non fa parte del Magistero di Benedetto XVI perche' l'incontro "botta e risposta" con le giovani universitarie dell'Opus Dei e' avvenuto prima dell'elezione del cardinale Ratzinger al Soglio di Pietro. Tuttavia e' interessantissimo il contenuto di questo dibattito perche', conoscendo il cardinale, si comprende meglio anche il Papa. Noterete che molte risposte sono cosi' attuali da far pensare che siano state pronuciate solo ieri. Ancora una volte mi sconvolge la disarmante coerenza di Papa Ratzinger.


Il contenuto etico del lavoro quotidiano

Ratzinger Joseph
Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede


15° Incontro universitario europeo "Il tempo del lavoro. Professione e cultura per una pace possibile". Castelgandolfo, 24-31 luglio 1991

Incontro informale del cardinale Ratzinger con le studentesse universitarie partecipanti ad un convegno dell'Opus Dei, un botta e risposta sui temi sollecitati dalle stesse convegniste: il ruolo del cristiano nella società contemporanea, la sua responsabilità di trasmettere i valori della fede, la pubblicazione del nuovo catechismo, e - in linea con il tema specifico dell'incontro - la riscoperta di una spiritualità del lavoro che apre al laicato un fondamentale spazio all'interno della Chiesa. Ecco le domande e le risposte.


D. Il tema del convegno, intitolato "Il tempo del lavoro", porta ad affrontare una delle tematiche-chiave della spiritualità dell'Opus Dei , che è appunto quella di santificare il proprio lavoro compiendolo con perfezione, di santificarsi attraverso il lavoro, e di santificare gli altri prendendo spunto dal proprio lavoro. Mi ha sempre colpito come il fondatore dell'Opus Dei insisteva sul fatto di essere persone competenti professionalmente e che poi mettono lo stesso impegno nell'acquisire una formazione dottrinale e religiosa. Le chiedo se può spiegarci l'importanza, soprattutto per noi donne che spesso tendiamo a vivere la fede in modo forse troppo sentimentale, di saper rendere sempre, in ogni situazione, le ragioni della nostra fede.


R. Proprio il Cristianesimo ha dato questa grande importanza al lavoro. Nel mondo antico sono gli schiavi a lavorare, i liberi si occupano di altre cose. La dimensione cristiana si vede soprattutto in una parola del Signore, quando dice che "Mio Padre lavora sempre e Io lavoro". Egli fa riferimento al Creatore del mondo, che è tuttora Creatore, che non si è ritirato dal mondo ma continua a lavorare con i nostri cuori, con l'intelligenza umana per costruire un mondo che dovrebbe divenire una città di Dio.
Il Cristianesimo è entrato nel mondo con un nuovo concetto di lavoro: esso appartiene alla nostra somiglianza con Dio, e lavorando possiamo realizzare il nostro essere immagine di Dio. Ma perché ciò avvenga, l'agire umano deve essere illuminato dalla parola di Dio, che arricchisce il lavoro di un contenuto etico: nasce così la deontologia, che illumina ogni strada professionale. Ogni lavoro umano porta sempre in sé una carica etica. Perciò devono andare insieme una buona e concreta formazione professionale, che va vista anche come corrispondenza e rispetto al nostro Creatore, e quindi come un dovere religioso, e una adeguata formazione religiosa che illumini i diversi aspetti del lavoro di ognuno.
E mi pare che le università statali di oggi non offrano più questa formazione globale. Forse è questa la lacuna più grave dell'università moderna: che non è più una vera università che forma l'uomo nella sua totalità e profondità, ma si tratta piuttosto di un insieme di specializzazioni. Malgrado questa situazione, ci sono realtà come l'Opus Dei, e anche riunioni come questa, adatte ed anche necessarie per combinare la formazione professionale con quella religiosa, e mostrare al mondo le ragioni della fede.


D. In lei mi hanno sempre colpito, vedendola in televisione, leggendo le cose che ha scritto sui diritti dell'uomo e sulla dignità della persona, il suo ottimismo e la sua fortezza. Da un lato c'è in lei una grande fermezza nel difendere i principi, dall'altro un'allegria, un entusiasmo che anche io vorrei avere per portare a termine nel miglior modo tutto quello che intendo fare. Vorrei sapere lei come fa.


R. È la potenza del dono della fede. Non nasce da noi ma, se siamo disponibili, il Signore ci dà la fede con tutte le sue certezze. Non si tratta di un'invenzione umana, perché le idee che possiamo sviluppare noi possono essere più o meno certe, sono sempre in un certo senso ipotetiche; la fede invece ci dà una luce divina, la certezza che Dio c'è, che ci ha parlato, si è rivelato nella Chiesa e rimane presente fino alla fine del mondo. Molti hanno paura che la fede imprigioni l'uomo, che gli tolga la libertà, e vogliono quindi un sentiero totalmente libero: in realtà la strada da loro scelta non ha fondamento e quindi non può svilupparsi. La fede ci apre la mente all'immensità del mondo, all'immensità delle possibilità umane; la Verità non è chiusa, ma si sviluppa sempre, e va approfondita proprio perché dà luce ai problemi del mondo.
Credere non vuol dire limitare la possibilità del pensiero; al contrario, questo dono dà la luce verde, per così dire, per affrontare l'avventura intellettuale-spirituale, e questo indubbiamente dà allegria. Direi anzi che, privo di una tale certezza fondamentale sull'origine e sulla finalità della nostra vita, l'uomo cade necessariamente in una certa malinconia, perché questa vita gli appare come una cosa noiosa: non si sa più se vale la pena vivere o se sarebbe meglio non vivere; la vita diventa così un grande enigma e la risposta, sia essa positiva o negativa, dipende dalle variazioni delle circostanze.
Con la certezza di un amore fondamentale che ci affianca, che ci aiuta, che ci guida, indicandoci le grandi linee della rappresentazione del mondo e aprendo così tutte le strade del sentiero, non può non venire un'allegria fondamentale. Certo, possono succedere tante cose negative nella mia vita, ma poco importa, se fondamentalmente sono nelle mani dell'Amore e nella strada della Verità. Per concludere direi: credere con fiducia, con la fede della Chiesa, e camminare insieme alla Chiesa, è un avvenimento liberatore ed aiuta a trovare la strada della vita.


D. La Santa Sede, ed in particolare la Congregazione che lei presiede, stanno lavorando per l'elaborazione del Nuovo Catechismo Universale. Questo è un tema che mi tocca moltissimo perché sono una catechista. Ci siamo accorti che nel nostro lavoro di catechesi era molto importante avere un punto di riferimento sicuro per poter dare ai ragazzi la giusta dottrina. Volevo allora sapere quali sono i temi più toccati da questo Nuovo Catechismo Universale, ed anche chiederle se poteva darci qualche consiglio per svolgere il nostro lavoro di catechisti.


R. Il Catechismo è un punto di riferimento e non uno strumento immediato per la catechesi, perché le situazioni sono sempre diverse. Il libro vuole rappresentare un primo passo dalla dottrina come tale alla mediazione catechetica; non soltanto un compendio di dottrina ma già una dottrina tradotta. Per aprire la dottrina a questa azione catechetica abbiamo scelto soprattutto due elementi. Alla fine di ogni capitolo abbiamo delle brevi risposte, che offrono un po' la sostanza del testo e dovrebbero aiutare per ritrovare un linguaggio comune e una comune memoria della fede, che si sono un po' perse nel fatto che i contenuti della fede sono stati mediati in espressioni molto diverse. Secondo elemento è che noi affianchiamo alla dottrina le parole di alcuni Santi, che con la loro esperienza mostrano la pienezza e la bellezza della Verità.
Nella stesura del nuovo Catechismo abbiamo fatto riferimento all'impostazione-base del catechismo romano del Concilio di Trento, cioè alle quattro parti che fin dall'inizio sono state essenziali nella catechesi : il Simbolo, cioè il Credo (per prima cosa bisogna conoscere il Simbolo e comprenderne bene il significato delle parole); i sette Sacramenti ; la morale cristiana e il Padre Nostro. Quindi la catechesi originale è una cosa semplice e fondamentale nello stesso tempo. Chi voglia essere cristiano non deve essere per forza un grande dotto, ma deve conoscere le realtà fondamentali: la fede, i sacramenti, come vivere, come pregare. Noi presentiamo il Simbolo non in precetti separati, ma offrendo una visione organica della fede, nella quale si vede un'unica intuizione, che non è una somma di dogmi imposti sulle nostre spalle. È invece un sì: Dio ci ama, e tutti i contenuti di questo amore sono concretizzazioni diverse del sì fondamentale.
È stata nostra intenzione dare soltanto insegnamenti che appartenessero alla eredità della fede, senza introdurre idee personali che - sia pur buone -non possono essere imposte tramite il catechismo. Attuare questa autolimitazione è stato difficile, perché, nel mediare una cosa e renderla comprensibile, è quasi indispensabile personalizzarla. Il rischio in tali casi è di realizzare un testo un po' freddo, ma spero che quelle parole dei Santi che abbiamo inserito diano il calore sufficiente, e anche una certa personalizzazione.
Quanto al catechista, devo confessare che sono tanti anni che non faccio più catechesi, e perciò non ho il coraggio di dare dei consigli dato anche che le situazioni sono molto diverse da allora. Potrei dire comunque che il grande compito del catechista assomiglia un po' all'esperienza da noi vissuta, e anche sofferta, nella preparazione del libro: da una parte non bisogna offrire una filosofia personale, ma trasmettere ciò che insegna la Chiesa; dall'altra occorre rendere accessibile la fede anche attraverso il modo con il quale la abbiamo interiorizzata, e in questo senso penso che il successo della catechesi dipenda molto dal modo di fare di ciascuno: se mi sono appropriato della fede, se è divenuta cosa mia, posso arrivare al cuore del catechizzando.
È importante che, a seconda dei diversi livelli, anche le specificazioni dottrinali siano diverse: anche la persona più semplice può capire l'essenza della fede; d'altra parte, anche un teologo deve sempre pensare al Signore che ha elogiato i semplici di cuore perché hanno la capacità di vedere l'essenziale. In una catechesi dei semplici si possono omettere tanti elementi di riflessione cristiana, ma l'essenziale è che Dio ci ha creato, ci ha chiamato, ci conosce, ascolta le nostre preghiere, ci è vicino; questo Dio che è trinitario, cioè che è amore in sé stesso prima di aprirsi a noi e che può aprirsi a noi perché c'è in Lui questo amore; questo Signore che è Figlio di Dio, che è fratello nostro e si unisce con noi nell'Eucarestia.
Questi grandi elementi, che non sono poi tanti e sono in sostanza molto umani, possono essere tradotti benissimo nel linguaggio di oggi, anche se appaiono lontani dal pensiero medio e dominante. Essi contengono un'umanità così profonda che, se correttamente presentati e autenticamente vissuti, trasmettono attraverso la catechesi una autentica gioia.


D. Volevo raccontarle alcune esperienze di volontariato realizzate in quest'ultimo anno. Abbiamo progettato un mese di lavoro sociale in Kenya, in un quartiere periferico di Nairobi e lo stesso faremo in Messico. Qui in Italia abbiamo realizzato corsi di catechesi e anche di promozione urbana in quartieri 'difficili' di alcune città. Proprio per far conoscere il Progetto-Kenya, oltre a parlare con le nostre colleghe, abbiamo messo alcuni manifesti nelle università e così siamo venute in contatto con molte ragazze interessate al tema della solidarietà. Con loro ci siamo riunite ogni 15 giorni per studiare meglio il progetto, per trovare i fondi, spedire materiale, preparare le lezioni ed anche approfondire la nostra formazione dottrinale e spirituale. Quando saremo a Nairobi faremo lezioni di igiene alimentare, di costruzione edile, di taglio e cucito, continuando la nostra formazione. Con queste ragazze è nata una bella amicizia e molte di loro si sono riavvicinate ai Sacramenti e a Dio. Personalmente debbo dire che tutte queste attività mi hanno insegnato che devo testimoniare la mia fede proprio attraverso questi ideali comuni a tanti giovani, concretizzati in progetti ben precisi, e in questa linea mi hanno aiutato le parole che lei ha detto un anno fa a Rimini e che ora volevo leggere: "È diffusa oggi qua e là, anche in ambienti ecclesiastici elevati, l'idea che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata in attività ecclesiali. A ciascuno si cerca di assegnare un comitato, in ogni caso almeno un impegno all'interno della Chiesa; ma uno specchio che riflette solamente se stesso non è più uno specchio. Una finestra che, invece di consentire uno sguardo libero verso il lontano orizzonte, si frappone come uno schermo tra l'osservatore ed il mondo, ha perso il suo senso". Le volevo chiedere se può riprendere questi concetti.


R. Mi sembra che questa esperienza di volontariato di cui lei ha parlato sarebbe la migliore risposta a ciò che avevo criticato nella mia relazione, cioè ad una auto-occupazione della Chiesa, della comunità con sé stessa, per costruirsi e riflettersi sempre di nuovo nella sua ecclesialità. Aprendosi all'altro, la fede diventa realtà e, illuminati e incoraggiati dal Signore, non parliamo di noi stessi; essendo uniti con Lui, abbiamo questo coraggio e questa disponibilità a vivere con gli altri, a lavorare con gli altri nel modo e nelle occasioni che Lui ci dà, a contatto con questi problemi mondiali che sono la sfida per la nostra esistenza cristiana in questo tempo.
Questo sarebbe piuttosto il senso del riorientamento per realizzare la fede nel mondo, e non la permanente autoriflessione della Chiesa -come meglio ricostruire, come creare nuovi enti, ecc...- in uno stato retrospettivo. Tutte le attività della Chiesa dovrebbero essere vagliate con questa domanda: siamo realmente strumenti della realizzazione della Parola Divina o siamo solo strumenti della autoriflessione? In ciò che lei ha detto, mi sembra si realizzi questo progetto vero della fede: diventare uno strumento della concretizzazione della Parola nel mondo. Aggiungerei che proprio in questa rinuncia a se stessi e nella disponibilità ad andare verso l'altro, cresce anche la fede e si comincia a capire meglio anche se stessi, e di conseguenza cresce anche la Chiesa.


D. Mi è molto piaciuto quanto lei ha detto in merito ai diritti umani, ed in particolare al fatto che oggigiorno essi vengano dichiarati solennemente ma poi in pratica negati del tutto. Da qui nasce la mia esigenza, che è anche l'esigenza di miei coetanei e colleghi, di cercare un senso della vita cristiano, coerente con le nostre idee. È per questo che alcuni di noi hanno dato origine ad alcune iniziative: all'Università "La Sapienza" di Roma, ad esempio, sono stati fatti dei corsi di deontologia politica, mentre al Policlinico, sempre di Roma, corsi di etica professionale per infermiere. A queste iniziative si accompagnano anche corsi di teologia, che a prima vista potrebbero sembrare soltanto delle gocce d'acqua gettate in un grande oceano. Ci può dire qualche parola per spronarci a continuare in questa direzione?


R. Vedendo i nostri sforzi come gocce d'acqua contro un muro insormontabile, si potrebbe quasi disperare dell'esigenza della fede nel mondo. Però proprio questo è il modo d'agire divino. Immaginando dal punto di vista umano un possibile Redentore del mondo, verrebbe da pensare ad un imperatore, ad un grande politico: un uomo buono, illuminato, obbediente alla volontà divina, che renda felice il mondo attraverso il potere. Ma l'idea divina ovviamente era diversa. Sant'Agostino dice, facendo la stessa riflessione: "Mi domando perché Dio è venuto a redimerci senza nessun potere, nel modo che sembra indegno di Dio" e aggiunge:"Ma era il potere che ha distrutto l'uomo, era il potere il disegno della sedizione diabolica; tramite il potere, nel potere è caduto l'uomo".
La strada divina è quella dell'amore e della giustizia, e con queste gocce d'acqua si può trasformare il mondo. Nella realtà è già avvenuto così, quando il Signore, iniziando povero in un paese dimenticato e finendo crocifisso, ha dato nuova vita al mondo, e la goccia d'acqua è divenuta un fiume. Pensiamo anche ai grandi Santi. San Benedetto comincia dimenticando il peccato, con un piccolo gruppo di persone poco affidabili. E dai monasteri, piccole isole della sopravvivenza della cultura e dell'umanità, verranno le nuova città, la nuova cultura, la stessa Europa. Lo stesso si può dire per San Francesco. Il coraggio di incominciare di nuovo, e iniziative umane ispirate dalla luce divina, non soltanto sono necessarie, ma rappresentano la vera speranza del mondo. Certo, le grandi imprese positive sono necessarie, ma esse si spengono, muoiono, si inaridiscono se non viene questa piccola fonte d'acqua delle iniziative semplici e personali. In questo senso direi: coraggio! Queste iniziative hanno un senso, hanno un futuro.


D. Nei miei studi di Filosofia, ho avuto a che fare a volte con degli insegnamenti che non lasciavano spazio alla trascendenza o che talvolta comunicavano filosofie impostate sul materialismo e sullo storicismo. Noi ci troviamo in una società nella quale cose che sono contro l'uomo -come l'aborto, l'eutanasia- o ideologie totalmente contrarie alla dottrina cristiana, sono viste come momenti in cui l'uomo ha la possibilità di compiere degli atti di massima libertà. Tutto questo mi fa pensare alla società dove vivevano i primi cristiani, che per certi versi si dovevano trovare in condizioni ancora più difficili delle nostre, eppure sono riusciti a cristianizzare il mondo. Sicuramente è un problema di santità di vita, però, a mio parere, è anche molto importante l'informazione dottrinale, e vedo che il Papa stesso insiste sovente nei suoi discorsi, e in tutto il magistero che ci comunica, nella difesa della vita, nel propugnare solidamente una formazione dottrinale in ogni campo insomma che abbia le sue radici nella fede cattolica. Come possiamo noi giovani, con i nostri coetanei, essere come degli altoparlanti del magistero del Papa?


R. Non è facile rispondere, perché non conosco i vostri ambienti; penso comunque che, vivendo questa comunione nella Prelatura dell'Opus Dei, con le sue ispirazioni e il suo sostegno, si è già fatto un passo importante. Il cristiano isolato non può realizzare tutta la sua vocazione nel mondo di oggi. La grande comunione della Chiesa deve realizzarsi in comunità concrete che ci fanno percepire la realtà della comunione dei Santi, la grande comunione della fede che nasce e che arriva fino alla fine del mondo. L'incontro di tutti i cristiani consapevoli della loro vocazione, che hanno intenzione di vivere la fede con dignità e anche con dinamismo apostolico, offre a mio avviso un'esperienza della comunione che concretizza la realtà stessa della Chiesa. Naturalmente, queste comunioni crescono e, partendo dalla preghiera, dalla liturgia, dalla meditazione della parola divina, diventano comunità di azione.
È fondamentale che in queste comunità si usi un linguaggio nello stesso tempo fedele alla Verità e aperto, comunicabile: siamo persone di questo tempo e ne condividiamo i problemi con sincerità di cuore. Cercando di trovare la ragionevolezza e l'espressione della fede, potremo già rispondere al nostro cuore: in tal modo comincia anche la risposta agli altri. Quindi penso che un insieme, da una parte di comunione dei credenti e dall'altra parte di dinamismo delle comunioni verso il mondo di oggi, potrebbe offrire la risposta alla sua domanda.


D. Studio Teologia all'Istituto Giovanni Paolo II dell'Università Lateranense e sto facendo la tesi di dottorato. Ho affrontato recentemente l'attuale discussione sulla possibilità di un magistero infallibile su delle norme concrete di morale e, riguardo a questo punto, in alcuni libri, come anche quello di Sullivan -'Magisterium'- mi è sembrato che gli autori concepissero la rivelazione in un modo piuttosto legalista, restringendo cioè l'oggetto dell'infallibilità soltanto alla rivelazione di norme esplicite. A mio parere, quando l'istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo ed anche la professione di fede (nell'ultima formula) affermano che il magistero è infallibile riguardo al contenuto della rivelazione, si riferiscono non solo alle norme etiche esplicitamente rivelate, ma anche a ciò che è la rivelazione come parola di Dio sull'uomo e su Dio, quindi anche a quelle norme etiche che, evidentemente, non potevano essere rivelate esplicitamente, come ad esempio quelle sulla fecondazione in vitro, la contraccezione, ecc... Lei che ne pensa?


R. È una questione non facile, come lei sa bene. Come prima cosa direi che esiste una tendenza ad escludere un insegnamento infallibile, e quindi obbligatorio, nel campo della morale. Così, tutte le indicazioni della Sacra Scrittura, e poi anche della tradizione, sarebbero delle esemplificazioni, sempre connesse a circostanze storiche. Naturalmente non posso entrare nei dettagli degli argomenti filosofici e ideologici che vengono sviluppati a riguardo, ma direi semplicemente che con questa impostazione la fede diventerebbe teoria pura, mentre la fede è sostanzialmente una prassi, è un modo di vivere. Una fede che non avesse la capacità di fare una luce, anche concreta, sul modo di vivere, sarebbe priva del proprio significato.
Pensiamo alla Chiesa antica: è proprio quello il momento decisivo in cui la fede si apre alla Verità, ma la Verità è una cosa reale , insegna a vivere, in risposta alla domanda: "Signore, insegnami le tue vie." Questa è la domanda fondamentale con la quale sono arrivati alla Chiesa i primi uomini, ed essa vale anche per noi, per trovare la strada della nostra vita. Nel catecumenato il massimo spazio era dedicato all'insegnamento morale, seguendo soprattutto la tradizione dell'Antico Testamento: una volta imparata la norma morale, su come vivere, si arrivavano anche a capire i misteri della fede.
I libri dei Padri della Chiesa sottolineano che la fede sostanzialmente si dimostra e si esprime in una vita retta. È quindi un dato certissimo della più autentica tradizione, non solo patristica ma biblica, che la Chiesa ci insegna soprattutto come vivere, ci indica la strada della vita.
L'insegnamento morale sta nel cuore della rivelazione divina, anche se dobbiamo sempre aggiungere che il Cristianesimo non è un moralismo puro, ma insegnando ci guida, e con il perdono ci dà la possibilità di continuare e di ricominciare.
Allora questa sottolineatura sull'aspetto morale della rivelazione cristiana non dovrebbe essere mal interpretata; lo Spirito Santo, e la vita secondo lo Spirito, secondo la tradizione, non solo non si contraddicono, ma sono realtà inseparabili.
Un altro punto è quello della infallibilità. Anche questo è un discorso lungo, ma vorrei fare qualche accenno. Tante cose appartenenti al diritto naturale sono anche rivelate nella Scrittura. Vediamo in tutti i dibattiti di filosofia morale come la ragione umana sia incapace di trovare una vera certezza, ma Dio offre il supplemento e il complemento della nostra capacità, rivelando di nuovo ciò che era fin dalle origini. In questo senso la Scrittura ci offre delle materie certe, che potrebbero essere anche materia di un insegnamento infallibile.
Mi sembra inoltre che questa tendenza a limitare il vero insegnamento della Chiesa soltanto alle cose infallibilmente definite, si muova su una strada sbagliata. Un mio amico molto sarcastico mi ha raccontato che ha sentito una volta un grande professore di teologia dire così: "Mai è stata definita l'esistenza di Dio, quindi siamo liberi su questo punto". È un giuridismo assolutamente inadeguato alla organicità della dottrina della Chiesa limitarla a quanto è stato insegnato infallibilmente, e non è vero che la Chiesa ha voluto creare un tessuto organico di potere infallibile, perché tale tessuto è frutto dell'opera della rivelazione nello sviluppo concreto nella storia. In ogni caso si è un po' dimenticato il concetto di autorità, cioè che esiste un'autorità che ha significato proprio per garantire la capacità di vivere insieme, e di vivere bene. E l'autorità ecclesiale è un'autorità con la licenza divina: anche se non sempre infallibile, è autorità nei grandi pronunciamenti, crea il tessuto della vita comune cristiana. Mi oppongo quindi a questa tendenza di ridurre il campo dell'infallibile.

I segni dei tempi

© Copyright 2007 - Libreria Editrice Vaticana
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
16/09/2009 19:05

DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI AL CLERO DI ROMA

Basilica di San Giovanni in Laterano
Venerdì, 13 maggio 2005


Cari sacerdoti e diaconi, che prestate il vostro servizio pastorale alla Diocesi di Roma, sono felice di incontrarvi agli inizi del mio ministero di Vescovo di questa Chiesa, "che presiede nell’amore". Saluto con affetto il Cardinale Vicario, che ringrazio per le gentili parole rivoltemi, il Vicegerente e i Vescovi Ausiliari. Saluto con animo amico ciascuno di voi e desidero esprimervi fin da questo primo incontro la mia gratitudine per la vostra fatica quotidiana nella vigna del Signore.

La straordinaria esperienza di fede, che abbiamo vissuto in occasione della morte del nostro amatissimo Papa Giovanni Paolo II, ci ha mostrato una Chiesa di Roma profondamente unita, piena di vita e ricca di fervore: tutto ciò è anche frutto della vostra preghiera e del vostro apostolato. Così, nell’umile adesione a Cristo unico Signore, possiamo e dobbiamo promuovere insieme quella "esemplarità" della Chiesa di Roma che è genuino servizio alle Chiese sorelle presenti nel mondo intero. Il legame indissolubile tra romanum e petrinum implica e richiede infatti la partecipazione della Chiesa di Roma alla sollecitudine universale del suo Vescovo. Ma la responsabilità di una tale partecipazione riguarda a titolo speciale voi, cari sacerdoti e diaconi, uniti al vostro Vescovo dal vincolo sacramentale e costituiti suoi preziosi collaboratori. Conto dunque su di voi, sulla vostra preghiera, sulla vostra accoglienza e dedizione, perché questa nostra amata Diocesi corrisponda sempre più generosamente alla vocazione che il Signore le ha affidato. E da parte mia vi dico: potete contare, nonostante i miei limiti, sulla sincerità del mio paterno affetto per tutti voi.

Cari sacerdoti, la qualità della vostra vita e del vostro servizio pastorale sembra indicare che, in questa come in numerose altre Diocesi del mondo, abbiamo ormai lasciato alle nostre spalle il tempo di quella crisi di identità che ha travagliato tanti sacerdoti.

Rimangono però ben presenti quelle cause di "deserto spirituale" che affliggono l’umanità del nostro tempo e conseguentemente minano anche la Chiesa che vive in questa umanità. Come non temere che esse possano insidiare anche la vita dei sacerdoti? È indispensabile, dunque, ritornare sempre di nuovo alla radice del nostro sacerdozio. Questa radice, come ben sappiamo, è una sola: Gesù Cristo Signore. È Lui che il Padre ha mandato, è Lui la pietra angolare (1Pt 2,7). In Lui, nel mistero della sua morte e risurrezione il regno di Dio viene, e si compie la salvezza del genere umano. Ma questo Gesù non ha nulla che gli appartenga in proprio, è tutto interamente del Padre e per il Padre. Perciò Egli dice che la sua dottrina non è sua, ma di colui che lo ha mandato (cfr Gv 7,16): il Figlio da solo non può fare nulla (cfr Gv 5,19.30).

Questa, cari amici, è anche la vera natura del nostro sacerdozio. In realtà, tutto ciò che è costitutivo del nostro ministero non può essere il prodotto delle nostre capacità personali. Questo vale per l’amministrazione dei Sacramenti, ma vale anche per il servizio della Parola: siamo mandati non ad annunciare noi stessi o nostre opinioni personali, ma il mistero di Cristo e, in Lui, la misura del vero umanesimo. Siamo incaricati non di dire molte parole, ma di farci eco e portatori di una sola "Parola", che è il Verbo di Dio fatto carne per la nostra salvezza. Vale dunque anche per noi la parola di Gesù: "La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato" (Gv 7,16). Cari sacerdoti di Roma, il Signore ci chiama amici, ci fa suoi amici, si affida a noi, ci affida il suo corpo nell’Eucaristia, ci affida la sua Chiesa. E allora dobbiamo essere davvero suoi amici, avere con Lui un solo sentire, volere quello che Egli vuole e non volere quello che Egli non vuole. Gesù stesso ci dice: "Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando" (Gv 15,14). Sia questo il nostro comune proposito: fare, tutti insieme, la sua santa volontà, nella quale è la nostra libertà e la nostra gioia.

Poiché ha in Cristo la sua radice, il sacerdozio è, per sua natura, nella Chiesa e per la Chiesa. La fede cristiana infatti non è qualcosa di puramente spirituale e interiore e la nostra stessa relazione con Cristo non è soltanto soggettiva e privata. È invece una relazione del tutto concreta ed ecclesiale. A sua volta, il sacerdozio ministeriale ha un rapporto costitutivo con il corpo di Cristo, nella sua duplice e inseparabile dimensione di Eucaristia e di Chiesa, di corpo eucaristico e di corpo ecclesiale. Perciò il nostro ministero è amoris officium (S. Agostino, In Iohannis Evangelium Tractatus 123,5), è l’ufficio del buon pastore, che offre la vita per le pecore (cfr Gv 10,14-15). Nel mistero eucaristico Cristo si dona sempre di nuovo e proprio nell’Eucaristia noi impariamo l’amore di Cristo e quindi l’amore per la Chiesa. Ripeto pertanto con voi, cari fratelli nel sacerdozio, le indimenticabili parole di Giovanni Paolo II: "La Santa Messa è in modo assoluto il centro della mia vita e di ogni mia giornata" (Discorso del 27 ottobre 1995 nel trentennale del Decreto Presbyterorum ordinis). E questa dovrebbe essere una parola che ognuno di noi può personalmente dire come parola sua: la Santa Messa è in modo assoluto il centro della mia vita e di ogni mia giornata. Nello stesso modo, l’ubbidienza a Cristo, che corregge la disubbidienza di Adamo, si concretizza nell’ubbidienza ecclesiale, che per il sacerdote è, nella pratica quotidiana, anzitutto ubbidienza al suo Vescovo. Nella Chiesa però l’ubbidienza non è qualcosa di formalistico; è ubbidienza a colui che è a sua volta ubbidiente e impersona il Cristo ubbidiente. Tutto ciò non vanifica e nemmeno attenua le esigenze concrete dell’ubbidienza, ma assicura la sua profondità teologale e il suo respiro cattolico: nel Vescovo ubbidiamo a Cristo e alla Chiesa intera, che egli rappresenta in questo luogo.

Gesù Cristo è stato mandato dal Padre, nella potenza dello Spirito, per la salvezza dell’intera famiglia umana e noi sacerdoti, attraverso la grazia del sacramento, siamo resi partecipi di questa sua missione. Come scrive l’Apostolo Paolo, "Dio… ha affidato a noi il ministero della riconciliazione… Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio" (2Cor 5,18-20). Così San Paolo descrive la nostra missione di sacerdoti. Perciò, nell’omelia che ha preceduto il Conclave, ho parlato di una "santa inquietudine" che deve animarci, l’inquietudine di portare a tutti il dono della fede, di offrire a tutti quella salvezza che, sola, rimane in eterno. E in una città così grande come Roma che, da una parte è così penetrata dalla fede e nella quale tuttavia ci sono tante persone che non hanno percepito nel cuore realmente l’annunzio della fede, tanto più dobbiamo essere animati da questa inquietudine di portare questa gioia, questo centro della vita che le dà senso e direzione. Cari fratelli sacerdoti di Roma, Cristo risorto ci chiama a essere suoi testimoni e ci dona la forza del suo Spirito, per esserlo davvero. È necessario dunque stare con Lui (cfr Mc 3,14; At 1, 21-23). Come nella prima descrizione del "munus apostolicum", in Marco 3, è descritto quanto il Signore pensava che dovrebbe essere il significato di un apostolo: stare con Lui ed essere disponibile alla missione. Le due cose vanno insieme e solo stando insieme con Lui siamo anche e sempre in movimento con il Vangelo verso gli altri. Quindi è essenziale stare con Lui e così si anima l’inquietudine e ci si rende capaci di portare la forza e la gioia della fede agli altri, di dare testimonianza con tutta la nostra vita e non solo con qualche parola. Valgono per noi le parole dell’Apostolo Paolo: "Non è… per me un vanto predicare il Vangelo: è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo!… Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero… mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno" (1Cor 9, 16-22). Queste parole che sono l’autoritratto dell’apostolo ci danno anche il ritratto di ogni sacerdote. Questo "farsi tutto a tutti" si esprime nella vicinanza quotidiana, nell’attenzione per ogni persona e famiglia: voi sacerdoti di Roma avete al riguardo una grande tradizione, e lo dico con profonda convinzione, e la state onorando anche oggi, quando la città si è tanto dilatata ed è profondamente cambiata. È decisivo, come sapete bene, che la vicinanza e l’attenzione a tutti avvenga sempre nel nome di Cristo e sia costantemente protesa a condurre a Lui.

Naturalmente una tale vicinanza e dedizione ha per ciascuno di voi, di noi, un costo personale, significa tempo, preoccupazioni, dispendio di energie. Conosco questa vostra fatica quotidiana e voglio ringraziarvi, da parte del Signore. Ma vorrei anche aiutarvi, in quanto posso, a non cedere sotto questa fatica. Per poter resistere, e anzi crescere, come persone e come sacerdoti, è fondamentale anzitutto l’intima comunione con Cristo, il cui cibo era fare la volontà del Padre (cfr Gv 4,34): tutto ciò che facciamo, lo facciamo in comunione con Lui e ritroviamo così sempre di nuovo l’unità della nostra vita in tante dispersioni favorite dalle diverse occupazioni di ogni giorno. Dal Signore Gesù Cristo, che ha sacrificato se stesso per fare la volontà del Padre, impariamo inoltre l’arte dell’ascesi sacerdotale, che anche oggi è necessaria. Essa non va collocata accanto all’azione pastorale, come un peso aggiuntivo che rende ancora più gravosa la nostra giornata. Al contrario, nell’azione stessa dobbiamo imparare a superarci, a lasciare e donare la nostra vita. Ma, perché tutto questo avvenga realmente in noi e perché realmente la nostra azione sia in se stessa la nostra ascesi e il nostro donarsi, perché non rimanga tutto questo solo un desiderio, abbiamo senza dubbio bisogno di momenti per ritemprare le nostre energie anche fisiche, e soprattutto per pregare e meditare, rientrando nella nostra interiorità e trovando dentro di noi il Signore. Perciò il tempo per stare alla presenza di Dio nella preghiera è una vera priorità pastorale, non è una cosa accanto al lavoro pastorale, stare davanti al Signore è una priorità pastorale, in ultima analisi la più importante. Ce lo ha mostrato nel modo più concreto e luminoso Giovanni Paolo II, in ogni circostanza della sua vita e del suo ministero.

Cari sacerdoti, non sottolineeremo mai abbastanza quanto la nostra personale risposta alla chiamata alla santità sia fondamentale e decisiva. È questa la condizione non solo perché il nostro personale apostolato sia fruttuoso ma anche, e più ampiamente, perché il volto della Chiesa rifletta la luce di Cristo (cfr Lumen gentium, 1), inducendo così gli uomini a riconoscere e ad adorare il Signore. La supplica dell’Apostolo Paolo a lasciarsi riconciliare con Dio (cfr 2Cor 5,20) dobbiamo accoglierla anzitutto in noi stessi, chiedendo al Signore con cuore sincero e con animo determinato e coraggioso di allontanare da noi tutto ciò che ci separa da Lui ed è in contrasto con la missione che abbiamo ricevuto. Il Signore, siamo sicuri, è misericordioso e saprà esaudirci.

Il mio ministero di Vescovo di Roma si colloca nel solco di quello dei miei Predecessori, accogliendo in particolare l’eredità preziosa che ha lasciato Giovanni Paolo II: per questa via, cari sacerdoti e diaconi, camminiamo insieme con serenità e fiducia. Continueremo a cercare di far crescere la comunione all’interno della grande famiglia della Chiesa diocesana e a collaborare per incrementare l’orientamento missionario della nostra pastorale, in conformità alle linee di fondo del Sinodo romano, tradotte in atto con particolare efficacia nell’esperienza della Missione cittadina.

Roma è una Diocesi assai grande ed è una Diocesi davvero speciale, per la sollecitudine universale che il Signore ha affidato al suo Vescovo. Perciò il vostro rapporto, cari sacerdoti, con il Vescovo diocesano, che sono io purtroppo, non può avere quell’immediatezza quotidiana che desidererei e che è possibile in altre situazioni.

Attraverso l’opera del Cardinale Vicario e dei Vescovi Ausiliari, ai quali esprimo la mia viva gratitudine, mi è possibile però essere concretamente vicino a ciascuno di voi, nelle gioie e nelle difficoltà che accompagnano il cammino di ogni sacerdote. E soprattutto desidero assicurarvi quella vicinanza più profonda e decisiva che unisce il Vescovo ai suoi sacerdoti e ai suoi diaconi, nella preghiera quotidiana. E siate sicuri che realmente nella mia preghiera il clero di Roma è particolarmente presente. E siamo vicini nella fede e nell’amore di Cristo e nell’affidamento a Maria, Madre dell’unico e Sommo Sacerdote. Proprio dalla nostra unione a Cristo e alla Vergine traggono alimento quella serenità e quella fiducia di cui tutti sentiamo il bisogno, sia per il lavoro apostolico sia per la nostra esistenza personale.

Cari sacerdoti e diaconi, ecco alcune considerazioni che desideravo proporre alla vostra attenzione. Prima di dare adesso la parola a voi, per le vostre domande e riflessioni, ho ancora da annunciare una notizia molto gioiosa. Abbiamo una comunicazione arrivata oggi. Ha scritto il Cardinale Saraiva Martins, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, insieme con Sua Eccellenza Nowak, Segretario della stessa Congregazione:

Instante Em.mo ac Rev.mo Domino D. Camillo S.R.E. Cardinali Ruini, Vicario Generali Suae Sanctitatis pro Dioecesi Romana, Summus Pontifex BENEDICTUS XVI, attentis peculiaribus expositis adiunctis, in audentia eidem Cardinali Vicario Generali die 28 mensis Aprilis huius anni 2005 concessa, dispensavit a tempore quinque annorum exspectationis post mortem Servi Dei Ioannis Pauli II (Caroli Wojtyla), Summi Pontificis, ita ut causa Beatificationis et Canonizationis eiusdem Servi Dei statim incipi posset. Contrariis non obstantibus quibuslibet.

Datum Romae, ex aedibus huius Congregationis de Causis Sanctorum, die 9 mensis Maii A.D. 2005.

Iosephus Card. Saraiva Martins
Praefectus

Eduardus Nowak
Archiepiscopus tit. Lunensis
a Secretis

Allora adesso la parola a voi. Cercherò in quanto posso alla fine di dare una risposta.

Al termine degli interventi dei sacerdoti e di un Diacono della diocesi di Roma, il Santo Padre ha pronunciato le seguenti parole:

Alla fine posso soltanto dire grazie per la ricchezza, per la profondità di questi contributi, nei quali appare un Presbiterio pieno di entusiasmo, di amore per Cristo e di amore per il gregge a noi affidato, di amore per i poveri. E non solo della città di Roma, ma realmente della Chiesa universale, di tutti i nostri fratelli. Grazie anche per l'affetto espresso per me, che mi aiuta tanto. Non mi sento in grado adesso di entrare nei dettagli di quanto è stato detto. Sarebbe bello continuare una vera discussione, e spero che si offrano possibilità di fare una discussione concreta, con domande e risposte. In questo momento esprimo semplicemente la mia gratitudine per tutto. Sento realmente il vostro impegno pastorale, sento come volete costruire la Chiesa di Cristo qui a Roma, sento come riflettete anche su come fare meglio, sento come tutto scaturisce da un grande amore per il Signore e per la Chiesa.

Vorrei solo accennare a tre o quattro punti, che mi sono rimasti nella memoria. Avete parlato di questo intreccio tra romanità e universalità. Mi sembra questo un punto molto importante. Da una parte, questa è una vera Chiesa locale, che deve vivere come tale. Ci sono delle persone che soffrono, che vivono, che vogliono credere o non riescono a credere. Qui deve crescere nelle parrocchie la Chiesa di Roma con la sua grande responsabilità per il mondo, perché porta in sé questo mandato, in certo modo, di «esemplarità», così che appaia nella Chiesa di Roma il volto della Chiesa come tale e sia un modello per le altre Chiese locali. Per poter essere un modello, dobbiamo noi stessi essere una Chiesa locale, che si impegna ogni giorno nel lavoro umile che esige questo essere Chiesa in un determinato luogo e in un determinato tempo.

Avete parlato della parrocchia come struttura fondamentale, aiutata e arricchita dai movimenti. E mi sembra che proprio durante il Pontificato di Papa Giovanni Paolo II si sia creato un fecondo insieme tra l'elemento costante della struttura parrocchiale e l'elemento, diciamo, «carismatico», che offre nuove iniziative, nuove ispirazioni, nuove animazioni. Sotto la guida sapiente del Cardinale Vicario e dei Vescovi ausiliari, tutti i Parroci possono insieme essere realmente responsabili della crescita della parrocchia, assumendo tutti gli elementi che possono venire dai movimenti e dalla realtà vissuta della Chiesa in diverse dimensioni.

Ma volevo parlare ancora di questo intreccio tra romanità e universalità. Uno dei nostri confratelli ha parlato della nostra responsabilità verso l'Africa. Abbiamo visto come a Roma è presente l'Africa, è presente l'India, è presente il cosmo. E questa presenza dei nostri fratelli ci obbliga non solo a pensare a noi, ma a sentire proprio in questo momento storico, in tutte queste circostanze che conosciamo, la presenza degli altri Continenti. Mi sembra che in questo momento abbiamo una particolare responsabilità verso l'Africa, verso l'America Latina e verso l'Asia, dove il Cristianesimo — fatta eccezione per le Filippine — è ancora in grandissima minoranza, anche se cresce in India e si presenta come una forza del futuro. Quindi pensiamo anche proprio a questa responsabilità. L'Africa è un Continente di grandissime potenzialità, di grandissima generosità da parte della gente, con una fede viva che impressiona. Ma dobbiamo confessare che l'Europa ha esportato non solo la fede in Cristo, ma anche tutti i vizi del Vecchio Continente. Ha esportato il senso della corruzione, ha esportato la violenza che adesso sta devastando l'Africa. E dobbiamo riconoscere la nostra responsabilità nel far sì che l'esportazione della fede, che risponde all'attesa intima di ogni uomo, sia più forte dell'esportazione dei vizi dell'Europa. Mi sembra questa una grande responsabilità. Ancora si fa commercio di armi. C'è lo sfruttamento dei tesori di questa terra. Tanto più noi cristiani dobbiamo fare di tutto perché arrivi la fede e con la fede la forza di resistere a questi vizi e di ricostruire un'Africa cristiana, che sarà un'Africa felice, un grande Continente dell'umanesimo nuovo.

Poi è stato detto della necessità, da un parte, di annunciare, di parlare, ma anche di ascoltare. E mi sembra che questo sia importante in un duplice senso. Il sacerdote, il diacono, il catechista, il religioso, la religiosa, devono, da una parte, annunciare, essere testimoni. Ma naturalmente per questo, devono ascoltare, in un duplice senso: da una parte, con l'anima aperta a Cristo, ascoltando interiormente la sua Parola, così che sia assimilata e trasformi e formi il mio essere; e dall'altra ascoltando l'umanità di oggi, il prossimo, l'uomo della mia parrocchia, l'uomo per il quale io porto una certa responsabilità. Naturalmente, ascoltando il mondo di oggi che esiste anche in noi, ascoltiamo tutti i problemi, tutte le difficoltà che si oppongono alla fede. E dobbiamo essere capaci di prendere sul serio questi problemi. San Pietro, primo Vescovo di Roma, nella sua Prima Lettera dice che noi cristiani dobbiamo essere disponibili a dar ragione della nostra fede. Questo presuppone che noi stessi abbiamo capito la ragione della fede, abbiamo realmente «digerito», anche razionalmente, con il cuore, con la saggezza del cuore, questa parola che può realmente essere una risposta per gli altri. Nella Prima Lettera di San Pietro, nel testo greco, con un bel gioco di parole si dice: «apología», risposta del «logos», della ragione della nostra fede. Cioè, il «logos», la ragione della fede, la parola della fede deve divenire risposta della fede. E sappiamo bene che il linguaggio della fede spesso è molto lontano dalla gente di oggi; può avvicinarsi soltanto se diviene in noi il linguaggio del nostro tempo. Noi siamo contemporanei, viviamo in questo tempo, con questi pensieri, con questi affetti. Se è trasformato in noi, può trovare risposta.

Naturalmente riconosco, lo sappiamo tutti, che molti non sono capaci subito di identificarsi, di capire, di assimilare tutto l'insegnamento della Chiesa. Mi sembra importante prima risvegliare questa intenzione di credere con la Chiesa, anche se personalmente qualcuno può non aver ancora assimilato molti dettagli. Occorre avere questa volontà di credere con la Chiesa, avere la fiducia che questa Chiesa — la comunità non solo di duemila anni di pellegrinaggio del popolo di Dio, ma la comunità che abbraccia Cielo e terra, la comunità nella quale sono presenti quindi anche tutti i giusti di tutti i tempi — che questa Chiesa animata dallo Spirito Santo porta in sé realmente la guida dello Spirito e quindi è il vero soggetto della fede. E il singolo individuo si inserisce in questo soggetto, vi aderisce, e quindi, anche se non ancora totalmente penetrato da questo, ha fiducia e partecipa alla fede della Chiesa, vuol credere con la Chiesa. Mi sembra questo il pellegrinaggio permanente della nostra vita: arrivare con il nostro pensiero, con il nostro affetto, con tutta la nostra vita nella comunione della fede. Questo possiamo offrire a tutti, affinché man mano si possano identificare e soprattutto facciano sempre di nuovo questo passo fondamentale di affidarsi alla fede della Chiesa, di inserirsi in questo pellegrinaggio della fede, così da ricevere la luce della fede.

Infine, vorrei ancora una volta ringraziare per il contributo espresso qui riguardo al cristocentrismo, alla necessità che la nostra fede sia sempre nutrita dall'incontro personale con Cristo, da un'amicizia personale con Gesù. Romano Guardini, settant'anni fa, ha detto giustamente che l'essenza del Cristianesimo non è un'idea ma una Persona.

Grandi teologi avevano tentato di descrivere le idee essenziali costitutive del Cristianesimo. Ma il Cristianesimo che avevano delineato alla fine appariva una cosa non convincente. Perché il Cristianesimo è in primo luogo un Avvenimento, una Persona. E nella Persona poi troviamo la ricchezza dei contenuti. Questo è importante.
E qui mi sembra che troviamo anche una risposta ad una difficoltà che si sente spesso oggi circa la missionarietà della Chiesa. Da molti ci viene indicata la tentazione di pensare così riguardo agli altri: «Ma perché non li lasciamo in pace? Hanno la loro autenticità, la loro verità. Noi abbiamo la nostra. Dunque, conviviamo pacificamente, lasciando ciascuno com'è, affinché cerchi nel miglior modo la sua autenticità». Ma come può essere trovata la propria autenticità se realmente nella profondità del nostro cuore c'è l'aspettativa di Gesù e la vera autenticità di ognuno si trova proprio nella comunione con Cristo, e non senza Cristo? Altrimenti detto: se noi abbiamo trovato il Signore e se per noi Egli è la luce e la gioia della vita, siamo sicuri che ad un altro che non ha trovato Cristo non manchi una cosa essenziale e non sia un dovere nostro offrirgli questa realtà essenziale? Poi lasciamo alla guida dello Spirito Santo e alla libertà di ognuno quello che succederà. Ma se siamo convinti e abbiamo l'esperienza del fatto che senza Cristo la vita è incompleta, manca una realtà, la realtà fondamentale, dobbiamo anche essere convinti che non facciamo torto a nessuno se gli mostriamo Cristo e gli offriamo la possibilità di trovare così anche la sua vera autenticità, la gioia di aver trovato la vita.

Alla fine, vorrei dire grazie a tutti i componenti del Presbiterio e della Comunità ecclesiale di Roma, ai Parroci, ai Vice Parroci, a tutti i collaboratori nelle diverse mansioni, ai diaconi, ai catechisti, soprattutto ai religiosi e alle religiose, che sono un po' il cuore anche della vita ecclesiale di una Diocesi. Grazie per questa testimonianza che è stata data.

Andiamo avanti tutti insieme animati dall'amore di Cristo. E così andremo bene!

Copyright 2005 © Libreria Editrice Vaticana
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
16/09/2009 19:07

INCONTRO CON IL CLERO DELLA DIOCESI DI AOSTA
DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI


Chiesa parrocchiale di Introd (Valle d'Aosta)
Lunedì, 25 luglio 2005


Benedetto XVI ha incontrato in mattinata il clero della diocesi di Aosta. Dopo il saluto iniziale del Vescovo diocesano Mons. Giuseppe Anfossi l'incontro è proseguito con il canto dell'Ora Terza. Al termine della preghiera il Santo Padre ha affrontato alcuni temi proposti dal Vescovo Anfossi e dai sacerdoti presenti. Ecco il testo pronunciato a braccio da Benedetto XVI:

Eccellenza,
Cari fratelli!

Innanzitutto vorrei esprimere la mia gioia e la mia gratitudine per questa possibilità di incontrarvi. Da Papa vi è il pericolo che si sia un po' lontano dalla vita reale, di ogni giorno, soprattutto anche dai sacerdoti che lavorano in prima linea, proprio nella Valle, in tante parrocchie e adesso, come ha detto Sua Eccellenza, con la mancanza di vocazioni, anche in condizioni di impegno fisico particolarmente forte.

Così per me è una grazia poter incontrare in questa bella chiesa i sacerdoti e il presbiterio di questa Valle. E vorrei dire grazie perché siete venuti; anche per voi è tempo di vacanza.

Vedervi riuniti, e così vedermi unito a voi, essere vicino ai sacerdoti che lavorano giorno dopo giorno per il Signore come seminatori della Parola, è per me un conforto e una gioia.

Nella settimana scorsa abbiamo sentito due volte, tre volte, mi sembra, questa parabola del seminatore che è già una parabola di consolazione in una situazione diversa, ma in un certo senso anche simile alla nostra.

Il lavoro del Signore era cominciato con grande entusiasmo. Si vedeva che i malati erano guariti, tutti ascoltavano con gioia la parola: "Il Regno di Dio è vicino". Sembrava che, veramente, il cambiamento del mondo e l'avvento del Regno di Dio sarebbe stato imminente; che, finalmente, la tristezza del popolo di Dio si sarebbe cambiata in gioia. Si era in attesa di un messaggero di Dio che avrebbe preso in mano il timone della storia. Ma poi vedevano che, sì, gli ammalati erano guariti, i demoni espulsi, il Vangelo annunciato ma, per il resto, il mondo rimaneva come era. Niente cambiava. I romani dominavano ancora. La vita era difficile ogni giorno, nonostante questi segni, queste belle parole. E così l'entusiasmo si spegneva e, alla fine, come sappiamo dal sesto capitolo di Giovanni, anche i discepoli abbandonarono questo Predicatore che predicava, ma non cambiava il mondo.

Che cosa è questo messaggio? Che cosa porta questo Profeta di Dio?, si domandano finalmente tutti. Il Signore parla del seminatore che semina nel campo del mondo. E il seme sembra come la sua Parola, come quelle guarigioni, una cosa veramente piccola in confronto con la realtà storica e politica. Come il seme è piccolo, trascurabile, così anche la Parola.

Tuttavia, dice, nel seme è presente il futuro perché il seme porta in sé il pane di domani, la vita di domani. Il seme appare quasi niente, tuttavia il seme è la presenza del futuro, è promessa già presente oggi. E così con questa parabola dice: siamo nel tempo della seminagione, la Parola di Dio sembra solo parola, quasi niente. Ma abbiate coraggio, questa Parola porta in sé la vita! E porta frutto! La parabola dice anche che tanta parte del seme non porta frutto perché è caduto sulla strada, sulla terra sassosa, eccetera. Ma la parte caduta su terra buona frutta trenta, sessanta, cento volte tanto.

Ciò fa capire che dobbiamo essere coraggiosi anche se la Parola di Dio, il Regno di Dio, sembra senza importanza storico-politica. Alla fine Gesù, nella Domenica delle Palme, ha come sintetizzato tutti questi insegnamenti sul seme della parola: Se il chicco di grano non cade in terra e muore rimane solo, se cade in terra e muore porta grande frutto. E così ha fatto capire che Egli stesso è il chicco di grano che cade in terra e muore. Nella crocifissione tutto sembra fallito, ma proprio così, cadendo in terra, morendo, sulla Via della Croce, porta frutto per ogni tempo, per tutti i tempi. Qui abbiamo anche sia la finalizzazione cristologica secondo cui Cristo stesso è il seme, è il Regno presente, sia anche la dimensione eucaristica: questo chicco di grano cade in terra e così cresce il nuovo Pane, il Pane della vita futura, la Sacra Eucaristia che ci nutre e che si apre ai misteri divini, per la vita nuova.

Mi sembra che nella storia della Chiesa, in forme diverse, ci sono sempre queste questioni che ci tormentano realmente: che cosa fare? La gente sembra non aver bisogno di noi, sembra inutile tutto quanto facciamo. Tuttavia impariamo dalla Parola del Signore che solo questo seme trasforma sempre di nuovo la terra e la apre alla vera vita.

Vorrei, brevemente in quanto posso, rispondere alle parole di Sua Eccellenza, ma vorrei anche dire che il Papa non è un oracolo, è infallibile in situazioni rarissime, come sappiamo. Quindi condivido con voi queste domande, queste questioni. Soffro anch'io. Ma tutti insieme vogliamo, da una parte, soffrire su questi problemi e anche soffrendo trasformare i problemi, perché proprio la sofferenza è la via della trasformazione e senza sofferenza non si trasforma niente.

Questo è anche il senso della parabola del chicco di grano caduto in terra: solo in un processo di sofferta trasformazione si giunge al frutto e si apre la soluzione. E se non fosse per noi una sofferenza l'apparente inefficacia della nostra predicazione sarebbe un segno di una mancanza di fede, di impegno vero. Dobbiamo prendere a cuore queste difficoltà del nostro tempo e trasformarle soffrendo con Cristo e così trasformare noi stessi. E nella misura nella quale noi stessi siamo trasformati, possiamo anche rispondere alla domanda posta sopra, possiamo anche vedere la presenza del Regno di Dio e farla vedere agli altri.

Il primo punto è un problema che si pone in tutto il mondo occidentale: la mancanza delle vocazioni. Ho avuto, nelle ultime settimane, le Visite "ad limina" dei Vescovi dello Sri Lanka e della parte Sud dell'Africa. Qui crescono le vocazioni, anzi sono così tante che non possono costruire sufficienti Seminari per accogliere questi giovani che vogliono farsi sacerdoti.

Naturalmente anche questa gioia porta con sé una certa amarezza perché una parte almeno viene nella speranza di una promozione sociale. Facendosi sacerdoti diventano quasi capi della tribù, sono naturalmente privilegiati, hanno un'altra forma di vita, eccetera. Quindi zizzania e grano vanno insieme in questa bella crescita delle vocazioni e i Vescovi devono essere molto attenti nel discernimento e non essere semplicemente contenti di avere molti sacerdoti futuri, ma vedere quali sono realmente le vere vocazioni, discernere tra zizzania e buon grano.

Tuttavia c'è un certo entusiasmo della fede perché stanno in un'ora determinata della storia, cioè nell'ora nella quale le religioni tradizionali ovviamente si rivelano non più sufficienti. E si capisce, si vede, che queste religioni tradizionali portano in sé una promessa, ma aspettano qualcosa. Aspettano una nuova risposta che purifica e, diciamo, assume in sé tutto il bello e libera tali aspetti insufficienti e negativi. In questo momento di passaggio dove realmente la loro cultura si protende verso un'ora nuova della storia, le due offerte - cristianesimo e islam - sono le possibili risposte storiche.

Perciò in quei Paesi c'è, in un certo senso, una primavera della fede, ma naturalmente nel contesto della concorrenza tra queste due risposte, soprattutto anche nel contesto della sofferenza delle sette, che si presentano come la risposta cristiana migliore, più facile, più accomodante. Quindi anche così in una storia di promessa, in un momento di primavera, rimane difficile l'impegno di quello che deve con Cristo seminare la Parola e, diciamo, costruire la Chiesa.

Diversa è la situazione nel mondo occidentale, che è un mondo stanco della sua propria cultura, un mondo arrivato al momento nel quale non c'è più evidenza della necessità di Dio, tantomeno di Cristo, e nel quale quindi sembra che l'uomo stesso potrebbe costruirsi da se stesso. In questo clima di un razionalismo che si chiude in sé, che considera il modello delle scienze l'unico modello di conoscenza, tutto il resto è soggettivo. Anche, naturalmente, la vita cristiana diventa una scelta soggettiva, quindi arbitraria e non più la strada della vita. E perciò, naturalmente, diventa difficile credere e se è difficile credere tanto più è difficile offrire la vita al Signore per essere suo servo.

Questa certamente è una sofferenza collocata direi nella nostra ora storica, nella quale generalmente si vede che le cosiddette grandi Chiese appaiono morenti. Così in Australia soprattutto, anche in Europa, non tanto negli Stati Uniti.

Crescono, invece, le sette che si presentano con la certezza di un minimo di fede e l'uomo cerca certezze. E quindi le grandi Chiese, soprattutto le grandi Chiese tradizionali protestanti, si trovano realmente in una crisi profondissima. Le sette hanno il sopravvento perché appaiono con certezze semplici, poche, e dicono: questo è sufficiente.

La Chiesa cattolica non sta così male come le grandi Chiese protestanti storiche, ma condivide naturalmente il problema del nostro momento storico. Io penso che non c'è un sistema per un cambiamento rapido. Dobbiamo andare, oltrepassare questa galleria, questo tunnel, con pazienza, nella certezza che Cristo è la risposta e che alla fine apparirà di nuovo la sua luce.

Allora la prima risposta è la pazienza, nella certezza che senza Dio il mondo non può vivere, il Dio della Rivelazione - e non qualunque Dio: vediamo come può essere pericoloso un Dio crudele, un Dio non vero - il Dio che ha mostrato in Gesù Cristo il suo Volto. Questo Volto che ha sofferto per noi, questo Volto di amore che trasforma il mondo nel modo del chicco di grano caduto in terra.

Quindi avere noi stessi questa profondissima certezza che Cristo è la risposta e senza il Dio concreto, il Dio col Volto di Cristo, il mondo si autodistrugge e cresce anche l'evidenza che un razionalismo chiuso, che pensa che da solo l'uomo potrebbe ricostruire il vero mondo migliore, non è vero. Al contrario, se non c'è la misura del Dio vero, l'uomo si autodistrugge. Lo vediamo con i nostri occhi.

Dobbiamo avere noi stessi una rinnovata certezza: Egli è la Verità e solo camminando sulle sue orme andiamo nella direzione giusta e dobbiamo camminare e guidare gli altri in questa direzione.

Il primo punto della mia risposta è: in tutta questa sofferenza non solo non perdere la certezza che Cristo è realmente il Volto di Dio, ma approfondire questa certezza e la gioia di conoscerLa e di essere così realmente ministri del futuro del mondo, del futuro di ogni uomo. E approfondire questa certezza in una relazione personale e profonda con il Signore. Perché la certezza può crescere anche con considerazioni razionali. Veramente mi sembra molto importante una riflessione sincera che convince anche razionalmente, ma diventa personale, forte e esigente in virtù di un'amicizia vissuta personalmente ogni giorno con Cristo.

La certezza, quindi, esige questa personalizzazione della nostra fede, della nostra amicizia col Signore e così crescono anche nuove vocazioni. Lo vediamo nella nuova generazione dopo la grande crisi di questa lotta culturale scatenata nel '68 dove realmente sembrava passata l'era storica del cristianesimo. Vediamo le promesse del '68 non tengono e rinasce, diciamo, la consapevolezza che c'è un altro modo più complesso perché esige queste trasformazioni del nostro cuore, ma più vero, e così nascono anche nuove vocazioni. E noi stessi dobbiamo anche trovare la fantasia per come aiutare i giovani a trovare questa strada anche per il futuro. Anche questo nel dialogo con i Vescovi africani era evidente. Nonostante il numero di sacerdoti molti sono condannati ad una solitudine terribile e moralmente molti non sopravvivono.

E, dunque, è importante avere intorno a sé la realtà del presbiterio, della comunità di sacerdoti che si aiutano, che stanno insieme in un cammino comune, in una solidarietà nella fede comune. Anche questo mi sembra importante perché se i giovani vedono sacerdoti molto isolati, tristi, stanchi, pensano: se questo è il mio futuro allora non ce la faccio. Si deve creare realmente questa comunione di vita che dimostra ai giovani: sì, questo può essere un futuro anche per me, così si può vivere.

Sono stato troppo lungo. Sul secondo punto, anche se in parte, mi sembra, ho già detto qualcosa. È vero: alla gente, soprattutto ai responsabili del mondo, la Chiesa appare una cosa antiquata, le nostre proposte non necessarie. Si comportano come se potessero, volessero vivere senza la nostra parola e sempre pensano di non aver bisogno di noi. Non cercano la nostra parola.

Questo è vero e ci fa soffrire, ma fa anche parte di questa situazione storica di una certa visione antropologica, secondo la quale l'uomo deve fare le cose come Karl Marx aveva detto: la Chiesa ha avuto 1800 anni per mostrare che avrebbe cambiato il mondo e non ha fatto niente, adesso lo facciamo noi da soli.

Questa è una idea molto diffusa e appoggiata anche con filosofie e così si capisce l'impressione di tanta gente che si possa vivere senza la Chiesa, la quale appare come una cosa del passato. Ma appare anche sempre più che solo i valori morali e le convinzioni forti danno la possibilità anche con sacrifici di vivere e di costruire il mondo. Non si può costruire in modo meccanico come aveva proposto Karl Marx con la teoria del capitale e della proprietà, eccetera.

Se non ci sono le forze morali negli animi e non c'è la disponibilità a soffrire anche per questi valori non si costruisce un mondo migliore, anzi al contrario il mondo peggiora ogni giorno, l'egoismo domina e distrugge tutto. E vedendo questo nasce di nuovo la domanda: ma da dove vengono le forze che rendono capaci di soffrire anche per il bene, di soffrire per il bene che fa male innanzitutto a me, che non ha una utilità immediata? Dove sono le risorse, le sorgenti? Da dove viene la forza di portare avanti questi valori?

Si vede che la moralità come tale non vive, non è efficiente se non ha un fondamento più profondo in convinzioni che realmente danno certezza e danno anche forza di soffrire perché, nello stesso tempo, fanno parte di un amore, un amore che nella sofferenza cresce ed è sostanza della vita. Alla fine, infatti, solo l'amore ci fa vivere e l'amore è sempre anche sofferenza: matura nella sofferenza e dà la forza di soffrire per il bene senza tener conto di me in questo mio momento attuale.

Mi sembra che questa consapevolezza cresce perché si vedono già gli effetti di una condizione in cui non ci sono le forze che provengono da un amore che è sostanza della mia vita e che mi dà la forza di portare avanti la lotta per il bene. Anche qui, naturalmente, abbiamo bisogno di pazienza, ma anche di una pazienza attiva nel senso di far capire alla gente: avete bisogno di questo.

E anche se non si convertono subito, almeno si avvicinano al cerchio di coloro che, nella Chiesa, hanno questa forza interiore. La Chiesa sempre ha conosciuto questo gruppo forte interiormente che porta realmente la forza della fede e persone che quasi si attaccano e si lasciano portare e così partecipano.

Io penso alla parabola del Signore circa il grano di senape così piccolo che poi diventa un albero così grande che anche gli uccelli del cielo vi trovano posto. E direi che questi uccelli possono essere le persone che non si convertono ancora, ma almeno si posano sull'albero della Chiesa. Ho fatto questa riflessione: nel tempo dell'illuminismo, l'ora dove la fede era divisa tra cattolici e protestanti, si pensò che occorresse conservare i valori morali comuni dando loro un fondamento sufficiente. Si pensò: dobbiamo rendere i valori morali indipendenti dalle confessioni religiose, così che essi reggano "etsi Deus non daretur".

Oggi siamo nella situazione contraria, si è invertita la situazione. Non c'è più evidenza per i valori morali. Diventano evidenti solo se Dio esiste. Io pertanto ho suggerito che i laici, i cosiddetti laici, dovrebbero riflettere se per loro non valga oggi il contrario: dobbiamo vivere "quasi Deus daretur", anche se non abbiamo la forza di credere dobbiamo vivere su questa ipotesi altrimenti il mondo non funziona. E sarebbe questo, mi sembra, un primo passo per avvicinarsi alla fede. E vedo in tanti contatti che, grazie a Dio, cresce il dialogo con almeno parte del laicismo.

Terzo punto: la situazione dei sacerdoti che sono divenuti pochi e devono lavorare fino a tre, quattro e a volte fino a cinque parrocchie e sono esausti. Penso che il Vescovo insieme con il suo presbiterio ricerca quali sarebbero i mezzi migliori. Quando io sono stato Arcivescovo di Monaco avevano creato questo modello di funzioni solo della Parola senza sacerdote per, diciamo, tenere la comunità presente nella propria chiesa. E hanno detto: ogni comunità rimane e dove non c'è sacerdote facciamo questa Liturgia della Parola.

I francesi hanno trovato la parola adatta a queste Assemblée domenical "en absence du prêtre" e dopo un certo tempo hanno capito che questo può andare anche male perché si perde il senso del Sacramento, c'è una protestantizzazione e, alla fine, se c'è solo la Parola posso celebrarla anch'io a casa mia.

Ricordo quando ero professore a Tubinga, il grande esegeta Kelemann, non so se conoscete il nome, allievo di Bultmann, che era un grande teologo. Anche se protestante convinto, non è mai andato in chiesa. Diceva: io posso anche a casa meditare le Sacre Scritture.

I francesi hanno un po' trasformato questa formula Assemblée domenical "en absence du prêtre" nella formula Assemblée domenical "en attente du prêtre". Cioè deve essere una attesa del sacerdote e direi normalmente dovrebbe la Liturgia della Parola essere un'eccezione di domenica, perché il Signore vuole venire corporalmente. Questa perciò non deve essere la soluzione.

Si è creata la domenica, perché il Signore è risorto ed è entrato nella comunità degli apostoli per essere con loro. E così hanno anche capito che non è più il sabato il giorno liturgico, ma la domenica nella quale sempre di nuovo il Signore vuole essere corporalmente con noi e nutrirci del suo Corpo, perché diventiamo noi stessi il suo corpo nel mondo.

Trovare il modo per offrire a molte persone di buona volontà questa possibilità: adesso non oso dare ricette. A Monaco ho sempre detto, ma non so la situazione qui che è certamente un po' diversa, che la nostra popolazione è incredibilmente mobile, flessibile. I giovani fanno cinquanta e più chilometri per andare in una discoteca, perché non possono fare anche cinque chilometri per andare in una chiesa comune? Ma, ecco, questa è un cosa molto concreta, pratica, e non oso dare delle ricette. Ma si deve cercare di dare al popolo un sentimento: ho bisogno di essere insieme con la Chiesa, di essere insieme con la Chiesa viva e col Signore!

E così dare questa impressione di importanza e se io lo considero importante, questo crea anche le premesse per una soluzione. Ma devo poi in concreto lasciare aperta la questione, Eccellenza.

Successivamente hanno preso la parola alcuni sacerdoti. Alle domande riguardanti i temi dell'educazione dei giovani, del ruolo della scuola cattolica e della vita consacrata il Santo Padre ha così risposto:

Sono domande molto concrete, alle quali non è facile dare risposte altrettanto concrete.

Vorrei innanzitutto ringraziare per aver richiamato la nostra attenzione sulla necessità di attirare alla Chiesa i giovani, che si sentono invece facilmente attratti da altre cose, da uno stile di vita abbastanza lontano dalle nostre convinzioni. La Chiesa antica ha scelto la strada di creare comunità di vita alternative, senza fratture necessarie. Allora io direi che è importante che i giovani possano scoprire la bellezza della fede, che è bello avere un orientamento, che è bello avere un Dio amico che ci sa dire realmente le cose essenziali della vita.

Questo fattore intellettuale deve essere poi accompagnato da un fattore affettivo e sociale, cioè da una socializzazione nella fede. Perché la fede può realizzarsi solo se ha anche un corpo e ciò implica l'uomo nelle sue modalità di vivere. Perciò in passato quando la fede era determinante per la vita comune poteva essere sufficiente insegnare il catechismo, che rimane anche oggi importante.

Ma dato che la vita sociale si è allontanata dalla fede, noi dobbiamo - visto che anche le famiglie spesso non offrono una socializzazione della fede - offrire modi di una socializzazione della fede, affinché la fede formi comunità, offra luoghi di vita e convinca in un insieme di pensiero, di affetto, di amicizia della vita.

Mi sembra che questi livelli debbano camminare insieme, perché l'uomo ha un corpo, è un essere sociale. In questo senso, per esempio, è una bella cosa poter vedere qui che tanti parroci si trovano con gruppi di giovani per trascorrere le vacanze insieme. In questo modo i giovani condividono la gioia della vacanza e la vivono insieme con Dio e con la Chiesa, nella persona del parroco o del viceparroco. Mi sembra che la Chiesa di oggi, anche in Italia, offra alternative e possibilità di una socializzazione, dove i giovani, insieme, possano camminare con Cristo e formare Chiesa. E per questo devono essere accompagnati con risposte intelligenti alle questioni del nostro tempo: c'è ancora bisogno di Dio? È ancora una cosa ragionevole credere in Dio? Cristo è solamente una figura della storia delle religioni o è realmente il Volto di Dio del quale abbiamo bisogno tutti? Possiamo vivere bene senza conoscere Cristo?

Occorre capire che costruire la vita, il futuro, esige anche la pazienza e la sofferenza. La Croce non può mancare anche nella vita dei giovani e far capire questo non è facile. Il montanaro sa che per fare una bella esperienza di scalata dovrà affrontare dei sacrifici ed allenarsi, così anche il giovane deve capire che nella salita al futuro della vita è necessario l'esercizio di una vita interiore.

Dunque personalizzazione e socializzazione sono le due indicazioni che devono compenetrare le situazioni concrete delle sfide di oggi: le sfide dell'affetto e quelle della comunione. Queste due dimensioni, infatti, permettono di aprirsi al futuro ed anche di insegnare che il Dio a volte difficile della fede è anche per il mio bene in futuro.

Riguardo alla scuola cattolica posso dire che molti Vescovi venuti in Visita "ad Limina" hanno più volte sottolineato la sua importanza. La scuola cattolica, in situazioni come quella africana, diviene strumento indispensabile per la promozione culturale, per i primi passi della alfabetizzazione e per un elevamento del livello culturale nel quale si forma una nuova cultura. Grazie ad essa è possibile rispondere anche alle sfide della tecnica che si impegnano ad una cultura pre-tecnica distruggendo antiche forme di vita tribale con il loro contenuto morale.

Da noi la situazione è diversa, ma ciò che qui mi sembra importante è l'insieme di una formazione intellettuale, che faccia capire bene anche come oggi il cristianesimo non sia separato dalla realtà.

Come abbiamo detto nella prima parte, sulla scia dell'illuminismo e del "secondo illuminismo" del '68 molti hanno pensato che il tempo storico della Chiesa e della fede fosse finito e che si fosse entrati in una nuova era, dove queste cose si sarebbero potute studiare come la mitologia classica. Al contrario occorre far capire che la fede è di un'attualità permanente e di una grande ragionevolezza. Quindi un'affermazione intellettuale nella quale si comprende anche la bellezza e la struttura organica della fede.

Questa era una delle intenzioni fondamentali del Catechismo della Chiesa Cattolica, adesso condensato nel Compendio. Non dobbiamo pensare ad un pacchetto di regole che ci carichiamo sulle spalle come uno zaino pesante nel cammino della vita. Alla fine la fede è semplice e ricca: noi crediamo che Dio c'è, che Dio c'entra. Ma quale Dio? Un Dio con un Volto, un Volto umano, un Dio che riconcilia, che vince l'odio e dà la forza della pace che nessun altro può dare. Bisogna far capire che in realtà il cristianesimo è molto semplice e di conseguenza molto ricco.

La scuola è un'istituzione culturale, di formazione intellettuale e professionale: quindi occorre far capire l'organicità, la logicità della fede e conoscere quindi i grandi elementi essenziali, capire che cosa è Eucaristia, che cosa succede nella Domenica, nel matrimonio cristiano. Naturalmente occorre far capire, tuttavia, che la disciplina della religione non è una ideologia puramente intellettuale e individualistica, come forse accade in altre discipline: in matematica ad esempio so come fare un determinato calcolo. Ma anche altre discipline alla fine hanno una tendenza pratica, una tendenza alla professionalità, alla applicabilità nella vita. Così occorre capire che la fede essenzialmente crea assemblea, unisce.

È proprio questa essenza della fede che ci libera dall'isolamento dell'io e ci unisce in una grande comunità, una comunità molto completa - in parrocchia, nell'assemblea domenicale - ed universale nella quale io divento un parente di tutti nel mondo.

Bisogna capire questa dimensione cattolica della comunità che si riunisce ogni domenica nella parrocchia. Quindi se, da una parte, conoscere la fede è uno scopo, dall'altra parte socializzare nella Chiesa o "ecclesializzare" significa introdursi nella grande comunità della Chiesa, luogo di vita, dove so che anche nei grandi momenti della mia vita - soprattutto nella sofferenza e nella morte - non sono solo.

Sua Eccellenza ha detto che tanta gente non sembra aver bisogno di noi, ma i malati ed i sofferenti sì. E questo si dovrebbe capire dall'inizio, che mai sarò più solo nella vita. La fede mi redime dalla solitudine. Sarò sempre portato da una comunità, ma nel contempo devo essere io portatore della comunità ed insegnare dall'inizio anche la responsabilità per gli ammalati, per gli isolati, per i sofferenti e così ritorna il dono che io faccio. Quindi bisogna risvegliare nell'uomo, nel quale si nasconde questa disponibilità all'amore e al dono di sé, questo grande dono e così dare la garanzia che anche io avrò fratelli e sorelle che mi sostengono in queste situazioni di difficoltà, dove ho bisogno di una comunità che non mi abbandona.

Riguardo all'importanza della vita religiosa, noi sappiamo che la vita monastica e contemplativa attira di fronte allo stress di questo mondo, apparendo come un'oasi nella quale vivere realmente. Anche qui si tratta di una visione romantica: per questo occorre il discernimento delle vocazioni. Tuttavia la situazione storica conferisce una certa attrazione alla vita contemplativa, ma non tanto alla vita religiosa attiva.

Questo si vede meglio nel ramo maschile, dove si vedono religiosi, anche sacerdoti che fanno un apostolato importante nell'educazione, con gli ammalati ecc... Si vede meno, purtroppo, per le vocazioni femminili, dove la professionalità sembra rendere superflua la vocazione religiosa. Ci sono delle infermiere diplomate, ci sono le maestre di scuola diplomate, quindi non appare più come una vocazione religiosa e quella certa attività sarà difficile ricominciare se la catena delle vocazioni viene interrotta.

Tuttavia vediamo sempre più che la professionalità per essere una buona infermiera non è sufficiente. È necessario il cuore. È necessario l'amore per la persona sofferente. Questo ha una profonda dimensione religiosa. Così anche nell'insegnamento. Abbiamo adesso nuove forme come gli istituti secolari, le cui comunità dimostrano con la loro vita che c'è un modo di vivere buono per la persona, ma soprattutto necessario per la comunità, per la fede, e per la comunità umana. Quindi io penso che pur cambiando le forme - gran parte delle nostre comunità attive femminili viene dall'Ottocento, con la precisa sfida sociale di quel periodo e oggi le sfide sono un po' diverse - la Chiesa fa capire che servire i sofferenti e difendere la vita sono vocazioni con una profonda dimensione religiosa e che ci sono forme per vivere tali vocazioni. Crescono nuovi modi tanto da poter sperare che anche oggi il Signore conceda vocazioni necessarie per la vita della Chiesa e del mondo.

All'intervento del cappellano presso la locale Casa Circondariale, dove vivono 260 persone di oltre 30 nazionalità, Benedetto XVI ha così risposto:

Grazie per le sue parole molto importanti e anche molto commoventi. Poco prima della mia partenza ho avuto modo di parlare con il Cardinale Martino, Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, che sta elaborando un documento sul problema dei nostri fratelli e delle nostre sorelle reclusi, i quali soffrono, a volte si sentono poco rispettati nei loro diritti umani, si sentono persino disprezzati e vivono in una situazione nella quale c'è veramente bisogno della presenza di Cristo. E Gesù, nel Vangelo di Matteo 25, nella anticipazione dell'ultimo giudizio parla esplicitamente di questa situazione: sono stato in carcere e non mi hai visitato; sono stato in carcere e mi hai visitato.

Quindi le sono grato di aver parlato di queste minacce alla dignità umana in tali circostanze, per imparare che dobbiamo essere anche da sacerdoti fratelli di questi "minimi" e veder anche in essi il Signore che ci aspetta è di grandissima importanza. Ho l'intenzione, insieme con il Cardinale Martino, di dire una parola anche pubblica su queste situazioni particolari, che sono un mandato per la Chiesa, per la fede, per il suo amore. Infine sono grato che abbia detto che non è tanto importante che cosa fai, ma è importante che cosa sei nel nostro impegno sacerdotale. Senza dubbio dobbiamo fare tante cose e non cedere alla pigrizia, ma tutto il nostro impegno porta frutto soltanto se è espressione di quanto siamo.

Se appare nei nostri fatti il nostro essere profondamente uniti con Cristo: essere strumenti di Cristo, bocca per la quale parla Cristo, mano attraverso la quale agisce Cristo. L'essere convince e il fare convince solo in quanto è realmente frutto ed espressione dell'essere.

Un altro sacerdote ha sollevato il tema della comunione ai fedeli divorziati e risposati. Ecco la risposta del Santo Padre:

Sappiamo tutti che questo è un problema particolarmente doloroso per le persone che vivono in situazioni dove sono esclusi dalla comunione eucaristica e naturalmente per i sacerdoti che vogliono aiutare queste persone ad amare la Chiesa, ad amare Cristo. Questo pone un problema.

Nessuno di noi ha una ricetta fatta, anche perché le situazioni sono sempre diverse. Direi particolarmente dolorosa è la situazione di quanti erano sposati in Chiesa, ma non erano veramente credenti e lo hanno fatto per tradizione, e poi trovandosi in un nuovo matrimonio non valido si convertono, trovano la fede e si sentono esclusi dal Sacramento. Questa è realmente una sofferenza grande e quando sono stato Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ho invitato diverse Conferenze episcopali e specialisti a studiare questo problema: un sacramento celebrato senza fede. Se realmente si possa trovare qui un momento di invalidità perché al sacramento mancava una dimensione fondamentale non oso dire. Io personalmente lo pensavo, ma dalle discussioni che abbiamo avuto ho capito che il problema è molto difficile e deve essere ancora approfondito. Ma data la situazione di sofferenza di queste persone, è da approfondire.

Non oso dare adesso una risposta, in ogni caso mi sembrano molto importanti due aspetti. Il primo: anche se non possono andare alla comunione sacramentale non sono esclusi dall'amore della Chiesa e dall'amore di Cristo. Una Eucaristia senza la comunione sacramentale immediata non è certamente completa, manca una cosa essenziale. Tuttavia è anche vero che partecipare all'Eucaristia senza comunione eucaristica non è uguale a niente, è sempre essere coinvolti nel mistero della Croce e della risurrezione di Cristo. È sempre partecipazione al grande Sacramento nella dimensione spirituale e pneumatica; nella dimensione anche ecclesiale se non strettamente sacramentale.

E dato che è il Sacramento della Passione di Cristo, il Cristo sofferente abbraccia in un modo particolare queste persone e comunica con loro in un altro modo e possono quindi sentirsi abbracciate dal Signore crocifisso che cade in terra e muore e soffre per loro, con loro. Occorre, dunque, fare capire che anche se purtroppo manca una dimensione fondamentale tuttavia essi non sono esclusi dal grande mistero dell'Eucaristia, dall'amore di Cristo qui presente. Questo mi sembra importante, come è importante che il parroco e la comunità parrocchiale facciano sentire a queste persone che, da una parte, dobbiamo rispettare l'inscindibilità del Sacramento e, dall'altra parte, che amiamo queste persone che soffrono anche per noi. E dobbiamo anche soffrire con loro, perché danno una testimonianza importante, perché sappiamo che nel momento in cui si cede per amore si fa torto al Sacramento stesso e l'indissolubilità appare sempre meno vera.

Conosciamo il problema non solo delle Comunità protestanti ma anche delle Chiese ortodosse che vengono spesso presentate come modello in cui si ha la possibilità di risposarsi. Ma solo il primo matrimonio è sacramentale: anche loro riconoscono che gli altri non sono Sacramento, sono matrimoni in modo ridotto, ridimensionato, in una situazione penitenziale, in un certo senso possono andare alla comunione ma sapendo che questo è concesso "in economia" - come dicono - per una misericordia che tuttavia non toglie il fatto che il loro matrimonio non è un Sacramento. L'altro punto nelle Chiese orientali è che per questi matrimoni hanno concesso possibilità di divorzio con grande leggerezza e che quindi il principio della indissolubilità, vera sacramentalità del matrimonio, è gravemente ferito.

Da una parte, dunque, c'è il bene della comunità e il bene del Sacramento che dobbiamo rispettare e dall'altra la sofferenza delle persone che dobbiamo aiutare.

Il secondo punto che dobbiamo insegnare e rendere credibile anche per la nostra stessa vita è che la sofferenza, in diverse forme, fa necessariamente parte della nostra vita. E questa è una sofferenza nobile, direi. Di nuovo occorre far capire che il piacere non è tutto. Che il cristianesimo ci dà gioia, come l'amore dà gioia. Ma l'amore è anche sempre rinuncia a se stesso. Il Signore stesso ci ha dato la formula di che cosa è amore: chi perde se stesso si trova; chi guadagna e conserva se stesso si perde.

È sempre un Esodo e quindi anche una sofferenza. La vera gioia è una cosa distinta dal piacere, la gioia cresce, matura sempre nella sofferenza in comunione con la Croce di Cristo. Solo qui nasce la vera gioia della fede, dalla quale anche loro non sono esclusi se imparano ad accettare la loro sofferenza in comunione con quella di Cristo.

A sacerdoti che chiedevano chiarimenti circa l'amministrazione del Sacramento del Battesimo in situazioni particolari e sul Compendio del Catechismo il Santo Padre ha così risposto:

La prima questione è molto difficile ed ho già avuto modo di lavorarci quando sono stato Arcivescovo di Monaco, perché abbiamo avuto questi casi.

Anzitutto si deve chiarire ogni singolo caso: se l'ostacolo contro il Battesimo è tale che non si potrebbe dare senza spreco del Sacramento o se la situazione permette di dire, pur in un contesto di problemi, quest'uomo si è convertito realmente, ha tutta la fede, vuol vivere la fede della Chiesa, vuol essere battezzato. Io penso che adesso dare una formula generale non risponderebbe alla diversità delle situazioni reali: cerchiamo naturalmente di fare tutto il possibile per dare il Battesimo a una persona che lo chiede con piena fede, ma diciamo che i dettagli devono essere studiati in ogni singolo caso.

Il desiderio della Chiesa deve essere, se una persona si mostra realmente convertita e vuol accedere al Battesimo, lasciarsi incorporare nella comunione di Cristo e della Chiesa, di assecondarla. La Chiesa dovrebbe essere aperta se non ci sono ostacoli che realmente renderebbero contraddittorio il Battesimo. Quindi cercare la possibilità e se la persona è realmente convinta, crede con tutto il cuore, non siamo nel relativismo.

Secondo punto: sappiamo tutti che nella situazione culturale ed intellettuale di cui inizialmente abbiamo parlato la catechesi è divenuta molto più difficile. Da una parte ha bisogno di nuovi contesti per essere capita ed essere contestualizzata perché si possa vedere che questo è vero e concerne l'oggi e il domani e, dall'altra, quindi, una contestualizzazione necessaria è stata fatta nei Catechismi delle diverse Conferenze Episcopali.

D'altra parte però risposte chiare sono necessarie perché si possa vedere che questa è la fede e le altre sono contestualizzazioni, semplice modo di far capire. Così è nata una "querelle" all'interno del mondo catechistico, tra catechismo nel senso classico ed i nuovi strumenti di catechesi. È vero da una parte - adesso parlo solo dell'esperienza tedesca - che molti di questi libri non sono arrivati fino alla meta: hanno sempre preparato il terreno, ma erano così occupati con il preparare il terreno con il cammino sul quale avanza la persona, che alla fine non sono arrivati alla risposta da dare. Dall'altra parte i catechismi classici apparivano così chiusi in sé che la risposta vera non toccava più la mente del catecumeno di oggi.

Finalmente abbiamo preso questo impegno pluridimensionale: abbiamo elaborato il Catechismo della Chiesa Cattolica che, da una parte, dà le necessarie contestualizzazioni culturali, ma dà anche risposte precise. Lo abbiamo scritto nella consapevolezza che poi da questo Catechismo fino alla catechesi concreta vi è ancora un cammino non facile da fare. Ma abbiamo anche capito che le situazioni, sia linguistiche, sia culturali, sia sociali, sono così diverse nei vari Paesi e anche negli stessi Paesi nei diversi ceti sociali, che qui è compito del Vescovo o della Conferenza episcopale e del catechista stesso di fare proprio questo ultimo cammino e perciò la nostra posizione è stata: questo è il punto di riferimento per tutti, qui si vede come crede la Chiesa. Poi le Conferenze Episcopali creino gli strumenti che applicano alla situazione culturale e fanno la strada che manca ancora. E finalmente il catechista stesso deve fare gli ultimi passi e forse si offrono anche per questi ultimi passi gli strumenti adatti.

Dopo alcuni anni abbiamo avuto una riunione in cui i catechisti di tutto il mondo ci hanno detto che il Catechismo andava bene, che era un libro necessario, che aiuta dando la bellezza, l'organicità e la completezza della fede, ma che avevano bisogno di una sintesi. Il Santo Padre Giovanni Paolo II, preso atto del voto di quella riunione, ha incaricato una Commissione di fare questo Compendio, cioè una sintesi del Catechismo grande, al quale esso si riferisse, estraendone l'essenziale. Inizialmente nella redazione del Compendio volevamo essere ancora più brevi, ma alla fine abbiamo capito che per dire realmente, nell'ora nostra, l'essenziale, il materiale necessario che serviva ad ogni catechista era quanto abbiamo detto. Abbiamo anche aggiunto delle preghiere. E penso che sia un libro realmente molto utile, dove si ha la "summa" di quanto è contenuto nel grande Catechismo e in questo senso mi sembra possa corrispondere oggi al Catechismo di Pio X.

Resta sempre l'impegno dei singoli Vescovi e delle Conferenze Episcopali di aiutare i sacerdoti e tutti i catechisti nel lavoro con questo libro e nel fare da ponte a un determinato gruppo, perché il modo di parlare, di pensare e di capire è molto diverso non solo tra l'Italia, la Francia e la Germania, l'Africa, ma anche all'interno di un Paese viene recepito in maniera molto diversa. Quindi rimangono come strumenti per la Chiesa universale il
Catechismo della Chiesa Cattolica e il Compendio con la sostanza del Catechismo.

Inoltre abbiamo sempre anche bisogno del lavoro dei Vescovi che aiutano, in contatto con i sacerdoti e i catechisti, a trovare tutti gli strumenti necessari per poter lavorare bene in questa semina della Parola.

Infine il Santo Padre si è così rivolto a tutti i presenti:

Vorrei ringraziare per queste vostre domande che mi aiutano a riflettere sul futuro e soprattutto per questa esperienza di comunione con un grande presbiterio di una bellissima diocesi. Grazie.

L'incontro si è concluso con il canto "Je te salue, Marie".

© Copyright 2007 - Libreria Editrice Vaticana
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
16/09/2009 19:08

INCONTRO DI CATECHESI E DI PREGHIERA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI CON I BAMBINI DELLA PRIMA COMUNIONE (SABATO 15 OTTOBRE 2005)

Pubblichiamo di seguito il testo del dialogo tra Benedetto XVI ed i bambini presenti in Piazza San Pietro nel pomeriggio di sabato 15 ottobre e le parole che il Papa ha loro rivolto al termine dell’Incontro:

CATECHESI DEL SANTO PADRE

Andrea: «Caro Papa, quale ricordo hai del giorno della tua prima Comunione?»

Innanzitutto vorrei dire grazie per questa festa della fede che mi offrite, per la vostra presenza e la vostra gioia. Ringrazio e saluto per l'abbraccio che ho avuto da alcuni di voi, un abbraccio che simbolicamente vale per voi tutti, naturalmente. Quanto alla domanda, mi ricordo bene del giorno della mia Prima Comunione. Era una bella domenica di marzo del 1936, quindi 69 anni fa. Era un giorno di sole, la chiesa molto bella, la musica, erano tante le belle cose delle quali mi ricordo. Eravamo una trentina di ragazzi e di ragazze del nostro piccolo paese, di non più di 500 abitanti. Ma nel centro dei miei ricordi gioiosi e belli sta questo pensiero - la stessa cosa è già stata detta dal vostro portavoce - che ho capito che Gesù è entrato nel mio cuore, ha fatto visita proprio a me. E con Gesù Dio stesso è con me. E che questo è un dono di amore che realmente vale più di tutto il resto che può essere dato dalla vita; e così sono stato realmente pieno di una grande gioia perché Gesù era venuto da me. E ho capito che adesso cominciava una nuova tappa della mia vita, avevo 9 anni, e che adesso era importante rimanere fedele a questo incontro, a questa Comunione. Ho promesso al Signore, per quanto potevo: "Io vorrei essere sempre con te" e l'ho pregato: "Ma sii soprattutto tu con me". E così sono andato avanti nella mia vita. Grazie a Dio, il Signore mi ha sempre preso per la mano, mi ha guidato anche in situazioni difficili. E così questa gioia della Prima Comunione era un inizio di un cammino fatto insieme. Spero che, anche per tutti voi, la Prima Comunione che avete ricevuto in quest'Anno dell'Eucaristia sia l’inizio di un'amicizia per tutta la vita con Gesù. Inizio di un cammino insieme, perché andando con Gesù andiamo bene e la vita diventa buona.

Livia: «Santo Padre, prima del giorno della mia Prima Comunione mi sono confessata. Mi sono poi confessata altre volte. Ma volevo chiederti: devo confessarmi tutte le volte che faccio la Comunione? Anche quando ho fatto gli stessi peccati? Perché mi accorgo che sono sempre quelli».

Direi due cose: la prima, naturalmente, è che non devi confessarti sempre prima della Comunione, se non hai fatto peccati così gravi che sarebbe necessario confessarsi. Quindi, non è necessario confessarsi prima di ogni Comunione eucaristica. Questo è il primo punto. Necessario è soltanto nel caso che hai commesso un peccato realmente grave, che hai offeso profondamente Gesù, così che l’amicizia è distrutta e devi ricominciare di nuovo. Solo in questo caso, quando si è in peccato "mortale", cioè grave, è necessario confessarsi prima della Comunione. Questo è il primo punto. Il secondo: anche se, come ho detto, non è necessario confessarsi prima di ogni Comunione, è molto utile confessarsi con una certa regolarità. È vero, di solito, i nostri peccati sono sempre gli stessi, ma facciamo pulizia delle nostre abitazioni, delle nostre camere, almeno ogni settimana, anche se la sporcizia è sempre la stessa. Per vivere nel pulito, per ricominciare; altrimenti, forse la sporcizia non si vede, ma si accumula. Una cosa simile vale anche per l'anima, per me stesso, se non mi confesso mai, l'anima rimane trascurata e, alla fine, sono sempre contento di me e non capisco più che devo anche lavorare per essere migliore, che devo andare avanti. E questa pulizia dell'anima, che Gesù ci dà nel Sacramento della Confessione, ci aiuta ad avere una coscienza più svelta, più aperta e così anche di maturare spiritualmente e come persona umana. Quindi due cose: confessarsi è necessario soltanto in caso di un peccato grave, ma è molto utile confessarsi regolarmente per coltivare la pulizia, la bellezza dell'anima e maturare man mano nella vita.

Andrea: «La mia catechista, preparandomi al giorno della mia Prima Comunione, mi ha detto che Gesù è presente nell'Eucaristia. Ma come? Io non lo vedo!»

Sì, non lo vediamo, ma ci sono tante cose che non vediamo e che esistono e sono essenziali. Per esempio, non vediamo la nostra ragione, tuttavia abbiamo la ragione. Non vediamo la nostra intelligenza e l'abbiamo. Non vediamo, in una parola, la nostra anima e tuttavia esiste e ne vediamo gli effetti, perché possiamo parlare, pensare, decidere ecc... Così pure non vediamo, per esempio, la corrente elettrica, e tuttavia vediamo che esiste, vediamo questo microfono come funziona; vediamo le luci. In una parola, proprio le cose più profonde, che sostengono realmente la vita e il mondo, non le vediamo, ma possiamo vedere, sentire gli effetti. L'elettricità, la corrente non le vediamo, ma la luce la vediamo. E così via. E così anche il Signore risorto non lo vediamo con i nostri occhi, ma vediamo che dove è Gesù, gli uomini cambiano, diventano migliori. Si crea una maggiore capacità di pace, di riconciliazione, ecc... Quindi, non vediamo il Signore stesso, ma vediamo gli effetti: così possiamo capire che Gesù è presente. Come ho detto, proprio le cose invisibili sono le più profonde e importanti. Andiamo dunque incontro a questo Signore invisibile, ma forte, che ci aiuta a vivere bene.

Giulia: «Santità, tutti ci dicono che è importante andare a Messa alla domenica. Noi ci andremmo volentieri ma spesso i nostri genitori non ci accompagnano perché alla domenica dormono, il papà e la mamma di un mio amico lavorano in un negozio e noi spesso andiamo fuori città per trovare i nonni. Puoi dire a loro una parola perché capiscano che è importante andare a Messa insieme, ogni domenica?»

Riterrei di sì, naturalmente, con grande amore, con grande rispetto per i genitori che, certamente, hanno tante cose da fare. Ma tuttavia, con il rispetto e l’amore di una figlia, si può dire: cara mamma, caro papà, sarebbe così importante per noi tutti, anche per te incontrarci con Gesù. Questo ci arricchisce, porta un elemento importante alla nostra vita. Insieme troviamo un po' di tempo, possiamo trovare una possibilità. Forse anche dove abita la nonna si troverà la possibilità. In una parola direi, con grande amore e rispetto per i genitori, direi loro: "Capite che questo non è solo importante per me, non lo dicono solo i catechisti, è importante per tutti noi; e sarà una luce della domenica per tutta la nostra famiglia".

Alessandro: «A cosa serve andare alla Santa Messa e ricevere la Comunione per la vita di tutti i giorni?»

Serve per trovare il centro della vita. Noi la viviamo in mezzo a tante cose. E le persone che non vanno in chiesa non sanno che a loro manca proprio Gesù. Sentono però che manca qualcosa nella loro vita. Se Dio resta assente nella mia vita, se Gesù è assente dalla mia vita, mi manca una guida, mi manca una amicizia essenziale, mi manca anche una gioia che è importante per la vita. La forza anche di crescere come uomo, di superare i miei vizi e di maturare umanamente. Quindi, non vediamo subito l'effetto dell'essere con Gesù quando andiamo alla Comunione; lo si vede col tempo. Come anche, nel corso delle settimane, degli anni, si sente sempre più l'assenza di Dio, l'assenza di Gesù. È una lacuna fondamentale e distruttiva . Potrei adesso facilmente parlare dei Paesi dove l'ateismo ha governato per anni; come ne sono risultate distrutte le anime, ed anche la terra; e così possiamo vedere che è importante, anzi, direi, fondamentale, nutrirsi di Gesù nella comunione. E’ Lui che ci dà la luce, ci offre la guida per la nostra vita, una guida della quale abbiamo bisogno.

Anna: «Caro Papa, ci puoi spiegare cosa voleva dire Gesù quando ha detto alla gente che lo seguiva: "Io sono il pane della vita"»?

Allora dobbiamo forse innanzitutto chiarire che cos'è il pane. Noi abbiamo oggi una cucina raffinata e ricca di diversissimi cibi, ma nelle situazioni più semplici il pane è il fondamento della nutrizione e se Gesù si chiama il pane della vita, il pane è, diciamo, la sigla, un'abbreviazione per tutto il nutrimento. E come abbiamo bisogno di nutrirci corporalmente per vivere, così anche lo spirito, l'anima in noi, la volontà, ha bisogno di nutrirsi. Noi, come persone umane, non abbiamo solo un corpo, ma anche un'anima; siamo persone pensanti con una volontà, un’intelligenza, e dobbiamo nutrire anche lo spirito, l'anima, perché possa maturare, perché possa realmente arrivare alla sua pienezza. E, quindi, se Gesù dice io sono il pane della vita, vuol dire che Gesù stesso è questo nutrimento della nostra anima, dell'uomo interiore del quale abbiamo bisogno, perché anche l'anima deve nutrirsi. E non bastano le cose tecniche, pur tanto importanti. Abbiamo bisogno proprio di questa amicizia di Dio, che ci aiuta a prendere le decisioni giuste. Abbiamo bisogno di maturare umanamente. Con altre parole, Gesù ci nutre così che diventiamo realmente persone mature e la nostra vita diventa buona.

Adriano: «Santo Padre, ci hanno detto che oggi faremo l'Adorazione Eucaristica? Che cosa è? Come si fa? Ce lo puoi spiegare? Grazie»

Allora, che cos'è l'adorazione, come si fa, lo vedremo subito, perché tutto è ben preparato: faremo delle preghiere, dei canti, la genuflessione e siamo così davanti a Gesù. Ma, naturalmente, la tua domanda esige una risposta più profonda: non solo come fare, ma che cosa è l'adorazione. Io direi: adorazione è riconoscere che Gesù è mio Signore, che Gesù mi mostra la via da prendere, mi fa capire che vivo bene soltanto se conosco la strada indicata da Lui, solo se seguo la via che Lui mi mostra. Quindi, adorare è dire: «Gesù, io sono tuo e ti seguo nella mia vita, non vorrei mai perdere questa amicizia, questa comunione con te». Potrei anche dire che l'adorazione nella sua essenza è un abbraccio con Gesù, nel quale gli dico: «Io sono tuo e ti prego sii anche tu sempre con me».


PAROLE DEL SANTO PADRE AL TERMINE DELL’INCONTRO

Carissimi ragazzi e ragazze, fratelli e sorelle, alla fine di questo bellissimo incontro trovo solo una parola: grazie.

Grazie per questa festa della fede.

Grazie per questo incontro tra di noi e con Gesù.

E grazie, naturalmente, a tutti che hanno reso possibile questa festa: ai catechisti, ai sacerdoti, alle suore; a tutti voi.

Ripeto, alla fine, le parole d’inizio di ogni liturgia e vi dico: "La pace sia con voi"; cioè il Signore sia con voi, la gioia sia con voi e così la vita sia buona.

Buona domenica, buona notte e arrivederci tutti insieme con il Signore.

Grazie tante!

© Copyright 2007 - Libreria Editrice Vaticana
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
16/09/2009 19:09

INCONTRO CON IL CLERO DELLA DIOCESI DI ROMA

DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI


Aula della Benedizione
Giovedì, 2 marzo 2006


Parlo subito, altrimenti il mio monologo diventa troppo lungo, se aspetto che si concludano tutti gli interventi. Vorrei innanzitutto esprimere la mia gioia di essere qui con voi, cari Sacerdoti di Roma. È una gioia reale: quella di vedere tanti buoni pastori a servizio del "Buon Pastore" qui, nella prima Sede della Cristianità, nella Chiesa che "presiede alla carità" e che deve essere modello delle altre Chiese locali. Grazie per il vostro servizio!

Abbiamo il luminoso esempio di Don Andrea, che ci mostra l'"essere" sacerdote sino in fondo: morire per Cristo nel momento della preghiera e così testimoniare, da una parte, l'interiorità della propria vita con Cristo e, dall'altra, la propria testimonianza per gli uomini in un punto realmente "panperiferico" del mondo, circondato dall'odio e dal fanatismo di altri. È una testimonianza che ispira tutti a seguire Cristo, a dare la vita per gli altri e a trovare proprio così la Vita.

Riguardo al primo intervento, rivolgo, innanzitutto un grande grazie per questa meravigliosa poesia! Ci sono anche poeti ed artisti nella Chiesa di Roma, nel presbiterio di Roma, e avrò ancora la possibilità di meditare, di interiorizzare queste belle parole e di tener presente che questa "finestra" è sempre "aperta". Forse è questa l'occasione per ricordare l'eredità fondamentale del grande Papa Giovanni Paolo II, per continuare ad assimilare sempre più questa eredità.

Ieri abbiamo dato inizio alla Quaresima. La Liturgia di oggi ci offre una profonda indicazione del significato essenziale della Quaresima: è un indicatore di strada per la nostra vita. Perciò mi sembra - parlo riferendomi a Papa Giovanni Paolo II - che dobbiamo insistere un po' sulla prima Lettura della giornata di oggi. Il grande discorso di Mosè sulla soglia della Terra Santa, dopo i quarant'anni del pellegrinaggio nel deserto, è un riassunto di tutta la Torah, di tutta la Legge. Troviamo qui l'essenziale non solo per il popolo ebraico ma anche per noi. Questo essenziale è la parola di Dio: "Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita" (Dt 30, 19). Questa parola fondamentale della Quaresima è anche la parola fondamentale dell'eredità del nostro grande Papa Giovanni Paolo II: scegliere la vita. Questa è la nostra vocazione sacerdotale: scegliere noi stessi la vita e aiutare gli altri a scegliere la vita. Si tratta di rinnovare nella Quaresima la nostra, per così dire, "opzione fondamentale", l'opzione per la vita.

Ma, nasce subito la questione: come si sceglie la vita? come si fa? Riflettendo, mi è venuto in mente che la grande defezione dal Cristianesimo realizzatasi nell'Occidente negli ultimi cento anni, è stata attuata proprio in nome dell'opzione per la vita. È stato detto - penso a Nietzsche ma anche a tanti altri - che il Cristianesimo è una opzione contro la vita. Con la Croce, con tutti i Comandamenti, con tutti i "No" che ci propone, ci chiude la porta della vita. Ma noi, vogliamo avere la vita, e scegliamo, optiamo, finalmente, per la vita liberandoci dalla Croce, liberandoci da tutti questi Comandamenti e da tutti questi "No". Vogliamo avere la vita in abbondanza, nient'altro che la vita. Qui subito viene in mente la parola del Vangelo di oggi: "Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà" (Lc 9, 24). Questo è il paradosso che dobbiamo innanzitutto tener presente nell'opzione per la vita. Non arrogandoci la vita per noi ma solo dando la vita, non avendola e prendendola, ma dandola, possiamo trovarla. Questo è il senso ultimo della Croce: non prendere per sé ma dare la vita.

Così, Nuovo e Vecchio Testamento vanno insieme. Nella prima Lettura del Deuteronomio la risposta di Dio è: "Io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva" (30, 16). Questo, a prima vista non ci piace, ma è la strada: l'opzione per la vita e l'opzione per Dio sono identiche. Il Signore lo dice nel Vangelo di san Giovanni: "Questa è la vita eterna: che conoscano te" (Gv 17, 3). La vita umana è una relazione. Solo in relazione, non chiusi in noi stessi, possiamo avere la vita. E la relazione fondamentale è la relazione col Creatore, altrimenti le altre relazioni sono fragili. Scegliere Dio, quindi: questo è essenziale. Un mondo vuoto di Dio, un mondo che ha dimenticato Dio, perde la vita e cade in una cultura di morte. Scegliere la vita, fare l'opzione per la vita, quindi, è, innanzitutto, scegliere l'opzione-relazione con Dio. Ma, subito nasce la questione: con quale Dio? Qui, di nuovo, ci aiuta il Vangelo: con quel Dio che ci ha mostrato il suo volto in Cristo, con quel Dio che ha vinto l'odio sulla Croce, cioè nell'amore sino alla fine. Così, scegliendo questo Dio, scegliamo la vita.

Il Papa Giovanni Paolo II ci ha donato la grande Enciclica Evangelium vitae. In essa - è quasi un ritratto dei problemi della cultura odierna, delle speranze e dei pericoli - diviene visibile che una società che dimentica Dio, che esclude Dio e, proprio per avere la vita, cade in una cultura di morte. Proprio volendo avere la vita si dice "No" al bambino, perché mi toglie qualche parte della mia vita; si dice "No" al futuro, per avere tutto il presente; si dice "No" sia alla vita che nasce sia alla vita sofferente, che va verso la morte. Questa apparente cultura della vita diventa l'anti-cultura della morte, dove Dio è assente, dove è assente quel Dio che non ordina l'odio ma vince l'odio. Qui facciamo la vera opzione per la vita. Tutto, allora, è connesso: la più profonda opzione per Cristo Crocifisso con la più completa opzione per la vita, dal primo momento fino all'ultimo momento.

Questo, mi sembra, in qualche modo, anche il nucleo della nostra pastorale: aiutare a fare una vera opzione per la vita, rinnovare la relazione con Dio come la relazione che ci dà vita e ci mostra la strada per la vita. E così amare di nuovo Cristo, che dall'Essere più ignoto, al quale non arrivavamo e che rimaneva enigmatico, si è reso un Dio noto, un Dio dal volto umano, un Dio che è amore. Teniamo presente proprio questo punto fondamentale per la vita e consideriamo che in questo programma è presente tutto il Vangelo, dall'Antico al Nuovo Testamento, che ha come centro Cristo. La Quaresima, per noi stessi, dovrebbe essere il tempo per rinnovare la nostra conoscenza di Dio, la nostra amicizia con Gesù, per essere così capaci di guidare gli altri in modo convincente alla opzione per la vita, che è innanzitutto opzione per Dio. A noi stessi deve risultare chiaro che scegliendo Cristo non abbiamo scelto la negazione della vita, ma abbiamo scelto realmente la vita in abbondanza.

L'opzione cristiana è, in fondo, molto semplice: è l'opzione del "Sì" alla vita. Ma questo "Sì", si realizza solo con un Dio non ignoto, con un Dio dal volto umano. Si realizza seguendo questo Dio nella comunione dell'amore. Quanto ho fin qui detto vuol essere un modo di rinnovare il nostro ricordo nei riguardi del grande Papa Giovanni Paolo II.

Veniamo al secondo intervento, così simpatico, a proposito delle mamme. Direi che adesso non posso comunicare grandi programmi, parole che potrete dire alle mamme. Dite semplicemente: il Papa vi ringrazia! Vi ringrazia perché avete donato la vita, perché volete aiutare questa vita che cresce e volete così costruire un mondo umano, contribuendo ad un futuro umano. E lo fate non dando solo la vita biologica, ma comunicando il centro della vita, facendo conoscere Gesù, introducendo i vostri bambini alla conoscenza di Gesù, all'amicizia con Gesù. Questo è il fondamento di ogni catechesi. Quindi bisogna ringraziare le mamme soprattutto perché hanno avuto il coraggio di dare la vita. E bisogna pregare le mamme perché completino questo loro dare la vita dando l'amicizia con Gesù.

Il terzo intervento era del Rettore della chiesa di sant'Anastasia. Qui, forse, posso dire, tra parentesi, che la chiesa di sant'Anastasia mi era già cara prima di averla vista, perché era la chiesa titolare del nostro Cardinale de Faulhaber. Egli ci ha sempre fatto sapere che a Roma aveva una sua chiesa, quella di sant'Anastasia. Con questa comunità ci siamo sempre incontrati in occasione della seconda Messa di Natale, dedicata alla "stazione" di sant'Anastasia. Gli storici dicono che là, il Papa, doveva visitare il Governatore bizantino, che lì aveva la sede. La chiesa ci fa pensare anche a quella santa e così anche all'"Anastasis": a Natale pensiamo anche alla Risurrezione. Non sapevo, e sono grato di esserne stato informato, che adesso la chiesa è sede dell'"Adorazione perpetua"; è quindi un punto focale della vita di fede a Roma. Questa proposta di creare nei cinque Settori della Diocesi di Roma, cinque luoghi di Adorazione perpetua, la pongo fiduciosamente nelle mani del Cardinale Vicario. Vorrei soltanto dire: grazie a Dio, perché dopo il Concilio, dopo un periodo in cui mancava un po' il senso dell'adorazione eucaristica, è rinata la gioia di questa adorazione dappertutto nella Chiesa, come abbiamo visto e sentito nel Sinodo sull'Eucaristia. Certo, con la Costituzione conciliare sulla Liturgia, è stata riscoperta soprattutto tutta la ricchezza dell'Eucaristia celebrata, dove si realizza il testamento del Signore: Egli si dà a noi e noi rispondiamo dandoci a Lui. Ma, adesso, abbiamo riscoperto che questo centro che ci ha donato il Signore nel poter celebrare il suo sacrificio e così entrare in comunione sacramentale, quasi corporale, con Lui perde la sua profondità e anche la sua ricchezza umana se manca l'Adorazione, come atto conseguente alla comunione ricevuta: l'adorazione è un entrare con la profondità del nostro cuore in comunione con il Signore che si fa presente corporalmente nell'Eucaristia. Nell'Ostensorio si dà sempre nelle nostre mani e ci invita ad unirci alla sua Presenza, al suo Corpo risorto.

Adesso, veniamo alla quarta domanda. Se ho capito bene, ma non ne sono sicuro, era: "Come arrivare ad una fede viva, ad una fede realmente cattolica, ad una fede concreta, vivace, efficiente?". La fede, in ultima istanza, è un dono. Quindi la prima condizione è lasciarsi donare qualcosa, non essere autosufficienti, non fare tutto da noi, perché non lo possiamo, ma aprirci nella consapevolezza che il Signore dona realmente. Mi sembra che questo gesto di apertura sia anche il primo gesto della preghiera: essere aperto alla presenza del Signore e al suo dono. È questo anche il primo passo nel ricevere una cosa che noi non facciamo e che non possiamo avere, nell'intento di farla da noi stessi. Questo gesto di apertura, di preghiera - donami la fede, Signore! - deve essere realizzato con tutto il nostro essere. Noi dobbiamo entrare in questa disponibilità di accettare il dono e di lasciarci permeare dal dono nel nostro pensiero, nel nostro affetto, nella nostra volontà. Qui, mi sembra molto importante sottolineare un punto essenziale: nessuno crede solo da se stesso. Noi crediamo sempre in e con la Chiesa. Il credo è sempre un atto condiviso, un lasciarsi inserire in una comunione di cammino, di vita, di parola, di pensiero. Noi non "facciamo" la fede, nel senso che è anzitutto Dio che la dà. Ma, non la "facciamo" anche nel senso che essa non dev'essere inventata da noi. Dobbiamo lasciarci cadere, per così dire, nella comunione della fede, della Chiesa. Credere è un atto cattolico in sé. È partecipazione a questa grande certezza, che è presente nel soggetto vivente della Chiesa. Solo così possiamo anche capire la Sacra Scrittura nella diversità di una lettura che si sviluppa per mille anni. È una Scrittura, perché è elemento, espressione dell'unico soggetto - il Popolo di Dio - che nel suo pellegrinaggio è sempre lo stesso soggetto. Naturalmente, è un soggetto che non parla da sé, ma è un soggetto creato da Dio - l'espressione classica è "ispirato" -, un soggetto che riceve, poi traduce e comunica questa parola. Questa sinergia è molto importante. Sappiamo che il Corano, secondo la fede islamica, è parola verbalmente data da Dio, senza mediazione umana. Il Profeta non c'entra. Egli solo l'ha scritta e comunicata. È pura parola di Dio. Mentre per noi, Dio entra in comunione con noi, ci fa cooperare, crea questo soggetto e in questo soggetto cresce e si sviluppa la sua parola. Questa parte umana è essenziale, e ci dà anche la possibilità di vedere come le singole parole diventano realmente Parola di Dio solo nell'unità di tutta la Scrittura nel soggetto vivente del popolo di Dio. Quindi, il primo elemento è il dono di Dio; il secondo è la compartecipazione nella fede del popolo pellegrinante, la comunicazione nella Santa Chiesa, la quale, da parte sua, riceve il Verbo di Dio, che è il Corpo di Cristo, animato dalla Parola vivente, dal Logos divino. Dobbiamo approfondire, giorno dopo giorno, questa nostra comunione con la Santa Chiesa e così con la Parola di Dio. Non sono due cose opposte, così che io possa dire: sono più per la Chiesa o sono più per la Parola di Dio. Solo unitamente si è nella Chiesa, si fa parte della Chiesa, si diventa membri della Chiesa, si vive della Parola di Dio, che è la forza di vita della Chiesa. E chi vive della Parola di Dio può viverla solo perché è viva e vitale nella Chiesa vivente.

Il quinto intervento era su Pio XII. Grazie per questo intervento. Era il Papa della mia gioventù. Lo abbiamo venerato tutti. Come è stato detto giustamente, egli ha molto amato il popolo tedesco, lo ha difeso anche nella grande catastrofe dopo la guerra. E devo aggiungere che prima di essere Nunzio a Berlino era Nunzio a Monaco, perché inizialmente a Berlino non aveva ancora la Rappresentanza Pontificia. Era proprio anche vicino a noi. Mi sembra, questa, l'occasione per esprimere gratitudine a tutti i grandi Papi del secolo scorso. Si è aperto il secolo con il santo Pio X, poi Benedetto XV, Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II. Mi sembra che questo sia un dono speciale in un secolo così difficile, con due guerre mondiali, con due ideologie distruttive: fascismo-nazismo e comunismo. Proprio in questo secolo, che si è opposto alla fede della Chiesa, il Signore ci ha dato una catena di grandi Papi, e così un'eredità spirituale che ha confermato, direi, storicamente, la verità del Primato del Successore di Pietro.

Il successivo intervento dedicato alla famiglia, era del parroco di santa Silvia. Qui posso soltanto essere totalmente d'accordo. Anche nelle visite "ad limina" parlo sempre con i Vescovi della famiglia, minacciata, in diversi modi, nel mondo. È minacciata in Africa, perché si trova difficilmente il passaggio dal "mariage coutumier" al "mariage religieux", perché si teme la definitività.

Mentre in Occidente la paura del bambino è motivata dal timore di perdere qualcosa della vita, lì è il contrario: finché non consta che la moglie avrà anche bambini, non si può osare il matrimonio definitivo. Perciò il numero dei matrimoni religiosi rimane relativamente piccolo e molti anche "buoni" cristiani, anche con un'ottima volontà di essere cristiani, non compiono quest'ultimo passo. Il matrimonio è minacciato anche in America Latina, per altri motivi, ed è minacciato fortemente, come sappiamo, in Occidente. Tanto più dobbiamo, noi come Chiesa, aiutare le famiglie che sono la cellula fondamentale di ogni società sana. Solo così nella famiglia può crearsi una comunione delle generazioni, nella quale la memoria del passato vive nel presente e si apre al futuro. Così, realmente, continua e si sviluppa la vita e va avanti. Un vero progresso non è possibile senza questa continuità di vita e, di nuovo, non è possibile senza l'elemento religioso. Senza la fiducia in Dio, senza la fiducia in Cristo che ci dona anche la capacità della fede e della vita, la famiglia non può sopravvivere. Lo vediamo oggi. Solo la fede in Cristo e solo la compartecipazione della fede della Chiesa salva la famiglia e, d'altra parte, solo se viene salvata la famiglia anche la Chiesa può vivere. Io adesso non ho la ricetta di come fare questo. Ma, mi sembra, che dobbiamo sempre tenerlo presente. Perciò dobbiamo fare tutto ciò che favorisce la famiglia: circoli familiari, catechesi familiari, insegnare la preghiera in famiglia. Questo mi sembra molto importante: dove si prega insieme, si rende presente il Signore, si rende presente questa forza che può anche rompere la "sclerocardia", quella durezza del cuore che, secondo il Signore, è il vero motivo del divorzio. Nient'altro, solo la presenza del Signore ci aiuta a vivere realmente quanto era dall'inizio voluto dal Creatore e rinnovato dal Redentore. Insegnare la preghiera familiare e così invitare alla preghiera con la Chiesa. E trovare poi tutti gli altri modi.

Rispondo ora al vice Parroco di san Girolamo - vedo che è anche molto giovane - che ci parla di quanto fanno le donne nella Chiesa, anche proprio per i sacerdoti. Posso solo sottolineare che mi fa sempre grande impressione, nel primo Canone, quello Romano, la speciale preghiera per i sacerdoti: "Nobis quoque peccatoribus". Ecco, in questa umiltà realistica dei sacerdoti noi, proprio come peccatori, preghiamo il Signore perché ci aiuti ad essere suoi servi. In questa preghiera per il sacerdote, proprio solo in questa, appaiono sette donne che circondano il sacerdote. Esse si mostrano proprio come le donne credenti che ci aiutano nel nostro cammino. Ognuno ha certamente questa esperienza. E così la Chiesa ha un grande debito di ringraziamento per le donne. E giustamente Lei ha sottolineato che, a livello carismatico, le donne fanno tanto, oserei dire, per il governo della Chiesa, cominciando dalle suore, dalle sorelle dei grandi Padri della Chiesa, come sant'Ambrogio, fino alle grandi donne del medioevo - santa Ildegarda, santa Caterina da Siena, poi santa Teresa d'Avila - e fino a Madre Teresa. Direi che questo settore carismatico certamente si distingue dal settore ministeriale nel senso stretto della parola, ma è una vera e profonda partecipazione al governo della Chiesa. Come si potrebbe immaginare il governo della Chiesa senza questo contributo, che talvolta diventa molto visibile, come quando santa Ildegarda critica i Vescovi, o come quando santa Brigida e santa Caterina da Siena ammoniscono e ottengono il ritorno dei Papi a Roma? Sempre è un fattore determinante, senza il quale la Chiesa non può vivere. Tuttavia, giustamente Lei dice: vogliamo vedere anche più visibilmente in modo ministeriale le donne nel governo della Chiesa. Diciamo che la questione è questa. Il ministero sacerdotale dal Signore è, come sappiamo, riservato agli uomini, in quanto il ministero sacerdotale è governo nel senso profondo che, in definitiva, è il Sacramento che governa la Chiesa. Questo è il punto decisivo. Non è l'uomo che fa qualcosa, ma il sacerdote fedele alla sua missione governa, nel senso che è il Sacramento, cioè mediante il Sacramento è Cristo stesso che governa, sia tramite l'Eucaristia che negli altri Sacramenti, e così sempre Cristo presiede. Tuttavia, è giusto chiedersi se anche nel servizio ministeriale - nonostante il fatto che qui Sacramento e carisma siano il binario unico nel quale si realizza la Chiesa - non si possa offrire più spazio, più posizioni di responsabilità alle donne.

Non ho del tutto capito le parole dell'ottavo intervento. Sostanzialmente ho capito che oggi l'umanità camminando da Gerusalemme a Gerico incontra sul cammino i ladri. Il Buon Samaritano l'aiuta con la misericordia del Signore. Possiamo solo sottolineare che, alla fine, è l'uomo che è caduto e cade sempre di nuovo tra i ladri, ed è Cristo che ci guarisce. Noi dobbiamo e possiamo aiutarlo, sia nel servizio dell'amore sia nel servizio della fede che è anche un ministero di amore.

Poi i Martiri dell'Uganda. Grazie per questo contributo. Ci fa pensare al Continente africano, che è la grande speranza della Chiesa. Ho ricevuto negli ultimi mesi gran parte dei Vescovi africani in visita "ad limina". E per me è stato molto edificante, ed anche consolante, vedere Vescovi di alto livello teologico e culturale, Vescovi zelanti, che realmente sono animati dalla gioia della fede. Sappiamo che è in buone mani questa Chiesa, ma che tuttavia soffre perché le Nazioni ancora non si sono formate. In Europa era proprio tramite il Cristianesimo che, oltre le etnie che esistevano, si sono formati i grandi corpi delle Nazioni, le grandi lingue, e così comunioni di culture e spazi di pace, benché poi questi grandi spazi di pace opposti tra di loro abbiano creato anche una nuova specie di guerra che prima non esisteva. Tuttavia, in Africa, abbiamo ancora in molte parti questa situazione, dove ci sono soprattutto le etnie dominanti. Il potere coloniale poi ha imposto frontiere nelle quali adesso devono formarsi Nazioni. Ma ancora c'è questa difficoltà di ritrovarsi in un grande insieme e di trovare, oltre le etnie, l'unità del governo democratico e anche la possibilità di opporsi agli abusi coloniali che continuano. Ancora, sempre da parte delle grandi potenze, l'Africa continua ad essere oggetto di abuso e molti conflitti non avrebbero assunto questa forma se non ci fossero dietro gli interessi delle grandi potenze. Così ho visto anche come la Chiesa, in tutta questa confusione, con la sua unità cattolica, è il grande fattore che unisce nella dispersione. In molte situazioni, adesso soprattutto dopo la grande guerra nella Repubblica Democratica del Congo, la Chiesa è rimasta l'unica realtà che funziona e che fa continuare la vita, dà l'assistenza necessaria, garantisce la convivenza e aiuta a trovare la possibilità di realizzare un grande insieme. In tal senso, in queste situazioni, la Chiesa svolge anche un servizio sostitutivo del livello politico, dando la possibilità di vivere insieme, e di ricostruire, dopo le distruzioni, la comunione, così come di ricostruire, dopo lo scoppio dell'odio, lo spirito di riconciliazione. Molti mi hanno detto che proprio in queste situazioni il Sacramento della Penitenza è di grande importanza come forza di riconciliazione e deve essere anche amministrato in questo senso. Volevo, con una parola, dire che l'Africa è un Continente di grande speranza, di grande fede, di realtà ecclesiali commoventi, di sacerdoti e di Vescovi zelanti. Ma è sempre anche un Continente che ha bisogno - dopo le distruzioni che vi abbiamo portato dall'Europa - del nostro fraterno aiuto. Ed esso non può non nascere dalla fede, che crea anche la carità universale oltre le divisioni umane. Questa è la nostra grande responsabilità in questo tempo. L'Europa ha importato le sue ideologie, i suoi interessi, ma ha anche importato con la missione il fattore della guarigione. Ancor più, oggi, abbiamo la responsabilità di avere anche noi una fede zelante, che si comunica, che vuole aiutare gli altri, che è ben consapevole che dare la fede non è introdurre una forza di alienazione ma è dare il vero dono del quale ha bisogno l'uomo proprio per essere anche creatura dell'amore.

Ultimo punto era quello toccato dal vice Parroco carmelitano di santa Teresa d'Avila, che ci ha rivelato giustamente le sue preoccupazioni. Sarebbe certamente sbagliato un semplice e superficiale ottimismo, che non si accorge delle grandi minacce nei confronti della gioventù di oggi, i bambini, le famiglie. Dobbiamo percepire con grande realismo queste minacce, che nascono dove Dio è assente. Dobbiamo sentire sempre più la nostra responsabilità, affinché Dio sia presente, e così la speranza e la capacità di andare con fiducia verso il futuro.

* * *

Dopo gli interventi di cinque presbiteri, il Santo Padre ha aggiunto:

Riprendo ora la parola, cominciando con la Pontificia Accademia. Quanto Lei ha detto sul problema degli adolescenti, sulla loro solitudine e sull'incomprensione da parte degli adulti, lo tocchiamo con mano, oggi. È interessante che questa gioventù, che cerca nelle discoteche di essere vicinissima, soffra in realtà di una grande solitudine, e naturalmente anche di incomprensione. Mi sembra questo, in un certo senso, espressione del fatto che i padri, come è stato detto, in gran parte sono assenti dalla formazione della famiglia. Ma anche le madri devono lavorare fuori casa. La comunione tra loro è molto fragile. Ognuno vive il suo mondo: sono isole del pensiero, del sentimento, che non si uniscono. Il grande problema proprio di questo tempo - nel quale ognuno, volendo avere la vita per sé, la perde perché si isola e isola l'altro da sé - è di ritrovare la profonda comunione che alla fine può venire soltanto da un fondo comune a tutte le anime, dalla presenza divina che ci unisce tutti. Mi sembra che la condizione sia di superare la solitudine e anche di superare l'incomprensione, perché anche quest'ultima è il risultato del fatto che il pensiero oggi è frammentato. Ognuno cerca il suo modo di pensare, di vivere, e non c'è una comunicazione in una profonda visione della vita. La gioventù si sente esposta a nuovi orizzonti non partecipati dalla generazione precedente perché manca la continuità della visione del mondo, preso in una sequela sempre più rapida di nuove invenzioni. In dieci anni si sono realizzati cambiamenti che in passato neppure in cento anni si erano verificati. Così si separano realmente mondi. Penso alla mia gioventù e all'ingenuità, se così posso dire, nella quale abbiamo vissuto, in una società del tutto agraria in confronto con la società di oggi. Vediamo come il mondo cambia sempre più rapidamente, cosicché si frammenta anche con questi cambiamenti. Perciò, in un momento di rinnovamento e di cambiamento, l'elemento del permanente diventa più importante. Mi ricordo quando è stata discussa la Costituzione conciliare "Gaudium et spes". Da una parte, c'era il riconoscimento del nuovo, della novità, il "Sì" della Chiesa all'epoca nuova con le sue innovazioni, il "No" al romanticismo del passato, un "No" giusto e necessario. Ma poi i Padri - se ne trova la prova anche nel testo - hanno detto anche che nonostante questo, nonostante la necessaria disponibilità ad andare avanti, a lasciar cadere anche altre cose che ci erano care, c'è qualcosa che non cambia, perché è l'umano stesso, la creaturalità. L'uomo non è del tutto storico. L'assolutizzazione dello storicismo, nel senso che l'uomo sarebbe solo e sempre creatura frutto di un certo periodo, non è vera. C'è la creaturalità e proprio essa ci dà la possibilità anche di vivere nel cambiamento e di rimanere identici a noi stessi. Questa non è una risposta immediata a quello che dobbiamo fare, ma, mi sembra, che il primo passo sia quello di avere la diagnosi. Perché questa solitudine in una società che d'altra parte appare come una società di massa? Perché questa incomprensione in una società nella quale tutti cercano di capirsi, dove la comunicazione è tutto e dove la trasparenza di tutto a tutti è la suprema legge? La risposta sta nel fatto che vediamo il cambiamento nel nostro proprio mondo e non viviamo sufficientemente quell'elemento che ci collega tutti, l'elemento creaturale, che diventa accessibile e diventa realtà in una certa storia: la storia di Cristo, che non sta contro la creaturalità ma restituisce quanto era voluto dal Creatore, come dice il Signore circa il matrimonio. Il cristianesimo, proprio sottolineando la storia e la religione come un dato storico, dato in una storia, a cominciare da Abramo, e quindi come una fede storica, avendo aperto proprio la porta alla modernità con il suo senso del progresso, dell'andare permanentemente avanti, è anche, nello stesso momento, una fede che si basa sul Creatore, che si rivela e si rende presente in una storia alla quale dà la sua continuità, quindi la comunicabilità tra le anime. Penso quindi, anche qui, che una fede vissuta in profondità e con tutta l'apertura verso l'oggi, ma anche con tutta l'apertura verso Dio, unisce le due cose: il rispetto della alterità e della novità, e la continuità del nostro essere, la comunicabilità tra le persone e tra i tempi.

L'altro punto era: come possiamo noi vivere la vita come dono? È una questione che poniamo soprattutto adesso, in Quaresima. Vogliamo rinnovare l'opzione per la vita che è, come ho detto, opzione non per possedere se stessi ma per donare se stessi. Mi sembra che possiamo farlo solo grazie ad un permanente colloquio col Signore e al colloquio tra di noi. Anche con la "correctio fraterna" è necessario maturare sempre più di fronte ad una sempre insufficiente capacità di vivere il dono di se stessi. Ma, mi sembra, che dobbiamo anche qui unire le due cose. Da una parte, dobbiamo accettare la nostra insufficienza con umiltà, accettare questo "Io" che non è mai perfetto ma si protende sempre verso il Signore per arrivare alla comunione col Signore e con tutti.

Questa umiltà di accettare anche i propri limiti è molto importante. Solo così, d'altra parte, possiamo anche crescere, maturare e pregare il Signore perché ci aiuti a non stancarci nel cammino, pur accettando con umiltà che mai saremo perfetti, accettando anche l'imperfezione, soprattutto dell'altro. Accettando la propria possiamo accettare più facilmente quella dell'altro, lasciandoci formare e riformare sempre di nuovo, dal Signore.

Ora gli ospedali. Grazie per il saluto che viene dagli ospedali. Non conoscevo la mentalità secondo la quale un sacerdote si trova a svolgere il suo ministero in ospedale perché ha compiuto qualcosa di male... Ho sempre pensato che è servizio primario del sacerdote quello di servire i malati, i sofferenti, perché il Signore è venuto soprattutto per stare con i malati. È venuto per condividere le nostre sofferenze e per guarirci. In occasione delle visite "ad limina" ai Vescovi africani dico sempre che le due colonne del nostro lavoro sono l'educazione - cioè la formazione dell'uomo, che implica tante dimensioni come l'educazione per imparare, la professionalità, l'educazione nell'intimità della persona - e la guarigione. Il servizio fondamentale, essenziale della Chiesa è dunque quello di guarire. E proprio nei Paesi africani si realizza tutto questo: la Chiesa offre la guarigione. Presenta le persone che aiutano i malati, aiutano a guarire nel corpo e nell'anima. Mi sembra, quindi, che dobbiamo vedere proprio nel Signore il nostro modello di sacerdote per guarire, per aiutare, per assistere, per accompagnare verso la guarigione. Ciò è fondamentale per l'impegno della Chiesa; è forma fondamentale dell'amore e quindi, è espressione fondamentale della fede. Di conseguenza anche nel sacerdozio è il punto centrale.

Poi, rispondo al Vice parroco dei santi Patroni d'Italia che ci ha parlato del dialogo con gli Ortodossi e del dialogo ecumenico in generale. Nella situazione mondiale di oggi, vediamo come il dialogo a tutti i livelli sia fondamentale. Ancor di più è importante che i cristiani non siano chiusi tra di loro ma aperti, e proprio nei rapporti con gli Ortodossi vedo come le relazioni personali siano fondamentali. In dottrina siamo in gran parte uniti su tutte le cose fondamentali, tuttavia in dottrina sembra molto difficile fare dei progressi. Ma avvicinarci nella comunione, nella comune esperienza della vita della fede, è il modo per riconoscerci reciprocamente come figli di Dio e discepoli di Cristo. E questa è la mia esperienza da almeno quaranta, cinquant'anni quasi: questa esperienza del comune discepolato, che finalmente viviamo nella stessa fede, nella stessa successione apostolica, con gli stessi sacramenti e quindi anche con la grande tradizione di pregare; è bella questa diversità e molteplicità delle culture religiose, delle culture di fede. Avere questa esperienza è fondamentale e mi sembra, forse, che la convinzione di alcuni, di una parte dei monaci dell'Athos contro l'ecumenismo, risulti anche dal fatto che manchi questa esperienza nella quale si vede e si tocca che anche l'altro appartiene allo stesso Cristo, appartiene alla stessa comunione con Cristo nell'Eucaristia. Quindi questo è di grande importanza: dobbiamo sopportare la separazione che esiste. San Paolo dice che gli scismi sono necessari per un certo tempo e il Signore sa perché: per provarci, per esercitarci, per farci maturare, per farci più umili. Ma nello stesso tempo siamo obbligati ad andare verso l'unità e già andare verso l'unità è una forma di unità.

Veniamo ora al Padre spirituale del Seminario. Il primo problema era la difficoltà della carità pastorale. La viviamo da una parte, ma dall'altra parte vorrei anche dire: coraggio. La Chiesa fa tanto grazie a Dio, in Africa ma anche a Roma e in Europa! Fa tanto e tanti le sono grati, sia nel settore della pastorale degli ammalati, sia nella pastorale dei poveri e degli abbandonati. Continuiamo con coraggio e cerchiamo di trovare insieme le strade migliori.

L'altro punto era incentrato sul fatto che la formazione sacerdotale tra generazioni, anche vicine, sembra essere per molti un po' diversa, e questo complica il comune impegno per la trasmissione della fede. Ho notato questo quando ero Arcivescovo di Monaco. Quando noi siamo entrati in seminario, abbiamo avuto tutti una comune spiritualità cattolica, più o meno matura. Diciamo che il fondamento spirituale era comune. Adesso vengono da esperienze spirituali molto diverse. Ho constatato nel mio seminario che vivevano in diverse "isole" di spiritualità che comunicavano difficilmente. Tanto più ringraziamo il Signore perché ha dato tanti nuovi impulsi alla Chiesa e tante nuove forme anche di vita spirituale, di scoperta della ricchezza della fede. Bisogna soprattutto non trascurare la comune spiritualità cattolica, che si esprime nella Liturgia e nella grande Tradizione della fede. Questo mi sembra molto importante. Questo punto è importante anche riguardo al Concilio. Non bisogna vivere - come ho detto prima di Natale alla Curia Romana - l'ermeneutica della discontinuità, ma vivere l'ermeneutica del rinnovamento, che è spiritualità della continuità, dell'andare avanti in continuità. Questo mi sembra molto importante anche riguardo alla Liturgia. Prendo un esempio concreto che mi è venuto proprio oggi con la breve meditazione di questo giorno. La "Statio" di questo giorno, giovedì dopo il Mercoledì delle Ceneri, è san Giorgio. Corrispondenti a questo santo soldato, una volta vi erano due letture su due santi soldati. La prima parla del re Ezechia, che, malato, è condannato a morte e prega il Signore piangendo: dammi ancora un po' di vita! E il Signore è buono e gli concede ancora 17 anni di vita. Quindi una bella guarigione e un soldato che può riprendere di nuovo in mano la sua attività. La seconda è il Vangelo che narra dell'ufficiale di Cafarnao con il suo servo malato. Abbiamo così due motivi: quello della guarigione e quello della "milizia" di Cristo, della grande lotta. Adesso, nella Liturgia attuale, abbiamo due letture totalmente diverse. Abbiamo quella del Deuteronomio: "Scegli la vita", e il Vangelo: "Seguire Cristo e prendere la croce su di sé", che vuol dire non cercare la propria vita ma donare la vita, ed è una interpretazione di cosa vuol dire "scegli la vita". Devo dire che io ho sempre molto amato la Liturgia. Ero proprio innamorato del cammino quaresimale della Chiesa, con queste "chiese stazionali" e le letture collegate a queste chiese: una geografia di fede che diventa una geografia spirituale del pellegrinaggio col Signore. Ed ero rimasto un po' male per il fatto che ci avessero tolto questo nesso tra la "stazione" e le letture. Oggi vedo che proprio queste letture sono molto belle ed esprimono il programma della Quaresima: scegliere la vita, cioè rinnovare il "Sì" del Battesimo, che è proprio scelta della vita. In questo senso, c'è un'intima continuità e mi sembra che dobbiamo impararlo da questo che è solo un piccolissimo esempio tra discontinuità e continuità. Dobbiamo accettare le novità ma anche amare la continuità e vedere il Concilio in questa ottica della continuità. Questo ci aiuterà anche nel mediare tra le generazioni nel loro modo di comunicare la fede.

Infine, il sacerdote del Vicariato di Roma, ha concluso con una parola della quale mi approprio perfettamente così che con essa possiamo anche concludere: divenire più semplici. Mi sembra questo un programma bellissimo. Cerchiamo di metterlo in pratica e così saremo più aperti al Signore e alla gente.

Grazie!

© Copyright 2006 - Libreria Editrice Vaticana
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
16/09/2009 19:10

INCONTRO DEL SANTO PADRE CON I GIOVANI DELLA DIOCESI DI ROMA IN PREPARAZIONE ALLA XXI GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ, 06.04.2006

Pubblichiamo di seguito il testo del dialogo tra il Santo Padre Benedetto XVI ed i giovani presenti in Piazza San Pietro nel pomeriggio di ieri, nel corso dell’incontro in preparazione alla XXI Giornata Mondiale della Gioventù:

1) Santità, sono Simone, della Parrocchia di San Bartolomeo, ho 21 anni e studio ingegneria chimica all'Università «La Sapienza» di Roma.

Innanzitutto ancora grazie per averci indirizzato il Messaggio per la XXI Giornata Mondiale della Gioventù sul tema della Parola di Dio che illumina i passi della vita dell'uomo. Davanti alle ansie, alle incertezze per il futuro, e anche quando mi trovo semplicemente alle prese con la routine del quotidiano, anch'io sento il bisogno di nutrirmi della Parola di Dio e di conoscere meglio Cristo, così da trovare risposte alle mie domande. Mi chiedo spesso cosa farebbe Gesù se fosse al posto mio in una determinata situazione, ma non sempre riesco a capire ciò che la Bibbia mi dice. Inoltre so che i libri della Bibbia sono stati scritti da uomini diversi, in epoche diverse e tutte molto lontane da me. Come posso riconoscere che quanto leggo è comunque Parola di Dio che interpella la mia vita? Grazie.

Rispondo sottolineando intanto un primo punto: si deve innanzitutto dire che occorre leggere la Sacra Scrittura non come un qualunque libro storico, come leggiamo, ad esempio, Omero, Ovidio, Orazio; occorre leggerla realmente come Parola di Dio, ponendosi cioè in colloquio con Dio. Si deve inizialmente pregare, parlare con il Signore: "Aprimi la porta". E’ quanto dice spesso sant’Agostino nelle sue omelie: "Ho bussato alla porta della Parola per trovare finalmente quanto il Signore mi vuol dire". Questo mi sembra un punto molto importante. Non in un clima accademico si legge la Scrittura, ma pregando e dicendo al Signore: "Aiutami a capire la tua Parola, quanto in questa pagina ora tu vuoi dire a me".

Un secondo punto è: la Sacra Scrittura introduce alla comunione con la famiglia di Dio. Quindi non si può leggere da soli la Sacra Scrittura. Certo, è sempre importante leggere la Bibbia in modo molto personale, in un colloquio personale con Dio, ma nello stesso tempo è importante leggerla in una compagnia di persone con cui si cammina. Lasciarsi aiutare dai grandi maestri della "Lectio divina". Abbiamo, per esempio, tanti bei libri del Cardinale Martini, un vero maestro della "Lectio divina", che aiuta ad entrare nel vivo della Sacra Scrittura. Lui che conosce bene tutte le circostanze storiche, tutti gli elementi caratteristici del passato, cerca però sempre di aprire anche la porta per far vedere che parole apparentemente del passato sono anche parole del presente. Questi maestri ci aiutano a capire meglio ed anche ad imparare il modo in cui leggere bene la Sacra Scrittura. Generalmente, poi, è opportuno leggerla anche in compagnia con gli amici che sono in cammino con me e cercano, insieme con me, come vivere con Cristo, quale vita ci viene dalla Parola di Dio.

Un terzo punto: se è importante leggere la Sacra Scrittura aiutati dai maestri, accompagnati dagli amici, i compagni di strada, è importante in particolare leggerla nella grande compagnia del Popolo di Dio pellegrinante, cioè nella Chiesa. La Sacra Scrittura ha due soggetti. Anzitutto il soggetto divino: è Dio che parla. Ma Dio ha voluto coinvolgere l’uomo nella sua Parola. Mentre i musulmani sono convinti che il Corano sia ispirato verbalmente da Dio, noi crediamo che per la Sacra Scrittura è caratteristica - come dicono i teologi – la "sinergia", la collaborazione di Dio con l’uomo. Egli coinvolge il suo Popolo con la sua parola e così il secondo soggetto – il primo soggetto, come ho detto, è Dio – è umano. Vi sono singoli scrittori, ma c’è la continuità di un soggetto permanente - il Popolo di Dio che cammina con la Parola di Dio ed è in colloquio con Dio. Ascoltando Dio, si impara ad ascoltare la Parola di Dio e poi anche ad interpretarla. E così la Parola di Dio diventa presente, perché le singole persone muoiono, ma il soggetto vitale, il Popolo di Dio, è sempre vivo, ed è identico nel corso dei millenni: è sempre lo stesso soggetto vivente, nel quale vive la Parola.

Così si spiegano anche molte strutture della Sacra Scrittura, soprattutto la cosiddetta "rilettura". Un testo antico viene riletto in un altro libro, diciamo cento anni dopo, e allora viene capito in profondità quanto non era ancora percepibile in quel precedente momento, anche se era già contenuto nel testo precedente. E viene riletto ancora nuovamente tempo dopo, e di nuovo si capiscono altri aspetti, altre dimensioni della Parola, e così in questa permanente rilettura e riscrittura nel contesto di una continuità profonda, mentre si succedevano i tempi dell’attesa, è cresciuta la Sacra Scrittura. Infine, con la venuta di Cristo e con l’esperienza degli Apostoli la Parola si è resa definitiva, così che non vi possono più essere riscritture, ma continuano ad essere necessari nuovi approfondimenti della nostra comprensione. Il Signore ha detto: "Lo Spirito Santo vi introdurrà in una profondità che adesso non potete portare".

Quindi la comunione della Chiesa è il soggetto vivente della Scrittura. Ma anche adesso il soggetto principale è lo stesso Signore, il quale continua a parlare nella Scrittura che è nelle nostre mani. Penso che dobbiamo imparare questi tre elementi: leggere in colloquio personale con il Signore; leggere accompagnati da maestri che hanno l’esperienza della fede, che sono entrati nella Sacra Scrittura; leggere nella grande compagnia della Chiesa, nella cui Liturgia questi avvenimenti diventano sempre di nuovo presenti, nella quale il Signore parla adesso con noi, così che man mano entriamo sempre più nella Sacra Scrittura, nella quale Dio parla realmente con noi, oggi.

2) Santo Padre, sono Anna, ho 19 anni, studio Lettere e appartengo alla Parrocchia di Santa Maria del Carmelo.
Uno dei problemi con i quali abbiamo maggiormente a che fare è quello affettivo. Spesso facciamo fatica ad amare. Fatica, sì: perché è facile confondere l'amore con l'egoismo, soprattutto oggi, dove gran parte dei media quasi ci impongono una visione della sessualità individualista, secolarizzata, dove tutto sembra lecito, e tutto è concesso in nome della libertà e della coscienza dei singoli. La famiglia fondata sul matrimonio sembra ormai poco più di un'invenzione della Chiesa, per non parlare, poi, dei rapporti prematrimoniali, il cui divieto appare, perfino a molti di noi credenti, cosa incomprensibile o fuori dal tempo... Ben sapendo che tanti di noi cercano di vivere responsabilmente la loro vita affettiva, vuole illustrarci cosa ha da dirci in proposito la Parola di Dio? Grazie.

Si tratta di una grande questione e rispondere in pochi minuti certamente non è possibile, ma cerco di dire qualcosa. La stessa Anna ha già dato delle risposte in quanto ha detto che l’amore oggi è spesso male interpretato, in quanto è presentato come un’esperienza egoistica, mentre in realtà è un abbandono di sé e così diventa un trovarsi. Lei ha anche detto che una cultura consumistica falsifica la nostra vita con un relativismo che sembra concederci tutto e in realtà ci svuota. Ma allora ascoltiamo la Parola di Dio a questo riguardo. Anna voleva giustamente sapere che cosa dice la Parola di Dio. Per me è una cosa molto bella costatare che già nelle prime pagine della Sacra Scrittura, subito dopo il racconto della Creazione dell’uomo, troviamo la definizione dell’amore e del matrimonio. L’autore sacro ci dice: "L’uomo abbandonerà padre e madre, seguirà la sua donna e ambedue saranno una carne sola, un’unica esistenza". Siamo all’inizio e già ci è data una profezia di che cos’è il matrimonio; e questa definizione anche nel Nuovo Testamento rimane identica. Il matrimonio è questo seguire l’altro nell’amore e così divenire un’unica esistenza, una sola carne, e perciò inseparabili; una nuova esistenza che nasce da questa comunione d’amore, che unisce e così anche crea futuro. I teologi medievali, interpretando questa affermazione che si trova all’inizio della Sacra Scrittura, hanno detto che tra i sette Sacramenti, il matrimonio è il primo istituito da Dio, essendo stato istituito già al momento della creazione, nel Paradiso, all’inizio della storia, e prima di ogni storia umana. E’ un sacramento del Creatore dell’universo, iscritto quindi proprio nell’essere umano stesso, che è orientato verso questo cammino, nel quale l’uomo abbandona i genitori e si unisce alla sua donna per formare una sola carne, perché i due diventino un’unica esistenza. Quindi il sacramento del matrimonio non è invenzione della Chiesa, è realmente "con-creato" con l’uomo come tale, come frutto del dinamismo dell’amore, nel quale l’uomo e la donna si trovano a vicenda e così trovano anche il Creatore che li ha chiamati all’amore. E’ vero che l’uomo è caduto ed è stato espulso dal Paradiso, o con altre parole, parole più moderne, è vero che tutte le culture sono inquinate dal peccato, dagli errori dell’uomo nella sua storia e così il disegno iniziale iscritto nella nostra natura risulta oscurato. Di fatto, nelle culture umane troviamo questo oscuramento del disegno originale di Dio. Nello stesso tempo, però, osservando le culture, tutta la storia culturale dell’umanità, costatiamo anche che l’uomo non ha mai potuto totalmente dimenticare questo disegno che esiste nella profondità del suo essere. Ha sempre saputo in un certo senso che le altre forme di rapporto tra l’uomo e la donna non corrispondevano realmente al disegno originale sul suo essere. E così nelle culture, soprattutto nelle grandi culture, vediamo sempre di nuovo come esse si orientino verso questa realtà, la monogamia, l’essere uomo e donna una carne sola. E’ così, nella fedeltà, che può crescere una nuova generazione, può continuarsi una tradizione culturale, rinnovandosi e realizzando, nella continuità, un autentico progresso.

Il Signore, che ha parlato di questo nella lingua dei profeti d’Israele, accennando alla concessione da parte di Mosè del divorzio, ha detto: Mosé ve lo ha concesso "per la durezza del vostro cuore". Il cuore dopo il peccato è divenuto "duro", ma questo non era il disegno del Creatore e i Profeti con chiarezza crescente hanno insistito su questo disegno originario. Per rinnovare l’uomo, il Signore - alludendo a queste voci profetiche che hanno sempre guidato Israele verso la chiarezza della monogamia – ha riconosciuto con Ezechiele che abbiamo bisogno, per vivere questa vocazione, di un cuore nuovo; invece del cuore di pietra – come dice Ezechiele – abbiamo bisogno di un cuore di carne, di un cuore veramente umano. E il Signore nel Battesimo, mediante la fede "impianta" in noi questo cuore nuovo. Non è un trapianto fisico, ma forse possiamo servirci proprio di questo paragone: dopo il trapianto, è necessario che l’organismo sia curato, che abbia le medicine necessarie per poter vivere con il nuovo cuore, così che diventi "cuore suo" e non "cuore di un altro". Tanto più in questo "trapianto spirituale", dove il Signore ci impianta un cuore nuovo, un cuore aperto al Creatore, alla vocazione di Dio, per poter vivere con questo cuore nuovo, sono necessarie cure adeguate, bisogna ricorrere alle medicine opportune, perché esso diventi veramente "cuore nostro". Vivendo così nella comunione con Cristo, con la sua Chiesa, il nuovo cuore diventa realmente "cuore nostro" e si rende possibile il matrimonio. L’amore esclusivo tra un uomo e una donna, la vita a due disegnata dal Creatore diventa possibile, anche se il clima del nostro mondo la rende tanto difficile, fino a farla apparire impossibile.

Il Signore ci dà un cuore nuovo e noi dobbiamo vivere con questo cuore nuovo, usando le opportune terapie perché sia realmente "nostro". E’ così che viviamo quanto il Creatore ci ha donato e questo crea una vita veramente felice. Di fatto, possiamo vederlo anche in questo mondo, nonostante tanti altri modelli di vita: ci sono tante famiglie cristiane che vivono con fedeltà e con gioia la vita e l’amore indicati dal Creatore e così cresce una nuova umanità.

E infine aggiungerei: sappiamo tutti che per arrivare ad un traguardo nello sport e nella professione ci vogliono disciplina e rinunce, ma poi tutto questo è coronato dal successo, dall’aver raggiunto una meta auspicabile. Così anche la vita stessa, cioè il divenire uomini secondo il disegno di Gesù, esige rinunce; esse però non sono una cosa negativa, al contrario aiutano a vivere da uomini con un cuore nuovo, a vivere una vita veramente umana e felice. Poiché esiste una cultura consumistica che vuole impedirci di vivere secondo il disegno del Creatore, noi dobbiamo avere il coraggio di creare isole, oasi, e poi grandi terreni di cultura cattolica, nei quali si vive il disegno del Creatore.

3) Beatissimo Padre, sono Inelida, ho 17 anni, sono Aiuto Capo Scout dei Lupetti nella Parrocchia di San Gregorio Barbarigo e studio al Liceo Artistico «Mario Mafai».

Nel suo Messaggio per la XXI Giornata Mondiale della Gioventù Lei ci ha detto che «è urgente che sorga una nuova generazione di apostoli radicati nella parola di Cristo». Sono parole così forti e impegnative che mettono quasi paura. Certo anche noi vorremmo essere dei nuovi apostoli, ma vuole spiegarci più dettagliatamente quali sono, secondo Lei, le maggiori sfide da affrontare nel nostro tempo, e come sogna che siano questi nuovi apostoli? In altre parole: cosa si aspetta da noi, Santità?

Tutti ci chiediamo che cosa si aspetta il Signore da noi. Mi sembra che la grande sfida del nostro tempo – così mi dicono anche i Vescovi in visita "ad limina", quelli dell’Africa ad esempio – sia il secolarismo: cioè un modo di vivere e di presentare il mondo come "si Deus non daretur", cioè come se Dio non esistesse. Si vuole ridurre Dio al privato, ad un sentimento, come se Lui non fosse una realtà oggettiva e così ognuno si forma il suo progetto di vita. Ma, questa visione che si presenta come se fosse scientifica, accetta come valido solo quanto è verificabile con l’esperimento. Con un Dio che non si presta all’esperimento immediato, questa visione finisce per lacerare anche la società: ne consegue infatti che ognuno si forma il suo progetto e alla fine ognuno si trova contro l’altro. Una situazione, come si vede, decisamente invivibile. Dobbiamo rendere nuovamente presente Dio nelle nostre società. Mi sembra questa la prima necessità: che Dio sia di nuovo presente nella nostra vita, che non viviamo come se fossimo autonomi, autorizzati ad inventare cosa siano la libertà e la vita. Dobbiamo prendere atto di essere creature, costatare che c’è un Dio che ci ha creati e che stare nella sua volontà non è dipendenza ma un dono d’amore che ci fa vivere.

Quindi, il primo punto è conoscere Dio, conoscerlo sempre di più, riconoscere nella mia vita che Dio c’è, e che Dio c’entra. Il secondo punto - se riconosciamo che Dio c’è, che la nostra libertà è una libertà condivisa con gli altri e che deve esserci quindi un parametro comune per costruire una realtà comune – il secondo punto, dicevo, presenta la questione: quale Dio? Ci sono infatti tante immagini false di Dio, un Dio violento, ecc. La seconda questione quindi è: riconoscere il Dio che ci ha mostrato il suo volto in Gesù, che ha sofferto per noi, che ci ha amati fino alla morte e così ha vinto la violenza. Occorre rendere presente, innanzitutto nella nostra "propria" vita, il Dio vivente, il Dio che non è uno sconosciuto, un Dio inventato, un Dio solo pensato, ma un Dio che si è mostrato, ha mostrato sé stesso e il suo volto. Solo così, la nostra vita diventa vera, autenticamente umana e così anche i criteri del vero umanesimo diventano presenti nella società. Anche qui vale, come avevo detto nella prima risposta, che non possiamo essere soli nel costruire questa vita giusta e retta, ma dobbiamo camminare in compagnia di amici giusti e retti, di compagni con i quali possiamo fare l’esperienza che Dio esiste e che è bello camminare con Dio. E camminare nella grande compagnia della Chiesa, che ci presenta nei secoli la presenza del Dio che parla, che agisce, che s’accompagna a noi. Quindi direi: trovare Dio, trovare il Dio rivelatosi in Gesù Cristo, camminare in compagnia con la sua grande famiglia, con i nostri fratelli e sorelle che sono la famiglia di Dio, questo mi sembra il contenuto essenziale di questo apostolato del quale ho parlato.

4) Santità, mi chiamo Vittorio, sono della Parrocchia di San Giovanni Bosco a Cinecittà, ho 20 anni e studio Scienze dell'Educazione all'Università di Tor Vergata.
Sempre nel Suo Messaggio Lei ci invita a non avere paura di rispondere con generosità al Signore, specialmente quando propone di seguirlo nella vita consacrata o nella vita sacerdotale. Ci dice di non avere paura, di fidarci di Lui e che non resteremo delusi. Molti tra noi, anche qui o tra chi ci segue da casa questa sera tramite la televisione, sono convinto che stiano pensando a seguire Gesù per una via di speciale consacrazione, ma non è sempre facile capire se quella sarà la via giusta. Ci vuol dire come ha fatto Lei a capire quale era la sua vocazione? Può darci dei consigli per capire meglio se il Signore ci chiama a seguirlo nella vita consacrata o sacerdotale? La ringrazio.

Quanto a me, sono cresciuto in un mondo molto diverso da quello attuale, ma infine le situazioni si somigliano. Da una parte, vi era ancora la situazione di "cristianità", in cui era normale andare in chiesa ed accettare la fede come la rivelazione di Dio e cercare di vivere secondo la rivelazione; dall’altra parte, vi era il regime nazista, che affermava a voce alta: "Nella nuova Germania non ci saranno più sacerdoti, non ci sarà più vita consacrata, non abbiamo più bisogno di questa gente; cercatevi un’altra professione". Ma proprio sentendo queste voci "forti", nel confronto con la brutalità di quel sistema dal volto disumano, ho capito che c’era invece molto bisogno di sacerdoti. Questo contrasto, il vedere quella cultura antiumana, mi ha confermato nella convinzione che il Signore, il Vangelo, la fede ci mostravano la strada giusta e noi dovevamo impegnarci perché sopravvivesse questa strada. In questa situazione, la vocazione al sacerdozio è cresciuta quasi naturalmente insieme con me e senza grandi avvenimenti di conversione. Inoltre due cose mi hanno aiutato in questo cammino: già da ragazzo, aiutato dai miei genitori e dal parroco, ho scoperto la bellezza della Liturgia e l’ho sempre più amata, perché sentivo che in essa ci appare la bellezza divina e ci si apre dinanzi il cielo; il secondo elemento è stata la scoperta della bellezza del conoscere, il conoscere Dio, la Sacra Scrittura, grazie alla quale è possibile introdursi in quella grande avventura del dialogo con Dio che è la Teologia. E così è stata una gioia entrare in questo lavoro millenario della Teologia, in questa celebrazione della Liturgia, nella quale Dio è con noi e fa festa insieme con noi.

Naturalmente non sono mancate le difficoltà. Mi domandavo se avevo realmente la capacità di vivere per tutta la vita il celibato. Essendo un uomo di formazione teorica e non pratica, sapevo anche che non basta amare la Teologia per essere un buon sacerdote, ma vi è la necessità di essere disponibile sempre verso i giovani, gli anziani, gli ammalati, i poveri; la necessità di essere semplice con i semplici. La Teologia è bella, ma anche la semplicità della parola e della vita cristiana è necessaria. E così mi domandavo: sarò in grado di vivere tutto questo e di non essere unilaterale, solo un teologo ecc.? Ma il Signore mi ha aiutato e, soprattutto, la compagnia degli amici, di buoni sacerdoti e di maestri, mi ha aiutato.

Tornando alla domanda penso sia importante essere attenti ai gesti del Signore nel nostro cammino. Egli ci parla tramite avvenimenti, tramite persone, tramite incontri: occorre essere attenti a tutto questo. Poi, secondo punto, entrare realmente in amicizia con Gesù, in una relazione personale con Lui e non sapere solo da altri o dai libri chi è Gesù, ma vivere una relazione sempre più approfondita di amicizia personale con Gesù, nella quale possiamo cominciare a capire quanto Egli ci chiede. E poi, l’attenzione a ciò che io sono, alle mie possibilità: da una parte coraggio e dall’altra umiltà e fiducia e apertura, con l’aiuto anche degli amici, dell’autorità della Chiesa ed anche dei sacerdoti, delle famiglie: cosa vuole il Signore da me? Certo, ciò rimane sempre una grande avventura, ma la vita può riuscire solo se abbiamo il coraggio dell’avventura, la fiducia che il Signore non mi lascerà mai solo, che il Signore mi accompagnerà, mi aiuterà.

5) Padre Santo, sono Giovanni, ho 17 anni, studio al Liceo Scientifico Tecnologico «Giovanni Giorgi» di Roma e appartengo alla Parrocchia di Santa Maria Madre della Misericordia.

Le chiedo di aiutarci a comprendere meglio come la rivelazione biblica e le teorie scientifiche possono convergere nella ricerca della verità. Spesso si è indotti a credere che scienza e fede siano tra loro nemiche; che scienza e tecnica siano la stessa cosa; che la logica matematica abbia scoperto tutto; che il mondo è frutto del caso, e che se la matematica non ha scoperto il teorema-Dio è perché Dio, semplicemente, non esiste. Insomma, soprattutto quando studiamo, non è sempre facile ricondurre tutto ad un progetto Divino, insito nella natura e nella storia dell'Uomo. Così, a volte, la fede vacilla o si riduce a semplice atto sentimentale. Anch'io Santo Padre, come tutti i giovani, ho fame di Verità: ma come posso fare per armonizzare Scienza e Fede?


Il grande Galileo ha detto che Dio ha scritto il libro della natura nella forma del linguaggio matematico. Lui era convinto che Dio ci ha donato due libri: quello della Sacra Scrittura e quello della natura. E il linguaggio della natura – questa era la sua convinzione – è la matematica, quindi essa è un linguaggio di Dio, del Creatore. Riflettiamo ora su cos’è la matematica: di per sé è un sistema astratto, un’invenzione dello spirito umano, che come tale nella sua purezza non esiste. E’ sempre realizzato approssimativamente, ma - come tale - è un sistema intellettuale, è una grande, geniale invenzione dello spirito umano. La cosa sorprendente è che questa invenzione della nostra mente umana è veramente la chiave per comprendere la natura, che la natura è realmente strutturata in modo matematico e che la nostra matematica, inventata dal nostro spirito, è realmente lo strumento per poter lavorare con la natura, per metterla al nostro servizio, per strumentalizzarla attraverso la tecnica.

Mi sembra una cosa quasi incredibile che una invenzione dell’intelletto umano e la struttura dell’universo coincidano: la matematica inventata da noi ci dà realmente accesso alla natura dell’universo e lo rende utilizzabile per noi. Quindi la struttura intellettuale del soggetto umano e la struttura oggettiva della realtà coincidono: la ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura sono identiche. Penso che questa coincidenza tra quanto noi abbiamo pensato e il come si realizza e si comporta la natura, siano un enigma ed una sfida grandi, perché vediamo che, alla fine, è "una" ragione che le collega ambedue: la nostra ragione non potrebbe scoprire quest’altra, se non vi fosse un’identica ragione a monte di ambedue.

In questo senso mi sembra proprio che la matematica - nella quale come tale Dio non può apparire - ci mostri la struttura intelligente dell’universo. Adesso ci sono anche teorie del caos, ma sono limitate, perché se il caos avesse il sopravvento, tutta la tecnica diventerebbe impossibile. Solo perché la nostra matematica è affidabile, la tecnica è affidabile. La nostra scienza, che rende finalmente possibile lavorare con le energie della natura, suppone la struttura affidabile, intelligente della materia. E così vediamo che c’è una razionalità soggettiva e una razionalità oggettivata nella materia, che coincidono. Naturalmente adesso nessuno può provare - come si prova nell’esperimento, nelle leggi tecniche – che ambedue siano realmente originate in un’unica intelligenza, ma mi sembra che questa unità dell’intelligenza, dietro le due intelligenze, appaia realmente nel nostro mondo. E quanto più noi possiamo strumentalizzare il mondo con la nostra intelligenza, tanto più appare il disegno della Creazione.

Alla fine, per arrivare alla questione definitiva, direi: Dio o c’è o non c’è. Ci sono solo due opzioni. O si riconosce la priorità della ragione, della Ragione creatrice che sta all’inizio di tutto ed è il principio di tutto - la priorità della ragione è anche priorità della libertà – o si sostiene la priorità dell’irrazionale, per cui tutto quanto funziona sulla nostra terra e nella nostra vita sarebbe solo occasionale, marginale, un prodotto irrazionale - la ragione sarebbe un prodotto della irrazionalità. Non si può ultimamente "provare" l’uno o l’altro progetto, ma la grande opzione del Cristianesimo è l’opzione per la razionalità e per la priorità della ragione. Questa mi sembra un’ottima opzione, che ci dimostra come dietro a tutto ci sia una grande Intelligenza, alla quale possiamo affidarci.

Ma il vero problema contro la fede oggi mi sembra essere il male nel mondo: ci si chiede come esso sia compatibile con questa razionalità del Creatore. E qui abbiamo bisogno realmente del Dio che si è fatto carne e che ci mostra come Egli non sia solo una ragione matematica, ma che questa ragione originaria è anche Amore. Se guardiamo alle grandi opzioni, l’opzione cristiana è anche oggi quella più razionale e quella più umana. Per questo possiamo elaborare con fiducia una filosofia, una visione del mondo che sia basata su questa priorità della ragione, su questa fiducia che la Ragione creatrice è amore, e che questo amore è Dio.

© Copyright 2007 - Libreria Editrice Vaticana
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
16/09/2009 19:13

INCONTRO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI CON I SACERDOTI DELLA DIOCESI DI ALBANO , 01.09.2006

Giovedì 31 agosto 2006, nella Sala degli Svizzeri, del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo, il Santo Padre Benedetto XVI ha incontrato i Sacerdoti della Diocesi di Albano, nel cui territorio si trova Castel Gandolfo.
Dopo l’indirizzo di omaggio del Vescovo di Albano, S.E. Mons. Marcello Semeraro, il Papa ha risposto ad alcune domande rivolte da 5 sacerdoti presenti all’Incontro.
Riportiamo qui di seguito le domande dei sacerdoti e le risposte del Santo Padre:



DOMANDE DEI SACERDOTI E RISPOSTE DEL SANTO PADRE

Alcuni problemi di vita dei preti

P. Giuseppe Zane, Vicario ad omnia, di 83 anni:

«Il nostro Vescovo Le ha illustrato, seppure brevemente, la situazione della nostra Diocesi di Albano. Noi sacerdoti siamo pienamente inseriti in questa Chiesa, vivendone tutti i problemi e le complessità. Giovani e anziani, ci sentiamo tutti inadeguati, in primo luogo perché siamo in pochi rispetto ai tanti bisogni e abbiamo provenienze diverse, soffriamo, inoltre, la scarsità di vocazioni al sacerdozio. Per questi motivi a volte ci scoraggiamo, cercando di tamponare un po' di qua e un po' di là, spesso costretti a fare solo cose di pronto soccorso senza progetti precisi. Vedendo le tante cose da fare, subiamo la tentazione di privilegiare il fare trascurando l'essere e questo inevitabilmente si riflette sulla vita spirituale, il colloquio con Dio, la preghiera e la carità (l'amore) verso i fratelli, specie i lontani. Santo Padre, cosa può dirci in merito? Io ho una certa età... ma questi giovani confratelli possono avere speranza?»

BENEDETTO XVI:

Cari fratelli, vorrei dirvi, innanzitutto, una parola di benvenuto e di ringraziamento. Grazie al Cardinale Sodano per la sua presenza, con la quale esprime il suo amore e la sua cura per questa Chiesa Suburbicaria. Grazie a Lei, Eccellenza, per le sue parole. Con poche espressioni, Lei mi ha presentato la situazione di questa Diocesi, che non conoscevo in questa misura. Sapevo che è la più grande delle Diocesi Suburbicarie, ma, non sapevo, che fosse cresciuta fino a cinquecentomila abitanti. Vedo così, una Diocesi ricca di sfide, di problemi, ma, certamente anche di gioie nella fede. E vedo, che tutte le questioni del nostro tempo sono presenti: l'emigrazione, il turismo, l'emarginazione, l'agnosticismo, ma anche una fede ferma.

Non ho la pretesa adesso di essere quasi come un «oracolo», che potrebbe rispondere in modo sufficiente a tutte le questioni. Le parole di san Gregorio Magno che Lei ha citato, Eccellenza - che ognuno conosca «infirmitatem suam» - valgono anche per il Papa. Anche il Papa, giorno per giorno, deve conoscere e riconoscere «infirmitatem suam», i suoi limiti. Deve riconoscere che solo nella collaborazione con tutti, nel dialogo, nella cooperazione comune, nella fede, come «cooperatores veritatis» - della Verità che è una Persona, Gesù - possiamo fare insieme il nostro servizio, ciascuno per la sua parte. In questo senso, le mie risposte non saranno esaustive ma frammentarie. Tuttavia, accettiamo proprio questo: che solo insieme possiamo comporre il «mosaico» di un lavoro pastorale che risponde alla grandezza delle sfide.

Lei, Cardinale Sodano, aveva detto che il nostro caro confratello, P. Zane, appare un po' pessimista. Ma, devo dire, che ognuno di noi ha momenti in cui può scoraggiarsi davanti alla grandezza di ciò che bisognerebbe fare e ai limiti di quanto invece può realmente fare. Questo, riguarda di nuovo anche il Papa. Che cosa devo fare in quest'ora della Chiesa, con tanti problemi, con tante gioie, con tante sfide che riguardano la Chiesa universale? Tante cose succedono giorno per giorno e non sono in grado di rispondere a tutto. Faccio la mia parte, faccio quanto posso fare. Cerco di trovare le priorità. E sono felice di essere coadiuvato da tanti buoni collaboratori. Posso dire già qui, in questo momento: vedo ogni giorno il grande lavoro che fa la Segreteria di Stato sotto la sua sapiente guida. E solo con questa rete di collaborazione, inserendomi con le mie piccole capacità in una totalità più grande, posso e oso andare avanti.

E così, naturalmente, ancora più un parroco che sta da solo, vede che tante cose ci sarebbero da fare in questa situazione da Lei, P. Zane, brevemente descritta. E può fare solo qualcosa, «tamponare» - come Lei ha detto -, fare una specie di «pronto soccorso», consapevole che si dovrebbe fare molto di più. Direi, allora, che la prima necessità di noi tutti è di riconoscere con umiltà i nostri limiti, riconoscere che dobbiamo lasciar fare la maggior parte delle cose al Signore. Oggi, abbiamo sentito nel Vangelo la parabola del servo fidato (Mt 24, 42-51). Questo servo - così ci dice il Signore - dà il cibo agli altri al tempo giusto. Non fa tutto insieme, ma è un servo saggio e prudente, che sa distribuire nei diversi momenti quanto deve fare in quella situazione. Lo fa con umiltà, ed è anche sicuro della fiducia del suo padrone. Così noi, dobbiamo fare il possibile per cercare di essere saggi e prudenti, e anche avere fiducia nella bontà del nostro «Padrone», del Signore, perché alla fine deve egli stesso guidare la sua Chiesa. Noi ci inseriamo con il piccolo dono nostro e facciamo quanto possiamo fare, soprattutto le cose sempre necessarie: i Sacramenti, l'annuncio della Parola, i segni della nostra carità e del nostro amore.

Quanto alla vita interiore, alla quale Lei ha accennato, direi che è essenziale per il nostro servizio di sacerdoti. Il tempo che ci riserviamo per la preghiera non è un tempo sottratto alla nostra responsabilità pastorale, ma è proprio «lavoro» pastorale, è pregare anche per gli altri. Nel «Comune dei Pastori» si legge come caratterizzante per il Pastore buono che «multum oravit pro fratribus». Questo è proprio del Pastore, che sia uomo di preghiera, che stia dinanzi al Signore pregando per gli altri, sostituendo anche gli altri, che forse non sanno pregare, non vogliono pregare, non trovano il tempo per pregare. Come si evidenzia così che questo dialogo con Dio è opera pastorale!

Direi, quindi, che la Chiesa ci dà, quasi ci impone - ma sempre come una Madre buona - di avere tempo libero per Dio, con le due pratiche che fanno parte dei nostri doveri: celebrare la Santa Messa e recitare il Breviario. Ma più che recitare, realizzarlo come ascolto della Parola che il Signore ci offre nella Liturgia delle Ore. Occorre interiorizzare questa Parola, essere attenti a che cosa il Signore mi dice con questa Parola, ascoltare poi il commento dei Padri della Chiesa o anche del Concilio, nella seconda Lettura dell'Ufficio delle Letture, e pregare con questa grande invocazione che sono i Salmi, con i quali siamo inseriti nella preghiera di tutti i tempi. Prega con noi - e noi preghiamo con esso - il popolo dell'antica Alleanza. Preghiamo con il Signore, che è il vero soggetto dei Salmi. Preghiamo con la Chiesa di tutti i tempi. Direi che questo tempo dedicato alla Liturgia delle Ore è tempo prezioso. La Chiesa ci dona questa libertà, questo spazio libero di vita con Dio, che è anche vita per gli altri.

E così mi sembra importante vedere che queste due realtà - la Santa Messa celebrata realmente in colloquio con Dio e la Liturgia delle Ore - sono zone di libertà, di vita interiore, che la Chiesa ci dona e che sono una ricchezza per noi. In esse, come ho detto, incontriamo non solo la Chiesa di tutti i tempi, ma il Signore stesso, che parla con noi e aspetta la nostra risposta. Impariamo così a pregare inserendoci nella preghiera di tutti i tempi e incontriamo anche il popolo. Pensiamo ai Salmi, alle parole dei Profeti, alle parole del Signore e degli Apostoli, pensiamo ai commenti dei Padri. Oggi abbiamo avuto questo meraviglioso commento di san Colombano su Cristo fonte di «acqua viva» alla quale beviamo. Pregando incontriamo anche le sofferenze del popolo di Dio, oggi. Queste preghiere ci fanno pensare alla vita di ogni giorno e ci guidano all'incontro con la gente di oggi. Ci illuminano in questo incontro, perché in esso non portiamo soltanto la nostra propria, piccola intelligenza, il nostro amore di Dio, ma impariamo, attraverso questa Parola di Dio, anche a portare Dio a loro. Questo essi aspettano: che portiamo loro l'«acqua viva», della quale parla oggi san Colombano. La gente ha sete. E cerca di rispondere a questa sete con diversi divertimenti. Ma comprende bene che questi divertimenti non sono l'«acqua viva» della quale ha bisogno. Il Signore è la fonte dell'«acqua viva». Egli però dice, nel capitolo 7 di Giovanni, che chiunque crede diventa una «fonte», perché ha bevuto da Cristo. E questa «acqua viva» (v 38) diventa in noi acqua zampillante, fonte per gli altri. Così cerchiamo di berla nella preghiera, nella celebrazione della Santa Messa, nella lettura: cerchiamo di bere da questa fonte perché diventi fonte in noi. E possiamo meglio rispondere alla sete della gente di oggi avendo in noi l'«acqua viva», avendo la realtà divina, la realtà del Signore Gesù incarnatosi. Così possiamo rispondere meglio ai bisogni della nostra gente. Questo per quanto riguarda la prima domanda. Che cosa possiamo fare? Facciamo sempre il possibile per la gente - nelle altre domande avremo la possibilità di ritornare su questo punto - e viviamo con il Signore per poter rispondere alla vera sete della gente.

La Sua seconda domanda è stata: abbiamo speranza per questa Diocesi, per questa porzione di popolo di Dio che è questa Diocesi di Albano e per la Chiesa? Rispondo senza esitazione: sì! Naturalmente abbiamo speranza: la Chiesa è viva! Abbiamo duemila anni di storia della Chiesa, con tante sofferenze, anche con tanti fallimenti: pensiamo alla Chiesa in Asia Minore, la grande e fiorente Chiesa dell'Africa del Nord, che con l'invasione musulmana è scomparsa. Quindi porzioni di Chiesa possono realmente scomparire, come dice san Giovanni nell'Apocalisse, o il Signore tramite Giovanni: «Se non ti ravvederai verrò da te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto» (2,5). Ma, d'altra parte, vediamo come tra tante crisi la Chiesa è risorta con una nuova giovinezza, con una nuova freschezza.

Nel secolo della Riforma, la Chiesa Cattolica appariva in verità quasi finita. Sembrava trionfare questa nuova corrente, che affermava: adesso la Chiesa di Roma è finita. E vediamo che con i grandi santi, come Ignazio di Loyola, Teresa d'Avila, Carlo Borromeo ed altri, la Chiesa risorge. Trova nel Concilio di Trento una nuova attualizzazione e una rivitalizzazione della sua dottrina. E rivive con grande vitalità. Vediamo il tempo dell'Illuminismo, nel quale Voltaire ha detto: Finalmente è finita questa antica Chiesa, vive l'umanità! E cosa succede, invece? La Chiesa si rinnova. Il secolo XIX diventa il secolo dei grandi santi, di una nuova vitalità per tante Congregazioni religiose, e la fede è più forte di tutte le correnti che vanno e vengono. È così anche nel secolo passato. Ha detto una volta Hitler: «La Provvidenza ha chiamato me, un cattolico, per farla finita con il cattolicesimo. Solo un cattolico può distruggere il cattolicesimo». Egli era sicuro di avere tutti i mezzi per distruggere finalmente il cattolicesimo. Ugualmente la grande corrente marxista era sicura di realizzare la revisione scientifica del mondo e di aprire le porte al futuro: la Chiesa è alla fine, è finita! Ma, la Chiesa è più forte, secondo le parole di Cristo. È la vita di Cristo che vince nella sua Chiesa.

Anche in tempi difficili, quando mancano le vocazioni, la Parola del Signore rimane in eterno. E chi - come dice il Signore stesso - costruisce la sua vita su questa «roccia» della Parola di Cristo, costruisce bene. Perciò, possiamo essere fiduciosi. Vediamo anche nel nostro tempo nuove iniziative di fede. Vediamo che in Africa la Chiesa, pur con tutti i problemi, ha tuttavia una freschezza di vocazioni che incoraggia. E così, con tutte le diversità del panorama storico di oggi, vediamo - e non solo, crediamo - che le parole del Signore sono spirito e vita, sono parole di vita eterna. San Pietro ha detto, come abbiamo sentito domenica scorsa nel Vangelo (Gv 6, 69): «Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il santo di Dio». E vedendo la Chiesa di oggi, vedendo, con tutte le sofferenze, la vitalità della Chiesa, possiamo dire anche noi: abbiamo creduto e conosciuto che tu ci dai le parole di vita eterna, e quindi una speranza che non fallisce.


La pastorale «integrata»

Mons. Gianni Macella, Parroco in Albano:

«Negli ultimi anni, in sintonia con il progetto della Cei per il decennio 2000-2010, ci stiamo impegnando per realizzare un progetto di «pastorale integrata». Le difficoltà sono molte. Vale la pena ricordare almeno il fatto che tanti fra noi, sacerdoti, siamo ancora legati ad una certa prassi pastorale poco missionaria e che sembrava consolidata, tanto era legata a un contesto, come si dice, «di cristianità»; d'altra parte, molte fra le stesse richieste di tanti fedeli suppongono la parrocchia alla maniera di un «super market» di servizi sacri. Ecco, allora, vorrei domandarle, Santità: Pastorale integrata è solo questione di strategia, oppure c'è una ragione più profonda per la quale dobbiamo continuare a lavorare in questo senso?»

BENEDETTO XVI:

Devo confessare che ho dovuto imparare dalla sua domanda la parola «pastorale integrata»... Ho capito tuttavia il contenuto: cioè che dobbiamo cercare di integrare in un unico cammino pastorale sia i diversi operatori pastorali che esistono oggi, sia le diverse dimensioni del lavoro pastorale. Così, distinguerei le dimensioni dai soggetti del lavoro pastorale, e cercherei poi di integrare il tutto in un unico cammino pastorale.

Lei ha fatto capire, nella sua domanda, che c'è il livello diciamo «classico» del lavoro nella parrocchia per i fedeli che sono rimasti - e forse anche aumentano - dando vita alla nostra parrocchia. Questa è la pastorale «classica» ed è sempre importante. Distinguo di solito tra evangelizzazione continuata - perché la fede continua, la parrocchia vive - e evangelizzazione nuova, che cerca di essere missionaria, di andare oltre i confini di coloro che sono già «fedeli» e vivono nella parrocchia, o si servono, forse anche con una fede «ridotta», dei servizi della parrocchia.

Nella parrocchia, mi sembra che abbiamo tre impegni fondamentali, che risultano dall'essenza della Chiesa e del ministero sacerdotale. Il primo è il servizio sacramentale. Direi che il Battesimo, la sua preparazione e l'impegno di dare continuità alle consegne battesimali, ci mette già in contatto anche con quanti non sono troppo credenti. Non è un lavoro, diciamo, per conservare la cristianità, ma è un incontro con persone che forse raramente vanno in chiesa. L'impegno di preparare il Battesimo, di aprire le anime dei genitori, dei parenti, dei padrini e delle madrine, alla realtà del Battesimo, già può essere e dovrebbe essere un impegno missionario, che va molto oltre i confini delle persone già «fedeli». Preparando il Battesimo, cerchiamo di far capire che questo Sacramento è inserimento nella famiglia di Dio, che Dio vive, che Egli si preoccupa di noi. Se ne preoccupa fino al punto di aver assunto la nostra carne e di aver istituito la Chiesa che è il suo Corpo, in cui può assumere, per così dire, di nuovo carne nella nostra società. Il Battesimo è novità di vita nel senso che, oltre al dono della vita biologica, abbiamo bisogno del dono di un senso per la vita che sia più forte della morte e che perduri anche se i genitori un giorno non ci saranno più. Il dono della vita biologica si giustifica soltanto se possiamo aggiungere la promessa di un senso stabile, di un futuro che, anche nelle crisi che verranno - e che noi non possiamo conoscere -, darà valore alla vita, cosicché valga la pena di vivere, di essere creature.

Penso che nella preparazione di questo Sacramento o a colloquio con genitori che diffidano del Battesimo, abbiamo una situazione missionaria. È un messaggio cristiano. Dobbiamo farci interpreti della realtà che ha inizio con il Battesimo. Non conosco sufficientemente bene il Rituale italiano. Nel Rituale classico, ereditato dalla Chiesa antica, il Battesimo inizia con la domanda: «Che cosa chiedete alla Chiesa di Dio?». Oggi, almeno nel Rituale tedesco, si risponde semplicemente: «Il Battesimo». Questo non esplicita sufficientemente che cosa è da desiderare. Nell'antico Rituale si diceva: «La fede». Cioè, una relazione con Dio. Conoscere Dio. «E perché - si continua - chiedete la fede?». «Perché vogliamo la vita eterna». Vogliamo, cioè, una vita sicura anche nelle crisi future, una vita che ha senso, che giustifica l'essere uomo. Questo dialogo, in ogni caso, mi sembra che sia da realizzare già prima del Battesimo con i genitori. Solo per dire che il dono del Sacramento non è semplicemente una «cosa», non è semplicemente «cosificazione», come dicono i francesi, ma è lavoro missionario. C'è poi la Cresima, da preparare nell'età in cui le persone iniziano a prendere decisioni anche nei riguardi della fede. Certamente non dobbiamo trasformare la Cresima in una specie di «pelagianesimo», quasi che in essa uno si faccia cattolico da solo, ma in un intreccio tra dono e risposta. L'Eucaristia, infine, è la presenza permanente di Cristo nella celebrazione di ogni giorno della Santa Messa. È molto importante, come ho detto, per il sacerdote, per la sua vita sacerdotale, come presenza reale del dono del Signore.

Possiamo menzionare adesso ancora il matrimonio: anche questo si presenta come una grande occasione missionaria, perché oggi - grazie a Dio – vogliono ancora sposarsi in chiesa anche molti che non frequentano tanto la chiesa. È un'occasione per portare questi giovani a confrontarsi con la realtà che è il matrimonio cristiano, il matrimonio sacramentale. Mi sembra anche una grande responsabilità. Lo vediamo nei processi di nullità e lo vediamo soprattutto nel grande problema dei divorziati risposati, che vogliono accostarsi alla Comunione e non capiscono perché non è possibile. Probabilmente non hanno capito, nel momento del «sì» davanti al Signore, che cosa è questo «sì». È un allearsi con il «sì» di Cristo con noi. È un entrare nella fedeltà di Cristo, quindi nel Sacramento che è la Chiesa e così nel Sacramento del matrimonio. Perciò penso che la preparazione al matrimonio è un'occasione di grandissima importanza, di missionarietà, per annunciare di nuovo nel Sacramento del matrimonio il Sacramento di Cristo, per capire questa fedeltà è così far capire poi il problema dei divorziati risposati.

Questo, è il primo settore, quello «classico» dei Sacramenti, che ci dà l'occasione per incontrare persone che non vanno ogni domenica in chiesa, e quindi l'occasione di un annuncio realmente missionario, di una «pastorale integrata». Il secondo settore è l'annuncio della Parola, con i due elementi essenziali: l'omelia e la catechesi. Nel Sinodo dei Vescovi dello scorso anno i Padri hanno parlato molto dell'omelia, evidenziando come sia difficile oggi trovare il «ponte» tra la Parola del Nuovo Testamento, scritta duemila anni fa, e il nostro presente. Devo dire che l'esegesi storico-critica spesso non è sufficiente per aiutarci nella preparazione dell'omelia. Lo constato io stesso, cercando di preparare delle omelie che attualizzino la Parola di Dio: o meglio - dato che la Parola ha un'attualità in sé - per far vedere, sentire alla gente questa attualità. L'esegesi storico-critica ci dice molto sul passato, sul momento in cui è nata la Parola, sul significato che ha avuto al tempo degli Apostoli di Gesù, ma non ci aiuta sempre sufficientemente a capire che le parole di Gesù, degli Apostoli e anche dell'Antico Testamento, sono spirito e vita: in esso il Signore parla anche oggi. Penso che dobbiamo «sfidare» i teologi - il Sinodo lo ha fatto - ad andare avanti, ad aiutare meglio i Parroci a preparare le omelie, a far vedere la presenza della Parola: il Signore parla con me oggi e non solo nel passato. Ho letto, in questi ultimi giorni, il progetto dell'Esortazione Apostolica post-Sinodale. Ho visto, con soddisfazione, che ritorna questa «sfida» nel preparare modelli di omelia. Alla fine, l'omelia la prepara il parroco nel suo contesto, perché parla alla «sua» parrocchia. Ma, ha bisogno di aiuto per capire e per poter far capire questo «presente» della Parola, che non è mai una Parola del passato ma dell'«oggi».

Infine, il terzo settore: la caritas, la diakonia. Sempre siamo responsabili dei sofferenti, degli ammalati, degli emarginati, dei poveri. Dal ritratto della vostra Diocesi vedo che sono tanti ad aver bisogno della nostra diakonia e anche questa è un'occasione sempre missionaria. Così, mi sembra, che la «classica» pastorale parrocchiale si autotrascenda in tutti e tre i settori e diventi pastorale missionaria.

Passo ora, al secondo aspetto della pastorale, riguardo sia agli operatori che al lavoro da fare. Non può fare tutto il parroco! È impossibile! Non può essere un «solista», non può fare tutto, ma ha bisogno di altri operatori pastorali. Mi sembra, che oggi, sia nei Movimenti, sia nell'Azione Cattolica, nelle nuove Comunità che esistono, abbiamo operatori che devono essere collaboratori nella parrocchia per una pastorale «integrata». Vorrei dire che oggi è importante per questa pastorale «integrata» che gli altri operatori che ci sono, non solo siano attivati, ma si integrino nel lavoro della parrocchia. Il parroco non deve solo «fare» ma anche «delegare». Essi devono imparare ad integrarsi realmente nel comune impegno per la parrocchia, e, naturalmente, anche nell'autotrascendenza della parrocchia in un duplice senso: autotrascendenza nel senso che le parrocchie collaborano nella Diocesi, perché il Vescovo è il loro comune Pastore e aiuta a coordinare anche i loro impegni; e autotrascendenza nel senso che lavorano per tutti gli uomini di questo tempo e cercano anche di far arrivare il messaggio agli agnostici, alle persone che sono alla ricerca. E questo è il terzo livello, del quale in precedenza abbiamo già diffusamente parlato. Mi sembra che le occasioni indicate ci diano la possibilità di incontrare e di dire una parola missionaria a quelli che non frequentano la parrocchia, non hanno fede o hanno poca fede. Soprattutto questi nuovi soggetti della pastorale e i laici che vivono nelle professioni di questo nostro tempo, devono portare la Parola di Dio anche negli ambiti che per il parroco spesso sono inaccessibili. Coordinati dal Vescovo, cerchiamo insieme di coordinare questi diversi settori della pastorale, di attivare i diversi operatori e soggetti pastorali nel comune impegno: da una parte, di aiutare la fede dei credenti, che è un grande tesoro, e, dall'altra, di far giungere l'annuncio della fede a tutti coloro che cercano con cuore sincero una risposta appagante ai loro interrogativi esistenziali.

La pastorale «integrata»

D. Vittorio Petruzzi, Vicario Parrocchiale in Aprilia:

«Santità, per l'anno pastorale che sta per iniziare, la nostra Diocesi è stata chiamata dal Vescovo a prestare particolare attenzione alla liturgia, sia a livello teologico, sia a livello di prassi celebrativa. Le stesse settimane residenziali, cui parteciperemo nel prossimo mese di settembre avranno come centrale tema di riflessione il «progettare e attuare l'annuncio nell'anno liturgico, nei sacramenti e nei sacramentali». Noi, come sacerdoti siamo chiamati a realizzare una liturgia «seria, semplice e bella», per usare una bella formula presente nel documento Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia dell'Episcopato italiano. Padre Santo, può aiutarci a comprendere come tutto questo si può tradurre nell'ars celebrandi?»

BENEDETTO XVI:

Ars celebrandi: anche qui direi che ci sono dimensioni diverse. La prima dimensione è che la celebratio è preghiera e colloquio con Dio: Dio con noi e noi con Dio. Quindi, la prima esigenza per una buona celebrazione è che il sacerdote entri realmente in questo colloquio. Annunciando la Parola, si sente egli stesso in colloquio con Dio. È ascoltatore della Parola e annunciatore della Parola, nel senso che si fa strumento del Signore e cerca di capire questa Parola di Dio che poi è da trasmettere al popolo. È in colloquio con Dio, perché i testi della Santa Messa non sono testi teatrali o qualcosa di simile, ma sono preghiere, grazie alle quali, insieme con l'assemblea, parlo con Dio. Entrare quindi in questo colloquio è importante. San Benedetto, nella sua «Regola», dice ai monaci, parlando della recita dei Salmi: «Mens concordet voci». La vox, le parole precedono la nostra mente. Di solito non è così: prima si deve pensare e poi il pensiero diventa parola. Ma qui, la parola viene prima. La Sacra Liturgia ci dà le parole; noi dobbiamo entrare in queste parole, trovare la concordia con questa realtà che ci precede.

Oltre a questo, dobbiamo anche imparare a capire la struttura della Liturgia e perché è articolata così. La Liturgia è cresciuta in due millenni e anche dopo la riforma non è divenuta qualcosa di elaborato soltanto da alcuni liturgisti. Essa rimane sempre continuazione di questa crescita permanente dell'adorazione e dell'annuncio. Così, è molto importante, per poterci sintonizzare bene, capire questa struttura cresciuta nel tempo ed entrare con la nostra mens nella vox della Chiesa. Nella misura in cui noi abbiamo interiorizzato questa struttura, compreso questa struttura, assimilato le parole della Liturgia, possiamo entrare in questa interiore consonanza e così non solo parlare con Dio come persone singole ma entrare nel «noi» della Chiesa che prega. E così trasformare anche il nostro «io» entrando nel «noi» della Chiesa, arricchendo, allargando questo «io», pregando con la Chiesa, con le parole della Chiesa, essendo realmente in colloquio con Dio.

Questa è la prima condizione: noi stessi dobbiamo interiorizzare la struttura, le parole della Liturgia, la Parola di Dio. Così il nostro celebrare diventa realmente un celebrare «con» la Chiesa: il nostro cuore è allargato e noi non facciamo un qualcosa, ma stiamo «con» la Chiesa in colloquio con Dio. Mi sembra che la gente avverta se veramente noi siamo in colloquio con Dio, con loro e, per così dire, attiriamo gli altri in questa nostra preghiera comune, attiriamo gli altri nella comunione con i figli di Dio; o se invece facciamo soltanto qualcosa di esteriore. L'elemento fondamentale della vera ars celebrandi è quindi questa consonanza, questa concordia tra ciò che diciamo con le labbra e ciò che pensiamo con il cuore. Il «Sursum corda», che è un'antichissima parola della Liturgia, dovrebbe essere già prima del Prefazio, già prima della Liturgia, la «strada» del nostro parlare e pensare. Lo dobbiamo elevare al Signore, il nostro cuore, non solo come una risposta rituale, ma come espressione di quanto succede in questo cuore, che va in alto e attira in alto anche gli altri.

In altre parole, l'ars celebrandi non intende invitare ad una specie di teatro, di spettacolo, ma ad una interiorità che si fa sentire e diventa accettabile ed evidente per la gente che assiste. Solo se vedono che questa non è una ars esteriore, spettacolare - non siamo attori! - ma è l'espressione del cammino del nostro cuore, che attira anche il loro cuore, allora la Liturgia diventa bella, diventa comunione di tutti i presenti con il Signore.

Naturalmente, a questa condizione fondamentale, espressa nelle parole di san Benedetto: «Mens concordet voci» - il cuore sia realmente innalzato, elevato al Signore - devono associarsi anche cose esteriori. Dobbiamo imparare a pronunciare bene le parole. Qualche volta, quando ero ancora professore nella mia terra, i ragazzi hanno letto la Sacra Scrittura. E l'hanno letta come si legge un testo di un poeta che non si è capito. Naturalmente, per imparare a pronunciare bene, si deve prima aver capito il testo nella sua drammaticità, nel suo presente. Così anche il Prefazio. E la Preghiera Eucaristica. È difficile per i fedeli seguire un testo così lungo come quello della nostra Preghiera Eucaristica. Perciò nascono sempre queste nuove «invenzioni». Ma con Preghiere Eucaristiche sempre nuove non si risponde al problema. Il problema è che questo sia un momento che invita anche gli altri al silenzio con Dio e a pregare con Dio. Quindi solo se la Preghiera eucaristica è pronunciata bene, anche con i dovuti momenti di silenzio, se è pronunciata con interiorità ma anche con l'arte di parlare, le cose possono andare meglio.

Ne consegue che la recita della Preghiera eucaristica, richiede un momento di attenzione particolare per essere pronunciata in modo tale che coinvolga gli altri. Penso che dobbiamo anche trovare occasioni, sia nella catechesi, sia nelle omelie, sia in altre occasioni, per spiegare bene al popolo di Dio questa Preghiera Eucaristica, perché possa seguirne i grandi momenti: il racconto e le parole dell'istituzione, la preghiera per i vivi e per i morti, il ringraziamento al Signore, l'epiclesi, per coinvolgere realmente la comunità in questa preghiera.

Quindi le parole devono essere pronunciate bene. Poi ci deve essere una adeguata preparazione. I chierichetti devono sapere che cosa fare, i lettori devono sapere realmente come pronunciare. E poi il coro, il canto, siano preparati; l'altare sia ornato bene. Tutto ciò fa parte - anche se si tratta di molte cose pratiche - dell'ars celebrandi. Ma, per concludere, elemento fondamentale è questa arte di entrare in comunione con il Signore, che noi prepariamo con tutta la nostra vita di sacerdoti.

Famiglia

D. Angelo Pennazza, parroco in Pavona:

«Santità, nel Catechismo della Chiesa Cattolica leggiamo che «l'Ordine e il Matrimonio sono, ordinati alla salvezza altrui ... essi conferiscono una missione particolare nella Chiesa e servono all'edificazione del popolo Dio» (n. 1534). Questo ci pare davvero fondamentale non soltanto per la nostra azione pastorale, ma anche per il nostro modo di essere preti. Cosa possiamo fare noi sacerdoti per tradurre in prassi pastorale questa proposizione e (secondo quanto Ella stessa ha ribadito di recente) come comunicare al positivo la bellezza del Matrimonio che sappia far innamorare ancora gli uomini e le donne del nostro tempo? La grazia sacramentale degli sposi, cosa può donare alla nostra vita di sacerdoti?»

BENEDETTO XVI:

Due grandi domande! La prima è: come comunicare alla gente di oggi la bellezza del matrimonio? Vediamo come molti giovani tardano a sposarsi in chiesa, perché hanno paura della definitività: anzi, tardano anche a sposarsi civilmente. La definitività appare oggi a molti giovani, e anche non tanto giovani, un vincolo contro la libertà. E il loro primo desiderio è la libertà. Hanno paura che alla fine non riescano. Vedono tanti matrimoni falliti. Hanno paura che questa forma giuridica, come essi la sentono, sia un peso esteriore che spegne l'amore.

Bisogna far capire che non si tratta di un vincolo giuridico, un peso che si realizza con il matrimonio. Al contrario, la profondità e la bellezza stanno proprio nella definitività. Solo così esso può far maturare l'amore in tutta la sua bellezza. Ma, come comunicarlo? Mi sembra un problema comune a tutti noi.

Per me, a Valencia - e Lei, Eminenza, potrà confermarlo - è stato un momento importante non solo quando ho parlato di questo, ma quando si sono presentate davanti a me diverse famiglie con più o meno bambini; una famiglia era quasi una «parrocchia», con tanti bambini! La presenza, la testimonianza di queste famiglie è stata veramente molto più forte di tutte le parole. Esse hanno presentato anzitutto la ricchezza della loro esperienza familiare: come una famiglia così grande diventa realmente una ricchezza culturale, opportunità di educazione degli uni e degli altri, possibilità di far convivere insieme le diverse espressioni della cultura di oggi, il donarsi, l'aiutarsi anche nella sofferenza, ecc.. Ma è stata importante anche la testimonianza delle crisi che hanno sofferto. Una di queste coppie era quasi arrivata al divorzio. Hanno spiegato come hanno poi imparato a vivere questa crisi, questa sofferenza dell'alterità dell'altro, ad accettarsi di nuovo. Proprio nel superare il momento della crisi, della voglia di separarsi, è cresciuta una nuova dimensione dell'amore e si è aperta una porta su una nuova dimensione della vita, che solo nel sopportare la sofferenza della crisi poteva riaprirsi.

Questo, mi sembra molto importante. Oggi si arriva alla crisi nel momento in cui si vede la diversità dei temperamenti, la difficoltà di sopportarsi ogni giorno, per tutta la vita. Alla fine, allora si decide: separiamoci. Abbiamo capito proprio da queste testimonianze che nella crisi, nel sopportare il momento in cui sembra che non se ne può più, realmente si aprono nuove porte e una nuova bellezza dell'amore. Una bellezza fatta solo di armonia non è una vera bellezza. Manca qualcosa, diventa deficitaria. La vera bellezza ha bisogno anche del contrasto. L'oscuro e il luminoso si completano. Anche l'uva per maturare ha bisogno non solo del sole, ma anche della pioggia, non solo del giorno ma anche della notte.

Noi stessi, sacerdoti, sia giovani che adulti, dobbiamo imparare la necessità della sofferenza, della crisi. Dobbiamo sopportare, trascendere questa sofferenza. Solo così, la vita diventa ricca. Per me ha un valore simbolico il fatto che il Signore porti per l'eternità le stimmate. Espressione dell'atrocità della sofferenza e della morte, esse sono adesso sigilli della vittoria di Cristo, di tutta la bellezza della sua vittoria e del suo amore per noi. Dobbiamo accettare, sia da sacerdoti sia da sposati, la necessità di sopportare la crisi dell'alterità, dell'altro, la crisi in cui sembra che non si possa più stare insieme. Gli sposi devono imparare insieme ad andare avanti, anche per amore dei bambini, e così conoscersi di nuovo, amarsi di nuovo, in un amore molto più profondo, molto più vero. Così, in un cammino lungo, con le sue sofferenze, realmente matura l'amore.

Mi sembra, che noi sacerdoti possiamo anche imparare dagli sposi, proprio dalle loro sofferenze e dai loro sacrifici. Spesso pensiamo che solo il celibato sia un sacrificio. Ma, conoscendo i sacrifici delle persone sposate - pensiamo ai loro bambini, ai problemi che nascono, alle paure, alle sofferenze, alle malattie, alla ribellione, e anche ai problemi dei primi anni, quando le notti trascorrono quasi sempre insonni a causa dei pianti dei piccoli figli - dobbiamo imparare da loro, dai loro sacrifici, il nostro sacrificio. E, insieme imparare che è bello maturare nei sacrifici e così lavorare per la salvezza degli altri. Lei, don Pennazza, giustamente, ha citato il Concilio, che afferma che il matrimonio è un Sacramento per la salvezza degli altri: anzitutto per la salvezza dell'altro, dello sposo, della sposa, ma anche dei bambini, dei figli, e infine di tutta la comunità. E, così, anche il sacerdote matura nell'incontrarsi.

Penso allora che dobbiamo coinvolgere le famiglie. Le feste della famiglia mi sembrano molto importanti. Nell'occasione delle feste conviene che appaia la famiglia, appaia la bellezza delle famiglie. Anche le testimonianze - per quanto forse un po’ troppo di moda - in certe occasioni possono realmente essere un annuncio, un aiuto per tutti noi.

Per concludere, per me rimane molto importante che nella Lettera di san Paolo agli Efesini le nozze di Dio con l'umanità tramite l'incarnazione del Signore si realizzino nella Croce, nella quale nasce la nuova umanità, la Chiesa. Il matrimonio cristiano nasce proprio in queste nozze divine. È, come dice san Paolo, la concretizzazione sacramentale di quanto succede in questo grande Mistero. Così dobbiamo sempre di nuovo imparare questo legame tra Croce e Risurrezione, tra Croce e bellezza della Redenzione, e inserirci in questo Sacramento. Preghiamo il Signore perché ci aiuti ad annunciare bene questo Mistero, a vivere questo Mistero, ad imparare dagli sposi come lo vivono loro, ad aiutarci a vivere la Croce, così da giungere anche ai momenti della gioia e della Risurrezione.

Giovani

D. Gualtiero Isacchi, responsabile del Servizio Diocesano di Pastorale Giovanile:

«I giovani sono al centro di una più decisa attenzione da parte della nostra Diocesi, come di tutta la Chiesa in Italia. Le Giornate Mondiali li hanno portati allo scoperto: sono tanti ed entusiasti. Eppure, generalmente, le nostre parrocchie non sono adeguatamente attrezzate per accoglierli; le comunità parrocchiali e gli operatori pastorali non sufficientemente preparati per dialogare con loro; i sacerdoti impegnati nelle diverse incombenze non hanno il tempo necessario per ascoltarli. Di loro ci si ricorda quando divengono un problema o quando ne abbiamo bisogno per animare una celebrazione o una festa... Come oggi un sacerdote può esprimere la scelta preferenziale per i giovani pur con una agenda pastorale affollata? Come possiamo servire i giovani a partire dai loro valori invece di servirci di loro per «le nostre cose»?

BENEDETTO XVI:

Vorrei anzitutto sottolineare quanto Lei ha detto. In occasione delle Giornate Mondiali della Gioventù, ed anche in altre occasioni - come recentemente alla Veglia di Pentecoste - appare che c'è un desiderio nella gioventù, una ricerca anche di Dio. I giovani vogliono vedere se Dio c'è e che cosa Dio ci dice. Esiste, quindi, una certa disponibilità, con tutte le difficoltà di oggi. Esiste anche un entusiasmo. Dobbiamo quindi fare il possibile per tener viva questa fiamma che si mostra in occasioni come le Giornate Mondiali della Gioventù.

Come fare? È una nostra domanda comune. Penso che proprio qui, dovrebbe realizzarsi una «pastorale integrata», perché in realtà non ogni parroco ha la possibilità di occuparsi sufficientemente della gioventù. Ha quindi bisogno di una pastorale che trascenda i limiti della parrocchia e trascenda anche i limiti del lavoro del sacerdote. Una pastorale che coinvolga anche molti operatori. Mi sembra che, sotto il coordinamento del Vescovo, si debba trovare il modo, da una parte, di integrare i giovani nella parrocchia, affinché siano fermento della vita parrocchiale; e, dall'altra, di trovare a questi giovani anche l'aiuto di operatori extra-parrocchiali. Le due cose devono andare insieme. Occorre suggerire ai giovani che, non solo nella parrocchia ma in diversi contesti, devono integrarsi nella vita della Diocesi, per poi ritrovarsi anche nella parrocchia. Bisogna perciò favorire tutte le iniziative che vanno in questo senso.

Penso che sia molto importante, adesso l'esperienza del volontariato. È importante che i giovani non siano lasciati alle discoteche, ma abbiano impegni nei quali vedono di essere necessari, si accorgono di poter fare qualcosa di buono. Sentendo questo impulso di fare qualcosa di buono per l'umanità, per qualcuno, per un gruppo, i giovani avvertono questo stimolo ad impegnarsi e trovano anche la «pista» positiva di un impegno, di un' etica cristiana. Mi sembra di grande importanza che i giovani abbiano realmente impegni che ne mostrino la necessità, che li guidano sulla strada di un servizio positivo nell'aiuto ispirato dall'amore di Cristo per gli uomini, cosicché loro stessi cerchino le fonti alle quali attingere per trovare la forza e l'impegno.

Un'altra esperienza sono i gruppi di preghiera, dove essi imparano ad ascoltare la Parola di Dio, ad imparare la Parola di Dio proprio nel loro contesto giovanile, ad entrare in contatto con Dio. Questo vuol dire anche imparare la forma comune della preghiera, la Liturgia, che forse in un primo momento appare abbastanza inaccessibile per loro. Essi imparano che c'è la Parola di Dio che ci cerca, pur con tutta la distanza dei tempi, che parla oggi a noi. Noi portiamo il frutto della terra e del nostro lavoro al Signore e lo troviamo trasformato in dono di Dio. Parliamo da figli col Padre e riceviamo poi il dono di Lui stesso. Riceviamo la missione di andare al mondo con il dono della sua Presenza.

Sarebbero anche utili le Scuole di Liturgia, alle quali i giovani possano accedere. Sono, d'altra parte, necessarie occasioni dove la gioventù possa mostrarsi e presentarsi. Qui, ad Albano, ho sentito, è stata fatta una rappresentazione della vita di san Francesco. Impegnarsi in questo senso vuol dire entrare nella personalità di san Francesco, del suo tempo, e così allargare la propria personalità. È soltanto un esempio, una cosa apparentemente abbastanza singolare. Può essere un'educazione ad allargare la personalità, ad entrare in un contesto di tradizione cristiana, a risvegliare la sete di conoscere meglio da dove ha attinto questo santo. Non era solo un ambientalista o un pacifista. Era soprattutto un uomo convertito. Ho letto con grande piacere che il Vescovo di Assisi, Mons. Sorrentino, proprio per ovviare a questo «abuso» della figura di san Francesco, in occasione dell'VIII centenario della sua conversione vuol indire un «Anno di conversione», per vedere qual è la vera «sfida». Forse tutti noi possiamo un po' animare la gioventù per far capire che cos'è la conversione, collegandoci anche alla figura di san Francesco, per cercare una strada che allarghi la vita. Francesco prima era quasi una specie di «play-boy». Poi, ha sentito che questo non era sufficiente. Ha sentito la voce del Signore: «Ricostruisci la mia Casa». Man mano ha capito cosa voleva dire «costruire la Casa del Signore».

Non ho, allora, risposte molto concrete, perché mi trovo di fronte ad una missione dove trovo già i giovani riuniti, grazie a Dio. Ma mi sembra che si debba far uso di tutte le possibilità che si offrono oggi nei Movimenti, nelle Associazioni, nel Volontariato, in altre attività giovanili. Occorre anche presentare la gioventù alla parrocchia, cosicché essa veda chi sono i giovani. È necessaria una pastorale vocazionale. Il tutto dev'essere coordinato dal Vescovo. Mi sembra che si trovino operatori pastorali attraverso la stessa autentica cooperazione dei giovani che si formano. E così, si può aprire la strada della conversione, la gioia che Dio c'è e si preoccupa di noi, che noi abbiamo accesso a Dio e possiamo aiutare altri a «ricostruire la sua Casa». Mi sembra questa, alla fine, la nostra missione, qualche volta difficile, ma in fin dei conti molto bella: quella di «costruire la Casa di Dio» nel mondo di oggi.

Vi ringrazio per la vostra attenzione e chiedo scusa per la frammentarietà delle mie risposte. Vogliamo collaborare insieme perché cresca la «Casa di Dio» nel nostro tempo, perché molti giovani trovino la strada del servizio al Signore.

© Copyright 2007 - Libreria Editrice Vaticana
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
16/09/2009 19:15


VISITA AL SEMINARIO ROMANO MAGGIORE IN OCCASIONE DELLA FESTA DELLA MADONNA DELLA FIDUCIA (SABATO 17 FEBBRAIO 2007)

DOMANDE DEI SEMINARISTI E RISPOSTE DEL SANTO PADRE

GREGORPAOLO STANO: DIOCESI DI ORIA del I anno (1° FILOSOFIA)
1. Santità, il nostro è il primo dei due anni dedicati al discernimento, durante il quale siamo impegnati a scrutare nel profondo la nostra persona. È un esercizio faticoso, per noi, perché il linguaggio di Dio è speciale e solo chi è attento può coglierlo tra le mille voci che risuonano dentro di noi. Le chiediamo dunque di aiutarci a capire come concretamente parla Dio e quali le tracce che lascia con il suo pronunciarsi in segreto.

"Come prima parola, un grazie a Monsignor Rettore per il suo discorso. Sono già curioso di conoscere quel testo che scriverete e così anche di imparare. Non sono sicuro di essere in grado di chiarire i punti essenziali della vita del seminario, ma dico quanto posso dire.
Adesso questa prima questione: come possiamo discernere la voce di Dio tra le mille voci che sentiamo ogni giorno in questo nostro mondo. Direi: Dio parla in diversissimi modi con noi. Parla per mezzo di altre persone, attraverso amici, i genitori, il parroco, i sacerdoti. Qui, i sacerdoti ai quali siete affidati, che vi guidano. Parla per mezzo degli avvenimenti della nostra vita, nei quali possiamo discernere un gesto di Dio; parla anche attraverso la natura, la creazione, e parla, naturalmente e soprattutto, nella Sua Parola, nella Sacra Scrittura, letta nella comunione della Chiesa e letta personalmente in colloquio con Dio.
E’ importante leggere la Sacra Scrittura, da una parte in un modo molto personale, e realmente, come dice San Paolo, non come parola di un uomo o come un documento del passato, come leggiamo Omero, Virgilio, ma come una Parola di Dio che è sempre attuale e parla con me. Imparare a sentire in un testo, storicamente del passato, la Parola vivente di Dio, cioè entrare in preghiera, e così fare della lettura della Sacra Scrittura un colloquio con Dio.
Sant’Agostino nelle sue omelie dice spesso: Ho bussato diverse volte alla porta di questa Parola, finché ho potuto percepire che cosa Dio stesso diceva a me. Da un parte, questa lettura molto personale, questo colloquio personale con Dio, in cui cerco che cosa il Signore dice a me, e insieme a questa lettura personale è molto importante la lettura comunitaria, perché il soggetto vivente della Sacra Scrittura è il Popolo di Dio, è la Chiesa.
Questa Scrittura non era una cosa soltanto privata di grandi scrittori - anche se il Signore ha sempre bisogno della persona, della sua risposta personale - ma è cresciuta con persone che erano coinvolte nel cammino del Popolo di Dio e così le loro parole sono espressione di questo cammino, di questa reciprocità della chiamata di Dio e della risposta umana.
Quindi, il soggetto vive oggi come è vissuto in quel tempo, perciò la Scrittura non appartiene al passato, perché il suo soggetto, il Popolo di Dio ispirato da Dio stesso, è sempre lo stesso, e
quindi la Parola è sempre viva nel soggetto vivente. Perciò è importante leggere la Sacra Scrittura e sentire la Sacra Scrittura nella comunione della Chiesa, cioè con tutti i grandi testimoni di questa Parola, cominciando dai primi Padri fino ai Santi di oggi, fino al Magistero di oggi.
Soprattutto, è una Parola che diventa vitale e viva nella Liturgia, quindi la Liturgia direi che è il luogo privilegiato dove ciascuno di noi entra nel "noi" dei figli di Dio in colloquio con Dio. E’ importante: il Padre Nostro comincia con le parole "Padre Nostro"; solo se io sono inserito nel "noi" di questo "Nostro", posso trovare il Padre; solo all’interno di questo "noi", che è il soggetto della preghiera del Padre Nostro, sentiamo bene la Parola di Dio. Quindi, questo mi sembra molto importante: la Liturgia è il luogo privilegiato dove la Parola è viva, è presente, dove anzi la Parola, il Logos, il Signore, parla con noi e si dà nelle nostre mani; se ci poniamo in ascolto del Signore in questa grande comunione della Chiesa di tutti i tempi, lo troviamo.
Egli ci apre la porta man mano. Direi quindi che questo è il punto in cui si concentrano tutti gli altri: siamo personalmente diretti dal Signore nel nostro cammino e, nello stesso tempo, viviamo nel grande "noi" della Chiesa, dove la Parola di Dio è viva.
Poi, si associano gli altri punti, quelli del sentire gli amici, del sentire i sacerdoti che ci guidano, del sentire la viva voce della Chiesa di oggi, sentendo così anche le voci degli avvenimenti di questo tempo e della creazione, che diventano decifrabili in questo contesto profondo.
Per riassumere direi, quindi, che Dio parla in molti modi con noi. E’ importante, da una parte, stare nel "noi" della Chiesa, nel "noi" vissuto nella Liturgia. E’ importante personalizzare questo "noi" in me stesso, è importante essere attenti alle altre voci del Signore, lasciarci guidare anche da persone che hanno esperienza con Dio, per così dire, e ci aiutano in questo cammino, affinché questo "noi" diventi il mio "noi", e io, uno che realmente appartiene a questo "noi". Così cresce il discernimento e cresce l’amicizia personale con Dio, la capacità di percepire, nelle mille voci di oggi, la voce di Dio, che è presente sempre e parla sempre con noi".

CLAUDIO FABBRI: DIOCESI DI ROMA del II anno (2° FILOSOFIA)
2. Padre Santo, come era articolata la sua vita nel periodo della formazione al sacerdozio e quali interessi coltivava? Considerando l’esperienza fatta, quali sono i punti cardine della formazione al sacerdozio? In particolare, Maria, quale posto occupa in essa?

"Io penso che la nostra vita, nel nostro seminario di Frisinga, era articolata in modo molto simile al vostro, anche se non conosco precisamente il vostro orario quotidiano. Si cominciava, mi sembra, alle 6.30, alle 7, con una meditazione di una mezz’ora, nella quale ognuno in silenzio parlava col Signore, cercava di predisporre l’animo alla Sacra Liturgia. Poi seguiva la Santa Messa, la colazione e poi, nella mattinata, le lezioni.
Nel pomeriggio seminari, tempi di studio, e poi ancora la preghiera comune. La sera, i cosiddetti "puncta", cioè il direttore spirituale o il rettore del seminario, nelle diverse sere, ci parlavano per aiutarci a trovare il cammino della meditazione, non dandoci una meditazione già fatta, ma degli elementi che potevano aiutare ognuno a personalizzare le Parole del Signore che sarebbero state oggetto della nostra meditazione.
Così il percorso giorno per giorno; poi naturalmente c’erano le grandi feste con una bella liturgia, musica… Ma, mi sembra, e forse ritornerò su questo alla fine, che sia molto importante avere una disciplina che mi precede e non dovere ogni giorno, di nuovo, inventare cosa fare, come vivere; c’è una regola, una disciplina che già mi aspetta e mi aiuta a vivere ordinatamente questo giorno.
Adesso, quanto alle mie preferenze, naturalmente seguivo con attenzione, in quanto potevo, le lezioni. Inizialmente, nei due primi anni la filosofia, mi ha affascinato, fin dall’inizio soprattutto la figura di Sant’Agostino e poi anche la corrente agostiniana nel Medioevo: San Bonaventura, i grandi francescani, la figura di San Francesco d’Assisi.
Per me era affascinante soprattutto la grande umanità di Sant’Agostino, che non ebbe la possibilità semplicemente di identificarsi con la Chiesa perché catecumeno fin dall’inizio, ma che dovette invece lottare spiritualmente per trovare man mano l’accesso alla Parola di Dio, alla vita con Dio, fino al grande sì detto alla sua Chiesa.
Questo cammino così umano, dove anche oggi possiamo vedere come si comincia ad entrare in contatto con Dio, come tutte le resistenze della nostra natura debbano essere prese sul serio e poi debbano anche essere canalizzate per arrivare al grande sì al Signore. Così mi ha conquistato la sua teologia molto personale, sviluppata soprattutto nella predicazione. Questo è importante, perché inizialmente Agostino voleva vivere una vita puramente contemplativa, scrivere altri libri di filosofia…, ma il Signore non l’ha voluto, l’ha fatto sacerdote e vescovo e così tutto il resto della sua vita, della sua opera, si è sviluppato sostanzialmente nel dialogo con un popolo molto semplice. Egli dovette sempre, da una parte, trovare personalmente il significato della Scrittura e, dall’altra, tenere conto della capacità di questa gente, del loro contesto vitale, e arrivare a un cristianesimo realistico e nello stesso tempo molto profondo.
Poi, naturalmente per me era molto importante l’esegesi: abbiamo avuto due esegeti un po’ liberali, ma tuttavia grandi esegeti, anche realmente credenti, che ci hanno affascinati. Posso dire che, realmente, la Sacra Scrittura era l’anima del nostro studio teologico: abbiamo realmente vissuto con la Sacra Scrittura e imparato ad amarla, a parlare con essa. Poi ho già detto della Patrologia, dell’incontro con i Padri. Anche il nostro insegnante di dogmatica era persona allora molto famosa, aveva nutrito la sua dogmatica con i Padri e con la Liturgia. Un punto molto centrale era per noi la formazione liturgica: in quel tempo non c’erano ancora cattedre di Liturgia, ma il nostro professore di Pastorale ci ha donato grandi corsi di liturgia e lui, al momento, era anche Rettore del seminario e così, liturgia vissuta e celebrata e liturgia insegnata e pensata andavano insieme. Questi, insieme con la Sacra Scrittura, erano i punti scottanti della nostra formazione teologica. Di questo sono sempre grato al Signore, perché insieme sono realmente il centro di una vita sacerdotale.
Altro interesse era la letteratura: era obbligatorio leggere Dostoevskij, era la moda del momento, poi c’erano i grandi francesi: Claudel, Mauriac, Bernanos, ma anche la letteratura tedesca; c’era anche una edizione tedesca del Manzoni: non parlavo in quel tempo italiano. Così abbiamo un po’, in questo senso, anche formato il nostro orizzonte umano. Un grande amore era anche la musica, come pure la bellezza della natura della nostra terra. Con queste preferenze, queste realtà, in un cammino non sempre facile, sono andato avanti. Il Signore mi ha aiutato ad arrivare fino al sì del sacerdozio, un sì che mi ha accompagnato ogni giorno della mia vita".

GIANPIERO SAVINO: DIOCESI DI TARANTO del III anno (1° TEOLOGIA)
3. Allo sguardo dei più, noi possiamo apparire come dei giovani che dicono con fermezza e coraggiosamente il loro sì e lasciano tutto per seguire il Signore; ma noi sappiamo di essere ben lontani da una vera coerenza con quel sì. In confidenza di figli, le confessiamo la parzialità della nostra risposta alla chiamata di Gesù e la fatica quotidiana nel vivere una vocazione che sentiamo portarci sulla via della definitività e della totalità. Come fare a rispondere ad una vocazione così esigente come quella di pastori del popolo santo di Dio, avvertendo costantemente la nostra debolezza e incoerenza?

"E’ bene riconoscere la propria debolezza, perché così sappiamo che abbiamo bisogno della grazia del Signore. Il Signore ci consola. Nel collegio degli Apostoli non c’era solo Giuda, ma anche gli Apostoli buoni, e tuttavia Pietro è caduto e tante volte il Signore rimprovera la lentezza, la chiusura del cuore degli Apostoli, la poca fede che avevano. Quindi ci dimostra che nessuno di noi è semplicemente all’altezza di questo grande sì, all’altezza di celebrare "in persona Christi", di vivere coerentemente in questo contesto, di essere unito a Cristo nella sua missione di sacerdote.
Il Signore ci ha donato anche, per la nostra consolazione, queste parabole delle rete con pesci buoni e non buoni, del campo dove cresce il grano ma anche la zizzania. Egli ci fa sapere di essere venuto proprio per aiutarci nella nostra debolezza, di non essere venuto, come Egli dice, per chiamare i giusti, quelli che pretendono di essere già completamente giusti, di non aver bisogno della grazia, quelli che pregano lodando se stessi, ma di essere venuto a chiamare quelli che sanno di essere manchevoli, a provocare quelli che sanno di aver bisogno ogni giorno del perdono del Signore, della sua grazia per andare avanti.
Questo mi sembra molto importante: riconoscere che abbiamo bisogno di una conversione permanente, non siamo mai semplicemente arrivati. Sant’Agostino, nel momento della conversione, pensava di essere arrivato sulle alture ormai della vita con Dio, della bellezza del sole che è la sua Parola. Poi ha dovuto capire che anche il cammino dopo la conversione rimane un cammino di conversione, che rimane un cammino dove non mancano le grandi prospettive, le gioie, le luci del Signore, ma dove anche non mancano valli oscure, dove dobbiamo andare avanti con fiducia appoggiandoci alla bontà del Signore.
E perciò è importante anche il sacramento della Riconciliazione. Non è giusto pensare che dovremmo vivere così da non aver mai bisogno di perdono. Accettare la nostra fragilità, ma rimanere in cammino, non arrenderci ma andare avanti e, mediante il sacramento della Riconciliazione, sempre di nuovo convertirci per un nuovo inizio e così crescere, maturare per il Signore, nella nostra comunione con Lui.
E’ importante, naturalmente, anche non isolarsi, non pensare di poter andare avanti da soli. Abbiamo proprio bisogno della compagnia di sacerdoti amici, anche di laici amici, che ci accompagnano. ci aiutano. Per un sacerdote è molto importante, proprio nella parrocchia, vedere come la gente abbia fiducia in lui e sperimentare con la loro fiducia anche la loro generosità nel perdonare le sue debolezze. I veri amici ci sfidano e ci aiutano ad essere fedeli in questo cammino. Mi sembra che questo atteggiamento di pazienza, di umiltà ci possa aiutare ad essere buoni con gli altri, ad avere comprensione per le debolezze degli altri, ad aiutarli, anche loro, ai perdonare come noi perdoniamo.
Penso di non essere indiscreto se dico che oggi ho ricevuto una bella lettera del cardinale Martini: gli avevo espresso felicitazioni per il suo ottantesimo compleanno – siamo coetanei; nel ringraziarmi mi ha scritto: ringrazio soprattutto il Signore per il dono della perseveranza. Oggi – egli scrive – anche il bene si fa piuttosto ad tempus, ad experimentum. Il bene, secondo la sua essenza, si può solo fare in modo definitivo; ma per farlo in modo definitivo, abbiamo bisogno della grazia della perseveranza; prego ogni giorno – egli concludeva - perché il Signore mi dia questa grazia.
Ritorno a Sant’Agostino: lui era inizialmente contento con la grazia della conversione; poi scoprì che c’è bisogno di un’altra grazia, la grazia della perseveranza, che dobbiamo ogni giorno chiedere al Signore; ma come – ritorno a quanto dice il cardinale Martini – "finora il Signore mi ha donato questa grazia della perseveranza; me la darà, spero, anche per questa ultima tappa del mio cammino su questa terra". Mi sembra che dobbiamo aver fiducia in questo dono della perseveranza, ma che dobbiamo anche con tenacia, con umiltà e con pazienza pregare il Signore perché ci aiuti e ci sostenga con il dono della vera definitività; che Egli ci accompagni giorno per giorno fino alla fine, anche se il cammino deve passare attraverso valli oscure. Il dono della perseveranza ci da gioia, ci da la certezza che siamo amati dal Signore e questo amore ci sostiene, ci aiuta e non ci lascia nelle nostre debolezze".

DIMOV KOICIO: DIOCESI DI NICOPOLI AD ISTRUM (BULGARIA) IV anno (2° TEOLOGIA)
4. Beatissimo Padre, lei commentando la Via Crucis del 2005 ha parlato della sporcizia che c’è nella Chiesa, e nell’omelia per l’ordinazione dei sacerdoti romani dello scorso anno ci ha messo in guardia dal rischio "del carrierismo, del tentativo di arrivare in alto, di procurarsi una posizione mediante la Chiesa". Come porci davanti a queste problematiche nel modo più sereno e responsabile possibile?

"E’ una domanda non facile, ma mi sembra di aver detto già, ed è un punto importante, che il Signore sa, sapeva fin dall’inizio, che nella Chiesa c’è anche il peccato e per la nostra umiltà è importante riconoscere questo e vedere il peccato non solo negli altri, nelle strutture, negli alti incarichi gerarchici, ma anche in noi stessi per essere così più umili ed imparare che non conta, davanti al Signore, la posizione ecclesiale, ma conta stare nel suo amore e far brillare il suo amore. Personalmente ritengo che, su questo punto, sia molto importante la preghiera di Sant’Ignazio che dice: "Suscipe, Domine, universam meam libertatem; accipe memoriam, intellectum atque voluntatem omnem; quidquid habeo vel possideo mihi largitus es; id tibi totum restitoì ac tuae prorsus voluntati traoi gubernandum; amorem tuum cum gratia tua mihi dones ed dives sum satis, nec aliud quidquam ultra posco". Proprio questa ultima parte mi sembra molto importante: capire che il vero tesoro della nostra vita è stare nell’amore del Signore e non perdere mai questo amore. Poi siamo realmente ricchi. Un uomo che ha trovato un grande amore si sente realmente ricco e sa che questa è la vera perla, che questo è il tesoro della sua vita e non tutte le altre cose che forse ha.
Noi abbiamo trovato, anzi siamo stati trovati dall’amore del Signore e quanto più ci lasciamo toccare da questo suo amore nella vita sacramentale, nella vita di preghiera, nella vita del lavoro, del tempo libero, tanto più possiamo capire che sì, ho trovato la vera perla, tutto il resto non conta, tutto il resto è importante solo nella misura in cui l’amore del Signore mi attribuisce queste cose. Io sono ricco, sono realmente ricco e in alto se sto in questo amore. Trovare qui il centro della vita, la ricchezza. Poi lasciamoci guidare, lasciamo alla Provvidenza di decidere che cosa farà con noi.
Mi viene qui in mente una piccola storia di Santa Bakhita, questa bella Santa africana, che era schiava in Sudan, poi in Italia ha trovato la fede, si è fatta suora e quando era già anziana il vescovo faceva visita al suo monastero, nella sua casa religiosa e non la conosceva; vide questa piccola, già curva, suora africana e disse a Bakhita: "Ma che cosa fa Lei, sorella?"; la Bakhita rispose: "Io faccio La stessa cosa che Lei, Eccellenza". Il vescovo stupito chiese: "Ma che cosa?" e Bakhita rispose: "Ma Eccellenza, noi due vogliamo fare la stessa cosa, fare la volontà di Dio".
Mi sembra una risposta bellissima, il Vescovo e la piccola suora, che quasi non poteva più lavorare, facevano, in posizioni diverse, la stessa cosa, cercavano di fare la volontà di Dio e così erano al posto giusto.
Mi viene anche in mente una parola di Sant’Agostino che dice: Noi siamo tutti sempre solo discepoli di Cristo e la sua cattedra sta più in alto, perché questa cattedra è la croce e solo questa altezza è la vera altezza, la comunione col Signore, anche nella sua passione. Mi sembra che, se cominciamo a capire questo, in una vita di preghiera ogni giorno, in una vita di dedizione, per il servizio del Signore, possiamo liberarci da queste tentazioni molto umane.

FRANCESCO ANNESI: DIOCESI DI ROMA del V anno (3° TEOLOGIA)
5. Santità, dalla Lettera Apostolica "Salvifici doloris" di Giovanni Paolo II emerge chiaramente quanto la sofferenza sia fonte di ricchezza spirituale per tutti coloro che la accolgono in unione alle sofferenze di Cristo. Come, oggi, in un mondo che cerca ogni mezzo lecito o illecito per eliminare qualsiasi forma di dolore, il sacerdote può essere testimone del senso cristiano della sofferenza e come deve comportarsi dinanzi a chi soffre senza rischiare di essere retorico o patetico?

"Sì, come fare? Allora, mi sembra che dobbiamo riconoscere che è giusto fare il possibile per vincere le sofferenze dell’umanità e per aiutare le persone sofferenti - sono tante nel mondo - a trovare una vita buona e ad essere liberate dai mali che spesso causiamo noi stessi: la fame, le epidemie, ecc.
Ma, nello stesso tempo, riconoscendo questo dovere di lavorare contro le sofferenze causate da noi stessi, dobbiamo anche riconoscere e capire che la sofferenza è una parte essenziale per la nostra maturazione umana. Io penso alla parabola del Signore sul chicco di grano caduto in terra, che solo così, morendo, può portare frutto, e questo cadere in terra e morire non è il fatto di un momento, ma è proprio il processo di una vita.
Cadere come grano in terra e morire così, trasformarsi, essere strumenti di Dio, così portare frutto. Il Signore non per caso dice ai suoi discepoli: il Figlio dell’Uomo deve andare a Gerusalemme per soffrire; perciò chi vuole essere mio discepolo deve prendere la sua croce sulle spalle e così seguirmi. In realtà, noi siamo sempre un po’ come Pietro, il quale dice al Signore: No, Signore, questo non può essere il caso tuo, tu non devi soffrire. Noi non vogliamo portare la Croce, vogliamo creare un Regno più umano, più bello in terra.
Questo è totalmente sbagliato: il Signore lo insegna. Ma Pietro ha avuto bisogno di molto tempo, forse di tutta la sua vita per capirlo; perché questa leggenda del Quo Vadis? ha qualcosa di vero in sé: imparare che proprio nell’andare con la Croce del Signore sta il cammino che porta frutto. Così, direi, prima di parlare agli altri, dobbiamo noi stessi capire il mistero della Croce.
Certo, il cristianesimo ci dà la gioia, perché l’amore dà gioia. Ma l’amore è sempre anche un processo del perdersi e quindi anche un processo dell’uscire da se stesso; in questo senso, anche un processo doloroso. E solo così è bello e ci fa maturare e arrivare alla vera gioia. Chi vuol affermare o chi promette una vita solo allegra e comoda, mente, perché non è questa la verità dell’uomo; la conseguenza è che poi si deve fuggire in paradisi falsi. E proprio così non si arriva alla gioia, ma all’autodistruzione.
Il cristianesimo ci annuncia la gioia, sì; questa gioia però cresce solo sulla via dell’amore e questa via dell’amore ha a che fare con la Croce, con la comunione con il Cristo crocefisso. Ed è rappresentata nel chicco di grano caduto in terra. Quando cominciamo a capire e ad accettare questo, ogni giorno, perché ogni giorno ci impone qualche insoddisfazione, qualche peso che crea anche dolore, quando accettiamo questa scuola della sequela di Cristo, come gli Apostoli hanno dovuto imparare a questa scuola, allora diventiamo anche capaci di aiutare i sofferenti.
E’ vero che è sempre problematico se uno che sta più o meno in buona salute o in buone condizioni deve consolare un altro toccato da un grande male: sia malattia, sia perdita di amore. Davanti a questi mali che conosciamo tutti, quasi inevitabilmente tutto appare come solo retorico e patetico. Ma, direi, se queste persone possono sentire che noi siamo com-pazienti, che noi vogliamo portare con loro la Croce in comunione con Cristo, soprattutto pregando con loro, assistendo anche con un silenzio pieno di simpatia, di amore, aiutandoli in quanto possiamo, possiamo divenire credibili.
Dobbiamo accettare questo, che forse in un primo momento le nostre parole appaiano come pure parole. Ma se viviamo realmente in questo spirito della vera sequela di Gesù, troviamo anche il modo di essere vicini con la nostra simpatia. Simpatia etimologicamente vuol dire com-passione per l’uomo, aiutandolo, pregando, creando così la fiducia che la bontà del Signore esiste anche nella valle più oscura. Possiamo così aprire il cuore per il Vangelo di Cristo stesso, che è il vero consolatore; aprire il cuore per lo Spirito Santo, che è chiamato l’altro Consolatore, l’altro Paraclito, che assiste, che è presente.
Possiamo aprire il cuore non per le nostre parole, ma per il grande insegnamento di Cristo, per il suo essere con noi e così aiutare perché la sofferenza e il dolore diventino realmente grazia di maturazione, di comunione col Cristo crocefisso e risorto".

MARCO CECCARELLI: DIOCESI DI ROMA, diacono (prossimo all’ordinazione presbiterale che sarà il 29 aprile p.v.)
6. Santità, nei prossimi mesi, i miei compagni ed io saremo ordinati preti. Passeremo dalla vita ben strutturata dalle regole del seminario, alla situazione ben più articolata delle nostre parrocchie. Quali consigli può darci per vivere al meglio l’inizio del nostro ministero presbiterale?

"Dunque, qui in seminario avete una vita ben articolata. Io direi, come primo punto, è importante anche nella vita di pastori della Chiesa, nella vita quotidiana del sacerdote, conservare, per quanto è possibile, un certo ordine: che non manchi mai la Messa - senza l’Eucaristia un giorno è incompleto e perciò cresciamo già nel Seminario con questa liturgia quotidiana; mi sembra molto importante che sentiamo il bisogno di essere col Signore nell’Eucaristia, che non sia un dovere professionale ma sia realmente un dovere sentito interiormente, che non manchi mai l’Eucaristia.
L’altro punto importante è prendersi il tempo per la Liturgia delle Ore e così per questa libertà interiore: con tutti i pesi che ci sono, essa ci libera e ci aiuta anche ad essere più aperti e a stare in un contatto profondo col Signore. Naturalmente dobbiamo fare tutto quello che impone la vita pastorale, la vita di un vice-parroco, di un parroco o delle altre mansioni sacerdotali. Ma, direi, non dimenticare mai questi punti fissi, che sono l’Eucaristia e la Liturgia delle Ore, così da avere nel giorno un certo ordine che, come avevo detto inizialmente, non devo inventare sempre di nuovo "Serva ordinem et ordo servabit te", abbiamo imparato. E’ una parola vera.
Poi è importante non perdere la comunione con gli altri sacerdoti, con i compagni di via e non perdere il contatto personale con la Parola di Dio, la meditazione. Come fare? Io ho una ricetta abbastanza semplice: combinare la preparazione dell’omelia domenicale con la meditazione personale, per far si che queste parole non siano dette solo agli altri, ma siano realmente parole dette dal Signore a me stesso, e maturate in un colloquio personale col Signore. Perché ciò sia possibile, il mio consiglio è di cominciare già il lunedì, perché se si comincia al sabato è troppo tardi, la preparazione viene affrettata, e forse l’ispirazione manca, perché ci sono altre cose nella testa. Perciò, direi, già il lunedì, leggere semplicemente le letture della prossima domenica che forse appaiono molto inaccessibili. Un po’ come quelle pietre di Massa e Meriba, dove Mosè dice: "Ma come può venire acqua da queste pietre?".
Lasciamo stare, lasciamo che il cuore le digerisca, queste letture; nel subcosciente le parole lavorano e ogni giorno un po’ ritornano. Ovviamente si dovranno anche consultare dei libri, per quanto è possibile. E con questo lavorìo interiore, giorno per giorno, si vede come man mano matura una risposta; man mano si apre questa parola, diventa parola per me. E poiché sono un contemporaneo, essa diventa una parola anche per gli altri. Posso poi cominciare a tradurre quanto io forse vedo nel mio linguaggio teologico nel linguaggio degli altri; il pensiero fondamentale resta tuttavia lo stesso per gli altri e per me.
Così si può avere un incontro permanente, silenzioso, con la Parola, che non esige molto tempo, che forse non abbiamo. Ma riservate un po’ di tempo: così matura non solo un’omelia per la domenica, per gli altri, ma il mio proprio cuore viene toccato dalla Parola del Signore. Rimango in contatto anche in una situazione dove forse il tempo a disposizione è poco.
Non oserei adesso dare troppi consigli, perché la vita nella grande città di Roma è un po’ diversa da quella che io ho vissuto cinquantacinque anni fa nella nostra Baviera. Ma penso che l’essenziale è proprio questo: Eucaristia, Ufficio delle Letture, preghiera e colloquio, anche se breve, ogni giorno, col Signore, sulle sue Parole che io devo annunciare. E non perdere mai, da una parte, l’amicizia con i sacerdoti, l’ascolto della voce della Chiesa viva e, naturalmente, e la disponibilità per la gente affidatami, perché proprio da questa gente, con le sue sofferenze, le sue esperienze di fede, i suoi dubbi e difficoltà, possiamo anche noi imparare, cercare e trovare Dio. Trovare il nostro Signore Gesù Cristo".
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
16/09/2009 19:19

Alle ore 11 di ieri, nell’Aula della Benedizione, il Santo Padre Benedetto XVI ha incontrato i Parroci e il Clero della Diocesi di Roma per il tradizionale appuntamento di inizio Quaresima.
Dopo l’indirizzo di omaggio del Cardinale Vicario Camillo Ruini, sono intervenuti 9 sacerdoti.

Di seguito riportiamo la sintesi degli interventi dei sacerdoti e le risposte del Santo Padre.

La prima domanda è stata posta da Mons. Pasquale Silla, Parroco Rettore del Santuario di Santa Maria del Divino Amore a Castel di Leva, il quale ha ricordato la visita compiuta da Benedetto XVI il 1 maggio 2006 e la consegna lasciata alla comunità parrocchiale: svolgere nel Santuario e dal Santuario una fervente preghiera per il Vescovo di Roma, per i suoi Collaboratori, per tutto il Clero e i fedeli della Diocesi. In risposta a questa richiesta, la comunità del Divino Amore si è impegnata a qualificare al massimo la preghiera in tutte le sue forme — soprattutto quella liturgica — perché sia assidua e concorde: uno dei frutti di questo impegno è l'adorazione eucaristica perpetua che dal prossimo 25 marzo sarà avviata nel Santuario. Anche sul fronte della carità, il Santuario si sta impegnando ad allargare i suoi orizzonti, soprattutto nel campo dell'accoglienza dei minori, delle famiglie, degli anziani. In questa prospettiva, Mons. Silla ha chiesto a Benedetto XVI indicazioni concrete per poter realizzare sempre più efficacemente la missione del Santuario mariano nella Diocesi.

Vorrei innanzitutto dire che sono contento e felice di sentirmi qui realmente Vescovo di una grande Diocesi. Il Cardinale Vicario ha detto che vi aspettate luce e conforto. E devo dire che vedere tanti sacerdoti di tutte le generazioni è luce e conforto per me. Già dalla prima domanda ho anche e soprattutto imparato: e questo mi sembra anche un elemento essenziale del nostro incontro. Qui posso sentire la voce viva e concreta dei Parroci, le loro esperienze pastorali, e così posso soprattutto apprendere anch'io la vostra situazione concreta, le questioni che avete, le esperienze che fate, le difficoltà. Così posso viverle non solo in modo astratto, ma in un concreto colloquio con la vita reale delle parrocchie.

Vengo a questa prima domanda. Mi sembra che Lei abbia dato essenzialmente anche la risposta riguardo a quello che può fare questo Santuario... So che è il Santuario mariano più amato dai romani. Io stesso, quando sono venuto diverse volte nel Santuario antico, ho fatto esperienza di questa pietà secolare. Si sente la presenza della preghiera di generazioni e si tocca quasi con mano la presenza materna della Madonna. Si può realmente vivere un incontro con la devozione mariana dei secoli, con i desideri, le necessità, i bisogni, le sofferenze, anche le gioie delle generazioni nell'incontro con Maria. Così questo Santuario, al quale vengono le persone con le loro speranze, questioni, domande, sofferenze, è un fatto essenziale per la Diocesi di Roma. Sempre più vediamo che i Santuari sono una fonte di vita e di fede nella Chiesa
universale, e così anche nella Chiesa di Roma. Nella mia terra ho avuto l'esperienza dei pellegrinaggi a piedi al nostro Santuario nazionale di Altötting. È una grande missione popolare. Ci vanno soprattutto i giovani e, pellegrinando a piedi per tre giorni, vivono nell'atmosfera della preghiera, dell'esame di coscienza, quasi riscoprono la loro coscienza cristiana di fede. Questi tre giorni di pellegrinaggio a piedi sono giorni di confessione, di preghiera, sono un vero cammino verso la Madonna, verso la famiglia di Dio e poi verso l'Eucaristia. Andando a piedi, vanno alla Madonna e vanno, con la Madonna, al Signore, all'incontro eucaristico, preparandosi con la confessione al rinnovamento interiore. Vivono di nuovo la realtà eucaristica del Signore che dà se stesso, come la Madonna ha dato la propria carne al Signore, aprendo così la porta all'Incarnazione. La Madonna ha dato la carne per l'Incarnazione e così ha reso possibile l'Eucaristia, nella quale riceviamo la Carne che è il Pane per il mondo. Andando all’incontro con la Madonna, gli stessi giovani imparano ad offrire la propria carne, la vita di ogni giorno perché sia consegnata al Signore. E imparano a credere, a dire, man mano, «Sì» al Signore.

Perciò direi, per ritornare alla domanda, che il Santuario come tale, come luogo di preghiera, di confessione, di celebrazione dell'Eucaristia, è un grande servizio, nella Chiesa di oggi, per la Diocesi di Roma. Quindi penso che l'essenziale servizio, del quale Lei, del resto, ha parlato in modo concreto, è proprio quello di offrirsi come luogo di preghiera, di vita sacramentale e di vita di carità realizzata. Lei, se ho capito bene, ha parlato di quattro dimensioni della preghiera. La prima è quella personale. E qui Maria ci mostra la strada. San Luca ci dice due volte che la Vergine "serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore" (2,19; cfr 2,51). Era una persona in colloquio con Dio, con la Parola di Dio, e anche con gli avvenimenti tramite i quali Dio parlava con Lei. Il «Magnificat» è un «tessuto» fatto di parole della Sacra Scrittura e ci mostra come Maria abbia vissuto in un colloquio permanente con la Parola di Dio e, così, con Dio stesso. Naturalmente, poi, nella vita insieme con il Signore, è stata sempre in colloquio con Cristo, con il Figlio di Dio e con il Dio trinitario. Quindi impariamo da Maria a parlare personalmente con il Signore, ponderando e conservando nella nostra vita e nel nostro cuore le parole di Dio, perché diventino nutrimento vero per ciascuno. Così Maria ci guida in una scuola di preghiera, in un contatto personale e profondo con Dio.

La seconda dimensione della quale Lei ha parlato è la preghiera liturgica. Nella Liturgia il Signore ci insegna a pregare, prima dandoci la sua Parola, poi introducendoci nella Preghiera eucaristica alla comunione con il suo mistero di vita, di Croce e di Risurrezione. San Paolo ha detto una volta che "nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare" (Rm 8,26): noi non sappiamo come pregare, cosa dire a Dio. Perciò Dio ci ha dato le parole della preghiera, sia nel Salterio, sia nelle grandi preghiere della sacra Liturgia, sia proprio nella Liturgia eucaristica stessa. Qui ci insegna a pregare. Noi entriamo nella preghiera formatasi nei secoli sotto l'ispirazione dello Spirito Santo e ci uniamo al colloquio di Cristo con il Padre. Quindi la Liturgia è soprattutto preghiera: prima ascolto e poi risposta, sia nel Salmo responsoriale sia nella preghiera della Chiesa, sia nella grande Preghiera eucaristica. Noi la celebriamo bene se la celebriamo in atteggiamento «orante», unendoci al mistero di Cristo e al suo colloquio di Figlio col Padre. Se celebriamo l'Eucaristia in questo modo, come ascolto prima, poi come risposta, quindi come preghiera con le parole indicate dallo Spirito Santo, la celebriamo bene. E la gente viene attirata attraverso la nostra preghiera comune nel novero dei figli di Dio.

La terza dimensione è quella della pietà popolare. Un importante Documento della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti parla di questa pietà popolare e ci indica come «guidarla». La pietà popolare è una nostra forza, perché si tratta di preghiere molto radicate nel cuore delle persone. Anche persone che sono un po' lontane dalla vita della Chiesa e non hanno grande comprensione della fede sono toccate nel cuore da questa preghiera. Si deve solo «illuminare» questi gesti, «purificare» questa tradizione affinché diventi vita attuale della Chiesa.

Poi, l'adorazione eucaristica. Sono molto grato perché sempre più si rinnova l'adorazione eucaristica. Durante il Sinodo sull'Eucaristia i Vescovi hanno parlato molto delle loro esperienze, di come ritorna nuova vita nelle comunità con questa adorazione, anche notturna, e di come proprio così nascono anche nuove vocazioni. Posso dire che fra poco firmerò l’Esortazione post-sinodale sull’Eucaristia, che sarà poi a disposizione della Chiesa. È un Documento che si offre proprio alla meditazione. Esso aiuterà sia nella celebrazione liturgica, sia nella riflessione personale, sia nella preparazione delle omelie, sia nella celebrazione dell'Eucaristia. E servirà anche a guidare, illuminare e rivitalizzare la pietà popolare.

Infine, Lei ci ha parlato del Santuario come luogo della caritas. Questo mi sembra molto logico e necessario. Ho riletto poco tempo fa ciò che sant'Agostino dice nel Libro X delle Confessioni: io sono stato tentato e adesso capisco che era una tentazione di chiudermi nella vita contemplativa, di cercare la solitudine con Te, Signore; ma tu me lo hai impedito, mi hai tirato fuori e mi hai fatto sentire la parola di san Paolo: «Cristo è morto per tutti. Così noi dobbiamo morire con Cristo e vivere per tutti»; ho capito che non posso chiudermi nella contemplazione; Tu sei morto per tutti, quindi devo, con Te, vivere per tutti e così vivere le opere della carità. La vera contemplazione si dimostra nelle opere della carità. Quindi, il segno che abbiamo veramente pregato, che abbiamo avuto l'incontro con Cristo, è che siamo «per gli altri». Così dev'essere un Parroco. E sant'Agostino era un grande Parroco. Egli dice: nella mia vita io volevo sempre vivere in ascolto della Parola, nella meditazione, ma adesso devo — giorno per giorno, ora per ora — stare alla porta, dove suona sempre il campanello, devo consolare gli afflitti, aiutare i poveri, ammonire quelli che sono litigiosi, creare pace, e via dicendo. Sant'Agostino elenca tutto il lavoro di un Parroco, perché in quel tempo il Vescovo era anche quello che è adesso il Kadi nei Paesi islamici. Per i problemi del diritto civile, diciamo, egli era il giudice di pace: ha dovuto favorire la pace tra i litigiosi. Quindi ha vissuto un'esistenza che per lui, uomo contemplativo, è stata molto difficile. Ma ha capito questa verità: così sono con Cristo; essendo «per gli altri», sono nel Signore crocifisso e risorto.

Questa mi sembra una grande consolazione per i Parroci e per i Vescovi. Se rimane poco tempo per la contemplazione, essendo «per gli altri» siamo col Signore. Lei ha parlato degli altri elementi concreti della carità, che sono molto importanti. Sono anche un segno per la nostra società, in particolare per i bambini, per gli anziani, per i sofferenti. Quindi penso che Lei, con queste quattro dimensioni della vita, ci ha dato la risposta alla domanda: che cosa dobbiamo fare nel nostro Santuario?


Ha parlato poi Don Maurizio Secondo Mirilli, Vicario parrocchiale di Santa Bernardette Soubirous e addetto al Servizio per la Pastorale Giovanile della Diocesi, il quale ha sottolineato il compito impegnativo che spetta ai sacerdoti nella missione di formare alla fede le nuove generazioni. Al Papa Don Maurizio ha chiesto una parola di guida e di orientamento sul modo di trasmettere ai giovani la gioia della fede cristiana, soprattutto di fronte alle sfide culturali odierne, e lo ha sollecitato ad indicare le tematiche prioritarie su cui investire maggiormente le energie per aiutare i ragazzi e le ragazze ad incontrare concretamente Cristo.

Grazie per il lavoro che svolge per gli adolescenti. Sappiamo che la gioventù dev'essere realmente una priorità del nostro lavoro pastorale, perché essa vive in un mondo lontano da Dio. Ed è molto difficile trovare in questo nostro contesto culturale l'incontro con Cristo, la vita cristiana, la vita della fede. I giovani hanno bisogno di tanto accompagnamento per poter realmente trovare questa strada. Direi — anche se purtroppo io vivo abbastanza lontano da loro e quindi non posso dare indicazioni molto concrete — che il primo elemento mi sembra proprio e soprattutto l'accompagnamento. Essi devono vedere che si può vivere la fede in questo tempo, che non si tratta di una cosa del passato, ma che è possibile vivere oggi da cristiani e trovare così realmente il bene.

Mi ricordo di un elemento autobiografico negli scritti di san Cipriano. Io ho vissuto in questo nostro mondo — egli dice — totalmente lontano da Dio, perché le divinità erano morte e Dio non era visibile. E vedendo i cristiani ho pensato: è una vita impossibile, questo non si può realizzare nel nostro mondo! Ma poi, incontrandone alcuni, entrando nella loro compagnia, lasciandomi guidare nel catecumenato, in questo cammino di conversione verso Dio, man mano ho capito: è possibile! E adesso sono felice di aver trovato la vita. Ho capito che quell'altra non era vita, e in verità — confessa — sapevo anche prima che quella non era la vera vita.

Mi sembra molto importante che i giovani trovino persone — sia della loro età che più mature — nelle quali possano vedere che la vita cristiana oggi è possibile ed è anche ragionevole e realizzabile. Su entrambi questi ultimi elementi mi sembra che ci siano dubbi: sulla realizzabilità, perché le altre strade sono molto lontane dal modo di vivere cristiano, e sulla ragionevolezza, perché a prima vista sembra che la scienza ci dica cose totalmente diverse e quindi non si possa aprire un percorso ragionevole verso la fede, così da mostrare che essa è una cosa in sintonia col nostro tempo e con la ragione.

Il primo punto è quindi l'esperienza, che apre poi la porta anche alla conoscenza. In questo senso, il «catecumenato» vissuto in modo nuovo — cioè come cammino comune di vita, come comune esperienza del fatto che è possibile vivere così — è di grande importanza. Solo se c'è una certa esperienza si può poi anche capire. Mi ricordo di un consiglio che Pascal dava ad un amico non credente. Gli diceva: prova un po' a fare le cose che fa un credente, e poi con questa esperienza vedrai che tutto ciò è logico ed è vero.

Direi che un aspetto importante ci è mostrato proprio adesso dalla Quaresima. Non possiamo pensare di vivere subito una vita cristiana al cento per cento, senza dubbi e senza peccati. Dobbiamo riconoscere che siamo in cammino, che dobbiamo e possiamo imparare, che dobbiamo anche convertirci man mano. Certo, la conversione fondamentale è un atto che è per sempre. Ma la realizzazione della conversione è un atto di vita, che si realizza nella pazienza di una vita. È un atto nel quale non dobbiamo perdere la fiducia e il coraggio del cammino. Proprio questo dobbiamo riconoscere: non possiamo fare di noi stessi dei cristiani perfetti da un momento all'altro. Tuttavia, vale la pena andare avanti, tener fede all'opzione fondamentale, per così dire, e poi permanere con perseveranza in un cammino di conversione che talvolta diventa difficile. Può capitare infatti che mi senta scoraggiato, così da voler lasciare tutto e restare in uno stato di crisi. Non ci si deve subito lasciar cadere, ma con coraggio bisogna ricominciare. Il Signore mi guida, il Signore è generoso e con il suo perdono vado avanti, diventando anch'io generoso con gli altri. Così impariamo realmente l'amore per il prossimo e la vita cristiana, che implica questa perseveranza dell'andare avanti.

Quanto ai grandi temi, direi che è importante conoscere Dio. Il tema «Dio» è essenziale. San Paolo dice nella Lettera agli Efesini: «Ricordatevi che in quel tempo eravate... senza speranza e senza Dio. Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini» (Ef 2, 12-13). Così la vita ha un senso che mi guida anche nelle difficoltà. Quindi bisogna ritornare al Dio Creatore, al Dio che è la ragione creatrice, e poi trovare Cristo, che è il Volto vivo di Dio. Diciamo che qui c'è una reciprocità. Da una parte, l'incontro con Gesù, con questa figura umana, storica, reale; mi aiuta a conoscere man mano Dio; e, dall'altra parte, conoscere Dio mi aiuta a capire la grandezza del mistero di Cristo, che è il Volto di Dio. Solo se riusciamo a capire che Gesù non è un grande profeta, una delle personalità religiose del mondo, ma è il Volto di Dio, è Dio, allora abbiamo scoperto la grandezza di Cristo e abbiamo trovato chi è Dio. Dio non è solo un'ombra lontana, la «Causa prima», ma ha un Volto: è il Volto della misericordia, il Volto del perdono e dell'amore, il Volto dell'incontro con noi. Quindi questi due temi si compenetrano reciprocamente e devono andare sempre insieme.

Poi, naturalmente, dobbiamo capire che la Chiesa è la grande compagna del cammino nel quale siamo. In essa la Parola di Dio rimane viva e Cristo non è solo una figura del passato, ma è presente. Così dobbiamo riscoprire la vita sacramentale, il perdono sacramentale, l'Eucaristia, il Battesimo come nascita nuova. Sant'Ambrogio nella Notte Pasquale, nell'ultima Catechesi mistagogica, ha detto: Finora abbiamo parlato delle cose morali, adesso è il momento di parlare del Mistero. Aveva offerto una guida all'esperienza morale, naturalmente alla luce di Dio, che poi si apre al Mistero. Penso che oggi queste due cose debbano compenetrarsi: un cammino con Gesù che sempre più scopre la profondità del suo Mistero. Così si impara a vivere in modo cristiano, si impara la grandezza del perdono e la grandezza del Signore che si dona a noi nell'Eucaristia.

In questo cammino, naturalmente, ci accompagnano i santi. Essi, pur con tanti problemi, hanno vissuto e sono stati le «interpretazioni» vere e vive della Sacra Scrittura. Ognuno ha il suo santo, dal quale può meglio imparare che cosa comporta il vivere da cristiano. Sono soprattutto i santi del nostro tempo. E poi, naturalmente, c'è sempre Maria, che rimane la Madre della Parola. Riscoprire Maria ci aiuta ad andare avanti da cristiani e a conoscere il Figlio.


Padre Franco Incampo, Rettore della Chiesa di Santa Lucia del Gonfalone, ha presentato l'esperienza della lettura integrale della Bibbia che stanno facendo la sua Comunità insieme con la Chiesa valdese. «Ci siamo messi in ascolto della Parola — ha detto —. È un progetto ampio. Qual è il valore della Parola nella Comunità ecclesiale? Perché noi conosciamo così poco la Bibbia? Come promuovere la conoscenza della Bibbia perché la Parola formi la comunità anche per un cammino ecumenico?».

Lei ha certamente un'esperienza più concreta di come fare questo. Posso, innanzitutto, dire che avremo il prossimo Sinodo sulla Parola di Dio. Ho già potuto vedere i «Lineamenta» elaborati dal Consiglio del Sinodo e penso che appariranno bene le diverse dimensioni della presenza della Parola nella Chiesa.

Naturalmente la Bibbia, nella sua integralità, è una cosa grandissima e da scoprire a mano a mano. Perché se prendiamo solo le singole parti spesso può essere difficile capire che si tratta di Parola di Dio: penso a certe parti dei Libri dei Re con le cronistorie, con lo sterminio dei popoli esistenti in Terra Santa. Molte altre cose sono difficili. Anche proprio il Qoelet può essere isolato e può risultare molto difficile: sembra proprio teorizzare la disperazione perché niente rimane e anche il saggio alla fine muore con gli stolti. Ne abbiamo avuto ora la lettura nel Breviario.

Un primo punto mi sembra proprio quello di leggere la Sacra Scrittura nella sua unità e integralità. Le singole parti sono parti di un cammino e solo vedendole nella loro integralità come un cammino unico, dove una parte spiega l'altra, possiamo capire questo. Rimaniamo per esempio nel Qoelet. Vi era in precedenza la parola della saggezza secondo cui chi è buono vive anche bene. Cioè Dio premia chi è buono. E poi viene Giobbe e si vede che non è così e che proprio chi vive bene soffre di più. Sembra proprio dimenticato da Dio. Vengono i Salmi di quel periodo dove si dice: ma che cosa fai Dio? Gli atei, i superbi vivono bene, sono grassi, si nutrono bene e ridono di noi e dicono: ma dov'è Dio? Non s'interessa a noi e noi siamo stati venduti come pecore da macello. Che cosa fai con noi, perché è così? Arriva il momento dove il Qoelet dice: ma tutta questa saggezza alla fine dove rimane? È un Libro quasi esistenzialista, in cui si afferma: tutto è vano. Questo primo cammino non perde il suo valore, ma si apre alla nuova prospettiva che, alla fine, guida alla croce di Cristo, «il Santo di Dio», come dice San Pietro nel capitolo sesto del Vangelo di Giovanni. Finisce con la Croce. E proprio così si dimostra la saggezza di Dio, che poi ci descriverà San Paolo.

E, quindi, solo se prendiamo tutto come un unico cammino, passo dopo passo, e impariamo a leggere la Scrittura nella sua unità, possiamo anche realmente trovare l'accesso alla bellezza e alla ricchezza della Sacra Scrittura. Leggere quindi tutto, ma sempre tener presente la totalità della Sacra Scrittura, dove una parte spiega l'altra, un passo del cammino spiega l'altro. Su questo punto l'esegesi moderna può anche aiutare molto. Prendiamo, per esempio, il Libro di Isaia, quando gli esegeti scoprirono che dal capitolo 40 l’autore è un altro — il "Deutero-Isaia", come si disse in quel tempo. Per la teologia cattolica vi fu un momento di grande terrore. Qualcuno pensò che così si distruggeva Isaia e alla fine, nel capitolo 53, la visione del servo di Dio non era più dell'Isaia che era vissuto quasi 800 anni prima di Cristo. Che cosa facciamo, ci si domandò? Adesso abbiamo capito che tutto il Libro è un cammino di sempre nuove riletture, dove sempre più si entra nel mistero proposto all’inizio e si apre sempre più quanto era inizialmente presente, ma ancora chiuso. Possiamo capire proprio in un Libro tutto il cammino della Sacra Scrittura, che è un permanente rileggere, un ricapire meglio quanto è stato detto prima. Passo per passo la luce si accende e il cristiano può capire quanto il Signore ha detto ai discepoli di Emmaus, spiegando loro che tutti i profeti avevano parlato di Lui. Il Signore ci apre l'ultima rilettura, Cristo è la chiave di tutto e solo unendosi nel cammino ai discepoli di Emmaus, solo camminando con Cristo, rileggendo tutto nella sua luce, con Lui crocifisso e risorto, entriamo nella ricchezza e nella bellezza della Sacra Scrittura.

Perciò, direi, il punto importante è non frammentare la Sacra Scrittura. Proprio la moderna critica, come vediamo adesso, ci ha fatto capire che è un cammino permanente. E possiamo anche vedere che è un cammino che ha una direzione e che Cristo realmente è il punto di arrivo. Cominciando da Cristo possiamo riprendere tutto il cammino ed entrare nella profondità della Parola.

Riassumendo, direi, la lettura della Sacra Scrittura deve essere sempre una lettura nella luce di Cristo. Solo così possiamo leggere e capire, anche nel nostro contesto attuale, la Sacra Scrittura e avere realmente luce dalla Sacra Scrittura. Dobbiamo comprendere questo: la Sacra Scrittura è un cammino con una direzione. Chi conosce il punto di arrivo può anche, adesso di nuovo, fare tutti i passi e imparare così in modo più profondo il mistero di Cristo. Comprendendo questo abbiamo anche capito l'ecclesialità della Sacra Scrittura, perché questi cammini, questi passi del cammino, sono passi di un popolo. È il popolo di Dio che va avanti. Il vero proprietario della Parola è sempre il popolo di Dio, guidato dallo Spirito Santo, e l'ispirazione è un processo complesso: lo Spirito Santo guida avanti, il popolo riceve.

È, quindi, il cammino di un popolo, del popolo di Dio. Sempre la Sacra Scrittura va letta bene. Ma ciò può avvenire solo se camminiamo all’interno di questo soggetto che è il popolo di Dio che vive, è rinnovato, è rifondato da Cristo, ma rimane sempre nella sua identità.

Quindi, direi che vi sono tre dimensioni in rapporto tra loro. La dimensione storica, la dimensione cristologica e la dimensione ecclesiologica — del popolo in cammino — si compenetrano. Una lettura completa è quella in cui le tre dimensione sono presenti. Perciò la liturgia - la lettura comune, orante, del popolo di Dio - rimane il luogo privilegiato per la comprensione della Parola,, anche perché proprio qui la lettura diventa preghiera e si unisce con la preghiera di Cristo nella Preghiera eucaristica.

Vorrei ancora aggiungere una cosa che hanno sottolineato tutti i Padri della Chiesa. Penso soprattutto a un bellissimo testo di Sant'Efrem e a un altro di Sant'Agostino nei quali si dice: se tu hai capito poco, accetta, e non pensare di aver capito tutto. La Parola rimane sempre molto più grande di quanto tu hai potuto capire. E questo va detto adesso in modo critico nei confronti di una certa parte dell'esegesi moderna, che pensa di aver capito tutto e che perciò, dopo l’interpretazione da essa elaborata, non si possa ormai dire null’altro di più. Questo non è vero. La Parola è sempre più grande dell'esegesi dei Padri e dell'esegesi critica, perché anche questa capisce solo una parte, direi anzi una parte minima. La Parola è sempre più grande, questa è la nostra grande consolazione. E da una parte è bello sapere di aver capito soltanto un po'. È bello sapere che c'è ancora un tesoro inesauribile e che ogni nuova generazione riscoprirà nuovi tesori e andrà avanti con la grandezza della Parola di Dio, che è sempre davanti a noi, ci guida ed è sempre più grande. E’ con questa consapevolezza che si deve leggere la Scrittura.

Sant'Agostino ha detto: beve dalla fonte la lepre e beve l'asino. L'asino beve di più, ma ognuno beve secondo la sua capacità. Sia che siamo lepri o che siamo asini, siamo grati che il Signore ci faccia bere dalla sua acqua.

Il tema dei Movimenti Ecclesiali e delle Nuove Comunità, come dono provvidenziale per i nostri tempi, è stato proposto da Padre Gerardo Raul Carcar, appartenente alla Comunità dei Padri di Schönstatt, arrivato a Roma sei mesi fa dall'Argentina, e oggi vicario cooperatore della Parrocchia di San Girolamo a Corviale. Si tratta di realtà che hanno uno slancio creativo, vivono la fede e cercano nuove forme di vita per trovare una giusta collocazione missionaria nella Chiesa. Al Papa il religioso ha chiesto un consiglio su come inserirsi per sviluppare realmente un ministero di unità nella Chiesa universale.

Dunque, vedo che devo essere più breve. Grazie per questa domanda. Mi sembra che Lei abbia citato le fonti essenziali di quanto posso dire sui Movimenti. In questo senso la sua domanda è anche una risposta.

Vorrei subito precisare che in questi mesi ricevo i Vescovi italiani in visita «ad limina» e così posso un po' meglio imparare la geografia della fede in Italia. Vedo tante belle cose insieme con i problemi che conosciamo tutti. Vedo soprattutto come la fede sia ancora profondamente radicata nel cuore italiano, anche se, naturalmente, in molti modi è minacciata nelle odierne situazioni. I Movimenti accettano anche bene la mia funzione paterna di Pastore. Altri sono più critici e dicono che i Movimenti non si inseriscono. Penso che realmente le situazioni sono diverse, dipende tutto dalle persone in questione.

Mi sembra che abbiamo due regole fondamentali, delle quali Lei ha parlato. La prima regola ce l'ha dato San Paolo nella Prima Lettera ai Tessalonicesi: non spegnere i carismi. Se il Signore ci dà nuovi doni dobbiamo essere grati, anche se a volte sono scomodi. Ed è una bella cosa che, senza iniziativa della gerarchia, con una iniziativa dal basso, come si dice, ma con una iniziativa anche realmente dall'Alto, cioè come dono dello Spirito Santo, nascono nuove forme di vita nella Chiesa, come del resto sono nate in tutti i secoli.

Inizialmente erano sempre scomode: anche San Francesco era molto scomodo e per il Papa era molto difficile dare, finalmente, una forma canonica ad una realtà che era molto più grande dei regolamenti giuridici. Per San Francesco era un grandissimo sacrificio lasciarsi incastrare in questo scheletro giuridico, ma alla fine è nata così una realtà che vive ancor oggi e che vivrà in futuro: essa dà forza e nuovi elementi alla vita della Chiesa.

Voglio solo dire questo: in tutti i secoli sono nati Movimenti. Anche San Benedetto, inizialmente, era un Movimento. Si inseriscono nella vita della Chiesa non senza sofferenze, non senza difficoltà. San Benedetto stesso ha dovuto correggere l’iniziale direzione del monachesimo. E così anche nel nostro secolo il Signore, lo Spirito Santo, ci ha dato nuove iniziative con nuovi aspetti della vita cristiana: vissuti da persone umane con i loro limiti, esse creano anche difficoltà.

Prima regola dunque: non spegnere i carismi, essere grati anche se sono scomodi. La seconda regola è questa: la Chiesa è una; se i Movimenti sono realmente doni dello Spirito Santo, si inseriscono e servono la Chiesa e nel dialogo paziente tra Pastori e Movimenti nasce una forma feconda dove questi elementi diventano elementi edificanti per la Chiesa di oggi e di domani.

Questo dialogo è a tutti i livelli. Cominciando dal parroco, dal Vescovo e dal Successore di Pietro è in corso la ricerca delle opportune strutture: in molti casi la ricerca ha già dato i suoi frutti. In altri si sta ancora studiando. ad esempio, ci si domanda se dopo cinque anni di esperimento, si debbano confermare in modo definitivo gli Statuti per il Cammino Neocatecumenale o se ancora ci voglia un tempo di esperimento o se si debbano forse un po' ritoccare alcuni elementi di questa struttura.

In ogni caso, io ho conosciuto i Neocatecumenali dall'inizio. E’ stato un Cammino lungo, con molte complicazioni che esistono anche oggi, ma abbiamo trovato una forma ecclesiale che ha già molto migliorato il rapporto tra il Pastore e il Cammino. E andiamo avanti così! Lo stesso vale per gli altri Movimenti.

Adesso come sintesi delle due regole fondamentali direi: gratitudine, pazienza e accettazione anche delle sofferenze che sono inevitabili. Anche in un matrimonio ci sono sempre sofferenze e tensioni. E tuttavia vanno avanti e così matura il vero amore. Lo stesso avviene nella comunità della Chiesa: abbiamo pazienza insieme. Anche i diversi livelli della gerarchia - dal parroco, al Vescovo, al Sommo Pontefice - devono avere insieme un continuo scambio di idee, devono promuovere il colloquio per trovare insieme la strada migliore. Le esperienze dei parroci sono fondamentali, ma poi anche le esperienze del Vescovo e, diciamo, la prospettiva universale del Papa hanno un proprio luogo teologico e pastorale nella Chiesa.

Quindi, da una parte, questo insieme di diversi livelli della gerarchia; dall'altra, l'insieme vissuto nelle parrocchie, con pazienza e apertura, in obbedienza al Signore, crea realmente la vitalità nuova della Chiesa.

Siamo grati allo Spirito Santo per i doni che ci ha dato. Siamo obbedienti alla voce dello Spirito, ma siamo anche chiari nell'integrare questi elementi nella vita: questo criterio serve, alla fine, la Chiesa concreta e così con pazienza, con coraggio e con generosità certamente il Signore ci guiderà e ci aiuterà.


Don Angelo Mangano, Parroco di San Gelasio, parrocchia affidata alla cura pastorale della Comunità «Missione Chiesa Mondo» dal 2003, ha significativamente parlato della pastorale nella festa della Cattedra di San Pietro. Ha indicato l'importanza di sviluppare una unicità tra quella che è la vita spirituale e la vita pastorale che non è un tecnica organizzativa ma coincide con la vita stessa della Chiesa. Gesù stesso si fa sintesi, ha detto il sacerdote che ha chiesto al Santo Padre come far passare nel Popolo di Dio il concetto della pastorale come vera vita della Chiesa e come fare perché la pastorale si nutra sempre più dell'ecclesiologia conciliare.

Sono, mi sembra, diverse domande. Una domanda è come ispirare la parrocchia con la ecclesiologia conciliare, far vivere dai fedeli questa ecclesiologia; l'altra è come dobbiamo noi agire e in noi stessi rendere spirituale il lavoro pastorale. Cominciamo con quest’ultima domanda. Una certa tensione tra che cosa devo assolutamente fare e quali riserve spirituali devo avere rimane sempre. Io lo vedo sempre in Sant'Agostino che si lamenta nelle prediche. Ho già citato: io amerei tanto vivere con la Parola di Dio, ma devo dal mattino fino alla sera stare con voi. Agostino tuttavia trova questo equilibrio essendo sempre a disposizione, ma riservandosi anche momenti di preghiera, di meditazione della sacra Parola, perché altrimenti non potrebbe più dire niente. Vorrei qui, in particolare, sottolineare quanto Lei ha detto circa il fatto che la pastorale non dovrebbe mai essere una semplice strategia, un lavoro amministrativo, ma sempre restare un lavoro spirituale. Certamente anche l'altro non può totalmente mancare, perché siamo su questa terra e questi problemi ci sono: come amministrare bene i soldi ecc. Anche questo è un settore che non può essere totalmente mancante.

Ma l'accento fondamentale deve essere proprio quello che l'essere pastore è in se stesso un atto spirituale. Lei ha giustamente accennato al Vangelo di Giovanni, cap. 10, dove il Signore si definisce il buon Pastore. E come primo momento definitivo, Gesù dice che il Pastore precede. Cioè Lui mostra la strada, fa prima quanto devono fare gli altri, prende prima la strada che è la strada per gli altri. Il Pastore precede. Questo vuol dire che Lui stesso vive innanzitutto la Parola di Dio: è un uomo di preghiera, è un uomo di perdono, è un uomo che riceve e celebra i Sacramenti come atti di preghiera e di incontro con il Signore. È un uomo di carità, vissuta e realizzata E così tutti gli atti semplici di colloqui, di incontri, di tutto quanto si deve fare, diventano atti spirituali in comunione con Cristo. Il suo «pro omnibus» diventa il nostro «pro meis».

Allora precede e mi sembra che in questo precedere è già detto l'essenziale. Il capitolo 10 di San Giovanni continua poi riferendo che Gesù ci precede donando se stesso alla Croce. E questo è anche inevitabile per il sacerdote. Questo offrire se stesso è anche una partecipazione alla Croce di Cristo ed è grazie a questo che possiamo anche noi in modo credibile consolare i sofferenti, stare con i poveri, con gli emarginati, eccetera.

Quindi in questo programma che Lei ha sviluppato, la spiritualizzazione del lavoro quotidiano della pastorale è fondamentale. È più facile dirlo che farlo, ma dobbiamo tentarlo. E per poter spiritualizzare il nostro lavoro, di nuovo dobbiamo seguire il Signore. I Vangeli ci dicono che di giorno lavorava e di notte era sul monte con il Padre e pregava. Io devo qui confessare la mia debolezza. Di notte non posso pregare, vorrei dormire di notte. Ma, tuttavia, un po' di tempo libero per il Signore ci vuole realmente: sia la celebrazione della Messa, sia la preghiera della Liturgia delle Ore e la meditazione quotidiana, anche se breve, seguendo la Liturgia, il Rosario. Ma questo colloquio personale con la Parola di Dio è importante. E solo così possiamo avere le riserve per rispondere alle esigenze della vita pastorale.

Secondo punto: Lei giustamente ha sottolineato l'ecclesiologia del Concilio. Mi sembra che dobbiamo ancora molto di più interiorizzare questa ecclesiologia, sia quella della «Lumen gentium» sia quella della «Ad gentes», che è anche un Documento ecclesiologico, sia anche quella dei Documenti minori, e poi quella della «Dei Verbum». E interiorizzando questa visione possiamo anche attirare il nostro popolo in questa visione, che capisca che la Chiesa non è semplicemente una grande struttura, uno di questi enti sovranazionali che esistono. La Chiesa, pur essendo corpo, è corpo di Cristo e quindi un corpo spirituale, come dice San Paolo. È una realtà spirituale. Mi sembra questo molto importante: che la gente possa vedere che la Chiesa non è una organizzazione sovranazionale, non è un corpo amministrativo o di potere, non è una agenzia sociale, benché faccia un lavoro sociale e sovranazionale, ma è un corpo spirituale.

Mi sembra che il nostro pregare con il popolo, l’ascoltare insieme con il popolo la Parola di Dio, celebrare con il popolo di Dio i Sacramenti, agire con Cristo nella carità ecc. Soprattutto nelle omelie dobbiamo distribuire questa visione. Mi sembra, in questo senso, l'omelia rimane un'occasione meravigliosa di essere vicino alla gente e di comunicare la spiritualità insegnata dal Concilio. E così mi sembra che se l'omelia è cresciuta nella preghiera, nell'ascolto della Parola di Dio, è comunicazione del contenuto della Parola di Dio. Il Concilio realmente arriva alla nostra gente. Non quei frammenti della pubblicistica che hanno dato un'immagine sbagliata del Concilio. Ma la vera realtà spirituale del Concilio. E così dobbiamo sempre e di nuovo con il Concilio e nello spirito del Concilio, interiorizzando la sua visione, imparare la Parola di Dio. Facendo questo possiamo anche comunicare con la nostra gente e così realmente fare un lavoro pastorale e spirituale.


Don Alberto Pacini, Rettore della Basilica di sant'Anastasia, ha parlato dell'adorazione eucaristica perpetua — in particolare della possibilità di organizzare turni notturni — ed ha chiesto al Papa di spiegare il senso e il valore della riparazione eucaristica di fronte ai furti sacrileghi e alle sette sataniche.

Non parliamo più in generale dell'adorazione eucaristica, che è penetrata realmente nei nostri cuori e penetra nel cuore del popolo. Lei ha posto questa domanda specifica sulla riparazione eucaristica. È un discorso che è divenuto difficile. Mi ricordo, quando ero giovane, che nella festa del Sacro Cuore si pregava con una bella preghiera di Leone XIII e poi una di Pio XI, nella quale la riparazione aveva un posto particolare, proprio in riferimento, già a quel tempo, agli atti sacrileghi che dovevano essere riparati.

Mi sembra che dobbiamo andare a fondo, arrivare al Signore stesso che ha offerto la riparazione per il peccato del mondo, e cercare di riparare: diciamo, di mettere equilibrio tra il plus del male e il plus del bene. Così, nella bilancia del mondo, non dobbiamo lasciare questo grande plus al negativo, ma dare un peso almeno equivalente al bene. Questa idea fondamentale si appoggia su quanto è stato fatto da Cristo. Questo, per quanto posso capire, è il senso del sacrificio eucaristico. Contro questo grande peso del male che esiste nel mondo e che tira giù il mondo, il Signore pone un altro peso più grande, quello dell'amore infinito che entra in questo mondo. Questo è il punto importante: Dio è sempre il bene assoluto, ma questo bene assoluto entra proprio nel gioco della storia; Cristo si rende qui presente e soffre fino in fondo il male, creando così un contrappeso di valore assoluto. Il plus del male, che esiste sempre se vediamo solo empiricamente le proporzioni, viene superato dal plus immenso del bene, della sofferenza del Figlio di Dio.

In questo senso c'è la riparazione, che è necessaria. Mi sembra che oggi sia un po' difficile capire queste cose. Se vediamo il peso del male nel mondo, che cresce in permanenza, che sembra avere assolutamente il sopravvento nella storia, ci si potrebbe — come dice sant'Agostino in una meditazione — proprio disperare. Ma vediamo che c'è un plus ancora più grande nel fatto che Dio stesso è entrato nella storia, si è fatto partecipe della storia ed ha sofferto fino in fondo. Questo è il senso della riparazione. Questo plus del Signore è per noi una chiamata a metterci dalla sua parte, ad entrare in questo grande plus dell'amore e a renderlo presente, anche con la nostra debolezza. Sappiamo che anche per noi c'era bisogno di questo plus, perché anche nella nostra vita c'è il male. Tutti viviamo grazie al plus del Signore. Ma Egli ci fa questo dono perché, come dice la Lettera ai Colossesi, possiamo associarci a questa sua abbondanza e, diciamo, far aumentare ancora di più questa abbondanza concretamente nel nostro momento storico.

Mi sembra che la teologia dovrebbe fare di più per capire ancora meglio questa realtà della riparazione. C'erano nella storia anche idee sbagliate. Ho letto in questi giorni i discorsi teologici di san Gregorio Nazianzeno, che in un certo momento parla di questo aspetto e si chiede: a chi il Signore abbia offerto il suo sangue. Egli dice: il Padre non voleva il sangue del Figlio, il Padre non è crudele, non è necessario attribuire questo alla volontà del Padre; ma la storia lo voleva, lo volevano le necessità e gli squilibri della storia; si doveva entrare in questi squilibri e qui ricreare il vero equilibrio. Questo è proprio molto illuminante. Ma mi sembra che non abbiamo ancora sufficientemente il linguaggio per far capire questo fatto a noi e poi anche agli altri. Non si deve offrire a un Dio crudele il sangue di Dio. Ma Dio stesso, con il suo amore, deve entrare nelle sofferenze della storia per creare non solo un equilibrio, ma un plus di amore che è più forte dell'abbondanza del male che esiste. Il Signore ci invita a questo.

Mi sembra una realtà tipicamente cattolica. Lutero dice: non possiamo aggiungere niente. E questo è vero. E poi dice: quindi le nostre opere non contano niente. E questo non è vero. Perché la generosità del Signore si mostra proprio nel fatto che ci invita ad entrare e dà valore anche al nostro essere con Lui. Dobbiamo imparare meglio tutto questo e sentire anche la grandezza, la generosità del Signore e la grandezza della nostra vocazione. Il Signore vuole associarci a questo suo grande plus. Se cominciamo a capirlo, saremo lieti che il Signore ci inviti a questo. Sarà la grande gioia di essere presi sul serio dall'amore del Signore.


Il settimo intervento è stato quello di Don Francesco Tedeschi, docente alla Facoltà di Missiologia della Pontificia Università Urbaniana, impegnato pastoralmente nella Basilica di san Bartolomeo all'Isola Tiberina, luogo memoriale dei nuovi martiri del XX secolo. Più che una domanda, quella di Don Tedeschi è stata una riflessione sull'esemplarità e sulla capacità attrattiva delle figure dei martiri nei confronti soprattutto dei giovani. Essi svelano la bellezza della fede cristiana e testimoniano dinanzi al mondo che è possibile rispondere al male con il bene fondando la propria vita sulla forza della speranza. A questa riflessione il Papa non ha voluto aggiungere ulteriori parole.

Gli applausi che abbiamo sentito dimostrano che Lei stesso ci ha già dato risposte ampie... Quindi alla sua domanda potrei semplicemente rispondere: sì, è così come Lei ha detto. E meditiamo le Sue parole.

Successivamente Padre Krzystzof Wendlik, Vicario parrocchiale dei santi Urbano e Lorenzo a Prima Porta, ha parlato del problema del relativismo nella cultura contemporanea ed ha chiesto al Papa una parola illuminante sul rapporto tra unità di fede e pluralismo in teologia.

È una grande domanda! Quando ero ancora membro della Commissione Teologica Internazionale abbiamo affrontato per un anno questo problema. Io sono stato il relatore e quindi me ne ricordo abbastanza bene. E tuttavia mi riconosco incapace di spiegare con poche parole la questione. Vorrei dire soltanto che la teologia è sempre stata molteplice. Pensiamo ai Padri, nel Medioevo la scuola francescana, la scuola domenicana, poi il tardo Medioevo e via dicendo. Come abbiamo detto, la Parola di Dio è sempre più grande di noi. Perciò non possiamo mai esaurire il raggio di questa Parola e diversi approcci, diversi tipi di riflessione sono necessari.

Vorrei semplicemente dire: è importante che il teologo, da una parte, nella sua responsabilità e nella sua capacità professionale, cerchi di trovare piste che rispondano alle esigenze e alle sfide del nostro tempo; e, dall'altra, sia sempre consapevole che tutto questo è basato sulla fede della Chiesa e deve perciò sempre ritornare alla fede della Chiesa. Io penso che se un teologo sta personalmente e profondamente nella fede e capisce che il suo lavoro è riflessione sulla fede, troverà la conciliazione tra unità e pluralità.


L'ultimo intervento è stato di Don Luigi Veturi, Parroco di san Giovanni Battista dei Fiorentini, il quale ha incentrato la sua domanda sul tema dell'arte sacra, chiedendo al Papa se essa non debba essere più adeguatamente valorizzata come mezzo di comunicazione della fede.

La risposta potrebbe essere molto semplice: sì! Sono arrivato da voi con un po' di ritardo, perché prima ho fatto visita alla Cappella Paolina, che da diversi anni è sottoposta a restauri. Mi hanno detto che dureranno ancora due anni. Ho potuto vedere un po' tra i ponteggi una parte di questa arte miracolosa. E vale la pena restaurarla bene, così che risplenda di nuovo e sia una catechesi viva.

Con questo volevo ricordare che l'Italia è particolarmente ricca di arte, e l’arte è un tesoro di catechesi inesauribile, incredibile. Per noi è anche un dovere conoscerla e capirla bene. Non come fanno qualche volta gli storici dell'arte, che la interpretano solo formalmente, secondo la tecnica artistica. Dobbiamo piuttosto entrare nel contenuto e far rivivere il contenuto che ha ispirato questa grande arte. Mi sembra realmente un dovere — anche nella formazione dei futuri sacerdoti — conoscere questi tesori ed essere capaci di trasformare in catechesi viva quanto è presente in essi e parla oggi a noi. Così anche la Chiesa potrà apparire un organismo non di oppressione o di potere — come alcuni vogliono mostrare — ma di una fecondità spirituale irripetibile nella storia, o almeno, oserei dire, tale da non potersi riscontrare fuori della Chiesa Cattolica. Questo è anche un segno della vitalità della Chiesa, che, con tutte le sue debolezze e anche i suoi peccati, sempre è rimasta una grande realtà spirituale, un'ispiratrice che ci ha donato tutta questa ricchezza.

Quindi è un dovere per noi entrare in questa ricchezza ed essere capaci di farci interpreti di questa arte. Ciò vale sia per l'arte pittorica e scultorea, sia per la musica sacra, che è un settore dell'arte che merita di essere vivificato. Direi che il Vangelo variamente vissuto è ancora oggi una forza ispiratrice che ci dà e ci darà arte. Ci sono anche oggi soprattutto sculture bellissime, che dimostrano che la fecondità della fede e del Vangelo non si è spenta, ci sono anche oggi composizioni musicali... Mi sembra che si possa sottolineare una situazione, diciamo, contraddittoria dell'arte, una situazione anche un po' disperata dell'arte. Anche oggi la Chiesa ispira, perché la fede e la Parola di Dio sono inesauribili. E questo dà coraggio a noi tutti. Ci dà la speranza che anche il mondo futuro avrà nuove visioni della fede e, nello stesso tempo, la certezza che i duemila anni di arte cristiana già trascorsi sono sempre vivi e sono sempre un «oggi» della fede.

Ecco, grazie per la vostra pazienza e per la vostra attenzione. Auguri per la Quaresima!


Una piccola polemica...clicca
qui

© Copyright 2007 - Libreria Editrice Vaticana
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
16/09/2009 19:21

INCONTRO DEL SANTO PADRE CON IL CLERO DI BELLUNO-FELTRE E TREVISO AD AURONZO DI CADORE , 24.07.2007

TESTO DELLA CONVERSAZIONE


D. - Santità, sono don Claudio, volevo farle una domanda circa la formazione della coscienza, in particolare riguardo alle giovani generazioni, perché oggi formare una coscienza coerente, una coscienza retta, sembra sempre più difficile. Si scambia il bene e il male con il sentirsi bene e il sentirsi male, l’aspetto più emotivo. Allora volevo avere qualche consiglio da parte sua. Grazie...

R. – Eccellenze, cari fratelli, innanzitutto vorrei esprimervi la mia gioia e la mia gratitudine per questo bell’incontro. Ringrazio i due Vescovi, Sua Eccellenza Andrich e Sua Eccellenza Mazzocato, per quest’invito. A tutti voi che siete venuti così numerosi in tempo di vacanze il mio sentito grazie. Vedere una chiesa piena di sacerdoti è incoraggiante, perché vediamo che i sacerdoti ci sono. La Chiesa vive, anche se i problemi crescono nel nostro tempo e proprio nel nostro Occidente. La Chiesa è sempre viva e con sacerdoti che realmente desiderano annunciare il Regno di Dio, cresce e resiste a queste complicazioni, che vediamo nella nostra situazione culturale di oggi. Adesso, questa prima domanda riflette un poco un problema della situazione culturale in Occidente, perché il concetto di coscienza negli ultimi due secoli si è trasformato profondamente. Oggi prevale l’idea che razionale, che parte della ragione, sarebbe solo quanto è quantificabile. Le altre cose, cioè le materie della religione e della morale, non entrerebbero nella ragione comune, perché non verificabili, o, come si dice, non falsificabili nell’esperimento. In questa situazione, dove morale e religione sono quasi espulse dalla ragione, l’unico criterio ultimo della moralità e anche della religione è il soggetto, la coscienza soggettiva che non conosce altre istanze. Solo il soggetto, alla fine, con il suo sentimento, le sue esperienze, eventuali criteri che ha trovato, decide. Ma così il soggetto diventa una realtà isolata, e cambiano così, come Lei ha detto, di giorno in giorno, i parametri.

Nella tradizione cristiana "coscienza" vuol dire con-scienza: cioè noi, il nostro essere è aperto, può ascoltare la voce dell’essere stesso, la voce di Dio. La voce, quindi, dei grandi valori è iscritta nel nostro essere e la grandezza dell’uomo è proprio che non è chiuso in sé, non è ridotto alle cose materiali, quantificabili, ma ha un’interiore apertura per le cose essenziali, la possibilità di un ascolto.

Nella profondità del nostro essere possiamo ascoltare non solo i bisogni del momento, non solo le cose materiali, ma ascoltare la voce del Creatore stesso e così si conosce cosa è bene e cosa è male. Ma naturalmente questa capacità di ascolto deve essere educata e sviluppata. E proprio questo è l’impegno dell’annuncio che noi facciamo in Chiesa: sviluppare questa altissima capacità donata da Dio all’uomo di ascoltare la voce della verità e così la voce dei valori. Quindi, direi che un primo passo è di rendere coscienti le persone che la nostra stessa natura porta in sé un messaggio morale, un messaggio divino, che deve essere decifrato e che noi possiamo man mano conoscere meglio, ascoltare, se il nostro ascolto interiore viene aperto e sviluppato. Adesso la questione concreta è come fare questa educazione all’ascolto, come rendere l’uomo capace di questo, nonostante tutte queste sordità moderne, come far sì che ritorni questo ascolto, che sia realmente avvenimento, l’Effatà del Battesimo, l’apertura dei sensi interiori. Io, vedendo la situazione nella quale ci troviamo, proporrei una combinazione tra una via laica e una via religiosa, la via della fede. Tutti vediamo oggi che l’uomo potrebbe distruggere il fondamento della sua esistenza, la sua terra, e quindi che non possiamo più semplicemente fare con questa nostra terra, con la realtà affidataci, quanto vogliamo e quanto appare nel momento utile e promettente, ma dobbiamo rispettare le leggi interiori della creazione, di questa terra, imparare queste leggi e obbedire anche a queste leggi, se vogliamo sopravvivere. Quindi, questa obbedienza alla voce della terra, dell’essere, è più importante per la nostra felicità futura che le voci del momento, i desideri del momento. Insomma, questo è un primo criterio da imparare: che l’essere stesso, la nostra terra, parla con noi e noi dobbiamo ascoltare se vogliamo sopravvivere e decifrare questo messaggio della terra. E se dobbiamo essere obbedienti alla voce della terra, questo vale ancora di più per la voce della vita umana. Non solo dobbiamo curare la terra, ma dobbiamo rispettare l’altro, gli altri. Sia l’altro nella sua singolarità come persona, come mio prossimo, sia gli altri come comunità che vive nel mondo e che deve vivere insieme. E vediamo che solo nel rispetto assoluto di questa creatura di Dio, di questa immagine di Dio che è l’uomo, solo nel rispetto del vivere insieme sulla terra, possiamo andare avanti. E qui arriviamo al punto che abbiamo bisogno delle grandi esperienze morali dell’umanità, che sono esperienze nate dall’incontro con l’altro, con la comunità, l’esperienza che la libertà umana è sempre una libertà condivisa e può funzionare soltanto se condividiamo le nostre libertà nel rispetto di valori che sono comuni per tutti noi. Mi sembra che con questi passi si possa far vedere la necessità di obbedire alla voce dell’essere, di obbedire alla dignità dell’altro, di obbedire alla necessità del vivere insieme le nostre libertà come una libertà, e per tutto questo conoscere il valore che vi è nel permettere una degna comunione di vita tra gli uomini. Così arriviamo, come già detto, alle grandi esperienze dell’umanità, nelle quali si esprime la voce dell’essere, e soprattutto alle esperienze di questo grande pellegrinaggio storico del popolo di Dio, cominciato con Abramo, nel quale troviamo non solo le esperienze umane fondamentali, ma possiamo, tramite queste esperienze, sentire la voce del Creatore stesso che ci ama e che ha parlato con noi. Qui, in questo contesto, rispettando le esperienze umane che ci indicano la strada oggi e domani, mi sembra che i Dieci Comandamenti abbiano sempre un valore prioritario, nel quale vediamo i grandi indicatori di strada.

I Dieci Comandamenti riletti, rivissuti nella luce di Cristo, nella luce della vita della Chiesa e delle sue esperienze, indicano alcuni valori fondamentali ed essenziali: il quarto e il sesto comandamento insieme, indicano l’importanza del nostro corpo, di rispettare le leggi del corpo e della sessualità e dell’amore, il valore dell’amore fedele, la famiglia; il quinto comandamento indica il valore della vita ed anche il valore della vita comune; il settimo comandamento indica il valore della condivisione dei beni della terra e la giusta condivisione di questi beni, l’amministrazione della creazione di Dio; l’ottavo comandamento indica il grande valore della verità. Se, quindi, nel quarto, quinto e sesto comandamento abbiamo l’amore per il prossimo, nel settimo abbiamo la verità.

Tutto questo non funziona senza la comunione con Dio, senza il rispetto di Dio e la presenza di Dio nel mondo. Un mondo dove Dio non c’è diventa in ogni caso un mondo dell’arbitrarietà e dell’egoismo. Solo se appare Dio c’è luce, c’è speranza. La nostra vita ha un senso che non dobbiamo produrre noi, ma che ci precede, ci porta. In questo senso, quindi, direi, prendiamo insieme le vie ovvie che oggi anche la coscienza laica può facilmente vedere, e cerchiamo di guidare così alle voci più profonde, alla voce vera della coscienza, che si comunica nella grande tradizione della preghiera, della vita morale della Chiesa. Così, in un cammino di paziente educazione, possiamo, penso, tutti imparare a vivere e a trovare la vera vita.

D. - Sono don Mauro. Santità, nello svolgimento del nostro ministero pastorale siamo sempre più gravati da molte incombenze. Aumentano gli impegni di gestione amministrativa delle parrocchie, di organizzazione pastorale e di accoglienza delle persone in situazioni difficili. Le chiedo su quali priorità orientare oggi il nostro ministero di sacerdoti e di parroci, per evitare da un lato la frammentarietà e dall’altro la dispersione? Grazie.

R. – E’ una questione molto realistica, è vero. Conosco anch’io un poco questo problema, con tante pratiche che arrivano ogni giorno, con tante udienze necessarie, con tanto da fare. Tuttavia, bisogna trovare le giuste priorità e non dimenticare l’essenziale: l’annuncio del Regno di Dio. Sentendo questa domanda, mi è venuto in mente il Vangelo di due settimane fa sulla missione dei settanta discepoli. Per questa prima grande missione che Gesù fa realizzare, a questi settanta discepoli il Signore dà tre imperativi, che mi sembrano esprimere anche oggi sostanzialmente le grandi priorità del lavoro di un discepolo di Cristo, di un sacerdote.

I tre imperativi sono: pregate, curate e annunciate. Penso che dobbiamo trovare l’equilibrio tra questi tre imperativi essenziali, tenerli sempre presenti come cuore del nostro lavoro.

Pregate: cioè senza una relazione personale con Dio, tutto il resto non può funzionare, perché non possiamo realmente portare Dio e la realtà divina e la vera vita umana alle persone, se noi stessi non viviamo in una relazione profonda, vera, di amicizia con Dio, in Cristo Gesù. Da qui la celebrazione, ogni giorno, della Santa Eucaristia come incontro fondamentale, dove il Signore parla con me ed io con il Signore, che si dà nelle mie mani. Senza la preghiera delle Ore, nella quale entriamo nella grande preghiera di tutto il Popolo di Dio, cominciando con i Salmi del popolo antico rinnovato nella fede della Chiesa, e senza la preghiera personale non possiamo essere buoni sacerdoti, ma si perde la sostanza del nostro ministero. Quindi, essere un uomo di Dio, nel senso di un uomo in amicizia con Cristo e con i suoi santi è il primo imperativo.

C’è poi il secondo. Gesù ha detto: curate gli ammalati, i dispersi, quelli che hanno bisogno. E’ l’amore della Chiesa per chi è emarginato, per chi soffre. Anche le persone ricche possono essere interiormente emarginate e soffrire.

"Curare" si riferisce a tutti i bisogni umani, che sono sempre bisogni che vanno in profondità verso Dio. E’ quindi necessario, come si dice, conoscere le pecorelle, avere relazioni umane con le persone affidateci, avere un contatto umano e non perdere l’umanità, perché Dio si è fatto uomo e ha così confermato tutte le dimensioni del nostro essere umano. Ma, come ho accennato, l’umano e il divino vanno sempre insieme. A questo "curare" nelle sue molteplici forme, appartiene, mi sembra, anche il ministero sacramentale. Il ministero della riconciliazione è un atto di cura straordinario, del quale l’uomo ha bisogno per essere sano fino in fondo. Quindi, queste cure sacramentali, cominciando dal Battesimo, che è il rinnovamento fondamentale della nostra esistenza, passando al Sacramento della riconciliazione e all’unzione degli infermi. Naturalmente in tutti gli altri Sacramenti, anche nell’Eucaristia, c’è una grande cura degli animi. Dobbiamo curare i corpi, ma soprattutto – questo è il nostro mandato - le anime. Dobbiamo pensare alle tante malattie, ai bisogni morali, spirituali che oggi esistono e che dobbiamo affrontare, guidando le persone all’incontro con Cristo nel sacramento, aiutandole a scoprire la preghiera, la meditazione, lo stare in Chiesa silenziosamente con questa presenza di Dio.

E poi annunciare.
Che cosa annunciamo noi? Annunciamo il Regno di Dio. Ma il Regno di Dio non è una lontana utopia di un mondo migliore, che forse si realizzerà tra 50 anni o chissà quando. Il Regno di Dio è Dio stesso, Dio avvicinatosi e divenuto vicinissimo in Cristo. Questo è il Regno di Dio: Dio stesso è vicino e dobbiamo noi avvicinarci a questo Dio che è vicino, perché si è fatto uomo, rimane uomo ed è sempre con noi nella sua Parola, nella Santissima Eucaristia e in tutti i credenti. Quindi, annunciare il Regno di Dio vuol dire parlare di Dio oggi, rendere presente la parola di Dio, il Vangelo che è presenza di Dio e, naturalmente, rendere presente il Dio che si è fatto presente nella sacra Eucaristia. Nell’intreccio di queste tre priorità e naturalmente tenendo conto di tutti gli aspetti umani, dei nostri limiti che dobbiamo riconoscere, possiamo realizzare bene il nostro sacerdozio. E’ importante anche questa umiltà, che riconosce i limiti delle nostre forze. Quanto non possiamo fare, deve fare il Signore. Ed anche la capacità di delegare, di collaborare. Tutto questo sempre con gli imperativi fondamentali del pregare, curare e annunciare.

D. – Mi chiamo don Daniele. Santità, il Veneto è terra di forte immigrazione, con la presenza consistente di persone non cristiane. Tale situazione pone le nostre diocesi di fronte ad un nuovo compito di evangelizzazione al loro interno. Permane, però, una certa fatica, perché dobbiamo conciliare le esigenze dell’annuncio del Vangelo, con quelle di un dialogo rispettoso delle altre religioni. Quali indicazioni pastorali potrebbe offrire? Grazie.

R. – Naturalmente voi siete più vicini a questa situazione. E in questo senso forse non posso dare molti consigli pratici, ma posso dire che in tutte le visite ad Limina, sia dei vescovi asiatici, africani, latino-americani, sia da tutta l’Italia, sono sempre a confronto con queste situazioni. Non esiste più un mondo uniforme. Soprattutto nel nostro Occidente sono presenti tutti gli altri continenti, le altre religioni, gli altri modi di vivere la vita umana. Viviamo un incontro permanente, che forse ci assomiglia alla Chiesa antica, dove si viveva la stessa situazione.

I cristiani erano una piccolissima minoranza, un grano di senape che cominciava a crescere, circondato da diversissime religioni e condizioni di vita. Quindi, dobbiamo reimparare quanto hanno vissuto i cristiani delle prime generazioni.

San Pietro nella sua prima Lettera, al terzo capitolo, ha detto: "Dovete essere sempre pronti a dare ragione della speranza che è in voi". Così lui ha formulato per l’uomo normale di quel tempo, per il cristiano normale, la necessità di combinare annuncio e dialogo. Non ha detto formalmente: "Annunciate ad ognuno il Vangelo". Ha detto: "Dovete essere capaci, pronti a dare ragione della speranza che è in voi". Mi sembra che questa sia la sintesi necessaria tra dialogo e annuncio. Il primo punto è che in noi stessi debba essere sempre presente la ragione della nostra speranza. Dobbiamo essere persone che vivono la fede e che pensano la fede, la conoscono interiormente. Così in noi stessi la fede diventa ragione, diventa ragionevole. La meditazione del Vangelo e qui l’annuncio, l’omelia, la catechesi, per rendere capaci le persone di pensare la fede, sono già elementi fondamentali in questo intreccio tra dialogo e annuncio. Noi stessi dobbiamo pensare la fede, vivere la fede e come sacerdoti trovare modi diversi per renderla presente, così che i nostri cattolici cristiani possano trovare la convinzione, la prontezza e la capacità di dare ragione della loro fede. Questo annuncio che trasmette la fede nella coscienza di oggi deve avere molteplici forme. Senza dubbio, omelia e catechesi sono due forme principali, ma poi ci sono tanti modi per incontrarsi - seminari della fede, movimenti laicali, ecc. - dove si parla della fede e si impara la fede. Tutto questo ci rende capaci, innanzitutto, di vivere realmente da prossimi dei non cristiani - in prevalenza qui sono cristiani ortodossi, protestanti e poi anche esponenti di altre religioni, i musulmani ed altri. Il primo aspetto è vivere con loro, riconoscendo con loro il prossimo, il nostro prossimo. Vivere, quindi, in prima linea l’amore del prossimo come espressione della nostra fede. Io penso che questa sia già una testimonianza fortissima e anche una forma di annuncio: vivere realmente con questi altri l’amore del prossimo, riconoscere in questi, in loro, il nostro prossimo, così che loro possano vedere: questo "amore del prossimo" è per me. Se succede questo, più facilmente potremo presentare la fonte di questo nostro comportamento, che cioè l’amore del prossimo è espressione della nostra fede. Così nel dialogo non si può subito passare ai grandi misteri della fede, benché i musulmani abbiano una certa conoscenza di Cristo, che nega la sua divinità, ma riconosce in Lui almeno un grande profeta. Hanno amore per la Madonna. Quindi, ci sono elementi comuni anche nella fede, che sono punti di partenza per il dialogo. Una cosa pratica e realizzabile, necessaria, è soprattutto cercare l’intesa fondamentale sui valori da vivere. Anche qui abbiamo un tesoro comune, perché vengono dalla religione abramitica, reinterpretata, rivissuta in modi che sono da studiare, ai quali dobbiamo infine rispondere. Ma la grande esperienza sostanziale, quella dei Dieci Comandamenti, è presente e questo mi sembra il punto da approfondire. Passare ai grandi misteri mi sembra un livello non facile, che non si realizza nei grandi incontri. Il seme deve forse entrare nel cuore, così che la risposta della fede in dialoghi più specifici possa maturare qua e là. Ma ciò che possiamo e dobbiamo fare è cercare il consenso sui valori fondamentali, espressi nei Dieci comandamenti, riassunti nell’amore del prossimo e nell’amore di Dio, e così interpretabili nei diversi settori della vita. Siamo almeno in un cammino comune verso il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio che è finalmente il Dio dal volto umano, il Dio presente in Gesù Cristo. Ma se quest’ultimo passo è da fare piuttosto in incontri intimi, personali o di piccoli gruppi, il cammino verso questo Dio, dal quale vengono questi valori che rendono possibile la vita comune, questo mi sembra sia fattibile anche in incontri più grandi. Quindi, mi sembra che qui si realizzi una forma di annuncio umile, paziente, che aspetta, ma che anche rende già concreto il nostro vivere secondo la coscienza illuminata da Dio.

D. – Sono don Samuele. Abbiamo accolto il suo invito a pregare, a curare e ad annunciare. Ci siamo permessi già di prenderla sul serio nel prenderci cura della sua persona e in una manifestazione di affetto le abbiamo portato qualche bottiglia di sano vino della nostra terra, che le faremo avere attraverso le mani del nostro vescovo. Vengo alla domanda. Assistiamo sempre più ad un ingente incremento di situazioni di persone divorziate che si risposano, convivono e che chiedono una mano per la loro vita spirituale a noi sacerdoti. Sono persone che spesso portano con loro la sofferta domanda di accedere ai sacramenti. Sono realtà che ci chiedono un confronto ed anche una condivisione delle sofferenze che esse comportano. Le chiedo, Santo Padre, con quali atteggiamenti umani, spirituali, pastorali poter mettere insieme misericordia e verità. Grazie.

R. – Sì, è un problema doloroso e la ricetta semplice, che lo risolva, certamente non c’è. Soffriamo tutti di questo problema, perché tutti abbiamo vicino a noi persone in queste situazioni e sappiamo che per loro è un dolore e una sofferenza, perché vogliono stare in piena comunione con la Chiesa. Questo vincolo del matrimonio precedente è un vincolo che riduce la loro partecipazione alla vita della Chiesa.

Cosa fare? Direi: un primo punto sarebbe naturalmente la prevenzione, per quanto possibile. La preparazione al matrimonio, quindi, diventa sempre più fondamentale e necessaria. Il Diritto Canonico suppone che l’uomo come tale, anche senza grande istruzione, intenda fare un matrimonio secondo la natura umana, come indicato nei primi capitoli della Genesi. E’ uomo, ha la natura umana, e quindi sa che cosa sia il matrimonio. Intende fare quanto gli dice la natura umana. Da questa presunzione parte il Diritto Canonico. E’ una cosa che si impone: l’uomo è uomo, la natura è quella e gli dice questo.

Ma oggi questo assioma secondo cui l’uomo intende fare quanto è nella sua natura, un matrimonio unico, fedele, si trasforma in un assioma un po’ diverso. "Volunt contrahere matrimonium sicut ceteri homines". Non è semplicemente più la natura che parla, ma i "ceteri homines", quanto fanno tutti. E quanto fanno oggi tutti non è più semplicemente il matrimonio naturale, secondo il Creatore, secondo la creazione. Ciò che fanno i "ceteri homines" è sposarsi con l’idea che un giorno il matrimonio possa fallire e si possa così passare ad un altro, ad un terzo e ad un quarto matrimonio.

Questo modello "come fanno tutti" diventa così un modello in contrasto con quanto dice la natura. Diventa così normale sposarsi, divorziare, risposarsi e nessuno pensa che sia una cosa che va contro la natura umana o comunque si trova difficilmente uno che pensi così. Perciò per aiutare ad arrivare realmente al matrimonio, non solo nel senso della Chiesa, ma del Creatore, dobbiamo riparare la capacità di ascoltare la natura. Ritorniamo al primo quesito, alla prima domanda. Riscoprire dietro a ciò che fanno tutti, quanto ci dice la natura stessa, che parla in modo diverso da questa abitudine moderna. Ci invita, infatti, al matrimonio per la vita, in una fedeltà per la vita, anche con le sofferenze del crescere insieme nell’amore. Quindi, questi corsi preparatori al matrimonio dovrebbero essere un riparare la voce della natura, del Creatore, in noi, riscoprire dietro a quanto fanno tutti i "ceteri homines", quanto ci dice intimamente il nostro stesso essere. In questa situazione, quindi, fra quanto fanno tutti e quanto dice il nostro essere, i corsi preparatori devono essere un cammino di riscoperta, per reimparare quanto il nostro essere ci dice, aiutare ad arrivare ad una vera decisione per il matrimonio secondo il Creatore e secondo il Redentore. Quindi, questi corsi preparatori per "imparare se stessi", per imparare la vera volontà matrimoniale, sono di grande importanza. Ma non basta la preparazione, le grandi crisi vengono dopo. Quindi, un permanente accompagnare, almeno nei primi dieci anni, è molto importante. Perciò, in parrocchia, bisogna non solo curare i corsi di preparazione, ma la comunione nel cammino dopo, l’accompagnarsi, l’aiutarsi reciprocamente. Che i sacerdoti, ma non solo, anche le famiglie, che hanno già fatto queste esperienze, che conoscono queste sofferenze, queste tentazioni, siano presenti nei momenti di crisi. E’ importante la presenza di una rete di famiglie che si aiutano e diversi movimenti possono recare un grande contributo. La prima parte della mia risposta vede il prevenire, non solo nel senso di preparare, ma di accompagnare, la presenza di una rete di famiglie che aiuti questa situazione moderna, dove tutto parla contro la fedeltà a vita. Bisogna aiutare a trovare, ad imparare anche con sofferenza, questa fedeltà. In caso, tuttavia, di fallimento, che cioè gli sposi non si mostrino capaci di stare alla prima volontà, c’è sempre la questione se fosse realmente una volontà, nel senso del sacramento. E quindi c’è eventualmente il processo per la dichiarazione di nullità. Se era un vero matrimonio e quindi non possono risposarsi, la permanente presenza della Chiesa aiuta queste persone a sopportare un’altra sofferenza. Nel primo caso, abbiamo la sofferenza di superare questa crisi, di imparare una fedeltà sofferta e matura. Nel secondo caso, abbiamo la sofferenza di stare in un vincolo nuovo, che non è quello sacramentale e che non permette quindi la comunione piena nei sacramenti della Chiesa. Qui, sarebbe da insegnare e da imparare a vivere con questa sofferenza. Ritorneremo, a questo punto, nella prima domanda dell’altra diocesi. Dobbiamo generalmente, nella nostra generazione, nella nostra cultura, riscoprire il valore della sofferenza, imparare che la sofferenza può essere una realtà molto positiva, che ci aiuta a maturare, a divenire più noi stessi, più vicini al Signore che ha sofferto per noi e soffre con noi. Anche in questa seconda situazione, quindi, la presenza del sacerdote, delle famiglie, dei movimenti, la comunione personale e comunitaria in queste situazioni, l’aiuto dell’amore del prossimo, un amore molto specifico, è di grandissima importanza. E penso che solo questo amore sentito della Chiesa, che si realizza in un accompagnamento molteplice, possa aiutare queste persone a riconoscersi amate da Cristo, membri della Chiesa anche se in una situazione difficile, e così vivere la fede.

D. – Santità, io mi chiamo don Saverio e quindi la domanda verte certamente sulle missioni. Ricorrono 50 anni quest’anno dell’Enciclica Fidei donum. Accogliendo l’invito del Papa, molti sacerdoti anche della nostra diocesi ed io compreso hanno vissuto, abbiamo vissuto e stanno vivendo l’esperienza della missione ad gentes. Esperienza, questa, senza dubbio straordinaria e che a mio modesto parere potrebbero vivere tanti preti nell’ottica dello scambio tra Chiese sorelle. Data però la riduzione numerica dei sacerdoti nei nostri Paesi, come l’indicazione dell’Enciclica è ancora attuale oggi e con quale spirito accoglierla e viverla sia da parte dei sacerdoti inviati, sia da parte dell’intera diocesi? Grazie.

R. – Grazie. Vorrei anzitutto dire grazie a tutti questi sacerdoti fidei donum e alle diocesi. Adesso ho avuto, come già accennato, tante visite ad Limina sia dei vescovi dell’Asia, che dell’Africa e dell’America Latina e tutti mi chiedono: "Abbiamo tanto bisogno di sacerdoti fidei donum e siamo gratissimi per il lavoro che fanno, rendendo presente, in situazioni spesso difficilissime, la cattolicità della Chiesa, la visibilità del fatto che siamo una grande comunione, universale e c’è un amore del prossimo lontano che diventa prossimo nella situazione del sacerdote fidei donum. Questo grande dono che è stato realmente fatto in questi 50 anni, lo ho sentito e visto quasi in modo palpabile in tutti i miei dialoghi con i sacerdoti, che ci dicono "non pensate che noi africani adesso siamo semplicemente autosufficienti; abbiamo sempre bisogno della visibilità della grande comunione della Chiesa universale". Direi che noi tutti abbiamo bisogno di questa visibilità dell’essere cattolici, di un amore del prossimo che arriva da lontano e trova così il prossimo. Oggi la situazione è cambiata nel senso che anche noi riceviamo in Europa sacerdoti provenienti dall’Africa, dall’America Latina, da altre parti dell’Europa stessa e questo ci permette di vedere la bellezza di questo scambio dei doni, di questo dono dall’uno all’altro, perché tutti abbiamo bisogno di tutti: proprio così cresce il Corpo di Cristo. Per riassumere, vorrei dire che questo dono era ed è un grande dono, percepito come tale nella Chiesa: in tante situazioni che adesso non posso descrivere, in cui vi sono problemi sociali, problemi di sviluppo, problemi di annuncio della fede, problemi di isolamento, di bisogno della presenza di altri, questi sacerdoti sono un dono nel quale le diocesi e le Chiese particolari riconoscono la presenza di Cristo che si dona per noi e riconoscono al contempo che la Comunione eucaristica non è solo comunione soprannaturale, ma diventa comunione concreta in questo donarsi di sacerdoti diocesani, che si fanno presenti in altre diocesi e che la rete delle Chiese particolari diventa così una rete realmente di amore. Grazie a tutti coloro che hanno fatto questo dono. Io posso soltanto incoraggiare i Vescovi ed i sacerdoti a continuare con questo dono. Io so che adesso, con la mancanza di vocazioni, in Europa diventa sempre più difficile fare questo dono; ma abbiamo già l’esperienza che altri continenti, come l’India e l’Africa soprattutto, ci danno anche da parte loro dei sacerdoti. La reciprocità rimane sempre molto importante e proprio l’esperienza che siamo Chiesa inviata al mondo e che tutti conoscono tutti ed amano tutti è molto necessaria ed è anche la forza dell’annuncio. Così diventa visibile che il grano di senape porta frutto e diventa sempre e di nuovo un grande albero in cui gli uccelli del cielo trovano riposo. Grazie e coraggio.

D. – Don Alberto. Santo Padre, i giovani sono il nostro futuro e la nostra speranza: ma alle volte vedono nella vita non un’opportunità, ma una difficoltà; non un dono per sé e per gli altri, ma un qualcosa da consumare subito; non un progetto da costruire, ma un vagare senza meta. La mentalità di oggi impone ai giovani di essere sempre felici e perfetti, con la conseguenza che ogni piccolo fallimento ed ogni minima difficoltà non sono più visti come motivo di crescita, ma come una sconfitta. Tutto questo li porta spesso a gesti irrimediabili come il suicidio, che provocano una lacerazione nel cuore di coloro che li amano e dell’intera società. Cosa può dire a noi educatori che, spesso, ci sentiamo con le mani legate e senza risposte? Grazie

R. – Lei mi sembra che abbia dato una precisa descrizione di una vita nella quale Dio non appare. In un primo momento sembra che non abbiamo bisogno di Dio, anzi che, senza Dio saremmo più liberi e il mondo sarebbe più ampio. Ma dopo un certo tempo, nelle nostre nuove generazioni, si vede cosa succede, quando Dio scompare. Come Nietzsche ha detto "La grande luce si è spenta, il sole si è spento". La vita allora è una cosa occasionale, diventa una cosa e devo cercare di fare il meglio con questa cosa e usare la vita come fosse una cosa per una felicità immediata, toccabile e realizzabile. Ma il grande problema è che se Dio non c’è e non è il Creatore anche della mia vita, in realtà la vita è un semplice pezzo dell’evoluzione, nient’altro, non ha senso di per sé stessa. Ma io devo invece cercare di mettere senso in questo pezzo di essere. Vedo attualmente in Germania, ma anche negli Stati Uniti, un dibattito abbastanza accanito tra il cosiddetto creazionismo e l’evoluzionismo, presentati come fossero alternative che si escludono: chi crede nel Creatore non potrebbe pensare all’evoluzione e chi invece afferma l’evoluzione dovrebbe escludere Dio.

Questa contrapposizione è un’assurdità, perché da una parte ci sono tante prove scientifiche in favore di un’evoluzione che appare come una realtà che dobbiamo vedere e che arricchisce la nostra conoscenza della vita e dell’essere come tale. Ma la dottrina dell’evoluzione non risponde a tutti i quesiti e non risponde soprattutto al grande quesito filosofico: da dove viene tutto? e come il tutto prende un cammino che arriva finalmente all’uomo?

Mi sembra molto importante, questo volevo dire anche a Ratisbona nella mia lezione, che la ragione si apra di più, che veda sì questi dati, ma che veda anche che non sono sufficienti per spiegare tutta la realtà. Non è sufficiente, la nostra ragione è più ampia e può vedere anche che la ragione nostra non è in fondo qualcosa di irrazionale, un prodotto della irrazionalità, ma che la ragione precede tutto, la ragione creatrice, e che noi siamo realmente il riflesso della ragione creatrice. Siamo pensati e voluti e, quindi, c’è una idea che mi precede, un senso che mi precede e che devo scoprire, seguire e che dà finalmente significato alla mia vita. Mi sembra questo il primo punto: scoprire che realmente il mio essere è ragionevole, è pensato, ha un senso e la mia grande missione è scoprire questo senso, viverlo e dare così un nuovo elemento alla grande armonia cosmica pensata dal Creatore. Se è così, allora anche gli elementi di difficoltà diventano momenti di maturità, di processo e di progresso del mio stesso essere, che ha senso dal suo concepimento fino all’ultimo momento di vita. Possiamo conoscere questa realtà del senso precedente a tutti noi, possiamo anche riscoprire il senso della sofferenza e del dolore; certamente c’è un dolore che dobbiamo evitare e che dobbiamo allontanare dal mondo: tanti dolori inutili provocati dalle dittature, dai sistemi sbagliati, dall’odio e dalla violenza. Ma c’è anche nel dolore un senso profondo e solo se possiamo dare senso al dolore e alla sofferenza può maturare la nostra vita.

Direi soprattutto che non è possibile l’amore senza il dolore, perché l’amore implica sempre una rinuncia a me, un lasciare me, un accettare l’altro nella sua alterità, implica un dono di me e, quindi, un uscire da me stesso. Tutto questo è dolore, sofferenza, ma proprio in questa sofferenza del perdermi per l’altro, per l’amato e quindi per Dio, divento grande e la mia vita trova l’amore e nell’amore il suo senso.

Anche l’inscindibilità di amore e dolore, di amore e Dio sono elementi che devono entrare nella coscienza moderna per aiutarci a vivere. In questo senso direi che è importante far scoprire ai giovani Dio, far scoprire loro l’amore vero che proprio nella rinuncia diventa grande e così far scoprire loro anche la bontà interiore della sofferenza, che mi rende più libero e più grande. Naturalmente per aiutare i giovani a trovare questi elementi c’è sempre bisogno di compagnia e di commino, sia la parrocchia o l’Azione Cattolica o un Movimento, solo in compagnia con gli altri possiamo anche scoprire nelle nuove generazioni questa grande dimensione del nostro essere.

D. – Sono don Francesco. Santo Padre, mi ha molto colpito una frase che ha scritto nel suo libro "Gesù di Nazaret": "Ma che cosa ha portato Gesù veramente, se non ha portato la pace nel mondo, il benessere per tutti, un mondo migliore? Che cosa ha portato? La risposta è molto semplice: ‘Dio. Ha portato Dio’". Fin qui la citazione che trovo di una chiarezza e di una verità disarmanti. La domanda è questa: si parla di nuova evangelizzazione, di nuovo annuncio del Vangelo - questa è stata anche la scelta principale del Sinodo della nostra diocesi di Belluno-Feltre – ma cosa fare perché questo Dio, unica ricchezza portata da Gesù e che spesso appare a tanti come avvolto nella nebbia, possa risplendere ancora fra le nostre case e possa essere acqua che disseta anche i tanti che sembrano non avere più sete? Grazie.

R. – Grazie. Domanda fondamentale. La domanda fondamentale del nostro lavoro pastorale è come portare Dio al mondo, ai nostri contemporanei. Evidentemente questo portare Dio è una cosa multidimensionale: già nell’annuncio, nella vita e nella morte di Gesù, vediamo come si sviluppa in tante dimensioni questo Unico. Mi sembra che dobbiamo sempre tenere le due cose: da una parte l’annuncio cristiano, il cristianesimo non è un pacchetto complicatissimo di tanti dogmi, così che nessuno può conoscerli tutti; non è cosa solo per accademici, che possono studiare queste cose, ma è cosa semplice: Dio c’è e Dio è vicino in Gesù Cristo. Così Gesù Cristo stesso ha detto, riassumendo, è arrivato il Regno di Dio. Questo annunciamo. Una cosa, in fondo, semplice. Tutte le dimensioni che poi si mostrano sono dimensioni dell’unica cosa e non tutti devono conoscere tutto, ma certamente devono entrare nell’intimo e nell’essenziale, così si aprono con una sempre crescente gioia anche le diverse dimensioni. Ma adesso come fare in concreto? Mi sembra che, parlando del lavoro pastorale oggi, ne abbiamo già toccato i punti essenziali. Ma per continuare in questo senso, portare Dio implica soprattutto - da una parte - l’amore e - dall’altra - la speranza e la fede. Quindi la dimensione della vita vissuta, la migliore testimonianza per Cristo, il miglior annuncio è sempre la vita di veri cristiani. Se vediamo famiglie nutrite dalla fede come vivono nella gioia, come vivono anche la sofferenza in una profonda e fondamentale gioia, come aiutano gli altri, amando Dio e il prossimo, mi sembra che questo sia oggi l’annuncio più bello. Anche per me l’annuncio più confortante è sempre quello di vedere le famiglie cattoliche o le personalità cattoliche che sono penetrate dalla fede: risplende in loro realmente la presenza di Dio e arriva questa "acqua viva" della quale Lei ha parlato. Quindi l’annuncio fondamentale è proprio quello della vita stessa dei cristiani. Naturalmente c’è poi l’annuncio della Parola. Dobbiamo fare tutto perché la Parola sia ascoltata, sia conosciuta. Oggi ci sono tante scuole della Parola e del colloquio con Dio nella Sacra Scrittura, colloquio che diventa necessariamente anche preghiera, perché uno studio puramente teorico della Sacra Scrittura è un ascolto solo intellettuale e non sarebbe un vero e sufficiente incontro con la Parola di Dio. Se è vero che nella Scrittura e nella Parola di Dio è il Signore Dio Vivente che parla con noi, provoca la risposta e la preghiera, allora le scuole della Scrittura devono essere anche scuole della preghiera, del dialogo con Dio, dell’avvicinarsi intimamente a Dio. Quindi, tutto l’annuncio. Poi naturalmente direi i Sacramenti. Con Dio vengono sempre anche tutti i Santi. E’ importante – questo ci dice la Sacra Scrittura sin dall’inizio – Dio non viene mai da solo, ma viene accompagnato e circondato dagli Angeli e dai Santi. Nella grande vetrata di San Pietro che raffigura lo Spirito Santo mi piace tanto il fatto che Dio è circondato da una folla di angeli e di esseri viventi, che sono espressione e emanazione – per così dire – dell’amore di Dio. Con Dio, con Cristo, con l’uomo che è Dio e con Dio che è uomo, arriva la Madonna. Questo è molto importante. Dio, il Signore, ha una Madre e nella Madre riconosciamo realmente la bontà materna di Dio. La Madonna, la Madre di Dio, è l’ausilio dei cristiani, è la nostra permanente consolazione, è il nostro grande aiuto. Questo lo vedo anche nel dialogo con i vescovi del mondo, dell’Africa ed ultimamente anche dell’America Latina, che l’amore per la Madonna è la grande forza della cattolicità. Nella Madonna riconosciamo tutta la tenerezza di Dio e, quindi, coltivare e vivere questo gioioso amore della Madonna, di Maria, è un dono della cattolicità molto grande. E poi ci sono i Santi, ogni luogo ha il suo Santo. Questo va bene così, perché così vediamo i molteplici colori dell’unica luce di Dio e del suo amore, che si avvicina a noi. Scoprire i Santi nella loro bellezza, nel loro avvicinarsi nella Parola a me, poiché in un determinato Santo, posso trovare tradotta proprio per me la Parola inesauribile di Dio. E poi tutti gli aspetti della vita parrocchiale, anche quelli umani. Non dobbiamo essere sempre nelle nuvole, nelle altissime nuvole del Mistero, dobbiamo essere anche con i piedi per terra e vivere insieme la gioia di essere una grande famiglia: la piccola grande famiglia della parrocchia; la grande famiglia della diocesi, la grande famiglia della Chiesa universale. A Roma posso vedere tutto questo, posso vedere come persone provenienti da tutte le parti della terra e che non si conoscono, in realtà si conoscono, perché sono tutti parte della famiglia di Dio, sono vicini perché hanno tutto: l’amore del Signore, l’amore della Madonna, l’amore dei Santi, la successione apostolica e il successore di Pietro, i vescovi. Direi che questa gioia della cattolicità, con i suoi molteplici colori, è anche la gioia della bellezza. Abbiamo qui la bellezza di un bell’organo; la bellezza di una bellissima chiesa, la bellezza cresciuta nella Chiesa. Mi sembra una meravigliosa testimonianza della presenza e della verità di Dio. La Verità si esprime nella bellezza e dobbiamo essere grati per questa bellezza e cercare di fare tutto il possibile perché rimanga presente, si sviluppi e cresca ancora. Così mi sembra che arrivi Dio, in modo molto concreto, in mezzo a noi.

D. – Sono don Lorenzo, parroco. Santo Padre, dai sacerdoti i fedeli attendono soltanto una cosa: che siano specialisti nel promuovere l’incontro dell’uomo con Dio. Non sono parole mie, ma di Sua Santità in un intervento al clero. Il mio padre spirituale in seminario, durante quelle faticosissime sedute di direzione spirituale, mi diceva: "Lorenzino, umanamente ci siamo, ma…." e quando diceva "ma" intendeva dire che a me piaceva più giocare al pallone che fare l’adorazione eucaristica. E questo non faceva bene alla mia vocazione, che non era bello contestare le lezioni di morale e di diritto, perché i professori ne sapevano più di me. E con quel "ma" chissà cos’altro voleva intendere. Ora lo penso in cielo e gli dico comunque qualche requiem. Malgrado tutto ciò, sono 34 anni che sono prete e ne sono anche felice: miracoli non ne ho fatti, disastri conosciuti nemmeno, sconosciuti forse. "Umanamente ci siamo", per me è un grande complimento. Ma avvicinare l’uomo a Dio e Dio all’uomo non passa soprattutto attraverso quanto chiamiamo umanità che è irrinunciabile, anche per noi preti?

R. – Grazie.

Direi semplicemente sì a quanto Lei ha detto alla fine. Il cattolicesimo, un po’ semplicisticamente, è stato sempre considerato la religione del grande et et: non di grandi esclusivismi, ma della sintesi. Cattolico vuole dire proprio "sintesi". Perciò sarei contro una alternativa o giocare al pallone o studiare la Sacra Scrittura o il Diritto Canonico. Facciamo ambedue le cose. E’ bello fare lo sport, io non sono un grande sportivo, ma magari andare in montagna mi piaceva quando ero ancora più giovane, adesso faccio solo camminate molto facili, ma sempre trovo molto bello camminare qui in questa bella terra che il Signore ci ha dato. Quindi non possiamo sempre vivere nella meditazione alta, forse un Santo nell’ultimo gradino del suo cammino terrestre può arrivare a questo punto, ma normalmente viviamo con i piedi per terra e gli occhi verso il cielo. Ambedue le cose ci sono date dal Signore e quindi amare le cose umane, amare le bellezze della sua terra non solo è molto umano, ma è anche molto cristiano e proprio cattolico.

Direi che – e mi sembra di averlo già accennato prima – ad una pastorale buona e realmente cattolica appartiene anche questo aspetto: vivere nell’et et; vivere l’umanità e l’umanesimo dell’uomo, tutti i doni che il Signore ci ha dato e che abbiamo sviluppato e, nello stesso tempo, non dimenticare Dio, perché alla fine la luce grande viene da Dio e soltanto da Lui viene poi la luce che dà gioia a tutti questi aspetti delle cose che ci sono. Quindi vorrei semplicemente impegnarmi per la grande sintesi cattolica, per questo "et et"; essere veramente uomo ed ognuno secondo i suoi doni e secondo il suo carisma amare la terra e le belle cose che il Signore ci ha dato, ma essere anche grati perché sulla terra splende la luce di Dio, che dà splendore e bellezza a tutto il resto. Viviamo in questo senso gioiosamente la cattolicità. Questa sarebbe la mia risposta.

(Applausi)

D. – Mi chiamo don Arnaldo. Santo Padre, esigenze pastorali e di ministero, oltre al diminuito numero di sacerdoti, sollecitano i nostri vescovi a rivedere la distribuzione del clero, spesso accumulando impegni e più parrocchie nella stessa persona. Ciò tocca la sensibilità di tante comunità di battezzati e la disponibilità di noi sacerdoti a vivere insieme – preti e laici – il ministero pastorale. Come vivere questo cambiamento di organizzazione pastorale, privilegiando la spiritualità del buon Pastore? Grazie, Santità…

R. – Sì, ritorniamo a questa questione delle priorità pastorali e come oggi fare il parroco. Poco tempo fa, un Vescovo francese, che era religioso e quindi non è stato mai parroco, mi ha detto: "Santità, vorrei che Lei mi chiarisse che cosa è un parroco. Noi in Francia abbiamo queste grandi unità pastorali con 5-6-7 parrocchie e il parroco diventa un coordinatore di organismi, di lavori diversi", ma gli sembrava che, essendo talmente occupato con il coordinamento di questi diversi enti con i quali ha da fare, non avesse più la possibilità dell’incontro personale con le sue pecorelle e lui, essendo Vescovo e quindi un grande parroco, si domandava se questo sistema è giusto o se non dovremmo ritrovare una possibilità affinché il parroco sia realmente parroco e quindi pastore del suo gregge. Naturalmente non potevo immediatamente dare una ricetta per risolvere questa situazione della Francia, ma il problema si pone in generale, che il parroco nonostante nuove situazioni e nuove forme di responsabilità non perda la vicinanza con la gente, l’essere realmente in persona il pastore di questo gregge affidatogli dal Signore. Le situazioni sono diverse: penso ai vescovi nelle loro diocesi con situazioni molto diverse; essi devono vedere bene come assicurare che il parroco rimanga pastore e non diventi un burocrate sacro. In ogni caso mi sembra che una prima opportunità nella quale possiamo essere presenti alle persone affidateci sia proprio la vita sacramentale: nell’Eucaristia siamo insieme e possiamo e dobbiamo incontrarci; il Sacramento della penitenza e della riconciliazione è un incontro personalissimo; così come lo è il Battesimo che è un incontro personale e non solo il momento del conferimento del Sacramento. Questi Sacramenti direi che hanno tutti un contesto: battezzare vuole dire prima catechizzare un po’ questa giovane famiglia, parlare con loro così che il Battesimo sia anche un incontro personale ed un’occasione per una catechesi molto concreta. Così come la preparazione alla Prima Comunione, alla Cresima e al Matrimonio sono sempre occasioni dove realmente il parroco, il sacerdote, in persona incontra le persone; è il predicatore ed è l’amministratore dei Sacramenti in un senso che implica sempre la dimensione umana. Il Sacramento non è mai soltanto un atto rituale, ma l’atto rituale e sacramentale è il condensamento di un contesto umano nel quale si muove il sacerdote, il parroco.
Mi sembra poi molto importante trovare dei sistemi giusti di delega. Non è giusto che il parroco debba fare solo il coordinatore di organismi; egli deve piuttosto delegare in modi diversi e certamente nei Sinodi – e qui in diocesi avete avuto il Sinodo – si trova il modo per poter liberare sufficientemente il parroco, affinché da una parte conservi la responsabilità di questa totalità dell’unità pastorale affidatagli, ma non si riduca sostanzialmente e soprattutto il burocrate che coordina, ma uno che tiene in mano i fili essenziali, ma ha poi dei collaboratori. Mi sembra che questo sia uno dei risultati importanti e positivi del Concilio: la corresponsabilità di tutta la parrocchia: non è più soltanto il parroco che deve vivificare tutto, ma, poiché tutti siamo parrocchia, tutti dobbiamo collaborare ed aiutare, affinché il parroco non rimanga isolato sopra come coordinatore, ma si trovi realmente come pastore affiancato in questi lavori comuni nei quali, insieme, si realizza e si vive la parrocchia. Direi quindi che - da una parte - questo coordinamento e questa responsabilità vitale di tutta la parrocchia e – dall’altra parte – la vita sacramentale e di annuncio come centro della vita parrocchiale potrebbero consentire anche oggi, in circostanze certamente più difficili, di essere il parroco che non conosce forse tutti per nome, come il Signore ci dice del Buon Pastore, ma conosce realmente le sue pecorelle ed è realmente il pastore che le chiama e che le guida.

D. – Io ho l’ultima domanda e sarei molto tentato di metterla via, perché si tratta di una domanda piccola e dopo nove volte che vostra Santità ha saputo trovare la strada per parlarci di Dio e portarci molto molto in alto, mi pare quasi banale e povero quello che sto per chiederle, ma ormai lo faccio. Si tratta di una parola per quelli della mia generazione, per noi che ci siamo preparati durante gli anni del Concilio, poi siamo partiti con entusiasmo e forse anche con la pretesa di cambiare il mondo, abbiamo anche lavorato tanto ed oggi siamo un po’ in difficoltà, perché stanchi, perché non si sono realizzati molti sogni ed anche perché ci sentiamo un po’ isolati. I più anziani ci dicono "Vedete che avevamo ragione noi ad essere più prudenti" ed i giovani qualche volta ci trattano da "nostalgici del Concilio". La nostra domanda è questa: "Possiamo ancora portare un dono alla nostra Chiesa, specialmente con quell’attaccamento alla gente che ci sembra ci abbia contraddistinto? Ci aiuti a riprendere speranza e serenità….

R. – Grazie, è una domanda importante e che io conosco molto bene. Anch’io ho vissuto i tempi del Concilio, essendo nella Basilica di San Pietro con grande entusiasmo e vedendo come si aprivano nuove porte e pareva realmente essere la nuova Pentecoste, dove la Chiesa poteva nuovamente convincere l’umanità, dopo l’allontanamento del mondo dalla Chiesa nell’Ottocento e nel Novecento, sembrava si rincontrassero di nuovo Chiesa e mondo e che rinascesse nuovamente un mondo cristiano ed una Chiesa del mondo e veramente aperta al mondo. Abbiamo tanto sperato, ma le cose in realtà si sono rivelate più difficili. Tuttavia rimane la grande eredità del Concilio, che ha aperto una strada nuova, è sempre una magna charta del cammino della Chiesa, molto essenziale e fondamentale.

Ma perché è andata così? Prima vorrei forse cominciare con un’osservazione storica. I tempi di un post-Concilio sono quasi sempre molto difficili. Dopo il grande Concilio di Nicea - che per noi è realmente il fondamento della nostra fede, di fatto noi confessiamo la fede formulata a Nicea – non è nata una situazione di riconciliazione e di unità come aveva sperato Costantino, promotore di tale grande Concilio, ma una situazione realmente caotica di lite di tutti contro tutti.

San Basilio nel suo libro sullo Spirito Santo paragona la situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea ad una battaglia navale di notte dove nessuno più conosce l’altro, ma tutti sono contro tutti.

Era realmente una situazione di caos totale: così descrive con colori forti il dramma del dopo Concilio, del dopo Nicea, San Basilio. Poi 50 anni dopo, per il Concilio primo di Costantinopoli, l’imperatore invita San Gregorio Nazianzeno a partecipare al Concilio e San Gregorio Nazianzeno risponde: No, non vengo, perché io conosco queste cose, so che da tutti i Concili nasce solo confusione e battaglia, quindi non vengo. E non è andato. Quindi non è adesso, in retrospettiva, una sorpresa così grande come era nel primo momento per noi tutti digerire il Concilio, questo grande messaggio. Immetterlo nella vita della Chiesa, riceverlo, così che diventi vita della Chiesa, assimilarlo nelle diverse realtà della Chiesa, è una sofferenza, e solo nella sofferenza si realizza anche la crescita. Crescere è sempre anche soffrire, perché è uscire da uno stato e passare ad un altro. E nel concreto del dopo-Concilio dobbiamo constatare che vi sono due grandi cesure storiche.

Nel dopo-Concilio, la cesura del ‘68, l’inizio o l’esplosione - oserei dire - della grande crisi culturale dell’Occidente. Era finita la generazione del dopoguerra, una generazione che dopo tutte le distruzioni e vedendo l’orrore della guerra, del combattersi e constatando il dramma delle queste grandi ideologie che avevano realmente condotto le persone verso il baratro della guerra, avevamo riscoperto le radici cristiane dell’Europa e avevamo cominciato a ricostruire l’Europa con queste ispirazioni grandi.

Ma finita questa generazione si vedevano anche tutti i fallimenti, le lacune di questa ricostruzione, la grande miseria nel mondo e così comincia, esplode la crisi della cultura occidentale, direi una rivoluzione culturale che vuole cambiare radicalmente. Dice: non abbiamo creato, in duemila anni di cristianesimo, il mondo migliore. Dobbiamo ricominciare da zero in modo assolutamente nuovo; il marxismo sembra la ricetta scientifica per creare finalmente il nuovo mondo. E in questo – diciamo – grave, grande scontro tra la nuova, sana modernità voluta dal Concilio e la crisi della modernità, diventa tutto difficile come dopo il primo Concilio di Nicea. Una parte era del parere che questa rivoluzione culturale era quanto aveva voluto il Concilio, identificava questa nuova rivoluzione culturale marxista con la volontà del Concilio; diceva: questo è il Concilio.

Nella lettera i testi sono ancora un po’ antiquati, ma dietro le parole scritte sta questo spirito, questo è la volontà del Concilio, così dobbiamo fare. E dall’altra parte, naturalmente, la reazione: così distruggete la Chiesa. La reazione – diciamo – assoluta contro il Concilio, la anti-conciliarità e – diciamo – la timida, umile ricerca di realizzare il vero spirito del Concilio.

E come dice un proverbio "Se cade un albero fa grande rumore, se cresce una selva non si sente niente perché si sviluppa un processo senza rumore" e quindi durante questi grandi rumori del progressismo sbagliato, dell’anti-conciliarismo cresce molto silenziosamente, con tante sofferenze e anche con tante perdite nella costruzione di un nuovo passaggio culturale, il cammino della Chiesa. E poi la seconda cesura nell’89. Il crollo dei regimi comunisti, ma la risposta non fu il ritorno alla fede, come si poteva forse aspettare, non fu la riscoperta che proprio la Chiesa con il Concilio autentico aveva dato la risposta. La risposta fu invece lo scetticismo totale, la cosiddetta post-modernità. Niente è vero, ognuno deve vedere come vivere, si afferma un materialismo, uno scetticismo pseudo-razionalista cieco che finisce nella droga, finisce in tutti questi problemi che conosciamo e di nuovo chiude le strade alla fede, perché è così semplice, così evidente. No, non c’è nulla di vero. La verità è intollerante, non possiamo prendere questa strada.
Ecco: in questi contesti di due rotture culturali, la prima, la rivoluzione culturale del ’68, la seconda, la caduta potremmo dire nel nichilismo dopo l’89, la Chiesa con umiltà, tra le passioni del mondo e la gloria del Signore, prende la sua strada. Su questa strada dobbiamo crescere con pazienza e dobbiamo adesso in un modo nuovo imparare che cosa vuol dire rinunciare al trionfalismo. Il Concilio aveva detto di rinunciare al trionfalismo – e aveva pensato al barocco, a tutte queste grandi culture della Chiesa. Si disse: cominciamo in modo moderno, nuovo. Ma era cresciuto un altro trionfalismo, quello di pensare: noi adesso facciamo le cose, noi abbiamo trovato la strada e troviamo su di essa il mondo nuovo. Ma l’umiltà della Croce, del Crocifisso esclude proprio anche questo trionfalismo, dobbiamo rinunciare al trionfalismo secondo cui adesso nasce realmente la grande Chiesa del futuro. La Chiesa di Cristo è sempre umile e proprio così è grande e gioiosa. Mi sembra molto importante che adesso possiamo vedere con occhi aperti quanto è anche cresciuto di positivo nel dopo Concilio: nel rinnovamento della liturgia, nei Sinodi, Sinodi romani, Sinodi universali, Sinodi diocesani, nelle strutture parrocchiali, nella collaborazione, nella nuova responsabilità dei laici, nella grande corresponsabilità interculturale e intercontinentale, in una nuova esperienza della cattolicità della Chiesa, dell’unanimità che cresce in umiltà e tuttavia è la vera speranza del mondo. E così dobbiamo, mi sembra, riscoprire la grande eredità del Concilio che non è uno spirito ricostruito dietro i testi, ma sono proprio i grandi testi conciliari riletti adesso con le esperienze che abbiamo avuto e che hanno portato frutto in tanti movimenti, tante nuove comunità religiose. In
Brasile sono arrivato sapendo come si espandono le sette e come sembra un po’ sclerotizzata la Chiesa cattolica; ma una volta arrivato ho visto che quasi ogni giorno in Brasile nasce una nuova comunità religiosa, nasce un nuovo movimento, non solo crescono le sette. Cresce la Chiesa con nuove realtà piene di vitalità, non così da riempire le statistiche - questa è una speranza falsa, la statistica non è la nostra divinità - ma crescono negli animi e creano la gioia della fede, creano presenza del Vangelo, creano così anche vero sviluppo del mondo e della società. Quindi mi sembra che dobbiamo combinare la grande umiltà del Crocifisso, di una Chiesa che è sempre umile e sempre contrastata dai grandi poteri economici, militari ecc., ma dobbiamo imparare insieme con questa umiltà anche il vero trionfalismo della cattolicità che cresce in tutti i secoli. Cresce anche oggi la presenza del Crocifisso risorto, che ha e conserva le sue ferite; è ferito, ma proprio così rinnova il mondo, dà il suo soffio che rinnova anche la Chiesa nonostante tutta la nostra povertà. E direi, in questo insieme di umiltà della Croce e di gioia del Signore risorto, che nel Concilio ci ha dato un grande indicatore di strada, possiamo andare avanti gioiosamente e pieni di speranza.

© Copyright Libreria Editrice Vaticana 2007
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
16/09/2009 19:23

VEGLIA DI PREGHIERA CON I GIOVANI

Piana di Montorso
Sabato, 1° settembre 2007


RISPOSTE DEL SANTO PADRE ALLE DOMANDE DEI GIOVANI PARTECIPANTI ALLA VEGLIA

La domanda di Piero e Giovanna

A molti di noi giovani di periferia manca un centro, un luogo o persone capaci di dare identità. Siamo spesso senza storia, senza prospettive e perciò senza futuro. Sembra che ciò che aspettiamo veramente non capiti mai. Di qui l’esperienza della solitudine e, a volte, delle dipendenze. Santità, c’è qualcuno o qualcosa per cui possiamo diventare importanti? Com’è possibile sperare, quando la realtà nega ogni sogno di felicità, ogni progetto di vita?

© Copyright Korazym


PRIMA RISPOSTA DEL PAPA

Grazie per questa domanda e per la presentazione molto realistica della situazione. Circa le periferie di questo mondo con grandi problemi non è adesso facile rispondere e non vogliamo vivere in un facile ottimismo, ma, d’altra parte, dobbiamo avere coraggio e andare avanti. Così anticiperei la sostanza della mia risposta: “Sì c’è speranza anche oggi, ciascuno di voi è importante, perché ognuno è conosciuto e voluto da Dio e per ognuno Dio ha un suo progetto. Dobbiamo scoprirlo e corrispondervi, perché sia possibile, nonostante queste situazioni di precarietà e di marginalità, realizzare il progetto di Dio su di noi. Ma, per andare ai dettagli, Lei ci ha presentato realisticamente la situazione di una società: nelle periferie sembra difficile andare avanti, cambiare il mondo per il meglio. Tutto sembra concentrato nei grandi centri del potere economico e politico, le grandi burocrazie dominano e chi si trova nelle periferie realmente sembra essere escluso da questa vita. Allora un aspetto di questa situazione di emarginazione di tanti è che le grandi cellule della vita della società, che possono costruire centri anche nella periferia, sono frantumate: la famiglia, che dovrebbe essere il luogo dell’incontro delle generazioni - dal bisnonno fino al nipote - dovrebbe essere un luogo dove si incontrano non solo le generazioni, ma dove si impara a vivere, si imparano le virtù essenziali per vivere, è frantumata, è in pericolo. Tanto più noi dobbiamo fare il possibile perché la famiglia sia viva, sia anche oggi la cellula vitale, il centro nella periferia.

Così anche la parrocchia, la cellula vivente della Chiesa, deve essere realmente un luogo di ispirazione e di vita e di solidarietà che aiuta a costruire insieme i centri nella periferia. E, devo qui dire, si parla spesso nella Chiesa di periferia e di centro, che sarebbe Roma, ma in realtà nella Chiesa non c’è periferia, perché dove c’è Cristo, lì c’è tutto il centro. Dove si celebra l’Eucaristia, dove c’è il Tabernacolo, c’è Cristo e quindi lì è il centro e dobbiamo fare di tutto perché questi centri vivi siano efficaci, presenti e siano realmente una forza che si oppone a questa emarginazione. La Chiesa viva, la Chiesa delle piccole comunità, la Chiesa parrocchiale, i movimenti dovrebbero formare altrettanti centri nella periferia e così aiutare a superare le difficoltà che la grande politica ovviamente non supera e dobbiamo nello stesso tempo anche pensare che nonostante le grandi concentrazioni di potere, proprio la società di oggi ha bisogno della solidarietà, del senso della legalità, dell’iniziativa e della creatività di tutti.

So che è più facile dirlo che realizzarlo, ma vedo qui persone che si impegnano perché crescano anche nelle periferie centri, cresca la speranza, e quindi mi sembra che dobbiamo prendere proprio nelle periferie l’iniziativa, bisogna che la Chiesa sia presente che il centro del mondo Cristo sia presente. Abbiamo visto e vediamo oggi nel Vangelo che per Dio non ci sono periferie. La Terra Santa, nel vasto contesto dell’Impero Romano, era periferia; Nazareth era periferia, una città sconosciuta. E tuttavia proprio quella realtà era, di fatto, il centro che ha cambiato il mondo! E così anche noi dobbiamo formare dei centri di fede, di speranza, di amore e di solidarietà, di senso della giustizia e della legalità, di cooperazione. Solo così può sopravvivere la società moderna. Ha bisogno di questo coraggio, di creare centri, anche se ovviamente non sembra esistere speranza. A questa disperazione dobbiamo opporci, dobbiamo collaborare con grande solidarietà e fare quanto ci è possibile perché cresca la speranza, perché gli uomini possano collaborare e vivere. Il mondo, lo vediamo, deve essere cambiato, ma è proprio la missione della gioventù di cambiarlo! Non lo possiamo fare solo con le nostre forze, ma in comunione di fede e di cammino.

In comunione con Maria, con tutti i Santi, in comunione con Cristo possiamo fare qualcosa di essenziale e vi incoraggio e vi invito ad avere fiducia in Cristo, ad avere fiducia in Dio. Stare nella grande compagnia dei Santi e andare avanti con loro può cambiare il mondo, creando centri nella periferia, perché essa realmente diventi visibile e così diventi realistica la speranza di tutti e ognuno possa dire:”Io sono importante nella totalità della Storia. Il Signore ci aiuterà”. Grazie


La domanda di Sara

Io credo nel Dio che ha toccato il mio cuore, ma sono tante le insicurezze, le domande, le paure che porto dentro. Non è facile parlare di Dio con i miei amici; molti di loro vedono la Chiesa come una realtà che giudica i giovani, che si oppone ai loro desideri di felicità e di amore. Di fronte a questo rifiuto avverto tutta la mia solitudine di uomo e vorrei sentire la vicinanza di Dio. Santità, in questo silenzio dov’è Dio?

© Copyright Korazym


SECONDA RISPOSTA DEL PAPA

Sì, tutti noi anche se credenti conosciamo il silenzio di Dio. Nel Salmo che abbiamo adesso recitato c’è questo grido quasi disperato: “Parla Dio, non ti nascondere!” e poco fa è stato pubblicato un libro con le esperienze spirituali di Madre Teresa e quanto sapevamo già si mostra ancora più apertamente: con tutta la sua carità, la sua forza di fede, Madre Teresa soffriva del silenzio di Dio. Da una parte, dobbiamo sopportare questo silenzio di Dio anche per potere capire i nostri fratelli che non conoscono Dio. Dall’altra, con il Salmo possiamo sempre di nuovo gridare a Dio: “ Parla, mostrati!”. E senza dubbio nella nostra vita , se il cuore è aperto, possiamo trovare i grandi momenti nei quali realmente la presenza di Dio diventa sensibile anche per noi. Mi ricordo in questo momento di una piccola storia che Giovanni Paolo II ha raccontato negli Esercizi da lui predicati in Vaticano quando non era ancora Papa. Ha raccontato che dopo la guerra è stato visitato da un ufficiale russo che era scienziato, il quale gli ha detto da scienziato: “ Sono sicuro che Dio non esiste. Ma se mi trovo in montagna, davanti alla sua maestosa bellezza, davanti alla sua grandezza, sono ugualmente sicuro che il Creatore esiste e che Dio esiste”.
La bellezza della Creazione è una delle fonti dove realmente possiamo toccare la bellezza di Dio, possiamo vedere che il Creatore esiste ed è buono, che è vero quanto la Sacra Scrittura dice nel racconto della Creazione, che cioè Dio ha pensato e fatto con il suo cuore, con la sua volontà, con la sua ragione questo mondo e lo ha trovato buono. Anche noi dobbiamo essere buoni, per avere il cuore aperto a percepire la vera presenza di Dio. Poi sentendo la Parola di Dio nelle grandi celebrazioni liturgiche, nelle feste della fede, nella grande musica della fede, sentiamo questa presenza. Mi ricordo in questo momento di un’altra piccola storia che mi ha raccontato poco tempo fa un vescovo in visita “ad limina”: c’era una donna non cristiana molto intelligente che cominciava a sentire la grande musica di Bach, Haendel, Mozart. Era affascinata e un giorno ha detto: “Devo trovare la fonte da dove poteva venire questa bellezza”, e la donna si è convertita al Cristianesimo, alla fede cattolica., perché aveva trovato che questa bellezza ha una fonte, e la fonte è la presenza di Cristo nei cuori, è la rivelazione di Cristo in questo mondo. Quindi, grandi feste della fede, della celebrazione liturgica, ma anche il dialogo personale con Cristo: Lui non sempre risponde, ma ci sono momenti in cui realmente risponde. Poi l’amicizia, la compagnia della fede. Adesso, qui riuniti a Loreto, vediamo come la fede unisce, l’amicizia crea una compagnia di persone in cammino. E sentiamo che tutto questo non viene dal nulla, ma realmente ha una fonte, che il Dio silenzioso è anche un Dio che parla, che si rivela e soprattutto che noi stessi possiamo essere testimoni della sua presenza, che dalla nostra fede risulta realmente una luce anche per gli altri. Quindi direi, da una parte dobbiamo accettare che in questo mondo Dio è silenzioso, ma non essere sordi al suo parlare, al suo apparire in tante occasioni e vediamo soprattutto nella Creazione, nella bella liturgia, nell’amicizia all’interno della Chiesa, la presenza del Signore e, pieni della sua presenza, possiamo anche noi dare luce agli altri.

Così vengo alla seconda o alla prima parte della sua domanda: difficile parlare agli amici di oggi di Dio e forse ancora più difficile che parlare della Chiesa, perché vedono in Dio solo il limite della nostra libertà, un Dio di comandamenti, di divieti e nella Chiesa un’istituzione che limita la nostra libertà, che ci impone delle proibizioni.

Ma dobbiamo cercare di rendere visibile a loro la Chiesa viva, non questa idea di un centro di potere nella Chiesa con queste etichette, ma le comunità di compagnia nelle quali nonostante tutti i problemi della vita, che ci sono per tutti, nasce la gioia di vivere. Qui mi viene in mente un terzo ricordo.

Sono stato in Brasile e nella
Fazenda da Esperança, questa grande realtà dove i drogati vengono curati e ritrovano la speranza, ritrovano la gioia di vivere e hanno testimoniato che proprio lo scoprire che Dio c’è ha significato per loro la guarigione dalla disperazione. Così hanno capito che la loro vita ha un senso e hanno ritrovato la gioia di essere in questo mondo, la gioia di affrontare i problemi della vita umana. Quindi in ogni cuore umano nonostante tutti i problemi che ci sono, c’è la sete di Dio e dove Dio scompare, scompare anche il sole che da luce e gioia. Questa sete di infinito che è nei nostri cuori si dimostra proprio anche nella realtà della droga: l’uomo vuole allargare lo spessore della vita, avere di più dalla vita, avere l’infinito, ma la droga è una menzogna, una truffa, perché non allarga la vita, ma distrugge la vita. Vera è la grande sete che ci parla di Dio e ci mette in cammino verso Dio, ma dobbiamo aiutarci reciprocamente. Cristo è venuto proprio per creare una rete di comunione nel mondo, dove tutti insieme possiamo portarci l’un l’altro e così aiutarci a trovare insieme la strada della vita e capire che i Comandamenti di Dio non sono limitazioni della nostra libertà, ma le strade che guidano verso l’altro, verso la pienezza della vita. Preghiamo il Signore perché ci aiuti a capire la sua presenza, ad essere pieni della sua Rivelazione, della sua gioia, ad aiutarci l’un l’altro nella compagnia della fede per andare avanti, e trovare sempre più con Cristo il vero volto di Dio e così la vera vita.

© Copyright 2007 - Libreria Editrice Vaticana
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
16/09/2009 19:29

INCONTRO CON I PARROCI E IL CLERO DELLA DIOCESI DI ROMA , 07.02.2008

Alle ore 11 di questa mattina, nell’Aula delle Benedizioni, il Santo Padre Benedetto XVI ha incontrato i Parroci e il Clero della Diocesi di Roma per il tradizionale appuntamento di inizio Quaresima. L’incontro si è svolto in forma di dialogo tra il Santo Padre e i partecipanti.

Riportiamo qui di seguito le domande rivolte al Papa e le Sue risposte:

DIALOGO

(Giuseppe Corona, diacono)

Beatissimo Padre, vorrei esprimere innanzitutto la gratitudine mia e dei miei confratelli diaconi per il ministero che così provvidenzialmente la Chiesa ha ripristinato con il Concilio, ministero che ci consente di dare piena espressione alla nostra vocazione. Siamo impegnati in una grande varietà di compiti svolti in ambiti molto diversi: la famiglia, il lavoro, la parrocchia, la società, anche nelle missioni in Africa e America latina, ambiti da Lei già indicati nell'udienza che ci concesse in occasione del venticinquennale del diaconato romano. Ora il nostro numero è aumentato, siamo 108. E ci piacerebbe che Vostra Santità ci indicasse una iniziativa pastorale che possa diventare segno di una più incisiva presenza del diaconato permanente nella città di Roma, come accadde nei primi secoli della Chiesa romana. Infatti la condivisione di un obiettivo significativo, comune, da un lato farebbe crescere la coesione della fraternità diaconale, dall'altro darebbe una maggiore visibilità al nostro servizio in questa città. Consegniamo a Vostra Santità questo desiderio, di indicarci cioè una iniziativa da condividere nei modi e nelle forme che vorrà indicarci. A nome di tutti i diaconi saluto Vostra Santità con filiale affetto.

Grazie per questa testimonianza di uno dei più di cento diaconi di Roma. Vorrei anch'io esprimere la mia gioia e la mia gratitudine al Concilio, perché ha restaurato questo importante ministero nella Chiesa universale. Devo dire che quando ero arcivescovo di Monaco non ho trovato forse più di tre o quattro diaconi e ho favorito molto questo ministero, perché mi sembra che appartenga alla ricchezza del ministero sacramentale nella Chiesa. Nello stesso tempo, può essere anche un collegamento tra il mondo laico, il mondo professionale, e il mondo del ministero sacerdotale.
Perché molti diaconi continuano a svolgere le loro professioni e mantengono le loro posizioni, importanti o anche di vita semplice, mentre il sabato e la domenica lavorano nella Chiesa. Così testimoniano nel mondo di oggi, anche nel mondo del lavoro, la presenza della fede, il ministero sacramentale e la dimensione diaconale del sacramento dell'Ordine. Questo mi sembra molto importante: la visibilità della dimensione diaconale.

Naturalmente anche ogni sacerdote rimane diacono e deve sempre pensare a questa dimensione, perché il Signore stesso si è fatto nostro ministro, nostro diacono. Pensiamo al gesto della lavanda dei piedi, con cui esplicitamente si mostra che il Maestro, il Signore, fa il diacono e vuole che quanti lo seguono siano diaconi, svolgano questo ministero per l'umanità, fino al punto di aiutare anche a lavare i piedi sporchi degli uomini a noi affidati. Questa dimensione mi sembra di grande importanza.

In questa occasione mi viene in mente — anche se forse non è immediatamente inerente al tema — una piccola esperienza che ha annotato Paolo VI.

Ogni giorno del Concilio è stato intronizzato il Vangelo. E il Pontefice ha detto ai cerimonieri che una volta avrebbe voluto fare lui stesso questa intronizzazione del Vangelo. Gli hanno detto: no, questo è compito dei diaconi e non del Papa, del Sommo Pontefice, dei Vescovi. Lui ha annotato nel suo diario: ma io sono anche diacono, rimango diacono e vorrei anche esercitare questo ministero del diacono mettendo sul trono la Parola di Dio. Dunque questo concerne noi tutti. I sacerdoti rimangono diaconi e i diaconi esplicitano nella Chiesa e nel mondo questa dimensione diaconale del nostro ministero. Questa intronizzazione liturgica della Parola di Dio ogni giorno durante il Concilio era sempre per noi un gesto di grande importanza: ci diceva chi era il vero Signore di quell’assemblea, ci diceva che sul trono c'è la Parola di Dio e noi esercitiamo il ministero per ascoltare e per interpretare, per offrire agli altri questa Parola. È ampiamente significativo per tutto quanto facciamo: intronizzare nel mondo la parola di Dio, la Parola vivente, Cristo. Che sia realmente Lui a governare la nostra vita personale e la nostra vita nelle parrocchie.

Poi Lei mi fa una domanda che, devo dire, va un po' oltre le mie forze: quali sarebbero i compiti propri dei diaconi a Roma. So che il Cardinale Vicario conosce molto meglio di me le situazioni reali della città, della comunità diocesana di Roma. Io penso che una caratteristica del ministero dei diaconi è proprio la molteplicità delle applicazioni del diaconato.

Nella Commissione Teologica Internazionale, alcuni anni fa, abbiamo studiato a lungo il diaconato nella storia e anche nel presente della Chiesa. E abbiamo scoperto proprio questo: non c'è un profilo unico. Quanto si deve fare, varia a seconda della preparazione delle persone, delle situazioni nelle quali si trovano. Ci possono essere applicazioni e concretizzazioni diversissime, sempre in comunione con il Vescovo e con la parrocchia, naturalmente. Nelle diverse situazioni si mostrano diverse possibilità, anche a seconda della preparazione professionale che eventualmente hanno questi diaconi: potrebbero essere impegnati nel settore culturale, oggi così importante, o potrebbero avere una voce e un posto significativo nel settore educativo. Pensiamo quest'anno proprio al problema dell'educazione come centrale per il nostro futuro, per il futuro dell'umanità.
Certo, il settore della carità era a Roma il settore originario, perché i titoli presbiterali e le diaconie erano centri della carità cristiana. Questo era fin dall'inizio nella città di Roma un settore fondamentale. Nella mia Enciclica
Deus caritas est ho mostrato che non solo la predicazione e la liturgia sono essenziali per la Chiesa e per il ministero della Chiesa, ma lo è altrettanto l'essere per i poveri, per i bisognosi, il servizio della caritas nelle sue molteplici dimensioni. Quindi spero che in ogni tempo, in ogni diocesi, pur con situazioni diverse, questa rimarrà una dimensione fondamentale e anche prioritaria per l'impegno dei diaconi, sia pure non l'unica, come ci mostra anche la Chiesa primitiva, dove i sette diaconi erano stati eletti proprio per consentire agli apostoli di dedicarsi alla preghiera, alla liturgia, alla predicazione. Anche se poi Stefano si trova nella situazione di dover predicare agli ellenisti, agli ebrei di lingua greca, e così si allarga il campo della predicazione. Egli è condizionato, diciamo, dalle situazioni culturali, dove lui ha voce per rendere presente in questo settore la Parola di Dio e così anche rendere maggiormente possibile l'universalità della testimonianza cristiana, aprendo le porte a san Paolo, che fu testimone della sua lapidazione e poi, in un certo senso, suo successore nella universalizzazione della Parola di Dio. Non so se il Cardinale Vicario vuole aggiungere una parola; io non sono così vicino alle situazioni concrete.

(Cardinale Ruini)

Padre Santo, posso solo confermare, come Lei diceva, che anche a Roma in concreto i diaconi lavorano in molti ambiti, per lo più nelle parrocchie, dove si occupano della pastorale della carità, ma per esempio molti anche nella pastorale della famiglia. Essendo sposati quasi tutti i diaconi, preparano al matrimonio, seguono le giovani coppie e così via. Poi danno anche un contributo significativo alla pastorale sanitaria, danno un contributo anche in Vicariato — alcuni lavorano in Vicariato — e, come ha sentito prima, nelle missioni. C'è qualche presenza missionaria di diaconi. Credo che, naturalmente, sul piano numerico l'impegno di gran lunga più rilevante è quello nelle parrocchie, ma ci sono anche altri ambiti che si stanno aprendo e proprio per questo abbiamo già oltre un centinaio di diaconi permanenti.

(Padre Graziano Bonfitto, vicario parrocchiale della parrocchia di Ognissanti)

Padre Santo, sono originario di un paese della provincia di Foggia, San Marco in Lamis. Sono un religioso di Don Orione e sacerdote da un anno e mezzo circa, attualmente vice parroco nella parrocchia di Ognissanti, nel quartiere Appio. Non le nascondo la mia emozione, ma anche la incredibile gioia che provo in questo momento, per me così privilegiato. Lei è il vescovo e il pastore della nostra Chiesa diocesana, ma è pur sempre il Papa, e quindi il Pastore della Chiesa universale. Per cui l'emozione è irrimediabilmente raddoppiata. Volevo prima di ogni cosa esprimerle la mia gratitudine per tutto ciò che, giorno dopo giorno, fa non solo per la nostra diocesi di Roma ma per la Chiesa intera. Le Sue parole e i Suoi gesti, le Sue attenzioni verso di noi, popolo di Dio, sono segno dell'amore e della vicinanza che Lei nutre per tutti e per ciascuno. Il mio apostolato sacerdotale si svolge in particolare tra i giovani.
È proprio a nome loro che voglio oggi dirLe grazie. Il mio santo fondatore, san Luigi Orione, diceva che i giovani sono il sole o la tempesta del domani. Credo che in questo momento storico che ci troviamo a vivere i giovani sono tanto il sole quanto la tempesta, non del domani ma di ora, di adesso. Noi giovani oggi più che mai sentiamo forte il bisogno di avere delle certezze. Desideriamo sincerità, libertà, giustizia, pace. Vogliamo a fianco persone che camminano con noi, che si fanno nostri ascoltatori. Esattamente come Gesù con i discepoli di Emmaus. La gioventù desidera persone capaci di indicare la via della libertà, della responsabilità, dell'amore, della verità. Cioè, i giovani oggi hanno una sete inesauribile di Cristo. Una sete di testimoni gioiosi che hanno incontrato Gesù e hanno scommesso su di Lui tutta l'esistenza. I giovani vogliono una Chiesa sempre in campo e sempre più vicina alle loro esigenze. La vogliono presente nelle loro scelte di vita, anche se in loro permane un certo senso di distacco nei confronti della Chiesa stessa. Il giovane cerca una speranza affidabile — come Lei ha scritto nell'ultima lettera indirizzata a noi fedeli di Roma — per evitare di vivere senza Dio. Santo Padre — mi permetta di chiamarla «papà» — quanto è difficile vivere in Dio, con Dio e per Dio. La gioventù si sente insidiata da molte parti. Sono molti i falsi profeti, molti i venditori di illusioni. Sono troppi gli insinuatori di false verità e di ignobili ideali. Tuttavia la gioventù che crede oggi, pur sentendosi accerchiata, è convinta che Dio sia la speranza che resiste a tutte le delusioni, che solo il suo amore non può essere distrutto dalla morte, anche se il più delle volte non è facile trovare lo spazio e il coraggio per essere testimoni. Che fare allora? Come comportarsi? Vale effettivamente la pena continuare a scommettere la propria vita su Cristo? La vita, la famiglia, l'amore, la gioia, la giustizia, il rispetto delle opinioni altrui, la libertà, la preghiera e la carità sono valori ancora da difendere? La vita da beati, cioè misurata sulle beatitudini, è vita adatta all'uomo, al giovane del terzo millennio? Grazie infinite della Sua attenzione, del Suo affetto e della Sua premura per i giovani. La gioventù è con Lei: La stima, La ama e L'attende. Ci sia sempre vicino, ci indichi con sempre più forza il cammino che porta a Cristo, via, verità e vita. Ci stimoli a volare alto. Sempre più in alto. E preghi sempre per noi. Grazie
.


Grazie per questa bella testimonianza di un giovane sacerdote che va con i giovani, li accompagna, come Lei ha detto, e aiuta ad andare con Cristo, con Gesù. Cosa dire? Noi sappiamo tutti come è difficile per un giovane di oggi vivere da cristiano. Il contesto culturale, il contesto mediatico, offre tutt'altro che la strada verso Cristo. Sembra proprio rendere impossibile vedere Cristo come centro della vita e vivere la vita come Gesù ce la mostra. Tuttavia, mi sembra anche che molti sentano sempre di più l'insufficienza di tutte queste offerte, di questo stile di vita che alla fine lascia vuoti.
In questo senso, mi sembra proprio che le letture della liturgia di oggi, quella del Deuteronomio (30, 15-20) e il brano evangelico di Luca (9, 22-25), rispondano a quanto, in sostanza, dovremmo dire ai giovani e sempre di nuovo a noi stessi. Come Lei hai detto, la sincerità è fondamentale. I giovani devono sentire che non diciamo parole non vissute da noi stessi, ma parliamo perché abbiamo trovato e cerchiamo di trovare ogni giorno di nuovo la verità come verità per la mia vita. Solo se siamo in questo cammino, se cerchiamo di assimilare noi stessi a questa vita e di assimilare la nostra vita a quella del Signore, allora anche le parole possono essere credibili e avere una logica visibile e convincente. Ritorno: oggi questa è la grande regola fondamentale non solo per la Quaresima, ma per tutta la vita cristiana: scegli la vita. Hai davanti a te morte e vita: scegli la vita. E mi sembra che la risposta sia naturale. Sono solo pochi a nutrire nel profondo una volontà di distruzione, di morte, a non volere più l'essere, la vita, perché è tutto contraddittorio per loro. Purtroppo, però, si tratta di un fenomeno che si allarga. Con tutte le contraddizioni, le false promesse, alla fine la vita appare contraddittoria, non è più un dono ma una condanna e così c'è chi vuole più la morte che la vita. Ma normalmente l'uomo risponde: sì, voglio la vita.

La questione resta però quella di come trovare la vita, di che cosa scegliere, di come scegliere la vita. E le offerte che normalmente vengono fatte le conosciamo: andare in discoteca, prendere tutto quanto è possibile, considerare la libertà come il fare tutto quel che si vuole, tutto quel che viene in mente in un determinato momento. Ma sappiamo invece — e possiamo mostrarlo — che questa strada è una strada di menzogna, perché alla fine non si trova la vita ma si trova realmente l'abisso del niente. Scegli la vita. La stessa lettura dice: Dio è la tua vita, tu hai scelto la vita e tu hai fatto la scelta: Dio. Questo mi sembra fondamentale. Solo così il nostro orizzonte è sufficientemente largo e solo così siamo alla fonte della vita, che è più forte della morte, di tutte le minacce della morte. Quindi, la scelta fondamentale è questa qui indicata: scegli Dio. Bisogna capire che chi va sulla strada senza Dio, si trova alla fine nell'oscurità, anche se possono esserci momenti in cui sembra di aver trovato la vita.

Poi un ulteriore passo è come trovare Dio, come scegliere Dio. Qui arriviamo al Vangelo: Dio non è un ignoto, un'ipotesi forse del primo inizio del cosmo. Dio ha carne e ossa. È uno di noi. Lo conosciamo con il suo volto, con il suo nome. È Gesù Cristo che ci parla nel Vangelo. È uomo e Dio. Ed essendo Dio, ha scelto l'uomo per rendere possibile a noi la scelta di Dio. Quindi bisogna entrare nella conoscenza e poi nell'amicizia di Gesù per camminare con Lui.
Mi sembra che questo sia il punto fondamentale nella nostra cura pastorale per i giovani, per tutti ma soprattutto per i giovani: attirare l'attenzione sulla scelta di Dio, che è la vita. Sul fatto che Dio c'è. E c'è in modo molto concreto. E insegnare l'amicizia con Gesù Cristo.

C'è anche un terzo passo. Questa amicizia con Gesù non è un'amicizia con una persona irreale, con qualcuno che appartiene al passato o che sta lontano dagli uomini, alla destra di Dio. Egli è presente nel suo corpo, che è ancora un corpo in carne e ossa: è la Chiesa, la comunione della Chiesa. Dobbiamo costruire e rendere più accessibili comunità che riflettono, che sono lo specchio della grande comunità della Chiesa vitale. È un insieme: l'esperienza vitale della comunità, con tutte le debolezze umane, ma tuttavia reale, con una strada chiara, e una solida vita sacramentale, nella quale possiamo toccare anche ciò che a noi può sembrare così lontano, la presenza del Signore. In questo modo possiamo anche imparare i comandamenti – per ritornare al Deuteronomio, da cui sono partito. Perché la lettura dice: scegliere Dio vuol dire scegliere secondo la sua Parola, vivere secondo la Parola. Per un momento questo appare un po' positivista quasi: sono imperativi. Ma la prima cosa è il dono: la sua amicizia. Poi possiamo capire che gli indicatori di strada sono esplicazioni della realtà di questa nostra amicizia.

Questa, possiamo dire, è una visione generale, quale scaturisce dal contatto con la Sacra Scrittura e la vita della Chiesa di ogni giorno. Poi si traduce passo per passo negli incontri concreti con i giovani: guidarli al dialogo con Gesù nella preghiera, nella lettura della Sacra Scrittura — la lettura comune soprattutto, ma anche personale — e nella vita sacramentale. Sono tutti passi per rendere presenti queste esperienze nella vita professionale, anche se il contesto spesso è segnato dalla piena assenza di Dio e dalla apparente impossibilità di vederlo presente. Ma proprio allora, attraverso la nostra vita e la nostra esperienza di Dio, dobbiamo cercare di far entrare anche in questo mondo lontano da Dio la presenza di Cristo.

La sete di Dio c'è. Ho avuto poco tempo fa la vista ad limina di Vescovi di un paese dove più del cinquanta per cento si dichiara ateo o agnostico. Ma mi hanno detto: in realtà tutti hanno sete di Dio. Nascostamente esiste questa sete. Perciò prima cominciamo noi, con i giovani che possiamo trovare. Formiamo comunità nelle quali si riflette la Chiesa, impariamo l'amicizia con Gesù. E così, pieni di questa gioia e di questa esperienza, possiamo anche oggi rendere presente Dio in questo nostro mondo.

(Don Pietro Riggi, salesiano del Borgo Ragazzi Don Bosco)

Santo Padre, lavoro in un oratorio e in un centro di accoglienza per minori a rischio. Le volevo chiedere: il 25 marzo 2007 Lei ha fatto un discorso a braccio, lamentandosi come oggi si parli poco dei Novissimi. In effetti, nei catechismi della Cei usati per l'insegnamento della nostra fede ai ragazzi di confessione, comunione e cresima, mi sembra che siano omesse alcune verità di fede. Non si parla mai di inferno, mai di purgatorio, una sola volta di paradiso, una sola volta di peccato, soltanto il peccato originale. Mancando queste parti essenziali del credo, non Le sembra che crolli il sistema logico che porta a vedere la redenzione di Cristo? Mancando il peccato, non parlando di inferno, anche la redenzione di Cristo viene a essere sminuita. Non Le sembra che sia favorita la perdita del senso del peccato e quindi del sacramento della riconciliazione e la stessa figura salvifica, sacramentale del sacerdote che ha il potere di assolvere e di celebrare in nome di Cristo? Oggi purtroppo anche noi sacerdoti, quando nel Vangelo si parla di inferno, dribbliamo il Vangelo stesso. Non se ne parla. O non sappiamo parlare di paradiso. Non sappiamo parlare di vita eterna. Rischiamo di dare alla fede una dimensione soltanto orizzontale oppure troppo distaccata, l'orizzontale dal verticale. E questo purtroppo nella catechesi ai ragazzi, se non nell'iniziativa dei parroci, nella struttura portante, viene a mancare. Se non sbaglio, quest'anno ricorre anche il venticinquesimo anniversario della consacrazione della Russia al Cuore immacolato di Maria. Per l'occasione non si può pensare di rinnovare solennemente questa consacrazione per il mondo intero? È crollato il muro di Berlino, ma vi sono tanti muri di peccato che devono crollare ancora: l'odio, lo sfruttamento, il capitalismo selvaggio. Muri che devono crollare e ancora aspettiamo che trionfi il Cuore immacolato di Maria per poter realizzare anche questa dimensione. Volevo anche notare come la Madonna non ha avuto paura di parlare dell'inferno e del paradiso ai bambini di Fátima, che, guarda caso, avevano l'età dei catechismo: sette, nove e dodici anni. E noi tante volte invece omettiamo questo. Può dirci qualche cosa in più su questo?

Lei ha parlato giustamente su temi fondamentali della fede, che purtroppo appaiono raramente nella nostra predicazione.

Nell'Enciclica
Spe salvi ho voluto proprio parlare anche del giudizio ultimo, del giudizio in generale, e in questo contesto anche su purgatorio, inferno e paradiso. Penso che noi tutti siamo ancora sempre colpiti dall'obiezione dei marxisti, secondo cui i cristiani hanno solo parlato dell'aldilà e hanno trascurato la terra. Così noi vogliamo dimostrare che realmente ci impegniamo per la terra e non siamo persone che parlano di realtà lontane, che non aiutano la terra. Ora, benché sia giusto mostrare che i cristiani lavorano per la terra — e noi tutti siamo chiamati a lavorare perché questa terra sia realmente una città per Dio e di Dio — non dobbiamo dimenticare l'altra dimensione. Senza tenerne conto, non lavoriamo bene per la terra. Mostrare questo è stato uno degli scopi fondamentali per me nello scrivere l'Enciclica. Quando non si conosce il giudizio di Dio, non si conosce la possibilità dell'inferno, del fallimento radicale e definitivo della vita, non si conosce la possibilità e la necessità della purificazione. Allora l'uomo non lavora bene per la terra perché perde alla fine i criteri, non conosce più se stesso, non conoscendo Dio, e distrugge la terra.

Tutte le grandi ideologie hanno promesso: noi prenderemo in mano le cose, non trascureremo più la terra, creeremo il mondo nuovo, giusto, corretto, fraterno. Invece, hanno distrutto il mondo. Lo vediamo con il nazismo, lo vediamo anche con il comunismo, che hanno promesso di costruire il mondo così come avrebbe dovuto essere e, invece, hanno distrutto il mondo.
Nelle visite ad limina dei Vescovi di Paesi ex comunisti, vedo sempre di nuovo come in quelle terre siano rimasti distrutti non solo il pianeta, l'ecologia, ma soprattutto e più gravemente le anime. Ritrovare la coscienza veramente umana, illuminata dalla presenza di Dio, è il primo lavoro di riedificazione della terra. Questa è l'esperienza comune di quei Paesi. La riedificazione della terra, rispettando il grido di sofferenza di questo pianeta, si può realizzare soltanto ritrovando nell'anima Dio, con gli occhi aperti verso Dio.

Perciò Lei ha ragione: dobbiamo parlare di tutto questo proprio per responsabilità verso la terra, verso gli uomini che oggi vivono. Dobbiamo parlare anche e proprio del peccato come possibilità di distruggere se stessi e così anche altre parti della terra. Nell'Enciclica ho cercato di dimostrare che proprio il giudizio ultimo di Dio garantisce la giustizia. Tutti vogliamo un mondo giusto.

Ma non possiamo riparare tutte le distruzioni del passato, tutte le persone ingiustamente tormentate e uccise. Solo Dio stesso può creare la giustizia, che deve essere giustizia per tutti, anche per i morti. E come dice Adorno, un grande marxista, solo la risurrezione della carne, che lui ritiene irreale, potrebbe creare giustizia. Noi crediamo in questa risurrezione della carne, nella quale non tutti saranno uguali.

Oggi si è abituati a pensare: che cosa è il peccato, Dio è grande, ci conosce, quindi il peccato non conta, alla fine Dio sarà buono con tutti. È una bella speranza. Ma c'è la giustizia e c'è la vera colpa. Coloro che hanno distrutto l'uomo e la terra non possono sedere subito alla tavola di Dio insieme con le loro vittime. Dio crea giustizia. Dobbiamo tenerlo presente. Perciò mi sembrava importante scrivere questo testo anche sul purgatorio, che per me è una verità così ovvia, così evidente e anche così necessaria e consolante, che non può mancare. Ho cercato di dire: forse non sono tanti coloro che si sono distrutti così, che sono insanabili per sempre, che non hanno più alcun elemento sul quale possa poggiare l'amore di Dio, non hanno più in se stessi un minimo di capacità di amare. Questo sarebbe l'inferno. D'altra parte, sono certamente pochi — o comunque non troppi — coloro che sono così puri da poter entrare immediatamente nella comunione di Dio. Moltissimi di noi sperano che ci sia qualcosa di sanabile in noi, che ci sia una finale volontà di servire Dio e di servire gli uomini, di vivere secondo Dio. Ma ci sono tante e tante ferite, tanta sporcizia. Abbiamo bisogno di essere preparati, di essere purificati. Questa è la nostra speranza: anche con tante sporcizie nella nostra anima, alla fine il Signore ci dà la possibilità, ci lava finalmente con la sua bontà che viene dalla sua croce. Ci rende così capaci di essere in eterno per Lui. E così il paradiso è la speranza, è la giustizia finalmente realizzata. E ci dà anche i criteri per vivere, perché questo tempo sia in qualche modo paradiso, sia una prima luce del paradiso. Dove gli uomini vivono secondo questi criteri, appare un po' di paradiso nel mondo, e questo è visibile. Mi sembra anche una dimostrazione della verità della fede, della necessità di seguire la strada dei comandamenti, di cui dobbiamo parlare di più. Questi sono realmente indicatori di strada e ci mostrano come vivere bene, come scegliere la vita. Perciò dobbiamo anche parlare del peccato e del sacramento del perdono e della riconciliazione. Un uomo sincero sa che è colpevole, che dovrebbe ricominciare, che dovrebbe essere purificato. E questa è la meravigliosa realtà che ci offre il Signore: c'è una possibilità di rinnovamento, di essere nuovi. Il Signore comincia con noi di nuovo e noi possiamo ricominciare così anche con gli altri nella nostra vita.

Questo aspetto del rinnovamento, della restituzione del nostro essere dopo tante cose sbagliate, dopo tanti peccati, è la grande promessa, il grande dono che la Chiesa offre. E che, per esempio, la psicoterapia non può offrire.

La psicoterapia oggi è così diffusa e anche necessaria di fronte a tante psichi distrutte o gravemente ferite. Ma le possibilità della psicoterapia sono molto limitate: può solo cercare un po' di riequilibrare un'anima squilibrata. Ma non può dare un vero rinnovamento, un superamento di queste gravi malattie dell'anima. E perciò rimane sempre provvisoria e mai definitiva. Il sacramento della penitenza ci dà l'occasione di rinnovarci fino in fondo con la potenza di Dio — ego te absolvo — che è possibile perché Cristo ha preso su di sé questi peccati, queste colpe.

Mi sembra che questa sia proprio oggi una grande necessità. Possiamo essere risanati. Le anime che sono ferite e malate, come è l'esperienza di tutti, hanno bisogno non solo di consigli ma di un vero rinnovamento, che può venire solo dal potere di Dio, dal potere dell'Amore crocifisso. Mi sembra questo il grande nesso dei misteri che alla fine incidono realmente nella nostra vita. Dobbiamo noi stessi rimeditarli e così farli arrivare di nuovo alla nostra gente.

(Don Massimo Tellan, parroco di Sant'Enrico)

Sono Don Massimo Tellan, sacerdote da quindici anni, da sei parroco a Casal Monastero, settore nord. Credo che tutti ci rendiamo conto di vivere sempre di più immersi in un mondo culturalmente inflazionato da parole, spesso prive persino di significato, che disorientano il cuore umano a tal punto da renderlo sordo alla parola di verità. Quella Parola eterna che si è fatta carne e ha assunto un volto in Gesù di Nazareth diviene così per molti evanescente, e soprattutto per le nuove generazioni, inconsistente e lontana. Certamente confusa nella selva di immagini ambigue ed effimere da cui si è bombardati quotidianamente. Allora che spazio dare nell'educare alla fede, a questo binomio di parola da accogliere e immagine da contemplare? Dove è finita l'arte del raccontare la fede e dell'introdurre al mistero, come avveniva in passato con la biblia pauperum? Nell'odierna società dell'immagine come possiamo recuperare la forza prorompente del vedere, che accompagna il mistero dell'incarnazione e dell'incontro con Gesù, come avvenne per Giovanni e Andrea sulle rive del Giordano, invitati ad andare e vedere dove abitava il maestro? In altre parole: come educare alla ricerca e alla contemplazione di quella vera bellezza che, come scriveva Dostoevskij, salverà il mondo? Grazie, Santità, della Sua attenzione, e se mi permette, anche con il consenso dei confratelli, oltreché da sacerdote di questo presbiterio anche da artista dilettante, vorrei accompagnare quanto detto donandole un'icona del Cristo alla colonna, immagine di quell'umanità sofferente e umiliata che il Verbo ha voluto assumere non solo sino all'Ecce homo, ma fino alla morte di Croce, e al contempo immagine attuale della Chiesa Corpo mistico del Cristo, sovente ferita dall'arroganza del male, ma chiamata col suo Signore, ad abbracciare il peccato del mondo per redimerlo con il suo sacrificarsi con Gesù. Grazie, Padre Santo, e grazie anche ai miei confratelli. Tutti loro, ogni giorno più di me e meglio di me, sono impegnati a mostrare al mondo con la propria testimonianza di vita il volto attuale del Maestro. Se è vero, come lo è, che chi ha visto il Figlio ha visto il Padre, così chi vede noi, sua Chiesa, possa vedere il Cristo.


Grazie per questo bellissimo dono. Sono grato che non abbiamo soltanto parole, ma anche immagini. Vediamo che anche oggi dalla meditazione cristiana nascono nuove immagini, rinasce la cultura cristiana, l'iconografia cristiana.

Si, viviamo nell'inflazione delle parole, delle immagini. Quindi è difficile creare spazio per la parola e l'immagine. Mi sembra che proprio nella situazione del nostro mondo, che conosciamo tutti, che è anche la nostra sofferenza, la sofferenza di ognuno, il tempo della Quaresima guadagni un nuovo significato. Certo il digiuno corporale, per un certo tempo considerato non più alla moda, oggi appare a tutti come necessario.

Non è difficile capire che dobbiamo digiunare. A volte ci troviamo anche di fronte a certe esagerazioni dovute ad un ideale di bellezza sbagliato. Ma in ogni caso il digiuno corporale è una cosa importante, perché siamo corpo e anima e la disciplina del corpo, la disciplina anche materiale, è importante per la vita spirituale che è sempre vita incarnata in una persona che è corpo e anima.

Questa è una dimensione. Oggi crescono e si manifestano altre dimensioni. Mi sembra che il tempo della Quaresima potrebbe proprio essere anche un tempo di digiuno dalle parole e dalle immagini. Abbiamo bisogno di un po’ di silenzio, abbiamo bisogno di uno spazio senza il bombardamento permanente delle immagini.

In questo senso, rendere accessibile e comprensibile oggi il significato di quaranta giorni di disciplina esteriore e interiore è molto importante per aiutarci a capire che una dimensione della nostra Quaresima, di questa disciplina corporale e spirituale, è crearci spazi di silenzio e anche senza immagini, per riaprire il nostro cuore all'immagine vera e alla parola vera. Mi sembra promettente che anche oggi si veda che c'è una rinascita dell'arte cristiana, sia di una musica meditativa — come per esempio quella nata a Taizé — sia anche, riallacciandoci all'arte dell'icona, ad un'arte cristiana che rimane, diciamo, nelle grandi normative dell'arte iconologica del passato, ma allargandosi alle esperienze e alle visioni di oggi. Laddove c'è una vera e profonda meditazione della Parola, dove entriamo realmente nella contemplazione di questa visibilità di Dio nel mondo, di questa toccabilità di Dio nel mondo, nascono anche nuove immagini, nuove possibilità di rendere visibili gli avvenimenti della salvezza. È proprio questa la conseguenza dell’evento dell'incarnazione. L'Antico Testamento vietava ogni immagine e doveva vietarlo in un mondo pieno di divinità. Esso viveva proprio nel grande vuoto che era anche rappresentato dall'interno del tempio, dove, in contrasto con altri templi, non c'era nessuna immagine, ma solo il trono vuoto della Parola, la presenza misteriosa del Dio invisibile, non circoscritto da nostre immagini.

Ma poi il passo nuovo è che questo Dio misterioso ci libera dall'inflazione delle immagini, anche di un tempo pieno di immagini di divinità, e ci dà la libertà della visione dell'essenziale. Appare con un volto, con un corpo, con una storia umana che, nello stesso tempo, è una storia divina. Una storia che continua nella storia dei santi, dei martiri, dei santi della carità, della parola, che sono sempre esplicazione, continuazione nel Corpo di Cristo di questa sua vita divina e umana, e ci dà le immagini fondamentali nelle quali — al di là di quelle superficiali che nascondono la realtà — possiamo aprire lo sguardo verso la Verità stessa. In questo senso mi sembra eccessivo il periodo iconoclastico del dopo Concilio, che aveva tuttavia un suo senso, perchè era forse necessario liberarsi da una superficialità delle troppe immagini.
Adesso torniamo alla conoscenza del Dio che si è fatto uomo. Come ci dice la Lettera agli Efesini, Lui è la vera immagine. E in questa vera immagine vediamo — oltre le apparenze che nascondono la verità — la Verità stessa: "Chi vede me, vede il Padre". In questo senso direi che, con molto rispetto e con molta reverenza, possiamo ritrovare un'arte cristiana e anche ritrovare le essenziali e grandi rappresentazioni del mistero di Dio nella tradizione iconografica della Chiesa. E così potremo riscoprire l'immagine vera, coperta dalle apparenze. È realmente un lavoro importante dell'educazione cristiana: la liberazione per la Parola dietro le parole, che esige sempre di nuovo spazi di silenzio, di meditazione, di approfondimento, di astinenza, di disciplina. E ugualmente l'educazione alla vera immagine, cioè alla riscoperta delle grandi icone create nella storia nella cristianità: con l'umiltà ci si libera da immagini superficiali. Questo tipo di iconoclasma è sempre necessario per riscoprire l'Immagine, cioè le immagini fondamentali che esprimono la presenza di Dio nella carne.
Questa è una dimensione fondamentale dell'educazione alla fede, al vero umanesimo, che cerchiamo in questo tempo a Roma. Siamo tornati a riscoprire l'icona con le sue regole molto severe, senza le bellezze rinascimentali. E così possiamo anche noi rientrare in un cammino di riscoperta umile delle grandi immagini, verso una sempre nuova liberazione dalle troppe parole, dalle troppe immagini, per riscoprire le immagini essenziali che sono necessarie per noi. Dio stesso ci ha mostrato la sua immagine e noi possiamo ritrovare questa immagine con una profonda meditazione della Parola che fa rinascere le immagini.

Allora, preghiamo il Signore che ci aiuti in questo cammino di vera educazione, di rieducazione alla fede, che è sempre non solo un ascoltare ma anche un vedere.

(Don Paul Chungat, vicario parrocchiale di San Giuseppe Cottolengo)

Mi chiamo don Chungat, indiano, attualmente vicario della parrocchia di San Giuseppe a Valle Aurelia. Vorrei ringraziarLa per l'opportunità che mi ha dato di servire nella diocesi di Roma per tre anni. Questo è stato per me, per i miei studi, un grande aiuto, così come credo che lo sia per tutti i sacerdoti studenti che restano a Roma. Ormai è arrivato il tempo di tornare alla mia diocesi in India dove i cattolici sono solo l'uno per cento mentre il novantanove per cento sono non cristiani. La cosa che in questi giorni mi ha dato da pensare molto è la situazione dell'evangelizzazione missionaria nella mia patria. Nella recente nota della Congregazione per la Dottrina della Fede ci sono alcune parole difficili da capire nel campo del dialogo interreligioso. Ad esempio al numero 10 c'è scritto «pienezza della salvezza», e nella parte introduttiva si legge «necessità di incorporazione formale nella Chiesa». Si tratta di concetti difficili da far capire quando io porterò queste cose in India e dovrò parlare ai miei amici induisti e ai fedeli di altre religioni. La mia domanda è: pienezza della salvezza va intesa in senso qualitativo o in senso quantitativo? Se quantitativo c'è un po’ di difficoltà. Il Concilio Vaticano II dice che c'è possibilità di un seme di luce anche nelle altre fedi. Se in senso qualitativo, oltre alla storicità e alla pienezza della fede, quali sono le altre cose per mostrare l'unicità della nostra fede riguardo al dialogo interreligioso?

Grazie per questo intervento. Lei sa bene che per l'ampiezza delle Sue domande ci sarebbe bisogno di un semestre di teologia!

Cercherò di essere breve. Lei conosce la teologia, ci sono grandi maestri e tanti libri. Innanzitutto grazie per questa Sua testimonianza, perché Lei si dice gioioso di poter lavorare a Roma anche se indiano. Per me questo è un fenomeno meraviglioso della cattolicità. Adesso non solo i missionari vanno dall'occidente negli altri continenti, ma c'è uno scambio di doni: indiani, africani, sudamericani lavorano da noi e i nostri vanno negli altri continenti. È un dare e ricevere da tutte le parti; è proprio questa la vitalità della cattolicità, dove tutti siamo debitori dei doni del Signore, e poi possiamo donare l’uno all'altro. È in questa reciprocità dei doni, del dare e del ricevere, che vive la Chiesa cattolica. Voi potete imparare da questi ambienti e esperienze occidentali e noi non meno da voi. Vedo che proprio questo spirito di religiosità che esiste in Asia, come in Africa, sorprende gli europei che sono spesso un po’ freddi nella fede. E così questa vivacità, almeno dello spirito religioso che esiste in questi continenti, è un grande dono per tutti noi, soprattutto per noi Vescovi del mondo occidentale e in particolare di quei Paesi in cui più marcato è il fenomeno dell'immigrazione, dalle Filippine, dall'India, eccetera. Il nostro cattolicesimo freddo è ravvivato da questo fervore che viene da voi. Quindi la cattolicità è un grande dono.
Veniamo alle domande che Lei mi ha posto. Non ho davanti in questo momento le parole esatte del
documento della Congregazione per la Dottrina della Fede da Lei richiamato; ma in ogni caso vorrei dire due cose.

Da una parte, è assolutamente necessario il dialogo, conoscersi reciprocamente, rispettarsi e cercare di collaborare in tutti i modi possibili per i grandi scopi dell'umanità, o per i suoi grandi bisogni, per superare i fanatismi e creare uno spirito di pace e di amore. E questo è anche nello spirito del Vangelo, il cui senso è proprio che lo spirito di amore, che abbiamo imparato da Gesù, la pace di Gesù che Egli ci ha donato mediante la croce, diventi presente universalmente nel mondo.

In questo senso il dialogo deve essere vero dialogo, nel rispetto dell'altro e nell' accettazione della sua alterità; ma deve essere anche evangelico, nel senso che il suo scopo fondamentale è aiutare gli uomini a vivere nell'amore e a far sì che questo amore si possa espandere in tutte le parti del mondo.

Ma questa dimensione del dialogo, così necessaria, cioè quella del rispetto dell'altro, della tolleranza, della cooperazione, non esclude l'altra, cioè che il Vangelo è un grande dono, il dono del grande amore, della grande verità, che non possiamo avere solo per noi stessi, ma che dobbiamo offrire agli altri, considerando che Dio dà loro la libertà e la luce necessaria per trovare la verità. È questa la verità.

E quindi questa è anche la mia strada. La missione non è imposizione, ma è un offrire il dono di Dio, lasciando alla Sua bontà di illuminare le persone affinché si estenda il dono dell'amicizia concreta con il Dio dal volto umano. Perciò vogliamo e dobbiamo sempre testimoniare questa fede e l'amore che vive nella nostra fede. Avremmo trascurato un dovere vero, umano e divino, se avessimo lasciato gli altri soli e se avessimo riservato la fede che abbiamo solo per noi. Saremmo infedeli anche a noi stessi, se non offrissimo questa fede al mondo, pur sempre rispettando la libertà degli altri. La presenza della fede nel mondo è un elemento positivo, anche se non si converte nessuno; è un punto di riferimento.

Mi hanno detto esponenti di religioni non cristiane: per noi la presenza del cristianesimo è un punto di riferimento che ci aiuta, anche se non ci convertiamo. Pensiamo alla grande figura del Mahatma Gandhi: pur essendo fermamente legato alla sua religione, per lui il Discorso della montagna era un punto fondamentale di riferimento, che ha formato tutta la sua vita. E così il fermento della fede, pur non convertendolo al cristianesimo, è entrato nella sua vita. E mi pare che questo fermento dell'amore cristiano che traspare dal Vangelo è — oltre al lavoro missionario che cerca di allargare gli spazi della fede — un servizio che rendiamo all'umanità.

Pensiamo a san Paolo. Ho riapprofondito poco tempo fa la sua motivazione missionaria. Ne ho
parlato anche alla Curia in occasione dell'incontro di fine d'anno. Lui era commosso dalla parola del Signore nel suo sermone escatologico. Prima di ogni avvenimento, prima del ritorno del Figlio dell'uomo, il Vangelo deve essere predicato a tutte le genti. Condizione perché il mondo raggiunga la sua perfezione, per la sua apertura al paradiso, è che il Vangelo sia annunciato a tutti. Egli pose tutto lo zelo missionario affinché il Vangelo potesse arrivare a tutti possibilmente già nella sua generazione, per rispondere al comandamento del Signore «perché sia annunciato a tutte le genti». Il suo desiderio non era tanto di battezzare tutte le genti, quanto la presenza del Vangelo nel mondo e dunque il compimento della storia come tale. Mi sembra che oggi, vedendo l'andamento della storia, si possa capire meglio che questa presenza della Parola di Dio, che questo annuncio che arriva a tutti come fermento, è necessario perché il mondo possa realmente giungere al suo scopo. In questo senso noi vogliamo sì la conversione di tutti, ma lasciamo che sia il Signore ad agire. Importante è che chi vuole convertirsi ne abbia la possibilità e che appaia sul mondo per tutti questa luce del Signore come punto di riferimento e come luce che aiuta, senza la quale il mondo non può trovare se stesso. Non so se mi sono spiegato bene: dialogo e missione non solo non si escludono, ma l'uno chiede l'altra.

Continua...
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
16/09/2009 19:30

(Don Alberto Orlando, vicario parrocchiale di Santa Maria Madre della Provvidenza)

Sono don Alberto Orlando, vice parroco della parrocchia di Santa Maria Madre della Provvidenza. Vorrei rappresentarLe una difficoltà vissuta a Loreto con i giovani lo scorso anno. A Loreto abbiamo trascorso una giornata bellissima, ma tra le tante cose belle abbiamo notato una certa distanza tra Lei e i giovani. Siamo arrivati il pomeriggio. Non siamo riusciti né a sistemarci, né a vedere, né a sentire. Quando poi è arrivata la sera Lei è andato via e noi siamo come rimasti in balia della televisione, che in un certo senso ci ha usato. I giovani però hanno bisogno di calore. Una ragazza per esempio mi ha detto: «Normalmente il Papa ci chiama "cari giovani", invece oggi ci ha chiamato "giovani amici"». Ed era molto contenta per questo. Come mai non sottolineare questo particolare, questa vicinanza? Anche il collegamento televisivo con Loreto era molto freddo, molto lontano; anche il momento della preghiera ha vissuto delle difficoltà perché era legato a dei punti luce rimasti chiusi sino a tardi, almeno sino a quando non è terminato lo spettacolo televisivo. La seconda cosa invece che ci ha creato qualche difficoltà è stata la liturgia del giorno dopo, un po’ pesante soprattutto per quanto riguarda canti e musica. Al momento dell'alleluja, per farLe un esempio, una ragazza ha notato che, nonostante il caldo, queste canzoni e queste musiche si protraevano in tempi lunghissimi, quasi che a nessuno importasse dei disagi di chi era stretto nella calca. E si trattava di ragazzi che tutte le domeniche frequentano la messa. Ecco le due domande: come mai questa distanza tra Lei e loro; e poi come conciliare il tesoro della liturgia in tutta la solennità con il sentimento, l'affetto e l'emotività che nutre i giovani e dei quali essi hanno tanto bisogno? Vorrei anche un consiglio: come regolarci tra solennità e emotività. Anche perché siamo noi stessi sacerdoti a chiederci spesso quanto noi preti siamo capaci di vivere con semplicità l'emozione e il sentimento. Ed essendo noi i ministri del sacramento vorremmo essere in grado di orientare sentimento e emotività verso un giusto equilibrio.

Il primo punto propostomi è legato alla situazione organizzativa: io l'ho trovata così come era, quindi non so se era possibile magari organizzare in modo diverso. Considerando le migliaia di persone che c'erano, era impossibile, credo, far sì che tutti potessero essere vicini allo stesso modo.

Anzi, per questo abbiamo seguito un percorso con la macchina, per avere un po' di vicinanza con le singole persone. Però terremo conto di questo e vedremo se in futuro, in altri incontri con migliaia e migliaia di persone, sarà mai possibile fare qualcosa di diverso. Mi sembra tuttavia importante che cresca il sentimento di una vicinanza interiore, che trovi il ponte che ci unisce anche se localmente distanti.

Un grande problema è quello invece delle liturgie alle quali partecipano masse di persone. Mi ricordo nel 1960, durante il grande congresso eucaristico internazionale di Monaco, si cercava di dare una nuova fisionomia ai congressi eucaristici, che sino ad allora erano soltanto atti di adorazione. Si voleva mettere al centro la celebrazione dell'Eucaristia come atto della presenza del mistero celebrato. Ma subito è nata la domanda sul come fosse possibile. Per adorare, si diceva, lo si può fare anche a distanza; ma per celebrare è necessaria una comunità limitata che possa interagire con il mistero, dunque una comunità che doveva essere assemblea attorno alla celebrazione del mistero. Molti erano quelli contrari alla celebrazione dell'Eucaristia in pubblico con centomila persone. Dicevano che non era possibile proprio per la struttura stessa dell'Eucaristia, che esige la comunità per la comunione. Erano anche grandi personalità, molto rispettabili, quelle contrarie a questa soluzione. Poi il professor Jungmann, grande liturgista, uno dei grandi architetti della riforma liturgica, ha creato il concetto di statio orbis, cioè è tornato alla statio Romae dove proprio nel tempo della Quaresima i fedeli si raccolgono in un punto, la statio: quindi sono in statio come i soldati per Cristo, poi vanno insieme all'Eucaristia. Se questa, ha detto, era la statio della città di Roma, dove la città di Roma si riunisce, allora questa è la statio orbis. E dal quel momento abbiamo le celebrazioni eucaristiche con la partecipazione delle masse. Per me, devo dire, rimane un problema, perché la comunione concreta nella celebrazione è fondamentale e quindi non trovo che la risposta definitiva sia stata realmente trovata. Anche nel Sinodo scorso ho fatto emergere questa domanda, che però non ha trovato risposta. Anche un'altra domanda ho fatto fare, sulla concelebrazione in massa: perché se concelebrano, per esempio, mille sacerdoti, non si sa se c'è ancora la struttura voluta dal Signore. Ma in ogni caso sono domande. E così si è presentata a lei la difficoltà nel partecipare ad una celebrazione di massa durante la quale non è possibile che tutti siano ugualmente coinvolti. Si deve dunque scegliere un certo stile, per conservare quella dignità che è sempre necessaria per l'Eucaristia, e quindi la comunità non è uniforme e l'esperienza della partecipazione all'avvenimento è diversa; per alcuni è certamente insufficiente. Ma non è dipesa da me, piuttosto da quanti si sono occupati della preparazione.

Si deve riflettere bene dunque sul cosa fare in queste situazioni, come rispondere alle sfide di questa situazione. Se non sbaglio, era un'orchestra di handicappati ad eseguire le musiche e forse l'idea era proprio quella di far capire che gli handicappati possono essere animatori della sacra celebrazione e proprio loro non devono essere esclusi ma agenti primari. E così tutti, amando loro, non si sono sentiti esclusi ma anzi coinvolti. Mi sembra una riflessione molto rispettabile e io la condivido. Naturalmente però rimane il problema fondamentale. Ma mi sembra che anche qui, sapendo che cosa è l'Eucaristia, anche se non si ha la possibilità di un'attività esteriore come si desidererebbe per sentirsi compartecipi, vi si entra con il cuore, come dice l'antico imperativo nella Chiesa, creato forse proprio per quelli che stavano dietro nella basilica: «In alto i cuori! Adesso tutti usciamo da noi stessi, così tutti siamo con il Signore e siamo insieme». Come detto, non nego il problema, ma se seguiamo realmente questa parola «In alto i nostri cuori» troveremo tutti, anche in situazioni difficili ed a volte discutibili, la vera partecipazione attiva.

(Monsignor Renzo Martinelli, delegato della Pontificia Accademia dell'Immacolata)

Santo Padre volevo innanzitutto ringraziarla anche delle esplicitazioni che ha fatto domenica scorsa all'Angelus, al riguardo delle sue intenzioni, perché noi i fedeli sempre li educhiamo a pregare per il Papa e quando Lei dice di pregare per i consacrati, di pregare per la giornata della vita, di pregare per i frutti di conversione della Quaresima, ecco esplicitare questo diventa ancora più evidente una comunione interiore, ma anche consapevole di essere vicini alle Sue intenzioni. Anche in questi giorni la grazia di poter pregare davanti all'Immacolata nell'anniversario di Lourdes. Ritornando al problema dell'emergenza educativa, la domanda è questa: Lei ha detto di recente ai Vescovi sloveni questa frase: «Se per esempio si concepisce l'uomo secondo una tendenza oggi diffusa in modo individualistico», come giustificare lo sforzo per la costruzione di una comunità giusta e solidale. Allora questa mentalità individualistica — io sono entrato in seminario a undici anni e sono stato educato un po' in una mentalità in cui c'era il mio io e poi accanto al mio io un altro io un po' moralistico per conformarsi a Cristo e alla fine la mia libertà come dice Lei nel suo libro Gesù di Nazaret era come gestita in modo da schiavo, come schiavitù, quando commenta il fratello maggiore della parabola del figliol prodigo. E tutto questo crea una divisione: come invece proporre ai giovani quello su cui Lei da sempre ha insistito, e cioè che l'io del cristiano, una volta che è investito da Cristo non è più io. L'identità del cristiano, Lei ha detto a Verona molto approfonditamente, è l'io non più io perché c'è il soggetto comunionale di Cristo. Come proporre Santità questa conversione, questa modalità nuova, questa originalità cristiana di essere una comunione che propone efficacemente la novità della esperienza cristiana.

È la grande questione che ogni sacerdote che è responsabile per altri si pone ogni giorno. Anche per se stesso naturalmente. È vero che nel Novecento c'era la tendenza a una devozione individualistica, per salvare soprattutto la propria anima e creare dei meriti anche calcolabili, che si potevano in certe liste anche indicare con numeri. E certamente tutto il movimento del Vaticano II ha voluto superare questo individualismo.

Io non vorrei adesso giudicare queste generazioni passate, che a modo loro hanno tuttavia cercato di servire così gli altri. Ma lì c'era il pericolo che soprattutto si volesse salvare la propria anima; a ciò seguiva un estrinsecismo della pietà che alla fine trovava la fede come un peso e non come una liberazione. E certamente è volontà fondamentale della nuova pastorale indicata dal Concilio Vaticano II di uscire da questa visione troppo ristretta del cristianesimo e scoprire che io salvo la mia anima solo donandola, come ci ha detto oggi nel Vangelo il Signore; solo liberandomi da me, uscendo da me; come Dio ha fatto nel Figlio uscito da se stesso Dio per salvare noi. E noi entriamo in questo movimento del Figlio, cerchiamo di uscire da noi stessi perché sappiamo dove arrivare. E non cadiamo nel vuoto, ma lasciamo noi stessi, abbandonandoci al Signore, uscendo, mettendoci a sua disposizione, come vuole Lui e non come pensiamo noi.

Questa è la vera obbedienza cristiana, che è libertà: non come vorrei io, con il mio progetto di vita per me, ma mettendomi a sua disposizione, perché Egli disponga di me. E mettendomi nelle sue mani sono libero. Ma è un grande salto che non è mai fatto definitivamente. Penso qui a sant'Agostino, che tante volte ci ha detto questo. Inizialmente dopo la conversione pensava di essere arrivato al vertice e di vivere nel paradiso della novità dell'essere cristiano. Poi ha scoperto che il cammino difficoltoso della vita continuava, benché da quel momento sempre nella luce di Dio, e che era necessario fare ogni giorno di nuovo questo salto da se stesso; dare questo io perché muoia e si rinnovi nel grande io di Cristo che è, in un certo modo molto vero, l’io comune di tutti noi, il nostro noi.
Ma direi che noi stessi dobbiamo proprio nella celebrazione dell'Eucaristia — che è questo grande e profondo incontro con il Signore dove mi lascio cadere nelle sue mani — esercitare questo passo grande. Quanto più noi stessi lo impariamo possiamo anche esprimerlo agli altri e renderlo comprensibile, accessibile ad altri. Solo andando con il Signore, abbandonandoci nella comunione della Chiesa alla sua apertura, non vivendo per me sia per una vita terrestre felice, sia solo per una beatitudine personale, ma facendomi strumento della sua pace, vivo bene e imparo questo coraggio davanti alle sfide di ogni giorno, sempre nuove e gravi, spesso quasi irrealizzabili. Mi lascio perché tu lo vuoi e sono sicuro che così vado avanti bene. Possiamo solo pregare il Signore che ci aiuti a fare questo cammino ogni giorno, per aiutare, illuminare così gli altri, motivarli perché possano essere così liberati e redenti.

(Don Paolo Tammi, parroco di San Pio X, insegnante di religione)

Desidero porgerle solo uno dei tanti ringraziamenti per la fatica e la passione con le quali ha scritto il suo libro su Gesù di Nazaret, un testo che come ella stesso ha detto non è un atto di magistero, ma frutto della sua ricerca personale del volto di Dio. Ha contribuito a riportare al centro del cristianesimo la persona di Gesù Cristo e sicuramente sta contribuendo e contribuirà a fare una paziente giustizia delle visioni parziali dell'evento cristiano, come la visione politica nella quale è cresciuta la maggior parte della mia adolescenza e dei miei coetanei, o quella moralistica, un po' troppo insistente a parer mio nella predicazione cattolica, infine quella che ama definirsi demitizzante della figura di Gesù Cristo, come quella di certi maestri del pensiero laico che, con poca sorpresa in verità, improvvisamente si occupano oggi del Fondatore del cristianesimo e della sua vicenda umana per negarne la storicità o per attribuire la sua divinità a una fantasia della Chiesa apostolica. Lei invece non smette di insegnarci, Santità, che Gesù è veramente tutto; che di Lui, uomo e Dio, ci si può solo innamorare, il che non è proprio la stessa cosa di prendere la tessera del partito, ammesso che esista, o riempirsene la bocca solo per salvare un'identità culturale. Mi limito ad aggiungere che in un ambiente laico come la scuola, dove le motivazioni storiche e filosofiche pro o contro la religione hanno ovviamente il loro legittimo spazio, io vedo ogni giorno i ragazzi mantenere una grande distanza emotiva, mentre ho visto i ragazzi commuoversi ad Assisi, dove li ho portati qualche giorno fa, ascoltando l'appassionata testimonianza di un giovane frate minore. Le chiedo: come può la vita di un prete appassionarsi sempre più all'essenziale che è lo sposo Gesù? E ancora: da cosa si vede che un prete è innamorato di Gesù? So che Vostra Santità ha già risposto più volte, ma è certo che la risposta può aiutarci a correggerci, a riprendere speranza. Le chiedo di farlo ancora con i Suoi preti.

Come posso correggere i parroci, che lavorano così bene! Possiamo solo aiutarci reciprocamente. Lei quindi conosce questo ambiente laico con distanza non solo intellettuale, ma soprattutto emotiva, dalla fede. E dobbiamo, a seconda delle circostanze, cercare il modo di creare dei ponti. Mi sembra che le situazioni siano difficili, ma Lei ha ragione. Dobbiamo sempre pensare: che cosa è l'essenziale, anche se poi può essere diverso il punto dove si può allacciare il kerigma, il contesto, il modo di fare. Ma la questione deve essere sempre: che cosa è essenziale? che cosa bisogna scoprire? che cosa vorrei dare? E qui ripeto sempre: l'essenziale è Dio. Se non parliamo di Dio, se Dio non va scoperto, restiamo sempre alle cose secondarie. Quindi mi sembrerebbe fondamentale che almeno nasca la domanda: c'è Dio? E come potrei vivere senza Dio? È Dio davvero una realtà importante per me?

Per me rimane impressionante che il Vaticano I volesse proprio allacciare questo dialogo, capire con la ragione Dio – anche se nella situazione storica in cui ci troviamo abbiamo bisogno che Dio ci aiuti e purifichi la nostra ragione. Mi sembra che già si stia cercando di rispondere a questa sfida dell'ambiente laico con Dio come la questione fondamentale, e poi con Gesù Cristo, come la risposta di Dio. Naturalmente direi che ci sono i preambula fidei, che forse sono il primo passo per rendere aperto il cuore e la mente verso Dio: le virtù naturali. In questi giorni ho avuto la visita di un capo di Stato, che mi ha detto: non sono religioso, il fondamento della mia vita è l'etica aristotelica. È già una cosa molto buona, e siamo già insieme con san Tommaso, in cammino verso la sintesi di Tommaso. E quindi può essere questo un punto di aggancio: imparare e rendere comprensibile l’importanza per la convivenza umana di questa etica razionale, che poi si apre interiormente — se vissuta conseguentemente — alla domanda di Dio, alla responsabilità davanti a Dio.
Quindi mi sembra che, da una parte, dobbiamo avere chiaro davanti a noi che cosa è l'essenziale che vogliamo e dobbiamo trasmettere agli altri, e quali sono i preambula nelle situazioni in cui possiamo fare i primi passi: certamente proprio nell'oggi una certa prima educazione etica è un passo fondamentale. Così ha fatto anche la cristianità antica. Cipriano, per esempio, ci dice che prima la sua era una vita totalmente dissoluta; poi, vivendo nella comunità catecumenale, ha imparato un’etica fondamentale e così si è aperto la strada verso Dio. Anche sant'Ambrogio nella veglia pasquale dice: finora abbiamo parlato della morale, adesso veniamo ai misteri. Avevano fatto il cammino dei preambula fidei con un'educazione etica fondamentale, che creava la disponibilità per capire il mistero di Dio. Quindi io direi che dobbiamo forse fare un'interazione tra educazione etica — oggi così importante — da una parte, anche con una sua evidenza pragmatica, e nello stesso tempo non omettere la questione di Dio. E in questo interpenetrarsi di due cammini mi sembra forse che riusciamo un po' ad aprirci a quel Dio che solo può dare la luce.

(Don Daniele Salera, vicario parrocchiale a Santa Maria Madre del Redentore a Tor Bella Monaca, insegnante di religione)

Santità, sono don Daniele Salera, sacerdote da 6 anni, vicario parrocchiale a Tor Bella Monaca ed ivi insegnante di religione. Nel leggere la Vostra lettera sul compito urgente dell'educazione, ho annotato alcuni aspetti per me significativi sui quali mi piacerebbe dialogare con Lei. Anzitutto trovo importante il Suo indirizzo alla diocesi e alla città. Questa distinzione dà ragione delle diverse identità che la compongono ed interpella, nella libertà a cui Lei, Santità fa cenno, anche i non credenti. Vorrei trasmettervi in questi pochi istanti la bellezza del lavorare nella scuola con colleghi che per motivi vari non hanno più una fede viva o non si riconoscono più nella Chiesa, eppure mi sono di esempio nella passione educativa e nel recupero di adolescenti che già hanno una vita segnata dal crimine e dal degrado. Colgo in tante persone con cui lavoro a Tor Bella Monaca una vera e propria ansia missionaria. Per strade diverse, ma convergenti, lottiamo contro quella crisi di speranza che è sempre dietro l'angolo quando ogni giorno si ha a che fare con ragazzi che sembrano interiormente morti, senza desideri per il futuro o così profondamente avvinti dal male da non riuscire a scorgere il bene che si vuole loro o le occasioni di libertà e di redenzione che comunque ci sono sul loro cammino. Di fronte ad una tale emergenza umana non c'è spazio per le divisioni, e allora spesso mi ripeto una frase di Papa Roncalli che diceva: «Cercherò sempre ciò che unisce, anziché ciò che divide». Santità, questa esperienza mi sta facendo vivere quotidianamente a contatto con ragazzi e adulti che non avrei mai incontrato concentrandomi solo sulle attività interne alla parrocchia ed osservo così che è vero: tanti educatori stanno rinunciando all'etica in nome di un'affettività che non dà certezze e crea dipendenza. Altri hanno paura di difendere le regole della convivenza civile perché pensano che esse non diano ragione dei bisogni, delle difficoltà e delle identità dei giovani. Con uno slogan, direi che a livello educativo viviamo in una cultura del «sì sempre» e «no mai». Ma è il «no» detto con amorevole passione per l'uomo e il suo futuro che spesso delimita il confine tra il bene e il male; confine che nell'età evolutiva è fondamentale per la costruzione di identità personali solide. E da una parte sono dunque convinto che di fronte all'emergenza le diversità si attenuano, e dunque, sul piano educativo possiamo veramente trovare un tavolo comune con chi in libertà non si dice propriamente credente; dall'altra, mi chiedo perché noi Chiesa che tanto abbiamo scritto, pensato e vissuto circa l'educazione come formazione al retto uso della libertà — come Lei dice — non riusciamo a far passare questo obiettivo educativo? Perché appariamo mediamente così poco liberati e liberanti?

Grazie per questo specchio delle sue esperienze nella scuola di oggi, dei giovani di oggi, anche per queste domande autocritiche per noi stessi. In questo momento posso solo confermare che mi sembra molto importante che la Chiesa sia presente anche nella scuola, perché un'educazione che non è nello stesso tempo anche educazione con Dio e presenza di Dio, un'educazione che non trasmette i grandi valori etici che sono apparsi nella luce di Cristo, non è educazione. Non basta mai una formazione professionale senza formazione del cuore. E il cuore non può essere formato senza almeno la sfida della presenza di Dio. Sappiamo che molti giovani vivono in ambienti, in situazioni che rendono per loro inaccessibili la luce e la Parola di Dio; sono in situazioni di vita che sono una vera schiavitù, non solo esteriore, in quanto provocano una schiavitù intellettuale che oscura davvero il cuore e la mente. Cerchiamo con tutte le possibilità a disposizione della Chiesa di offrire anche a loro una possibilità di uscita. Ma, in ogni caso, facciamo che in questo ambiente variegato della scuola — dove si va dai credenti fino alle situazioni più tristi — sia presente la Parola di Dio. Proprio questo abbiamo detto di san Paolo, che voleva far arrivare il Vangelo a tutti. Questo imperativo del Signore — il Vangelo deve essere annunciato a tutti — non è un imperativo diacronico, non è un imperativo continentale, che in tutte le culture sia annunciato in prima linea; ma un imperativo interiore, nel senso di entrare nelle diverse sfumature e dimensioni di una società, per rendere più accessibile almeno un po' della luce del Vangelo; che sia realmente annunciato a tutti il Vangelo.

E mi sembra anche un aspetto della formazione culturale oggi. Conoscere che cos'è la fede cristiana che ha formato questo continente e che è una luce per tutti i continenti. I modi in cui si può rendere presente e accessibile al massimo questa luce sono diversi e so di non avere una ricetta per questo; ma la necessità di offrirsi a questa avventura bella e difficile è realmente un elemento dell'imperativo del Vangelo stesso. Preghiamo che il Signore ci aiuti sempre più a rispondere a questo imperativo di far arrivare in tutte le dimensioni della nostra società la sua conoscenza, la conoscenza del suo volto.

(Padre Umberto Fanfarillo, parroco di Santa Dorotea in Trastevere)

Santo Padre, sono il parroco di Santa Dorotea in Trastevere, Padre Umberto Fanfarillo, francescano conventuale. Insieme con la comunità cristiana del territorio parrocchiale, mi preme segnalare una cospicua anche se non profonda presenza di altri contesti religiosi, con i quali ci confrontiamo quotidianamente nella stima reciproca, nella conoscenza e anche in una rispettosa convivenza. In questa sostanziale positività di intenti posso annoverare l'impegno dell'Accademia dei Lincei, dell'Università americana John Cabot, con oltre ottocento alunni provenienti da circa sessanta Paesi e con articolazioni religiose che vanno dai cattolici ai luterani, dagli ebrei ai musulmani. Sono proprio questi giovani che, alla morte di Giovanni Paolo II, si sono raccolti in preghiera nella nostra chiesa. Sono alcuni di essi che, frequentando i locali della parrocchia, esprimono rispetto e serenità dinanzi ai nostri simboli religiosi come il crocifisso e le immagini di Maria, dei santi e del Papa. Nel territorio della parrocchia la Casa di Peter Pan accoglie bambini malati di tumore ed è legata all'ospedale Bambin Gesù. Anche qui l'interreligiosità realizza altissimi momenti di carità e di religiosa attenzione al fratello ammalato e bisognoso. Analoga realtà e rispettoso incontro tra le ricordate espressioni religiose abbiamo nel carcere di Regina Coeli, sempre nel territorio della parrocchia. Di recente, nel clima di rispetto e di testimonianza, è stato conferito il sacramento della confermazione a due giovani anglicani diventati cattolici. Questi vivaci credo si incontrano di continuo anche nei luoghi di accoglienza che caratterizzano il territorio di Trastevere. Santo Padre, siamo tutti alla ricerca di nuovi e più equilibrati atteggiamenti di conoscenza e di rispetto. Abbiamo sempre apprezzato i suoi interventi improntati al rispetto e al dialogo nella ricerca della verità. Ci aiuti ancora con la sua parola.

Grazie per questa testimonianza di una parrocchia veramente multidimensionale e multiculturale. Mi sembra che Lei abbia un po' concretizzato quanto discusso in precedenza con il confratello indiano: questo insieme di un dialogo, di una convivenza rispettosa, rispettandoci gli uni con gli altri, accettando gli uni gli altri, come essi sono nella loro alterità, nella loro comunione. E nello stesso tempo la presenza del cristianesimo, della fede cristiana come punto di riferimento al quale tutti possono gettare lo sguardo, come un fermento che nel rispetto delle libertà tuttavia è una luce per tutti e ci accomuna proprio nel rispetto delle differenze. Speriamo che il Signore ci aiuti sempre in questo senso ad accettare l'altro nell'alterità, a rispettarlo e a rendere Cristo presente nel gesto dell'amore, che è la vera espressione della sua presenza e della sua parola. E ci aiuti così ad essere realmente ministri di Cristo e della sua salvezza per il mondo. Grazie.

© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
16/09/2009 19:32

INCONTRO DEL SANTO PADRE CON IL CLERO DI BOLZANO-BRESSANONE NEL DUOMO DI BRESSANONE, 08.08.2008

Nella mattinata di mercoledì 6 agosto il Santo Padre Benedetto XVI ha incontrato, nel Duomo di Bressanone, il clero della diocesi di Bolzano-Bressanone, Bozen-Brixen.
Introdotto dal saluto del Vescovo, S.E. Mons. Wilhelm Emil Egger, O.F.M. Cap., il Papa ha risposto alle domande di alcuni dei sacerdoti e dei diaconi presenti.
Pubblichiamo di seguito la trascrizione dell’incontro:


TESTO DELLA CONVERSAZIONE

Traduzione in italiano

Il testo originale delle risposte del Papa (quelle in tedesco) è disponibile qui.

Worte des Bischofs - parole del vescovo Mons. Wilhelm Egger

Heiliger Vater, im Namen der anwesenden Priester und Diakone begrü$e ich Sie recht herzlich. Heiliger Vater, an jedem Mittwoch halten Sie eine Katechese für die Gläubigen. Wir danken Ihnen, dass Sie heute, am Fest der Verklärung Christi, für uns Priester - Diozesan- und Ordenspriester - eine Katechese halten, in der Sie dann auch auf unsere Fragen eingehen.

Santo Padre, La ringraziamo che Lei ci accompagna e ci aiuta a vedere con gli occhi della fede la nostra situazione, le nostre gioie e i nostri problemi. Ricordiamo oggi Paolo VI a 30 anni dalla morte. Sotto il suo pontificato si è arrivati ad un nuovo assetto del consiglio della nostra diocesi, avvenimento che ha portato molti frutti.

San Pire è testimone dia Transtiguraziun de Gesju Christ. I se pereiun chi nes daideise ester sü testimoni tal lian con Gesu Christ.

Santo Padre

Eccellenza, cari fratelli, grazie per questa riunione familiare in questa bella cattedrale della diocesi di Bolzano-Bressanone. Per me è una grande gioia essere con i sacerdoti: finalmente, il vescovo di Roma è vescovo e fratello di tutti i sacerdoti. Il suo mandato è confermare i fratelli nella fede. Oggi in questa bella festa, vediamo anche qui nella cattedrale e con la bella musica qualcosa dello splendore del volto di Cristo, e preghiamo il Signore che ci aiuti a portare in noi anche in giorni oscuri, questa sua luce per portare la luce ad altri, per illuminare il mondo e la vita in questo mondo. Purtroppo non sono in grado di parlare in ladino, ma mi perdonate: domenica avrò un testo per parlare anche nella vostra lingua ladina.

Michael Horrer, seminarista

Santo Padre, mi chiamo Michael Horrer e sono seminarista. In occasione della XXIII Giornata mondiale della Gioventù di Sydney, in Australia, alla quale ho partecipato con altri giovani della nostra diocesi, Lei ha ribadito continuamente ai 400 mila giovani presenti l’importanza dell’opera dello Spirito Santo in noi giovani e nella Chiesa. Il tema della Giornata era: "Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni" (At 1,8).
Ora noi giovani siamo ritornati – rafforzati dallo Spirito Santo e dalle Sue parole – nelle nostre case, nella nostra diocesi ed alla nostra vita quotidiana.
Santo Padre, come possiamo vivere concretamente qui, nel nostro Paese e nella nostra vita quotidiana, i doni dello Spirito Santo e testimoniarli agli altri, in modo che anche i nostri parenti, amici e conoscenti sentano e sperimentino la forza dello Spirito Santo e noi possiamo esercitare la nostra missione di testimoni di Cristo? Cosa ci può consigliare, per fare in modo che la nostra diocesi rimanga giovane nonostante l’invecchiamento del clero e rimanga anche aperta all’opera dello Spirito di Dio che guida la Chiesa?


Santo Padre

Grazie per questa domanda. Sono contento di vedere un seminarista, un candidato al sacerdozio di questa diocesi, nel cui volto posso in un certo senso ritrovare il volto giovane della diocesi, e sono contento di sentire che Lei, insieme ad altri, è stato a
Sydney, dove in una grande festa della fede abbiamo sperimentato insieme proprio la giovinezza della Chiesa.

Anche per gli australiani è stata una grande esperienza. Inizialmente avevano guardato a questa Giornata mondiale della gioventù con grande scetticismo perché ovviamente avrebbe portato con sé molti impedimenti nella vita quotidiana, molti fastidi, come ad esempio per il traffico eccetera.

Ma alla fine – l’abbiamo visto anche dai media, i cui pregiudizi si sono sbriciolati pezzo per pezzo – tutti si sono sentiti coinvolti da questa atmosfera di gioia e di fede; hanno visto che i giovani vengono e non creano problemi di sicurezza e nemmeno di altro genere, ma sanno stare insieme con gioia. Hanno visto che anche oggi la fede è una forza presente, che è una forza capace di dare il giusto orientamento alle persone, per cui c’è stato un momento in cui abbiamo veramente sentito il soffio dello Spirito Santo che spazza via i pregiudizi, che fa capire agli uomini che sì, qui troviamo quello che ci tocca da vicino, questa è la direzione in cui dobbiamo andare; e così si può vivere, così si apre il futuro.

A ragione Lei ha detto che è stato un momento forte, dal quale abbiamo riportato a casa una fiammella. Nella vita quotidiana, però, è molto più difficile percepire concretamente l’operare dello Spirito Santo o addirittura essere personalmente mezzo affinché Egli possa essere presente, affinché si verifichi quel soffio che spazza via i pregiudizi del tempo, che nel buio crea la luce e ci fa sentire che la fede non solo ha un futuro, ma è il futuro. Come possiamo realizzare ciò? Certamente, da soli non ne siamo in grado. Alla fine, è il Signore che ci aiuta, ma noi dobbiamo essere strumenti disponibili. Direi semplicemente: nessuno può dare quello che non possiede personalmente, cioè: non possiamo trasmettere lo Spirito Santo in modo efficace, renderlo percepibile, se noi stessi non gli siamo vicini. Ecco perché io penso che la cosa più importante sia che noi stessi rimaniamo, per così dire, nel raggio del soffio dello Spirito Santo, in contatto con lui. Soltanto se saremo continuamente toccati interiormente dallo Spirito Santo, se Egli ha la sua presenza in noi, soltanto allora possiamo anche trasmetterlo ad altri, Egli allora ci dà la fantasia e le idee creative sul come fare; idee che non si possono programmare ma che nascono nella situazione stessa, perché lì lo Spirito Santo sta operando. Quindi, primo punto: dobbiamo noi stessi rimanere nel raggio del soffio dello Spirito Santo.

Il Vangelo di Giovanni ci racconta come, dopo la Risurrezione, il Signore viene dai discepoli, soffia su di loro e dice: "Ricevete lo Spirito Santo". Questo è un parallelo alla Genesi, dove Dio soffia sull’impasto di terra e questo prende vita e diventa uomo. Ora l’uomo, che interiormente è oscurato e mezzo morto, riceve nuovamente il soffio di Cristo ed è questo soffio di Dio che gli dà una nuova dimensione di vita, gli dà la vita con lo Spirito Santo. Possiamo quindi dire: lo Spirito Santo è il soffio di Gesù Cristo e noi, in un certo senso, dobbiamo chiedere a Cristo di soffiare sempre su di noi affinché in noi questo soffio diventi vivo e forte e operi nel mondo. Ciò significa dunque che dobbiamo tenerci vicini a Cristo. Noi lo facciamo meditando la sua Parola. Noi sappiamo che l’autore principale delle Sacre Scritture è lo Spirito Santo. Quando attraverso di essa noi parliamo con Dio, quando in essa non cerchiamo soltanto il passato ma veramente il Signore presente che ci parla, allora è come se noi ci trovassimo – come ho detto anche in Australia – a passeggiare nel giardino dello Spirito Santo, parliamo con Lui, Egli parla con noi. Ecco, imparare ad essere di casa in questo ambito, nell’ambito della Parola di Dio è una cosa molto importante che, in un certo senso, ci introduce nel soffio di Dio. E poi, naturalmente, questo ascoltare, camminare nell’ambito della Parola deve trasformarsi in una risposta, una risposta nella preghiera, nel contatto con Cristo. E, naturalmente, innanzitutto nel Santo Sacramento dell’Eucaristia, nel quale Egli ci viene incontro ed entra in noi, quasi si fonde con noi. Ma poi anche nel Sacramento della Penitenza, che sempre ci purifica, che lava via le oscurità che la vita quotidiana ripone in noi.

In breve, una vita con Cristo nello Spirito Santo, nella Parola di Dio e nella comunione della Chiesa, nella sua comunità viva. Sant’Agostino ha detto: "Se vuoi lo Spirito di Dio, devi essere nel Corpo di Cristo". Nel Corpo mistico di Cristo si trova l’ambito del suo Spirito.

Tutto questo dovrebbe determinare lo svolgimento della nostra giornata, in modo che diventi una giornata strutturata, un giorno in cui Dio ha sempre accesso a noi, in cui continuamente si verifica il contatto con Cristo, in cui proprio per questo riceviamo continuamente il soffio dello Spirito Santo. Se faremo questo, se non saremo troppo pigri, indisciplinati o indolenti, allora ci accadrà qualcosa, allora la giornata prenderà una forma e allora la nostra stessa vita prenderà una forma in essa e questa luce emanerà da noi senza che dobbiamo stare a pensarci troppo o che dobbiamo adottare un modo d’agire – per così dire – "propagandistico": viene da sé, perché rispecchia il nostro animo.

A questa aggiungerei poi una seconda dimensione, logicamente collegata con la prima: se viviamo con Cristo, anche le cose umane ci riusciranno bene. Infatti, la fede non comporta solo un aspetto soprannaturale, essa ricostruisce l’uomo riportandolo alla sua umanità, come mostra quel parallelo tra la Genesi e Giovanni 20; essa si basa proprio sulle virtù naturali: l’onestà, la gioia, la disponibilità ad ascoltare il prossimo, la capacità di perdonare, la generosità, la bontà, la cordialità tra le persone. Queste virtù umane sono indicative del fatto che la fede è veramente presente, che noi veramente siamo con Cristo. E credo che dovremmo fare molta attenzione, anche per quanto riguarda noi stessi, a questo: far maturare in noi l’autentica umanità, perché la fede comporta la piena realizzazione dell’essere umano, dell’umanità.

Dovremmo far attenzione a svolgere bene ed in maniera giusta le cose umane anche nella professione, nel rispetto del prossimo, preoccupandoci del prossimo, che è il modo migliore per preoccuparci di noi stessi: infatti, "esserci" per il prossimo è il modo migliore di "esserci" per noi stessi.

E da questo nascono poi quelle iniziative che non si possono programmare: le comunità di preghiera, le comunità che leggono insieme la Bibbia o anche l’aiuto fattivo alle persone che sono in necessità, che ne hanno bisogno, che si trovano ai margini della vita, ai malati, agli handicappati e tante altre cose ancora ... Ecco che ci si aprono gli occhi per vedere le nostre capacità personali, per prendere le corrispondenti iniziative e saper infondere negli altri il coraggio di fare altrettanto. E proprio queste cose umane poi ci fortificano, mettendoci in qualche modo nuovamente in contatto con lo Spirito di Dio.
Il capo dei Cavalieri dell’ordine di Malta a Roma mi ha raccontato che a Natale è andato con alcuni giovani alla stazione per portare un po’ di Natale alle persone abbandonate. Mentre egli stesso poi stava ritirandosi, ha sentito uno dei giovani dire all’altro: "Questo è più forte della discoteca. Qui è veramente bello, perché posso fare qualcosa per gli altri!". Queste sono le iniziative che lo Spirito Santo suscita in noi. Senza tante parole esse ci fanno sentire la forza dello Spirito e si viene resi attenti a Cristo.
Bè, forse ho detto ora poco di concreto, ma penso che la cosa più importante sia che, innanzitutto, la nostra vita sia orientata verso lo Spirito Santo, perché viviamo nell’ambito dello Spirito, nel Corpo di Cristo, e che poi da questo sperimentiamo l’umanizzazione, curiamo le semplici virtù umane ed impariamo così ad essere buoni nel senso più ampio della parola. In questo modo si acquista sensibilità per le iniziative di bene che poi naturalmente sviluppano una forza missionaria e in un certo senso preparano quel momento in cui diventa sensato e comprensibile parlare di Cristo e della nostra fede.

P. Willibald Hopfgartner, OFM

Santo Padre, mi chiamo Willibald Hopfgartner, sono francescano e opero nella scuola e in diversi ambiti della guida dell’Ordine. Nel Suo Discorso di Ratisbona Lei ha sottolineato il legame sostanziale tra lo Spirito divino e la ragione umana. Dall’altro canto, Lei ha anche sempre sottolineato l’importanza dell’arte e della bellezza, dell’estetica. Allora, accanto al dialogo concettuale su Dio (in teologia), non dovrebbe essere sempre di nuovo ribadita l’esperienza estetica della fede nell’ambito della Chiesa, per l’annuncio e la liturgia?

Santo Padre

Grazie. Sì, penso che le due cose vadano insieme: la ragione, la precisione, l’onestà della riflessione sulla verità, e la bellezza. Una ragione che in qualche modo volesse spogliarsi della bellezza, sarebbe dimezzata, sarebbe una ragione accecata. Soltanto le due cose unite formano l’insieme, e proprio per la fede questa unione è importante. La fede deve continuamente affrontare le sfide del pensiero di questa epoca, affinché essa non sembri una sorta di leggenda irrazionale che noi manteniamo in vita, ma sia veramente una risposta alle grandi domande; affinché non sia solo abitudine ma verità – come ebbe a dire una volta Tertulliano. San Pietro, nella sua prima Lettera, aveva scritto quella frase che i teologi del medioevo avevano preso come legittimazione, quasi come incarico per il loro lavoro teologico: "Siate pronti in ogni momento a rendere conto del senso della speranza che è in voi" – apologia del logos della speranza, un trasformare cioè il logos, la ragione della speranza in apologia, in risposta agli uomini. Evidentemente, egli era convinto del fatto che la fede fosse logos, che essa fosse una ragione, una luce che proviene dalla Ragione creatrice, e non un bel miscuglio, frutto del nostro pensiero. Ed ecco perché è universale, per questo può essere comunicata a tutti.

Ma proprio questo logos creatore non è soltanto un logos tecnico – su questo aspetto torneremo con un’altra risposta – è ampio, è un logos che è amore e quindi tale da esprimersi nella bellezza e nel bene. E, in realtà, una volta ho detto che per me, l’arte ed i Santi sono la più grande apologia della nostra fede. Gli argomenti portati dalla ragione sono assolutamente importanti ed irrinunciabili, ma poi da qualche parte rimane sempre il dissenso. Invece, se guardiamo i Santi, questa grande scia luminosa con la quale Iddio ha attraversato la storia, vediamo che lì veramente c’è una forza del bene che resiste ai millenni, lì c’è veramente la luce dalla luce. E nello stesso modo, se contempliamo le bellezze create dalla fede, ecco, sono semplicemente, direi, la prova vivente della fede. Se guardo questa bella cattedrale: è un annuncio vivente! Essa stessa ci parla, e partendo dalla bellezza della cattedrale riusciamo ad annunciare visivamente Dio, Cristo e tutti i suoi misteri: qui essi hanno preso forma e ci guardano. Tutte le grandi opere d’arte, le cattedrali – le cattedrali gotiche e le splendide chiese barocche – tutte sono un segno luminoso di Dio e quindi veramente una manifestazione, un’epifania di Dio. E nel cristianesimo si tratta proprio di questa epifania: che Dio è diventato una velata Epifania - appare e risplende.

Abbiamo appena ascoltato l’organo in tutto il suo splendore e io penso che la grande musica nata nella Chiesa sia un rendere udibile e percepibile la verità della nostra fede: dal gregoriano alla musica delle cattedrali fino a Palestrina e alla sua epoca, fino a Bach e quindi a Mozart e Bruckner e così via ... Ascoltando tutte queste opere – le Passioni di Bach, la sua Messa in si bemolle e le grandi composizioni spirituali della polifonia del XVI secolo, della scuola viennese, di tutta la musica, anche quella di compositori minori – improvvisamente sentiamo: è vero! Dove nascono cose del genere, c’è la Verità.

Senza un’intuizione che scopra il vero centro creativo del mondo, non può nascere tale bellezza. Per questo penso che dovremmo sempre fare in modo che le due cose siano insieme, portarle insieme. Quando, in questa nostra epoca, discutiamo della ragionevolezza della fede, discutiamo proprio del fatto che la ragione non finisce dove finiscono le scoperte sperimentali, essa non finisce nel positivismo; la teoria dell’evoluzione vede la verità, ma ne vede soltanto metà: non vede che dietro c’è lo Spirito della creazione. Noi stiamo lottando per l’allargamento della ragione e quindi per una ragione che, appunto, sia aperta anche al bello e non debba lasciarlo da parte come qualcosa di totalmente diverso e irragionevole. L’arte cristiana è un’arte razionale – pensiamo all’arte del gotico o alla grande musica o anche, appunto, alla nostra arte barocca – ma è espressione artistica di una ragione molto ampliata ,nella quale cuore e ragione si incontrano. Questo è il punto. Questo, penso, è in qualche modo la prova della verità del cristianesimo: cuore e ragione si incontrano, bellezza e verità si toccano. E quanto più noi stessi riusciamo a vivere nella bellezza della verità, tanto più la fede potrà tornare ad essere creativa anche nel nostro tempo e ad esprimersi in una forma artistica convincente.

Allora, caro Padre Hopfgartner, grazie per la domanda; cerchiamo di fare in modo che le due categorie, quella estetica e quella noetica, siano unite e che in questa grande ampiezza si manifesti l’interezza e la profondità della nostra fede.

Willi Fusaro

Santo Padre, sono don Willi Fusaro, ho 42 anni e sono ammalato dall'anno della mia ordinazione sacerdotale. Sono stato ordinato nel giugno del 1991; poi nel settembre dello stesso anno ho avuto la diagnosi di sclerosi multipla. Sono cooperatore parrocchiale presso la parrocchia del Corpus Domini di Bolzano. Mi ha colpito molto la figura di Giovanni Paolo II, soprattutto nell'ultimo tempo del suo pontificato, quando portava con coraggio e umiltà, davanti al mondo intero, la sua umana debolezza.
Vista la sua vicinanza al suo amato predecessore, e in base alla sua personale esperienza, quali parole mi può donare e può donare a tutti noi per aiutare davvero i sacerdoti, anziani, ammalati a vivere bene e fruttuosamente il loro sacerdozio nel presbiterio e nella comunità cristiana? Grazie!


Santo Padre

Grazie, reverendo. Dunque, anche io direi che per me le due parti del pontificato di Papa Giovanni Paolo II sono ugualmente importanti. La prima parte nella quale lo abbiamo visto come gigante della fede: egli con un coraggio incredibile, una forza straordinaria, una vera gioia della fede, una grande lucidità, ha portato fino ai confini della terra il messaggio del Vangelo. Ha parlato con tutti, ha aperto nuove strade con i Movimenti, con il dialogo interreligioso, con gli incontri ecumenici, con l’approfondimento dell’ascolto della Parola Divina, con tutto …. con il suo amore per la Sacra Liturgia. Lui realmente – possiamo dire – ha fatto cadere non le mura di Gerico, ma le mura tra due mondi, proprio con la forza della sua fede e questa testimonianza rimane indimenticabile, rimane una luce per questo nuovo millennio.
Ma devo dire che per me anche questi ultimi anni del suo Pontificato non erano di minore importanza, a motivo di questa testimonianza umile della sua passione. Come ha portato la Croce del Signore davanti a noi e ha realizzato la parola del Signore: "Seguitemi, portando con me, e seguendo me, la Croce"! Questa umiltà, questa pazienza con la quale ha accettato quasi la distruzione del suo corpo, la crescente incapacità di usare la parola, lui che era stato maestro della parola. E così ci ha mostrato - mi sembra - visibilmente questa verità profonda che il Signore ci ha redento con la sua Croce, con la Passione come estremo atto del suo amore. Ci ha mostrato che la sofferenza non è solo un non, un qualcosa di negativo, la mancanza di qualche cosa, ma è una realtà positiva. Che la sofferenza accettata nell’amore di Cristo, nell’amore di Dio e degli altri è una forza redentrice, una forza dell’amore e non meno potente che i grandi atti che aveva fatto nella prima parte del suo Pontificato. Ci ha insegnato un nuovo amore per i sofferenti e fatto capire che cosa vuol dire "nella Croce e per la Croce siamo salvati".

Anche nella vita del Signore abbiamo questi due aspetti. La prima parte dove insegna la gioia del Regno di Dio, porta i suoi doni agli uomini e poi, nella seconda parte, l’immergersi nella Passione, fino all’ultimo grido dalla Croce. E proprio così ci ha insegnato chi è Dio, che Dio è amore e che nell’identificarsi con la nostra sofferenza di esseri umani ci prende nelle sue mani e ci immerge nel suo amore e solo l’amore è il bagno di redenzione, di purificazione e di rinascita.

Perciò mi sembra che noi tutti – e sempre di nuovo in un mondo che vive di attivismo, di giovinezza, dell’essere giovane, forte, bello, del riuscire a fare grandi cose – dobbiamo imparare la verità dell’amore che si fa passione e proprio così redime l’uomo e lo unisce con Dio amore. Quindi vorrei ringraziare tutti coloro che accettano la sofferenza, che soffrono con il Signore e vorrei incoraggiare tutti noi ad avere un cuore aperto per i sofferenti, per gli anziani e capire che proprio la loro passione è una sorgente di rinnovamento per l’umanità e crea in noi amore e ci unisce al Signore. Ma alla fine è sempre difficile soffrire. Mi ricordo la sorella del cardinale Mayer: era molto ammalata, e lui le diceva, quando era impaziente: "Ma, vedi, tu sei adesso con il Signore". E lei ha risposto: "Per te è facile dire questo, perché tu sei sano, ma io sono nella passione". E’ vero, nella passione vera diventa sempre difficile unirsi realmente al Signore e rimanere in questa disposizione di unione con il Signore sofferente. Preghiamo dunque per tutti i sofferenti e facciamo quanto sta in noi per aiutarli, mostriamo la nostra gratitudine per il loro soffrire e assistiamoli in quanto possiamo, con questo grande rispetto per il valore della vita umana, proprio della vita sofferente fino alla fine. E’ questo un messaggio fondamentale del cristianesimo, che viene dalla teologia della Croce: che la sofferenza, la passione è presenza dell’amore di Cristo, è sfida per noi ad unirci con questa sua passione. Dobbiamo amare i sofferenti non solo con le parole, ma con tutta la nostra azione e il nostro impegno. Mi sembra che solo così siamo cristiani realmente. Ho scritto nella mia Enciclica "Spe salvi" che la capacità di accettare la sofferenza e i sofferenti è misura dell’umanità che si possiede. Dove manca questa capacità, l’uomo è ridotto e ridimensionato. Quindi preghiamo il Signore perché ci aiuti nella nostra sofferenza e ci induca ad essere vicini a tutti i sofferenti in questo mondo.

Karl Golser

Santo Padre! Mi chiamo Karl Golser, sono professore di teologia morale qui a Bressanone e anche direttore dell’Istituto per la giustizia, la pace e la tutela della creazione; anche canonico. Mi piace ricordare il periodo in cui ho potuto lavorare con Lei alla Congregazione per la Dottrina della Fede.
Come Lei sa, la Chiesa cattolica ha profondamente forgiato la storia e la cultura nel nostro Paese. Oggi però, a volte abbiamo la sensazione che, come Chiesa, ci siamo un po’ ritirati in sagrestia. Le dichiarazioni del magistero pontificio in merito alle grandi questioni sociali non trovano il giusto riscontro a livello di parrocchie e di comunità ecclesiali.
Qui, in Alto Adige, ad esempio, le autorità e molte associazioni richiamano fortemente l’attenzione sui problemi ambientali e in particolare sui cambiamenti climatici: gli argomenti principali sono lo scioglimento dei ghiacciai, le frane in montagna, i problemi del costo dell’energia, il traffico e l’inquinamento atmosferico. Molte sono le iniziative a favore della tutela dell’ambiente.
Nella consapevolezza media dei nostri cristiani, però, tutto questo ha ben poco a che vedere con la fede. Cosa possiamo fare per portare maggiormente nella vita delle comunità cristiane il senso di responsabilità nei riguardi del creato? Come possiamo arrivare a vedere sempre più insieme la Creazione e la Redenzione? Come possiamo vivere in modo esemplare uno stile di vita cristiano, che sia durevole? E come unirlo ad una qualità di vita, che sia attraente per tutti gli uomini della nostra terra?

Santo Padre

La ringrazio molto, caro professor Golser: sicuramente Lei potrebbe rispondere molto meglio di me a tali questioni, ma proverò lo stesso a dire qualcosa. Lei ha dunque toccato il Tema Creazione e Redenzione ed io penso che questo legame inscindibile debba ricevere nuovo rilievo.

Negli ultimi decenni, la dottrina della Creazione era quasi scomparsa in teologia, era quasi impercettibile. Ora ci accorgiamo dei danni che ne derivano. Il Redentore è il Creatore e se noi non annunciamo Dio in questa sua totale grandezza – di Creatore e di Redentore – togliamo valore anche alla Redenzione. Infatti, se Dio non ha nulla da dire nella Creazione, se viene relegato semplicemente in un ambito della storia, come può realmente comprendere tutta la nostra vita? Come potrà portare veramente la salvezza per l’uomo nella sua interezza e per il mondo nella sua totalità? Ecco perché per me, il rinnovamento della dottrina della Creazione ed una nuova comprensione dell’inscindibilità di Creazione e Redenzione riveste una grandissima importanza. Dobbiamo riconoscere nuovamente: Lui è il creator Spiritus, la Ragione che è in principio e dalla quale tutto nasce e di cui la nostra ragione non è che una scintilla. Ed è Lui, il Creatore stesso, che è pure entrato nella storia e può entrare nella storia ed operare in essa proprio perché Egli è il Dio dell’insieme e non solo di una parte. Se riconosceremo questo, ne conseguirà ovviamente che la Redenzione, l’essere cristiani, semplicemente la fede cristiana significano sempre e comunque anche responsabilità nei riguardi della Creazione. Venti-trenta anni fa si accusavano i cristiani – non so se questa accusa sia ancora sostenuta – di essere i veri responsabili della distruzione della Creazione, perché la parola contenuta nella Genesi – "Soggiogate la terra" – avrebbe portato a quella arroganza nei riguardi del creato di cui noi oggi sperimentiamo le conseguenze. Penso che dobbiamo nuovamente imparare a capire questa accusa in tutta la sua falsità: fino a quando la terra è stata considerata creazione di Dio, il compito di "soggiogarla" non è mai stato inteso come un ordine di renderla schiava, ma piuttosto come compito di essere custodi della creazione e di svilupparne i doni; di collaborare noi stessi in modo attivo all’opera di Dio, all’evoluzione che Egli ha posto nel mondo, così che i doni della creazione siano valorizzati e non calpestati e distrutti.

Se osserviamo quello che è nato intorno ai monasteri, come in quei luoghi siano nati e continuino a nascere piccoli paradisi, oasi della creazione, si rende evidente che tutto ciò non sono soltanto parole, ma dove la Parola del Creatore è stata compresa nella maniera corretta, dove c’è stata vita con il Creatore redentore, lì ci si è impegnati a salvare la creazione e non a distruggerla. In questo contesto rientra anche il capitolo 8 della Lettera ai Romani, dove si dice che la creazione soffre e geme per la sottomissione in cui si trova e che attende la rivelazione dei figli di Dio: si sentirà liberata quando verranno delle creature, degli uomini che sono figli di Dio e che la tratteranno a partire da Dio. Io credo che sia proprio questo che noi oggi possiamo constatare come realtà: il creato geme – lo percepiamo, quasi lo sentiamo – e attende persone umane che lo guardino a partire da Dio. Il consumo brutale della creazione inizia dove non c’è Dio, dove la materia è ormai soltanto materiale per noi, dove noi stessi siamo le ultime istanze, dove l’insieme è semplicemente proprietà nostra e lo consumiamo solo per noi stessi. E lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi; inizia dove non esiste più alcuna dimensione della vita al di là della morte, dove in questa vita dobbiamo accaparrarci il tutto e possedere la vita nella massima intensità possibile, dove dobbiamo possedere tutto ciò che è possibile possedere.

Io credo, quindi, che istanze vere ed efficienti contro lo spreco e la distruzione del creato possono essere realizzate e sviluppate, comprese e vissute soltanto là, dove la creazione è considerata a partire da Dio; dove la vita è considerata a partire da Dio e ha dimensioni maggiori – nella responsabilità davanti a Dio – e un giorno ci sarà donata da Dio in pienezza e mai tolta: donando la vita, noi la riceviamo.

Così, credo, dobbiamo tentare con tutti i mezzi che abbiamo di presentare la fede in pubblico, specialmente là dove riguardo ad essa c’è già sensibilità. E penso che la sensazione che il mondo forse ci stia scivolando via – perché siamo noi stessi a cacciarlo via – e il sentirci oppressi dai problemi della creazione, proprio questo ci dia l’occasione adatta in cui la nostra fede può parlare pubblicamente e può farsi valere come istanza propositiva. Infatti, non si tratta soltanto di trovare tecniche che prevengano i danni, anche se è importante trovare energie alternative ed altro. Ma tutto questo non sarà sufficiente se noi stessi non troveremo un nuovo stile di vita, una disciplina fatta anche di rinunce, una disciplina del riconoscimento degli altri, ai quali il creato appartiene tanto quanto a noi che più facilmente possiamo disporne; una disciplina della responsabilità nei riguardi del futuro degli altri e del nostro stesso futuro, perché è responsabilità davanti a Colui che è nostro Giudice e in quanto Giudice è Redentore, ma appunto veramente anche nostro Giudice.

Penso quindi che sia necessario mettere in ogni caso insieme le due dimensioni – Creazione e Redenzione, vita terrena e vita eterna, responsabilità nei riguardi del creato e responsabilità nei riguardi degli altri e del futuro –, e che sia nostro compito intervenire così in maniera chiara e decisa nell’opinione pubblica.

Per essere ascoltati dobbiamo contemporaneamente dimostrare con il nostro stesso esempio, con il nostro proprio stile di vita, che stiamo parlando di un messaggio in cui noi stessi crediamo e secondo il quale è possibile vivere. E vogliamo chiedere al Signore che aiuti noi tutti a vivere la fede, la responsabilità della fede in maniera tale che il nostro stile di vita diventi testimonianza e poi a parlare in maniera tale che le nostre parole portino in modo credibile la fede come orientamento in questo nostro tempo.

Franz Pixner, decano a Kastelruth

Santo Padre, mi chiamo Franz Pixner e sono il parroco di due grandi parrocchie. Io stesso, insieme a molti confratelli e anche laici, ci preoccupiamo del carico crescente nella cura pastorale a causa, per esempio, delle unità pastorali, che si stanno creando: la pesante pressione del lavoro, la mancanza di riconoscimento, le difficoltà riguardo al Magistero, la solitudine, la diminuzione del numero dei sacerdoti ma anche delle comunità di fedeli. Molti si domandano che cosa Dio ci stia chiedendo, in questa situazione, e in quale modo lo Spirito Santo ci voglia incoraggiare. In questo contesto nascono domande, per esempio in merito al celibato dei sacerdoti, all’ordinazione di viri probati al sacerdozio, al coinvolgimento dei carismi, in particolare anche dei carismi delle donne, nella pastorale, all’incarico a collaboratrici e collaboratori formati in teologia di conferire il battesimo e tenere omelie. Si pone anche la domanda di come noi sacerdoti, di fronte alle nuove sfide, possiamo aiutarci a vicenda in una comunità fraterna, e questo nei diversi livelli di diocesi, decanato, unità pastorale e parrocchia.
La preghiamo, Santo Padre, di darci un buon consiglio per tutte queste domande. Grazie!

Santo Padre

Caro decano, Lei ha aperto tutto il fascio di domande che occupano e preoccupano i pastori e noi tutti in questa nostra epoca e certamente Lei sa che io non sono in grado di dare in questo momento una risposta a tutto. Immagino che Lei avrà modo di ragionare ripetutamente di tutto questo anche con il suo Vescovo, e noi a nostra volta ne parliamo nei Sinodi dei Vescovi. Noi tutti, credo, abbiamo bisogno di questo dialogo tra di noi, del dialogo della fede e della responsabilità, per trovare la retta via in questo tempo sotto molti aspetti difficile per la fede e faticoso per i sacerdoti. Nessuno ha la ricetta pronta, stiamo cercando tutti insieme.

Con questa riserva, che cioè insieme a voi tutti mi trovo in mezzo a questo processo di fatica e di lotta interiore, cercherò di dire qualche parola, appunto come parte di un dialogo più ampio.

Nella mia risposta vorrei considerare due aspetti fondamentali. Da un lato, l’insostituibilità del sacerdote, il significato e il modo del ministero sacerdotale oggi; dall’altro lato – e questo oggi risalta più di prima – la molteplicità dei carismi e il fatto che tutti insieme sono Chiesa, edificano la Chiesa e per questo dobbiamo impegnarci nel risvegliare i carismi, dobbiamo curare questo vivo insieme che poi sostiene anche il sacerdote. Egli sostiene gli altri, gli altri sostengono lui, e soltanto in questo insieme complesso e variegato la Chiesa può crescere oggi e verso il futuro.

Da una parte, ci sarà sempre bisogno del sacerdote che è completamente dedito al Signore e perciò completamente dedito all’uomo. Nell’Antico Testamento c’è la chiamata alla santificazione che più o meno corrisponde a quello che noi intendiamo con la consacrazione, anche con l’ordinazione sacerdotale: c’è qualche cosa che viene consegnata a Dio e perciò viene tolta dalla sfera del comune, data a Lui. Ma questo poi significa che ora è a disposizione di tutti.

Poiché è stata tolta e data a Dio, proprio per questo ora non è isolata ma è stata sollevata nel "per", nel per tutti. Penso che questo si possa dire anche del sacerdozio della Chiesa. Significa che, da un lato, siamo consegnati al Signore, tolti dal comune, ma, dall’altro, siamo consegnati a Lui perché in questo modo possiamo appartenergli totalmente e totalmente appartenere agli altri.

Penso che dovremmo continuamente cercare di mostrare questo ai giovani – a loro che sono idealisti, che vogliono fare qualcosa per l’insieme – mostrare che proprio questa "estrazione dal comune" significa "consegna all’insieme" e che questo è un modo importante, il modo più importante per servire i fratelli. E di questo poi fa parte anche quel mettersi a disposizione del Signore veramente nella completezza del proprio essere e trovarsi quindi totalmente a disposizione degli uomini. Penso che il celibato sia un’espressione fondamentale di questa totalità e già per questo un grande richiamo in questo mondo, perché esso ha senso soltanto se noi crediamo veramente alla vita eterna e se crediamo che Dio ci impegna e che noi possiamo esserci per Lui.

Quindi, il sacerdozio è insostituibile perché nell’Eucaristia esso, partendo da Dio, sempre edifica la Chiesa, perché nel Sacramento della Penitenza sempre ci conferisce la purificazione, perché nel Sacramento il sacerdozio è, appunto, un essere coinvolto nel "per" di Gesù Cristo. Ma io so bene, quanto oggi sia difficile – quando un sacerdote si trova a guidare non più soltanto una parrocchia di facile gestione, ma più parrocchie, unità pastorali; quando deve essere a disposizione per questo consiglio e per quell’altro e così via – quanto sia difficile vivere una tale vita. Credo che in questa situazione sia importante avere il coraggio di limitarsi e la chiarezza nel decidere le priorità. Una priorità fondamentale dell’esistenza sacerdotale è lo stare con il Signore e quindi l’avere tempo per la preghiera. San Carlo Borromeo diceva sempre: "Non potrai curare l’anima degli altri se lasci che la tua deperisca. Alla fine, non farai più niente nemmeno per gli altri. Devi avere tempo anche per il tuo essere don Dio". Vorrei quindi sottolineare: per quanti impegni possano sopraggiungere, è una vera priorità di trovare ogni giorno, direi, un’ora di tempo per stare in silenzio per il Signore e con il Signore, come la Chiesa ci propone di fare con il breviario, con le preghiere del giorno, per così potersi sempre di nuovo arricchire interiormente, per ritornare – come dicevo rispondendo alla prima domanda – nel raggio del soffio dello Spirito Santo. E a partire da ciò ordinare poi le priorità: devo imparare a vedere cosa sia veramente essenziale, dove sia assolutamente richiesta la mia presenza di sacerdote e non posso delegare nessuno.

E allo stesso tempo devo accettare umilmente quando molte cose che avrei da fare e dove sarebbe richiesta la mia presenza non posso realizzare perché riconosco i miei limiti. Io credo che una tale umiltà sarà compresa dalla gente.

E con ciò devo ora collegare l’altro aspetto: saper delegare, chiamare le persone alla collaborazione.

Io ho l’impressione che la gente lo capisce e che anche lo apprezza, quando un sacerdote sta con Dio, quando bada al suo incarico di essere colui che prega per gli altri: Noi – dicono – non siamo capaci di pregare tanto, tu devi farlo per me: in fondo, è il tuo mestiere, per così dire, essere quello che prega per noi. Vogliono un sacerdote che onestamente si impegni a vivere con il Signore e poi sia a disposizione degli uomini – i sofferenti, i moribondi, i bambini, i giovani (queste, direi, sono le priorità) – ma che poi sappia anche distinguere le cose che altri possono fare meglio di lui, dando così spazio a quei carismi.

Penso ai movimenti e a molteplici altre forme di collaborazione nella parrocchia. Su tutto questo si ragiona insieme anche nella Diocesi stessa, si creano forme e si promuovono gli interscambi. A ragione Lei ha detto che in ciò è importante guardare al di là della parrocchia verso la comunità della diocesi, anzi, verso la comunità della Chiesa universale, che a sua volta, deve poi rivolgere lo sguardo per vedere cosa succede in parrocchia e quali conseguenze ne derivano per il singolo sacerdote.

Poi Lei ha toccato ancora un altro punto, molto importante ai miei occhi: i sacerdoti, anche se magari vivono geograficamente più lontani gli uni dagli altri, sono una vera comunità di fratelli che devono sostenersi ed aiutarsi a vicenda. Questa comunione tra i sacerdoti è oggi quanto mai importante. Proprio per non piombare nell’isolamento, nella solitudine con le sue tristezze, è importante che possiamo incontrarci regolarmente. Sarà compito della Diocesi stabilire come realizzare al meglio gli incontri tra sacerdoti – oggi c’è la macchina che facilità gli spostamenti – affinché comunque sperimentiamo sempre di nuovo lo stare insieme, impariamo l’uno dall’altro, ci correggiamo a vicenda e vicendevolmente ci aiutiamo, ci rincuoriamo e ci consoliamo, affinché in questa comunione del presbiterio, insieme al Vescovo, possiamo rendere il nostro servizio alla Chiesa locale.

Appunto: nessun sacerdote è sacerdote da solo, noi siamo presbiterio e solo in questa comunione con il Vescovo ognuno può rendere il suo servizio. Ora, questa bella comunione, da tutti riconosciuta su piano teologico deve poi anche tradursi in pratica, nei modi determinati dalla Chiesa locale. E deve allargarsi, perché anche nessun Vescovo è Vescovo da solo, ma soltanto Vescovo nel Collegio, nella grande comunione dei Vescovi. È questa comunione per la quale vogliamo sempre impegnarci.

E penso che questo sia un aspetto particolarmente bello del cattolicesimo: attraverso il Primato, che non è una monarchia assoluta, ma un servizio di comunione, possiamo avere la certezza di questa unità, così che in una grande comunità a tante voci, tutti insieme facciamo risuonare la grande musica della fede in questo mondo.

Preghiamo il Signore che ci consoli sempre quando pensiamo di non farcela più; sosteniamoci gli uni gli altri, e allora il Signore ci aiuterà a trovare insieme le strade giuste.]

Paolo Rizzi, parroco e docente di teologia all'Istituto Superiore di scienze religiose

Santo Padre, sono Paolo Rizzi, parroco e docente di teologia all'Istituto Superiore di scienze religiose. Gradiremmo il suo parere pastorale sulla situazione riguardo ai sacramenti della Prima Comunione e della Confermazione. Sempre più spesso i bambini, i ragazzi e le ragazze che ricevono questi sacramenti si preparano con impegno per quanto riguarda gli incontri di catechesi, ma non partecipano all'Eucaristia domenicale e allora vien fatto di domandarsi: che senso ha tutto questo? Alle volte verrebbe voglia di dire: "Ma allora state a casa del tutto!". Invece si continua come sempre ad accettarli, pensando che in ogni caso è meglio non spegnere lo stoppino dalla fiamma tremolante. Si pensa cioè che comunque il dono dello Spirito possa incidere anche al di là di quello che vediamo e che in un’epoca di transizione come questa sia più prudente non prendere decisioni drastiche.
Più in generale, trenta-trentacinque anni fa io pensavo che ci stessimo avviando ad essere un piccolo gregge, una comunità di minoranza più o meno in tutta l’Europa. Che si dovesse quindi donare i Sacramenti solo a chi si impegna veramente nella vita cristiana. Poi, anche per lo stile del pontificato di Giovanni Paolo II, ho riconsiderato le cose. Se è possibile fare previsioni per il futuro, Lei cosa pensa? Quali atteggiamenti pastorali ci può indicare? Grazie
.


Santo Padre

Allora, non posso dare una risposta infallibile in questo momento, posso solo cercare di rispondere secondo quanto vedo io. Devo dire che io ho percorso una strada simile alla sua. Quando ero più giovane ero piuttosto severo.

Dicevo: i Sacramenti sono i Sacramenti della fede, e quindi dove la fede non c’è, dove non c’è prassi di fede, anche il Sacramento non può essere conferito. E poi ho sempre discusso quando ero arcivescovo di Monaco con i miei parroci: anche qui vi erano due fazioni, una severa e una larga. E anch’io nel corso dei tempi ho capito che dobbiamo seguire piuttosto l’esempio del Signore, che era molto aperto anche con le persone ai margini dell’Israele di quel tempo, era un Signore della misericordia, troppo aperto - secondo molte autorità ufficiali – con i peccatori, accogliendoli o lasciandosi accogliere da loro nelle loro cene, attraendoli a sé nella sua comunione.

Quindi io direi sostanzialmente che i Sacramenti sono naturalmente Sacramenti della fede: dove non ci fosse nessun elemento di fede, dove la Prima Comunione fosse soltanto una festa con un grande pranzo, bei vestiti, bei doni, allora non sarebbe più un Sacramento della fede. Ma, dall’altra parte, se possiamo vedere ancora una piccola fiamma di desiderio della comunione nella Chiesa, un desiderio anche di questi bambini che vogliono entrare in comunione con Gesù, mi sembra che sia giusto essere piuttosto larghi.

Naturalmente, certo, deve essere un aspetto della nostra catechesi far capire che la Comunione, la Prima Comunione, non è un fatto "puntuale", ma esige una continuità di amicizia con Gesù, un cammino con Gesù. Io so che i bambini spesso avrebbero intenzione e desiderio di andare la domenica a Messa, ma i genitori non rendono possibile questo desiderio. Se vediamo che i bambini lo vogliono, che hanno il desiderio di andare, mi sembra sia quasi un Sacramento di desiderio, il "voto" di una partecipazione alla Messa domenicale. In questo senso dovremmo naturalmente fare il possibile nel contesto della preparazione ai Sacramenti, per arrivare anche ai genitori e – diciamo – così svegliare anche in loro la sensibilità per il cammino che fanno i bambini. Dovrebbero aiutare i loro bambini a seguire il proprio desiderio di entrare in amicizia con Gesù, che è forma della vita, del futuro. Se i genitori hanno il desiderio che i loro bambini possano fare la Prima Comunione, questo loro desiderio piuttosto sociale dovrebbe allargarsi in un desiderio religioso, per rendere possibile un cammino con Gesù.

Direi quindi che, nel contesto della catechesi dei bambini, sempre il lavoro con i genitori è molto importante. E proprio questa è una delle occasioni di incontrarsi con i genitori, rendendo presente la vita della fede anche agli adulti, perché dai bambini – mi sembra – possono reimparare loro stessi la fede e capire che questa grande solennità ha senso soltanto, ed è vera ed autentica soltanto, se si realizza nel contesto di un cammino con Gesù, nel contesto di una vita di fede. Quindi convincere un po’, tramite i bambini, i genitori della necessità di un cammino preparatorio, che si mostra nella partecipazione ai misteri e comincia a far amare questi misteri.

Direi che questa è certamente una risposta abbastanza insufficiente, ma la pedagogia della fede è sempre un cammino e noi dobbiamo accettare le situazioni di oggi, ma anche aprirle a un di più, perché non rimanga alla fine solo qualche ricordo esteriore di cose, ma sia veramente toccato il cuore. Nel momento nel quale veniamo convinti, il cuore è toccato, ha sentito un po’ l’amore di Gesù, ha provato un po’ il desiderio di muoversi in questa linea e in questa direzione. In quel momento, mi sembra, possiamo dire di aver fatto una vera catechesi. Il senso proprio della catechesi, infatti, dovrebbe essere questo: portare la fiamma dell’amore di Gesù, anche se piccola, ai cuori dei bambini e tramite i bambini ai loro genitori, aprendo così di nuovo i luoghi della fede nel nostro tempo.

© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana

__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
16/09/2009 19:41

INCONTRO DEL SANTO PADRE CON I PARROCI E I SACERDOTI DELLA DIOCESI DI ROMA (GIOVEDÌ, 26 FEBBRAIO 2009), 27.02.2009

Alle ore 11 di ieri, nell’Aula della Benedizione, il Santo Padre Benedetto XVI ha incontrato i Parroci e i Sacerdoti della Diocesi di Roma per il tradizionale appuntamento di inizio Quaresima.

Dopo l’indirizzo di omaggio del Cardinale Vicario Agostino Vallini, sono intervenuti 8 sacerdoti.
Di seguito riportiamo la sintesi degli interventi dei sacerdoti e le risposte del Santo Padre.

1)
Santo Padre, sono Don Gianpiero Palmieri, parroco della parrocchia di San Frumenzio ai Prati Fiscali. Volevo rivolgerle una domanda sulla missione evangelizzatrice della comunità cristiana e, in particolare, sul ruolo e sulla formazione di noi presbiteri all'interno di questa missione evangelizzatrice.

Per spiegarmi, parto da un episodio personale. Quando, giovane presbitero, ho cominciato il mio servizio pastorale nella parrocchia e nella scuola, mi sentivo forte del bagaglio degli studi e della formazione ricevuta, ben radicato nel mondo delle mie convinzioni dei miei sistemi di pensiero. Una donna credente e saggia, vedendomi in azione, scosse la testa sorridendo e mi disse: don Gianpiero, quand'è che metti i pantaloni lunghi, quand'è che diventi uomo? È un episodio che m'è rimasto nel cuore. Quella donna saggia cercava di spiegarmi che la vita, il mondo reale, Dio stesso, sono più grandi e sorprendenti dei concetti che noi elaboriamo. Mi invitava a mettermi in ascolto dell'umano per cercare di capire, per comprendere, senza aver fretta di giudicare. Mi chiedeva di imparare a entrare in relazione con la realtà, senza paure, perché la realtà è abitata da Cristo stesso che agisce misteriosamente nel suo Spirito. Di fronte alla missione evangelizzatrice oggi noi presbiteri ci sentiamo impreparati e inadeguati, sempre con i calzoni corti. Sia sotto l'aspetto culturale — ci sfugge la conoscenza attenta delle grandi direttrici del pensiero contemporaneo, nelle sue positività e nei suoi limiti — e soprattutto sotto l'aspetto umano. Rischiamo sempre di essere troppo schematici, incapaci di comprendere in maniera saggia il cuore degli uomini di oggi. L'annuncio della salvezza in Gesù non è anche l'annuncio dell'uomo nuovo Gesù, il Figlio di Dio, nel quale anche la nostra umanità povera viene redenta, resa autentica, trasformata da Dio? Allora la mia domanda è questa: condivide questi pochi pensieri? Nelle nostre comunità cristiane viene tanta gente ferita dalla vita. Quali luoghi e modi possiamo inventarci per aiutare nell'incontro con Gesù l'umanità degli altri? E anche come costruire in noi preti un'umanità bella e feconda? Grazie, Santità!


R. Grazie! Cari confratelli, innanzitutto vorrei esprimere la mia grande gioia di essere con voi, parroci di Roma: i miei parroci, siamo in famiglia. Il Cardinale Vicario ci ha detto bene è che un momento di riposo spirituale. E in questo senso sono anche grato che posso iniziare la Quaresima con un momento di riposo spirituale, di respiro spirituale, nel contatto con voi. E ha anche detto: stiamo insieme perché voi potete raccontarmi le vostre esperienze, le vostre sofferenze, anche i vostri successi e gioie.

Quindi non direi che qui parla un oracolo, al quale voi chiedete. Siamo invece in uno scambio familiare, dove per me è anche molto importante, tramite voi, conoscere la vita nelle parrocchie, le vostre esperienze con la Parola di Dio nel contesto del nostro mondo di oggi. E vorrei così imparare anch'io, avvicinarmi alla realtà dalla quale chi è nel Palazzo Apostolico è anche un po' troppo distante. E questo è anche il limite delle mie risposte.

Voi vivete nel contatto diretto, giorno per giorno, con il mondo di oggi; io vivo in contatti diversificati, che sono molto utili. Per esempio, adesso ho avuto la visita «ad limina» dei Vescovi della Nigeria. E ho potuto vedere così, tramite le persone, la vita della Chiesa in un Paese importante dell'Africa, il più grande, con 140 milioni di abitanti, un grande numero di cattolici, e toccare le gioie e anche le sofferenze della Chiesa. Ma per me questo è ovviamente un riposo spirituale, perché è una Chiesa come la vediamo negli Atti degli Apostoli. Una Chiesa dove c'è la fresca gioia di aver trovato Cristo, di aver trovato il Messia di Dio. Una Chiesa che vive e cresce ogni giorno. La gente è gioiosa di trovare Cristo. Hanno vocazioni e così possono dare, nei diversi Paesi del mondo, sacerdoti fidei donum.

E vedere che non c'è solo una Chiesa stanca, come si trova spesso in Europa, ma una Chiesa giovane, piena di gioia dello Spirito Santo, è certamente un rinfresco spirituale. Ma è anche importante per me, con tutte queste esperienze universali, vedere la mia Diocesi, i problemi e tutte le realtà che vivono in questa Diocesi.

In questo senso, in sostanza, sono d'accordo con lei: non è sufficiente predicare o fare pastorale con il bagaglio prezioso acquisito negli studi della teologia. Questo è importante e fondamentale, ma deve essere personalizzato: da conoscenza accademica, che abbiamo imparato e anche riflettuto, in visione personale della mia vita, per arrivare alle altre persone. In questo senso vorrei dire che è importante, da una parte, concretizzare con la nostra esperienza personale della fede, nell'incontro con i nostri parrocchiani, la grande parola della fede, ma anche non perdere la sua semplicità. Naturalmente parole grandi della tradizione — come sacrificio di espiazione, redenzione del sacrificio del Cristo, peccato originale — sono oggi come tali incomprensibili. Non possiamo semplicemente lavorare con formule grandi, vere, ma non più contestualizzate nel mondo di oggi. Dobbiamo, tramite lo studio e quanto ci dicono i maestri della teologia e la nostra esperienza personale con Dio, concretizzare, tradurre queste grandi parole, così che devono entrare nell'annuncio di Dio all'uomo nell'oggi.
E, direi, dall'altra parte, non dovremmo coprire la semplicità della Parola di Dio in valutazioni troppo pesanti di avvicinamenti umani.

Mi ricordo un amico che, dopo aver ascoltato prediche con lunghe riflessioni antropologiche per arrivare insieme al Vangelo, diceva: ma non mi interessano questi avvicinamenti, io vorrei capire che cosa dice il Vangelo!

E mi sembra spesso che invece di lunghi cammini di avvicinamento, sarebbe meglio — io l'ho fatto quanto ero ancora nella mia vita normale — dire: questo Vangelo non ci piace, siamo contrari a quanto dice il Signore! Ma che cosa vuole dire? Se io dico sinceramente che a prima vista non sono d'accordo, abbiamo già l'attenzione: si vede che io vorrei, come uomo di oggi, capire che cosa dice il Signore. Così possiamo senza lunghi circuiti entrare nel vivo della Parola. E dobbiamo anche tener presente, senza false semplificazioni, che i dodici apostoli erano pescatori, artigiani, di questa provincia, la Galilea, senza particolare preparazione, senza conoscenza del grande mondo greco e latino. Eppure sono andati in tutte le parti dell'impero, anche fuori l'impero, fino all'India, e hanno annunciato Cristo con semplicità e con la forza della semplicità di quello che è vero. E mi sembra anche questo importante: non perdiamo la semplicità della verità. Dio c'è e Dio non è un essere ipotetico, lontano, ma è vicino, ha parlato con noi, ha parlato con me. E così diciamo semplicemente che cosa è e come si può e si deve naturalmente spiegare e sviluppare. Ma non perdiamo il fatto che noi non proponiamo riflessioni, non proponiamo una filosofia, ma proponiamo l'annuncio semplice del Dio che ha agito. E che ha agito anche con me.

E poi per la contestualizzazione culturale, romana — che è assolutamente necessaria — direi che il primo aiuto è la nostra esperienza personale. Non viviamo sulla luna. Sono un uomo di questo tempo se io vivo sinceramente la mia fede nella cultura di oggi, essendo uno che vive con i mass media di oggi, con i dialoghi, con le realtà dell'economia, con tutto, se io stesso prendo sul serio la mia esperienza e cerco di personalizzare in me questa realtà. Così siamo proprio nel cammino di farci capire anche dagli altri. San Bernardo di Chiaravalle ha detto nel suo libro di considerazioni al suo discepolo Papa Eugenio: considera di bere dalla tua propria fonte, cioè dalla tua propria umanità. Se sei sincero con te e cominci a vedere con te che cosa è la fede, con la tua esperienza umana in questo tempo, bevendo dal tuo proprio pozzo, come dice san Bernardo, anche agli altri puoi dire quanto si deve dire. E in questo senso mi sembra importante essere attenti realmente al mondo di oggi, ma anche essere attenti al Signore in me stesso: essere un uomo di questo tempo e nello stesso tempo un credente di Cristo, che in sè trasforma il messaggio eterno in messaggio attuale.

E chi conosce meglio gli uomini di oggi che il parroco? La canonica non è nel mondo, è invece nella parrocchia. E qui, dal parroco, vengono gli uomini spesso, normalmente, senza maschera, non con altri pretesti, ma nella situazione della sofferenza, della malattia, della morte, delle questioni in famiglia. Vengono nel confessionale senza maschera, con il loro proprio essere. Nessun'altra professione, mi sembra, dà questa possibilità di conoscere l'uomo com'è nella sua umanità e non nel suo ruolo che ha nella società. In questo senso, possiamo realmente studiare l'uomo come è nella sua profondità, fuori dai ruoli, e imparare anche noi stessi l'essere umano, l'essere uomo sempre alla scuola di Cristo. In questo senso direi che è assolutamente importante imparare l'uomo, l'uomo di oggi, in noi e con gli altri, ma anche sempre nell'ascolto attento al Signore e accettando in me il seme della Parola, perché in me si trasforma in frumento e diventa comunicabile agli altri.

2) Sono Don Fabio Rosini, parroco di Santa Francesca Romana all'Ardeatino. A fronte dell'attuale processo di secolarizzazione e delle sue evidenti ricadute sociali ed esistenziali, quanto mai opportunamente abbiamo, a più riprese, ricevuto dal Suo magistero, in mirabile continuità con quello del suo venerato Predecessore, l'esortazione all'urgenza del primo annuncio, allo zelo pastorale per l'evangelizzazione o rievangelizzazione, all'assunzione di una mentalità missionaria. Abbiamo compreso quanto sia importante la conversione dell'azione pastorale ordinaria, non più presupponendo la fede della massa e accontentandoci di curare quella porzione di credenti che persevera, grazie a Dio, nella vita cristiana, ma interessandoci, più decisamente e più organicamente, delle molte pecore perdute, o perlomeno disorientate. In molti e con diversi approcci, noi presbiteri romani abbiamo cercato di rispondere a questa oggettiva urgenza di rifondare o, addirittura, spesso fondare la fede. Si stanno moltiplicando le esperienze di primo annuncio e non mancano risultati anche molto incoraggianti. Personalmente posso constatare come il Vangelo, annunciato con gioia e franchezza, non tarda a guadagnare il cuore degli uomini e delle donne di questa città, proprio perchè esso è la verità e corrisponde a ciò di cui più intimamente ha bisogno la persona umana. La bellezza del Vangelo e della fede, infatti, se presentati con amorevole autenticità, sono evidenti da se stessi. Ma il riscontro numerico, talvolta sorprendentemente alto, non garantisce di per sè la bontà di un'iniziativa. La storia della Chiesa, anche recente, non manca di esempi. Un successo pastorale, paradossalmente, può nascondere un errore, una stortura di impostazione, che magari non appare immediatamente. Ecco perchè vorrei chiederle: quali devono essere i criteri imprescindibili di questa urgente azione di evangelizzazione? Quali sono, secondo lei, gli elementi che garantiscono di non correre invano nella fatica pastorale dell'annuncio a questa generazione a noi contemporanea? Le chiedo umilmente di segnalarci, nel suo prudente discernimento, i parametri da rispettare e da valorizzare per poter dire di compiere un'opera evangelizzatrice che sia genuinamente cattolica e che porti frutto nella Chiesa. La ringrazio di cuore per il suo illuminato magistero. Ci benedica.

R. Sono contento di sentire che si fa realmente questo primo annuncio, che si va oltre i limiti della comunità fedele, della parrocchia, alla ricerca delle cosiddette pecore sperdute; che si cerca di andare verso l'uomo d'oggi che vive senza Cristo, che ha dimenticato Cristo, per annunciargli il Vangelo. E sono felice di sentire che non solo si fa questo, ma che si conseguono anche dei successi numericamente confortanti. Vedo, quindi, che voi siete capaci di parlare a quelle persone nelle quali si deve rifondare, o addirittura fondare, la fede.

Per questo lavoro concreto, io non posso dare ricette, perchè sono diverse le strade da seguire, a seconda delle persone, delle loro professioni, delle varie situazioni. Il catechismo indica l'essenza di quanto annunciare. Ma è chi conosce le situazioni che deve applicare le indicazioni, trovare un metodo per aprire i cuori ed invitare a mettersi in cammino con il Signore e con la Chiesa.

Lei parla dei criteri di discernimento per non correre invano. Vorrei innanzitutto dire che tutte e due le parti sono importanti. La comunità dei fedeli è una cosa preziosa e non dobbiamo sottovalutare — anche guardando ai tanti che sono lontani — la realtà positiva e bella che costituiscono questi fedeli, i quali dicono sì al Signore nella Chiesa, cercano di vivere la fede, cercano di andare sulle orme del Signore.

Dobbiamo aiutare questi fedeli, come abbiamo detto già poco fa rispondendo alla prima domanda, a vedere la presenza della fede, a capire che non è una cosa del passato, ma che oggi mostra la strada, insegna a vivere da uomo.

È molto importante che essi trovino nel loro parroco realmente il pastore che li ama e che li aiuta a sentire oggi la Parola di Dio; a capire che è una Parola per loro e non solo per persone del passato o del futuro; che li aiuta, ancora, nella vita sacramentale, nell'esperienza della preghiera, nell'ascolto della Parola di Dio e nella vita della giustizia e della carità, perchè i cristiani dovrebbero essere fermento nella nostra società con tanti problemi e con tanti pericoli ed anche tanta corruzione che esiste.

In questo modo credo che essi possano anche interpretare un ruolo missionario «senza parole», poiché si tratta di persone che vivono realmente una vita giusta. E così offrono una testimonianza di come sia possibile vivere bene sulle strade indicate dal Signore. La nostra società ha bisogno proprio di queste comunità, capaci di vivere oggi la giustizia non solo per se stessi ma anche per l'altro. Persone che sappiano vivere, come abbiamo sentito oggi nella prima lettura, la vita. Questa lettura all'inizio dice: «Scegli la vita»: è facile dire sì. Ma poi prosegue: «La tua vita è Dio». Quindi scegliere la vita è scegliere l'opzione per la vita, che è l'opzione per Dio. Se ci sono persone o comunità che fanno questa scelta completa della vita e rendono visibile il fatto che la vita che hanno scelto è realmente vita, rendono una testimonianza di grandissimo valore.

E vengo a una seconda riflessione. Per l'annuncio abbiamo bisogno di due elementi: la Parola e la testimonianza. È necessaria, come sappiamo dal Signore stesso, la Parola che dice quanto lui ci ha detto, che fa apparire la verità di Dio, la presenza di Dio in Cristo, la strada che ci si apre davanti. Si tratta, quindi, di un annuncio nel presente, come lei ha detto, che traduce le parole del passato nel mondo della nostra esperienza. È una cosa assolutamente indispensabile, fondamentale, dare, con la testimonianza, credibilità a questa Parola, affinché non appaia solo come una bella filosofia, o come una bella utopia, ma piuttosto come realtà. Una realtà con la quale si può vivere, ma non solo: una realtà che fa vivere. In questo senso mi sembra che la testimonianza della comunità credente, come sottofondo della Parola, dell'annuncio, sia di grandissima importanza. Con la Parola dobbiamo aprire luoghi di esperienza della fede a quelli che cercano Dio. Così ha fatt0 la Chiesa antica con il catecumenato, che non era semplicemente una catechesi, una cosa dottrinale, ma un luogo di progressiva esperienza della vita della fede, nella quale poi si dischiude anche la Parola, che diventa comprensibile solo se interpretata dalla vita, realizzata dalla vita.

Quindi mi sembra importante, insieme con la Parola, la presenza di un luogo di ospitalità della fede, un luogo in cui si fa una progressiva esperienza della fede. E qui vedo anche uno dei compiti della parrocchia: ospitalità per quelli che non conoscono questa vita tipica della comunità parrocchiale. Non dobbiamo essere un cerchio chiuso in noi stessi. Abbiamo le nostre consuetudini, ma dobbiamo comunque aprirci e cercare di creare anche vestiboli, cioè spazi di avvicinamento. Uno che viene da lontano non può subito entrare nella vita formata di una parrocchia, che ha già le sue consuetudini. Per costui al momento tutto è molto sorprendente, lontano dalla sua vita. Quindi dobbiamo cercare di creare, con l'aiuto della Parola, quello che la Chiesa antica ha creato con i catecumenati: spazi in cui cominciare a vivere la Parola, a seguire la Parola, a renderla comprensibile e realistica, corrispondente a forme di esperienza reale. In questo senso mi sembra molto importante quanto lei ha accennato, cioè la necessità di collegare la Parola con la testimonianza di una vita giusta, dell'essere per gli altri, di aprirsi ai poveri, ai bisognosi, ma anche ai ricchi, che hanno bisogno di essere aperti nel loro cuore, di sentir bussare al loro cuore. Si tratta dunque di spazi diversi, a seconda della situazione.

Mi pare che in teoria si possa dire poco, ma l'esperienza concreta mostrerà le strade da seguire. E naturalmente — criterio sempre importante da seguire — bisogna essere nella grande comunione della Chiesa, anche se forse in uno spazio ancora un po' lontano: e cioè in comunione con il vescovo, con il Papa, in comunione così con il grande passato e con il grande futuro della Chiesa. Essere nella Chiesa cattolica, infatti, non implica soltanto essere in un grande cammino che ci precede, ma significa essere in prospettiva di una grande apertura al futuro. Un futuro che si apre solo in questo modo. Si potrebbe forse proseguire nel parlare dei contenuti, ma possiamo trovare un'altra occasione per questo.

3) Padre Santo, sono Don Giuseppe Forlai, vicario parrocchiale presso la parrocchia di San Giovanni Crisostomo, nel settore nord della nostra Diocesi. L'emergenza educativa, di cui autorevolmente la Santità Vostra ha parlato, è anche, come tutti sappiamo, emergenza di educatori, particolarmente credo sotto due aspetti. Prima di tutto, è necessario avere un occhio maggiore sulla continuità della presenza dell'educatore-prete. Un giovane non stringe un patto di crescita con chi se ne va dopo due o tre anni, anche perché già impegnato emotivamente a gestire relazioni con genitori che lasciano casa, nuovi partner della mamma o del papà, insegnanti precari che ogni anno si danno il cambio. Per educare bisogna stare. La prima necessità che sento è, dunque, quella di una certa stabilità sul luogo dell'educatore-sacerdote. Secondo aspetto: credo che la partita fondamentale della pastorale giovanile si giochi sul fronte della cultura. Cultura intesa come competenza emotivo-relazionale e come padronanza delle parole che i concetti contengono. Un giovane senza questa cultura può diventare il povero di domani, una persona a rischio di fallimento affettivo e un naufrago nel mondo del lavoro. Un giovane senza questa cultura rischia di rimanere un non credente o, peggio ancora, un praticante senza fede perché l'incompetenza nelle relazioni deforma la relazione con Dio e l'ignoranza delle parole blocca la comprensione dell'eccellenza della parola del Vangelo. Non basta che i giovani riempiano fisicamente lo spazio dei nostri oratori per passare un po' di tempo libero. Vorrei che l'oratorio fosse un luogo dove si impara a sviluppare competenze relazionali e dove si riceve ascolto e sostegno scolastico. Un luogo che non sia il rifugio costante di chi non ha voglia di studiare o di impegnarsi, ma una comunità di persone che elaborino quelle domande giuste che aprono al senso religioso e dove si faccia la grande carità di aiutare a pensare. E qui si dovrebbe anche aprire una seria riflessione sulla collaborazione tra oratori e insegnanti di religione. Santità, ci dica una parola autorevole in più su questi due aspetti dell'emergenza educativa: la necessaria stabilità degli operatori e l'urgenza di avere educatori-sacerdoti culturalmente capaci. Grazie.

R. Allora, cominciamo con il secondo punto. Diciamo che è più ampio e, in un certo senso, anche più facile. Certamente un oratorio nel quale si fanno solo dei giochi e si prendono delle bevande sarebbe assolutamente superfluo. Il senso di un oratorio deve realmente essere una formazione culturale, umana e cristiana di una personalità, che deve diventare una personalità matura. Su questo siamo assolutamente d'accordo e, mi sembra, proprio oggi c'è una povertà culturale dove si sanno tante cose, ma senza un cuore, senza un collegamento interiore perché manca una visione comune del mondo. E, perciò, una soluzione culturale ispirata dalla fede della Chiesa, dalla conoscenza di Dio che ci ha donato, è assolutamente necessaria. Direi proprio questa è la funzione di un oratorio: che uno non solo trovi possibilità per il tempo libero ma soprattutto trovi formazione umana integrale che rende completa la personalità.

E, quindi, naturalmente il sacerdote come educatore deve essere egli stesso formato bene e essere collocato nella cultura di oggi, ricco di cultura, per aiutare anche i giovani a entrare in una cultura ispirata dalla fede. Aggiungerei, naturalmente, che alla fine il punto di orientamento di ogni cultura è Dio, il Dio presente in Cristo. Vediamo come oggi ci sono persone con tante conoscenze, ma senza orientamento interiore. Così la scienza può essere anche pericolosa per l'uomo, perché senza orientamenti etici più profondi, lascia l'uomo all'arbitrio e, quindi, senza gli orientamenti necessari per divenire realmente un uomo. In questo senso, il cuore di ogni formazione culturale, così necessaria, deve essere senza dubbio la fede: conoscere il volto di Dio che si è mostrato in Cristo e così avere il punto di orientamento per tutta l'altra cultura, che altrimenti diventa disorientata e disorientante. Una cultura senza conoscenza personale di Dio e senza conoscenza del volto di Dio in Cristo, è una cultura che potrebbe essere anche distruttiva, perché non conosce gli orientamenti etici necessari. In questo senso, mi sembra, abbiamo noi realmente una missione di formazione culturale e umana profonda, che si apre a tutte le ricchezze della cultura del nostro tempo, ma dà anche il criterio, il discernimento per provare quanto è cultura vera e quanto potrebbe divenire anti-cultura.

Molto più difficile per me è la prima domanda — la domanda è anche a Sua Eminenza — cioè la permanenza del giovane sacerdote per dare orientamento ai giovani. Senza dubbio una relazione personale con l'educatore è importante e deve avere anche la possibilità di un certo periodo per orientarsi insieme. E, in questo senso posso, essere d'accordo che il sacerdote, punto di orientamento per i giovani, non può cambiare ogni giorno, perché così perde proprio questo orientamento. D'altra parte, il giovane sacerdote deve anche fare delle esperienze diverse in contesti culturali diversi, proprio per arrivare, alla fine, al bagaglio culturale necessario per essere, come parroco, punto di riferimento per lungo tempo alla parrocchia. E, direi, nella vita del giovane le dimensioni del tempo sono diverse dalla vita di un adulto. I tre anni, dall'anno sedicesimo al diciannovesimo, sono almeno così lunghi e importanti come gli anni tra i quaranta e i cinquanta. Proprio qui, infatti, si forma la personalità: è un cammino interiore di grande importanza, di grande estensione esistenziale. In questo senso, direi che tre anni per un vice parroco è un bel tempo per formare una generazione di giovani; e così, dall'altra parte, può anche conoscere altri contesti, imparare in altre parrocchie altre situazioni, arricchire il suo bagaglio umano. Questo è sempre un tempo non tanto breve per una certa continuità, un cammino educativo dell'esperienza comune, dell'imparare l'essere uomo. Peraltro, come ho detto, nella gioventù tre anni sono un tempo decisivo e lunghissimo, perché qui si forma realmente la personalità futura. Mi sembra, quindi, che si potrebbero conciliare i due bisogni: da una parte, che il sacerdote giovane abbia possibilità di esperienze diverse per arricchire il suo bagaglio di esperienza umana; dall'altra, la necessità di stare un determinato tempo con i giovani per introdurli realmente nella vita, per insegnare loro a essere persone umane. In questo senso, penso a una conciliabilità dei due aspetti: esperienze diverse per un giovane sacerdote, continuità dell'accompagnamento dei giovani per guidarli nella vita. Ma non so che cosa il Cardinale Vicario ci potrà dire in questo senso.

Cardinale Vicario:

Padre Santo, naturalmente condivido queste due esigenze, la composizione tra le due esigenze. A me sembra, per quel poco che ho potuto conoscere, che a Roma in qualche modo si conservi una certa stabilità dei giovani sacerdoti presso le parrocchie per almeno alcuni anni, salvo eccezioni. Possono sempre esserci delle eccezioni. Ma il vero problema talvolta nasce da gravi esigenze o da situazioni concrete, soprattutto nelle relazioni tra parroco e vicario parrocchiale — e qui tocco un nervo scoperto — e poi anche dalla scarsezza di giovani sacerdoti. Come ho avuto anche modo di dirle quando mi ha ricevuto in udienza, uno dei gravi problemi della nostra Diocesi è proprio il numero delle vocazioni al sacerdozio. Personalmente sono convinto che il Signore chiama, che continua a chiamare. Forse noi dovremmo fare anche di più. Roma può dare vocazioni, le darà, sono convinto. Ma in tutta questa complessa materia talvolta interferiscono molti aspetti. Sicuramente una certa stabilità credo sia stata garantita e anche io, per quello che potrò, nelle linee che ci ha indicato il Santo Padre, mi regolerò.

4) Santità, sono Don Giampiero Ialongo, uno dei tanti parroci che svolge il suo ministero nella periferia di Roma, fisicamente a Torre Angela, al confine con Torbellamonaca, Borghesiana, Borgata Finocchio, Colle Prenestino. Periferie, queste, come tante altre, spesso dimenticate e trascurate dalle istituzioni. Sono felice che questo pomeriggio ci abbia convocato il presidente del Municipio: vedremo che cosa potrà scaturire da questo incontro con la municipalità. E, forse, più di altre zone della nostra città, le nostre periferie avvertono veramente forte il disagio che la crisi economica internazionale inizia proprio a far pesare sulle condizioni concrete di vita di non poche famiglie. Come Caritas parrocchiale, ma soprattutto anche come Caritas diocesana, portiamo avanti tante iniziative che sono volte prima di tutto all'ascolto, ma anche poi a un aiuto materiale, concreto, verso quanti — senza distinzione di razza, di culture, di religioni — a noi si rivolgono. Nonostante ciò, ci andiamo sempre più rendendo conto che ci troviamo dinanzi una vera e propria emergenza. Mi sembra che tante, troppe persone — non solo pensionati ma anche chi ha un regolare impiego, un contratto a tempo indeterminato — trovino grandi difficoltà a far quadrare il proprio bilancio familiare. Pacchi-viveri, come noi facciamo, un po' di indumenti, talvolta dei concreti aiuti economici per pagare le bollette o l'affitto, possono essere sì un aiuto ma non credo una soluzione. Sono convinto che come Chiesa dovremmo interrogarci di più su cosa possiamo fare, ma ancor più sui motivi che hanno portato a questa generalizzata situazione di crisi. Dovremmo avere il coraggio di denunciare un sistema economico e finanziario ingiusto nelle sue radici. E non credo che dinanzi a queste sperequazioni, introdotte da questo sistema, basti soltanto un po' di ottimismo. Serve una parola autorevole, una parola libera, che aiuti i cristiani, come già in qualche modo ha detto, Santo Padre, a gestire con sapienza evangelica e con responsabilità i beni che Dio ha donato e ha donato per tutti e non solo per pochi. Questa parola, come già ha fatto altre volte — perché altre volte abbiamo ascoltato la sua parola su questo — sarei desideroso di ascoltare ancora una volta in questo contesto. Grazie, Santità!

R. Innanzitutto vorrei ringraziare il Cardinale Vicario per la parola di fiducia: Roma può dare più candidati per la messe del Signore. Dobbiamo soprattutto pregare il Signore della messe, ma anche fare la nostra parte per incoraggiare i giovani a dire sì al Signore. E, naturalmente, proprio i giovani sacerdoti sono chiamati a dare l'esempio alla gioventù di oggi che è bene lavorare per il Signore. In questo senso, siamo pieni di speranza. Preghiamo il Signore e facciamo il nostro.

Adesso questa questione che tocca il nervo dei problemi del nostro tempo. Io distinguerei due livelli. Il primo è il livello della macroeconomia, che poi si realizza e va fino all'ultimo cittadino, il quale sente le conseguenze di una costruzione sbagliata. Naturalmente, denunciare questo è un dovere della Chiesa. Come sapete, da molto tempo prepariamo un'Enciclica su questi punti. E nel cammino lungo vedo com'è difficile parlare con competenza, perché se non è affrontata con competenza una certa realtà economica non può essere credibile. E, d'altra parte, occorre anche parlare con una grande consapevolezza etica, diciamo creata e svegliata da una coscienza formata dal Vangelo. Quindi bisogna denunciare questi errori fondamentali che sono adesso mostrati nel crollo delle grandi banche americane, gli errori nel fondo. Alla fine, è l'avarizia umana come peccato o, come dice la Lettera ai Colossesi, avarizia come idolatria. Noi dobbiamo denunciare questa idolatria che sta contro il vero Dio e la falsificazione dell'immagine di Dio con un altro Dio, «mammona». Dobbiamo farlo con coraggio ma anche con concretezza. Perché i grandi moralismi non aiutano se non sono sostanziati con conoscenze delle realtà, che aiutano anche a capire che cosa si può in concreto fare per cambiare man mano la situazione. E, naturalmente, per poterlo fare è necessaria la conoscenza di questa verità e la buona volontà di tutti.

Qui siamo al punto forte: esiste realmente il peccato originale? Se non esistesse potremmo far appello alla ragione lucida, con argomenti che a ognuno sono accessibili e incontestabili, e alla buona volontà che esiste in tutti. Semplicemente così potremmo andare avanti bene e riformare l'umanità. Ma non è così: la ragione — anche la nostra — è oscurata, lo vediamo ogni giorno. Perché l'egoismo, la radice dell'avarizia, sta nel voler soprattutto me stesso e il mondo per me. Esiste in tutti noi. Questo è l'oscuramento della ragione: essa può essere molto dotta, con argomenti scientifici bellissimi, e tuttavia è oscurata da false premesse. Così va con grande intelligenza e con grandi passi avanti sulla strada sbagliata. Anche la volontà è, diciamo, curvata, dicono i Padri: non è semplicemente disponibile a fare il bene ma cerca soprattutto se stesso o il bene del proprio gruppo. Perciò trovare realmente la strada della ragione, della ragione vera, è già una cosa non facile e si sviluppa difficilmente in un dialogo. Senza la luce della fede, che entra nelle tenebre del peccato originale, la ragione non può andare avanti. Ma proprio la fede trova poi la resistenza della nostra volontà. Questa non vuol vedere la strada, che costituirebbe anche una strada di rinuncia a se stessi e di una correzione della propria volontà in favore dell'altro e non per se stessi.

Perciò occorre, direi, la denuncia ragionevole e ragionata degli errori, non con grandi moralismi, ma con ragioni concrete che si fanno comprensibili nel mondo dell'economia di oggi. La denuncia di questo è importante, è un mandato per la Chiesa da sempre. Sappiamo che nella nuova situazione creatasi con il mondo industriale, la dottrina sociale della Chiesa, cominciando da Leone XIII, cerca di fare queste denunce — e non solo le denunce, che non sono sufficienti — ma anche di mostrare le strade difficili dove, passo per passo, si esige l'assenso della ragione e l'assenso della volontà, insieme alla correzione della mia coscienza, alla volontà di rinunciare in un certo senso a me stesso per poter collaborare a quello che è il vero scopo della vita umana, dell'umanità.

Detto questo, la Chiesa ha sempre il compito di essere vigilante, di cercare essa stessa con le migliori forze che ha le ragioni del mondo economico, di entrare in questo ragionamento e di illuminare questo ragionamento con la fede che ci libera dall'egoismo del peccato originale. È compito della Chiesa entrare in questo discernimento, in questo ragionamento, farsi sentire, anche ai diversi livelli nazionali e internazionali, per aiutare e correggere. E questo non è un lavoro facile, perché tanti interessi personali e di gruppi nazionali si oppongono a una correzione radicale. Forse è pessimismo, ma a me sembra realismo: fino a quando c'è il peccato originale non arriveremo mai a una correzione radicale e totale. Tuttavia dobbiamo fare di tutto per correzioni almeno provvisorie, sufficienti per far vivere l'umanità e per ostacolare la dominazione dell'egoismo, che si presenta sotto pretesti di scienza e di economia nazionale e internazionale.

Questo è il primo livello. L'altro è essere realisti. E vedere che questi grandi scopi della macroscienza non si realizzano nella microscienza — la macroeconomia nella microeconomia — senza la conversione dei cuori. Se non ci sono i giusti, anche la giustizia non c'è. Dobbiamo accettare questo. Perciò l'educazione alla giustizia è uno scopo prioritario, potremmo dire anche la priorità. Perché san Paolo dice che la giustificazione è l'effetto dell'opera di Cristo, non è un concetto astratto, riguardante peccati che oggi non ci interessano, ma si riferisce proprio alla giustizia integrale. Dio solo può darcela, ma ce la dà con la nostra cooperazione su diversi livelli, in tutti i livelli possibili.

La giustizia non si può creare nel mondo solo con modelli economici buoni, che sono necessari. La giustizia si realizza solo se ci sono i giusti. E i giusti non ci sono se non c'è il lavoro umile, quotidiano, di convertire i cuori. E di creare giustizia nei cuori. Solo così si estende anche la giustizia correttiva. Perciò il lavoro dei parroco è così fondamentale non solo per la parrocchia, ma per l'umanità. Perché se non ci sono i giusti, come ho detto, la giustizia rimane astratta. E le strutture buone non si realizzano se si oppone l'egoismo anche di persone competenti.

Questo nostro lavoro, umile, quotidiano, è fondamentale per arrivare ai grandi scopi dell'umanità. E dobbiamo lavorare insieme su tutti i livelli. La Chiesa universale deve denunciare, ma anche annunciare che cosa si può fare e come si può fare. Le conferenze episcopali e i vescovi devono agire. Ma tutti dobbiamo educare alla giustizia. Mi sembra che sia ancora oggi vero e realistico il dialogo di Abramo con Dio (Genesi, 18, 22-33), quando il primo dice: davvero distruggerai la città? forse ci sono cinquanta giusti, forse dieci giusti. E dieci giusti sono sufficienti per far sopravvivere la città. Ora, se mancano dieci giusti, con tutta la dottrina economica, la società non sopravvive. Perciò dobbiamo fare il necessario per educare e garantire almeno dieci giusti, ma se possibile molti di più. Proprio con il nostro annuncio facciamo sì che ci siano tanti giusti, che sia realmente presente la giustizia nel mondo.

Come effetto, i due livelli sono inseparabili. Se, da una parte, non annunciamo la macrogiustizia quella micro non cresce. Ma, d'altra parte, se non facciamo il lavoro molto umile della microgiustizia anche quella macro non cresce. E sempre, come ho detto nella mia prima Enciclica, con tutti i sistemi che possono crescere nel mondo, oltre la giustizia che cerchiamo rimane necessaria la carità. Aprire i cuori alla giustizia e alla carità è educare alla fede, è guidare a Dio.

5) Santo Padre, sono Don Marco Valentini, vicario presso la parrocchia Sant'Ambrogio. Quando ero in formazione non mi rendevo conto, come ora, dell'importanza della liturgia. Certamente le celebrazioni non mancavano, ma non capivo molto come essa sia «il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e la fonte da cui promana tutta la sua energia» (Sacrosanctum Concilium, 10). La consideravo, piuttosto, un fatto tecnico per la buona riuscita di una celebrazione o una pratica pia e non piuttosto un contatto con il mistero che salva, un lasciarsi conformare a Cristo per essere luce del mondo, una fonte di teologia, un mezzo per realizzare la tanto auspicata integrazione tra ciò che si studia e la vita spirituale. D'altro canto pensavo che la liturgia non fosse strettamente necessaria per essere cristiani o salvi e che bastasse sforzarsi di mettere in pratica le Beatitudini. Ora mi chiedo cosa sarebbe la carità senza la liturgia e se senza di essa la nostra fede non si ridurrebbe ad una morale, un'idea, una dottrina, un fatto del passato e noi sacerdoti non sembreremmo più insegnanti o consiglieri che mistagoghi che introducano le persone nel mistero. La stessa Parola di Dio è un annuncio che si realizza nella liturgia e che con essa ha un rapporto sorprendente: Sacrosanctum Concilium 6; Praenotanda del Lezionario 4 e 10. E pensiamo anche al brano di Emmaus o del funzionario etiope (Atti, 8). Perciò arrivo alla domanda. Senza nulla togliere alla formazione umana, filosofica, psicologica, nelle università e nei seminari, vorrei capire se la nostra specificità non richieda una maggiore formazione liturgica, oppure se l'attuale prassi e struttura degli studi già soddisfino sufficientemente la Costituzione Sacrosanctum Concilium 16, quando dice che la liturgia va computata tra le materie necessarie e più importanti, principali, e va insegnata sotto l'aspetto teologico, storico, spirituale, pastorale e giuridico e che i professori delle altre materie abbiano cura che la connessione con la liturgia risulti chiara. Ho fatto tale domanda perché, prendendo spunto dal proemio del decreto Optatam totius, mi sembra che le molteplici azioni della Chiesa nel mondo e la nostra stessa efficacia pastorale, dipendano molto dall'autocoscienza che abbiamo dell'inesauribile mistero del nostro essere battezzati, crismati e sacerdoti.

R. Dunque, se ho capito bene, si tratta della questione: quale sia, nell'insieme del nostro lavoro pastorale, molteplice e con tante dimensioni, lo spazio e il luogo dell'educazione liturgica e della realtà del celebrare il mistero. In questo senso, mi sembra, è anche una questione sull'unità del nostro annuncio e del nostro lavoro pastorale, che ha tante dimensioni. Dobbiamo cercare che cosa è il punto unificante, affinché queste tante occupazioni che abbiamo siano tutte insieme un lavoro del pastore. Se ho capito bene, lei è del parere che il punto unificante, che crea la sintesi di tutte le dimensioni del nostro lavoro e della nostra fede, potrebbe proprio essere la celebrazione dei misteri. E, quindi, la mistagogia, che ci insegna a celebrare.

Per me è importante realmente che i sacramenti, la celebrazione eucaristica dei sacramenti, non sia una cosa un po' strana accanto a lavori più contemporanei come l'educazione morale, economica, tutte le cose che abbiamo già detto. Può accadere facilmente che il sacramento rimanga un po' isolato in un contesto più pragmatico e divenga una realtà non del tutto inserita nella totalità del nostro essere umano. Grazie per la domanda, perché realmente noi dobbiamo insegnare a essere uomo. Dobbiamo insegnare questa grande arte: come essere un uomo. Questo esige, come abbiamo visto, tante cose: dalla grande denuncia del peccato originale nelle radici della nostra economia e nei tanti rami della nostra vita, fino a concrete guide alla giustizia, fino all'annuncio ai non credenti. Ma i misteri non sono una cosa esotica nel cosmo delle realtà più pratiche. Il mistero è il cuore dal quale viene la nostra forza e al quale ritorniamo per trovare questo centro. E perciò penso che la catechesi diciamo mistagogica è realmente importante. Mistagogica vuol dire anche realistica, riferita alla vita di noi uomini di oggi. Se è vero che l'uomo in sé non ha la sua misura — che cosa è giusto e che cosa non lo è — ma trova la sua misura fuori di sé, in Dio, è importante che questo Dio non sia lontano ma sia riconoscibile, sia concreto, entri nella nostra vita e sia realmente un amico con il quale possiamo parlare e che parla con noi. Dobbiamo imparare a celebrare l'Eucaristia, imparare a conoscere Gesù Cristo, il Dio con il volto umano, da vicino, entrare realmente con Lui in contatto, imparare ad ascoltarLo e imparare a lasciarLo entrare in noi. Perché la comunione sacramentale è proprio questa interpenetrazione tra due persone.

Non prendo un pezzo di pane o di carne, prendo o apro il mio cuore perché entri il Risorto nel contesto del mio essere, perché sia dentro di me e non solo fuori di me, e così parli dentro di me e trasformi il mio essere, mi dia il senso della giustizia, il dinamismo della giustizia, lo zelo per il Vangelo.

Questa celebrazione, nella quale Dio si fa non solo vicino a noi, ma entra nel tessuto della nostra esistenza, è fondamentale per poter realmente vivere con Dio e per Dio e portare la luce di Dio in questo mondo. Non entriamo adesso in troppi dettagli. Ma è sempre importante che la catechesi sacramentale sia una catechesi esistenziale. Naturalmente, pur accettando e imparando sempre più l'aspetto misterico — là dove finiscono le parole e i ragionamenti — essa è totalmente realistica, perché porta me a Dio e Dio a me. Mi porta all'altro perché l'altro riceve lo stesso Cristo, come me. Quindi se in lui e in me c'è lo stesso Cristo, anche noi due non siamo più individui separati. Qui nasce la dottrina del Corpo di Cristo, perché siamo tutti incorporati se riceviamo bene l'Eucaristia nello stesso Cristo. Quindi il prossimo è realmente prossimo: non siamo due «io» separati, ma siamo uniti nello stesso «io» di Cristo. Con altre parole, la catechesi eucaristica e sacramentale deve realmente arrivare al vivo della nostra esistenza, essere proprio educazione ad aprirmi alla voce di Dio, a lasciarmi aprire perché rompa questo peccato originale dell'egoismo e sia apertura della mia esistenza in profondità, tale che possa divenire un vero giusto. In questo senso, mi sembra che tutti dobbiamo imparare sempre meglio la liturgia, non come una cosa esotica, ma come il cuore del nostro essere cristiani, che non si apre facilmente a un uomo distante, ma è proprio, dall'altra parte, l'apertura verso l'altro, verso il mondo. Dobbiamo tutti collaborare per celebrare sempre più profondamente l'Eucaristia: non solo come rito, ma come processo esistenziale che mi tocca nella mia intimità, più che ogni altra cosa, e mi cambia, mi trasforma. E trasformando me, dà inizio anche alla trasformazione del mondo che il Signore desidera e per la quale vuol farci suoi strumenti.

Continua...
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
16/09/2009 19:42

6) Beatissimo Padre, sono padre Lucio Maria Zappatore, carmelitano, parroco della parrocchia di santa Maria Regina Mundi, a Torrespaccata.

Per giustificare il mio intervento, mi riallaccio a quanto lei ha detto domenica scorsa,
durante la preghiera dell'Angelus, a proposito del ministero petrino. Lei ha parlato del ministero singolare e specifico del vescovo di Roma, il quale presiede alla comunione universale della carità. Io le chiedo di continuare questa riflessione allargandola alla Chiesa universale: qual è il il carisma singolare della Chiesa di Roma e quali sono le caratteristiche che fanno, per un dono misterioso della Provvidenza, unica al mondo? L'avere come vescovo il Papa della Chiesa universale, cosa comporta nella sua missione, oggi in particolare? Non vogliamo conoscere i nostri privilegi: una volta si diceva: Parochus in urbe, episcopus in orbe; ma vogliamo sapere come vivere questo carisma, questo dono di vivere come preti a Roma e cosa si aspetta lei da noi parroci romani.

Fra pochi giorni lei si recherà al Campidoglio per incontrare le autorità civili di Roma e parlerà dei problemi materiali della nostra città: oggi le chiediamo
di parlare a noi dei problemi spirituali di Roma e della sua Chiesa. E, a proposito della sua visita al Campidoglio, mi sono permesso di dedicarle un sonetto in romanesco, chiedendole la compiacenza di ascoltarlo
.

Er Papa che salisce al Campidojo / è un fatto che te lassa senza fiato / perchè 'sta vortas sòrte for dar sojo, / pe creanza che tiè 'n bon vicinato. / Er sindaco e la giunta con orgojo / jànno fatto 'n invito , er più accorato, / perchè Roma, se sà, vojo o nun vojo /nun po' fa' proprio a meno der papato. / Roma, tu ciài avuto drento ar petto / la forza pè portà la civirtà. / Quanno Pietro t'ha messo lo zicchetto / eterna Dio t'ha fatto addiventà. / Accoji allora er Papa Benedetto / che sale a beneditte e a ringrazià!

R. Grazie. Abbiamo sentito parlare il cuore romano, che è un cuore di poesia. È molto bello sentir parlare un po' in romanesco e sentire che la poesia è profondamente radicata nel cuore romano. Questo forse è un privilegio naturale che il Signore ha dato ai romani. È un carisma naturale che precede quelli ecclesiali.

La sua domanda, se ho capito bene, si compone di due parti. Anzitutto, cosa è la responsabilità concreta del vescovo di Roma oggi. Ma poi lei estende giustamente il privilegio petrino a tutta la Chiesa di Roma — così era considerato anche nella Chiesa antica — e chiede quali siano gli obblighi della Chiesa di Roma per rispondere a questa sua vocazione.

Non è necessario sviluppare qui la dottrina del primato, la conoscete tutti molto bene. Importante è soffermarci sul fatto che realmente il Successore di Pietro, il ministero di Pietro, garantisce l'universalità della Chiesa, questa trascendenza di nazionalismi e di altre frontiere che esistono nell'umanità di oggi, per essere realmente una Chiesa nella diversità e nella ricchezza delle tante culture.

Vediamo come anche le altre comunità ecclesiali, le altre Chiese avvertano il bisogno di un punto unificante per non cadere nel nazionalismo, nell'identificazione con una determinata cultura, per essere realmente aperti, tutti per tutti e per essere quasi costretti ad aprirsi sempre verso tutti gli altri.

Mi sembra che questo sia il ministero fondamentale del Successore di Pietro: garantire questa cattolicità che implica molteplicità, diversità, ricchezza di culture, rispetto delle diversità e che, nello stesso tempo, esclude assolutizzazione e unisce tutti, li obbliga ad aprirsi, ad uscire dall'assolutizzazione del proprio per trovarsi nell'unità della famiglia di Dio che il Signore ha voluto e per la quale garantisce il Successore di Pietro, come unità nella diversità.

Naturalmente la Chiesa del Successore di Pietro deve portare, con il suo vescovo, questo peso, questa gioia del dono della sua responsabilità. Nell'apocalisse il vescovo appare infatti come angelo della sua Chiesa, cioè un po' come l'incorporazione della sua Chiesa, alla quale deve rispondere l'essere della Chiesa stessa. Quindi la Chiesa di Roma, insieme con il Successore di Pietro e come sua Chiesa particolare, deve garantire proprio questa universalità, questa apertura, questa responsabilità per la trascendenza dell'amore, questo presiedere nell'amore che esclude particolarismi. Deve anche garantire la fedeltà alla Parola del Signore, al dono della fede, che non abbiamo inventato noi ma che è realmente il dono che solo da Dio stesso poteva venire. Questo è e sarà sempre il dovere, ma anche il privilegio, della Chiesa di Roma, contro le mode, contro i particolarismi, contro l'assolutizzazione di alcuni aspetti, contro eresie che sono sempre assolutizzazioni di un aspetto. Anche il dovere di garantire l'universalità e la fedeltà all'integralità, alla ricchezza della sua fede, del suo cammino nella storia che si apre sempre al futuro. E insieme con questa testimonianza della fede e dell'universalità, naturalmente deve dare l'esempio della carità.

Così ci dice sant'Ignazio, identificando in questa parola un po' enigmatica, il sacramento dell'Eucaristia, l'azione dell'amare gli altri. E questo, per tornare al punto precedente, è molto importante: cioè questa identificazione con l'Eucaristia che è agape, è carità, è la presenza della carità che si è donata in Cristo. Deve sempre essere carità, segno e causa di carità nell'aprirsi verso gli altri, di questo donarsi agli altri, di questa responsabilità verso i bisognosi, verso i poveri, verso i dimenticati. Questa è una grande responsabilità.

Al presiedere nell'Eucaristia segue il presiedere nella carità, che può essere testimoniata solo dalla comunità stessa. Questo mi sembra il grande compito, la grande domanda per la Chiesa di Roma: essere realmente esempio e punto di partenza della carità. In questo senso è presidio della carità.

Nel presbiterio di Roma siamo di tutti i continenti, di tutte le razze, di tutte le filosofie e di tutte le culture. Sono lieto che proprio il presbiterio di Roma esprima l'universalità, nell'unità della piccola Chiesa locale la presenza della Chiesa universale. Più difficile ed esigente è essere anche e realmente portatori della testimonianza, della carità, dello stare tra gli altri con il nostro Signore. Possiamo solo pregare il Signore che ci aiuti nelle singole parrocchie, nelle singole comunità, e che tutti insieme possiamo essere realmente fedeli a questo dono, a questo mandato: presiedere la carità.

7)
Santo Padre, sono padre Guillermo M. Cassone, della comunità dei padri di Schoenstatt a Roma, vicario parrocchiale nella parrocchia dei santi Patroni d'Italia, San Francesco e Santa Caterina, in Trastevere.

Dopo il
Sinodo sulla Parola di Dio, riflettendo sulla Proposizione 55, «Maria Mater Dei et Mater fidei», mi sono chiesto come migliorare il rapporto fra la Parola di Dio e la pietà mariana, sia nella vita spirituale sacerdotale e sia nell'azione pastorale. Due immagini mi aiutano: l'annunciazione per l'ascolto, e la visitazione per l'annuncio. Vorrei chiederle, Santità, di illuminarci con il suo insegnamento su questo tema. La ringrazio per questo dono
.

R. Mi sembra che lei ci abbia dato anche la risposta alla sua domanda. Realmente Maria è la donna dell'ascolto: lo vediamo nell'incontro con l'Angelo e lo rivediamo in tutte le scene della sua vita, dalle nozze di Cana, fino alla croce e fino al giorno di Pentecoste, quando è in mezzo agli apostoli proprio per accogliere lo Spirito. È il simbolo dell'apertura, della Chiesa che attende la venuta dello Spirito Santo.

Nel momento dell'annuncio possiamo cogliere già l'atteggiamento dell'ascolto — un ascolto vero, un ascolto da interiorizzare, che non dice semplicemente sì, ma assimila la Parola, prende la Parola — e poi far seguire la vera obbedienza, come se fosse una Parola interiorizzata, cioè divenuta Parola in me e per me, quasi forma della mia vita. Questo mi sembra molto bello: vedere questo ascolto attivo, un ascolto cioè che attira la Parola in modo che entri e diventi in me Parola, riflettendola e accettandola fino all'intimo del cuore. Così la Parola diventa incarnazione.

Lo stesso vediamo nel Magnificat. Sappiamo che è un tessuto fatto di parole dell'Antico Testamento. Vediamo che Maria realmente è una donna di ascolto, che conosceva nel cuore la Scrittura. Non conosceva solo alcuni testi, ma era così identificata con la Parola che le parole dell'Antico Testamento diventano, sintetizzate, un canto nel suo cuore e nelle sua labbra. Vediamo che realmente la sua vita era penetrata della Parola; era entrata nella Parola, l'aveva assimilata ed era divenuta vita in sé, trasformandosi poi di nuovo in Parola di lode e di annuncio della grandezza di Dio.

Mi sembra che san Luca, riferendosi a Maria, dica almeno tre volte, forse quattro volte, che ha assimilato e conservato nel suo cuore le Parole. Era, per i Padri, il modello della Chiesa, il modello del credente che conserva la Parola, porta in sé la Parola; non solo la legge, la interpreta con l'intelletto per sapere cosa è stata in quel tempo, quali sono i problemi filologici. Tutto questo è interessante, importante, ma è più importante sentire la Parola che va conservata e che diventa Parola in me, vita in me e presenza del Signore. Perciò mi sembra importante il nesso tra mariologia e teologia della Parola, del quale anche hanno parlato i Padri sinodali e del quale parleremo nel documento post-sinodale.

È ovvio: Madonna è parola dell'ascolto, parola silenziosa, ma anche parola della lode, dell'annuncio, perché la Parola nell'ascolto diventa di nuovo carne e diventa così presenza della grandezza di Dio.

8)
Santo Padre, sono Pietro Riggi e sono un salesiano che opera al Borgo ragazzi Don Bosco, le volevo chiedere: il Concilio Vaticano ii ha portato tante importatissime novità nella Chiesa, ma non ha abolito le cose che già vi erano. Mi sembra che diversi sacerdoti o teologi vorrebbero far passare come spirito del Concilio ciò che invece non c'entra con il Concilio stesso. Ad esempio le indulgenze. Esiste il Manuale delle indulgenze della Penitenzieria apostolica, attraverso le indulgenze si attinge al tesoro della Chiesa e si possono suffragare le anime del Purgatorio. Esiste un calendario liturgico in cui si dice quando e come si possono lucrare le indulgenze plenarie, ma tanti sacerdoti non ne parlano più, impedendo di fare arrivare suffragi importantissimi alle anime del Purgatorio. Le benedizioni. Vi è il Manuale delle benedizioni in cui si prevede la benedizione di persone, ambienti, oggetti e prefino di alimenti. Ma molti sacerdoti sconoscono queste cose, altri le ritengono preconciliari, così mandano via quei fedeli che chiedono quello che per diritto dovrebbero avere.

Le pratiche di pietà più conosciute. I primi venerdì del mese non sono stati aboliti dal Concilio
Vaticano II, ma tanti sacerdoti non ne parlano più, oppure, addirittura, ne parlano male. Oggi vi è un senso di avversione a tutto questo, perché le vedono antiche e dannose, come cose vecchie e preconciliari, mentre ritengo che tutte queste preghiere e pratiche cristiane sono attualissime e molto importanti, che vanno riprese e spiegate adeguatamente al Popolo di Dio, nel sano equilibrio e nella verità a completezza del Vaticano II.

Volevo anche chiederle: una volta lei parlando di Fatima ha detto che vi è un legame tra Fatima e Akita, le lacrimazioni della Madonna in Giappone. Sia Paolo vi che Giovanni Paolo II hanno celebrato a
Fatima una messa solenne ed hanno utilizzato lo stesso brano della sacra Scrittura, Apocalisse 12, la donna vestita di sole che lotta una battaglia decisiva contro il serpente antico, il diavolo, satana. C'è affinità tra Fatima e Apocalisse 12?

Concludo: l'anno scorso un sacerdote le ha regalato un quadro, io non so dipingere ma volevo anch'io farle un regalo, così ho pensato di farle dono di tre libri che ho scritto di recente, spero che le piacciano
.

R. Sono realtà delle quali il Concilio non ha parlato, ma che suppone come realtà nella Chiesa. Esse vivono nella Chiesa e si sviluppano. Adesso non è il momento per entrare nel grande tema delle indulgenze. Paolo vi ha riordinato questo tema e ci indica il filo per capirlo. Direi che si tratta semplicemente di uno scambio di doni, cioè quanto nella Chiesa esiste di bene, esiste per tutti. Con questa chiave dell'indulgenza possiamo entrare in questa comunione dei beni della Chiesa. I protestanti si oppongono affermando che l'unico tesoro è Cristo. Ma per me la cosa meravigliosa è che Cristo — il quale realmente è più che sufficiente nel suo amore infinito, nella sua divinità e umanità — voleva aggiungere, a quanto ha fatto lui, anche la nostra povertà.
Non ci considera solo come oggetti della sua misericordia, ma ci fa soggetti della misericordia e dell'amore insieme con Lui, quasi che — anche se non quantitativamente, almeno in senso misterico — ci volesse aggiungere al grande tesoro del corpo di Cristo. Voleva essere il Capo con il corpo. E voleva che con il corpo fosse completato il mistero della sua redenzione. Gesù voleva avere la Chiesa come suo corpo, nel quale si realizza tutta la ricchezza di quanto ha fatto. Da questo mistero risulta proprio che esiste un tesaurus ecclesiae, che il corpo, come il capo, dona tanto e noi possiamo avere l'uno dall'altro e possiamo donare l'uno all'altro.

E così vale anche per le altre cose. Per esempio, i venerdì del sacro Cuore: è una cosa molto bella nella Chiesa. Non sono cose necessarie, ma cresciute nella ricchezza della meditazione del mistero. Così il Signore ci offre nella Chiesa queste possibilità. Non mi sembra adesso il momento di entrare in tutti i dettagli. Ognuno può più o meno capire cosa è meno importante di un'altra; ma nessuno dovrebbe disprezzare questa ricchezza, cresciuta nei secoli come offerta e come moltiplicazione delle luci nella Chiesa. Unica è la luce di Cristo. Appare in tutti i suoi colori e offre la conoscenza della ricchezza del suo dono, l'interazione tra capo e corpo, l'interazione tra le membra, così che possiamo essere veramente insieme un organismo vivente, nel quale ognuno dona a tutti, e tutti donano il Signore, il quale ci ha donato tutto se stesso.

© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana

Il saluto del cardinale vicario Agostino Vallini

All'inizio dell'incontro, il cardinale vicario Agostino Vallini ha rivolto al Papa un indirizzo di saluto.

Padre Santo,

sono molto lieto di presentarLe il saluto devoto e filiale del vicegerente, dei vescovi ausiliari, dei parroci, dei vicari parrocchiali, dei sacerdoti del Vicariato e dei seminari, dei collaboratori nei diversi ministeri e servizi pastorali della diocesi di Roma, dei diaconi permanenti, qui convenuti per il tradizionale e atteso incontro di inizio della quaresima.
La ringraziamo per questa udienza, che ha un carattere peculiare. Ci è dato sperimentare la gioia di un incontro che definirei "di famiglia", tra il padre e i figli, tra il vescovo e i suoi sacerdoti. A noi, preti romani, questa mattina è concesso di vivere quell'esperienza che fecero i discepoli, di cui ci parla l'evangelista Marco: "Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: "Venite in disparte, voi soli, ...e riposatevi un po' "" (Marco, 6, 30-31),
Nel cuore dell'anno pastorale, mentre sperimentiamo la gioia di spenderci generosamente ogni giorno per l'annuncio del Vangelo e la crescita delle comunità ecclesiali a noi affidate in questa nostra città di Roma, e insieme avvertiamo anche il peso e le difficoltà del ministero, che talvolta - per tante ragioni - può apparirci poco fruttuoso, incontriamo Pietro, la roccia, "il principio e il fondamento perpetuo e visibile dell'unità della fede e della comunione" (Lumen gentium, 18) e nel suo volto scorgiamo i tratti del volto di Cristo, buon pastore, che ci accoglie e ci dice: venite, riposatevi un po', raccontatemi, parlatemi della vostra vita e del vostro ministero pastorale.
È quello che faremo fra un momento, attraverso le voci dei sacerdoti che interverranno. E lo faremo per dirle la nostra gioia, i nostri successi pastorali, ma anche le nostre fatiche, le nostre pene, i nostri dubbi, le nostre speranze. E questo spirituale riposo - ne siamo certi - ci rinfrancherà; la sua parola ci illuminerà, ci incoraggerà e ci conforterà.
Come tante volte ella ci ha ripetuto, viviamo un tempo non facile e molte sfide si pongono alla Chiesa; Roma è profondamente mutata e anche i programmi pastorali e la prassi ordinaria del ministero hanno bisogno di essere meglio adeguati alle nuove esigenze. È per questo che, d'intesa con gli organismi diocesani, abbiamo creduto opportuno di studiare le modalità per una verifica degli ambiti essenziali della pastorale diocesana nell'ultimo decennio, che ci impegnerà nei prossimi mesi e i cui risultati sottoporremo a lei, nostro vescovo. In questo lavoro ci accompagni con la sua preghiera.
Padre Santo, sono trascorsi soltanto pochi mesi da quando ella, con atto di singolare benevolenza, ha voluto affidarmi l'ufficio di suo Vicario per la diocesi di Roma. Nel corso di questo tempo ho potuto incontrare un buon numero di sacerdoti, visitare alcune decine di parrocchie, conoscere promettenti esperienze apostoliche. Desidero testimoniarle che i nostri sacerdoti si prodigano generosamente con spirito di fede e di amore a Cristo e alla Chiesa, sentono forte il loro vincolo di comunione e di obbedienza al Papa, amano i poveri. Le nostre parrocchie sono comunità vive e punti di riferimento dei quartieri e per l'intero territorio. Molte opere e iniziative di carità e di solidarietà danno sollievo e aiuto concreto a tante famiglie in difficoltà e a tante persone. Si fa tanto in favore dei poveri, anche se vorremmo fare molto di più. Tutto ciò ci conforta e ci stimola.
Padre Santo, la ringraziamo ancora di averci accolti, attendiamo la sua parola di fiducia e di speranza e le chiediamo di benedirci.

(©L'Osservatore Romano - 28 febbraio 2009)
__________________________________________________

OFFLINE
Post: 11.290
Registrato il: 03/10/2008
Registrato il: 01/11/2008
Sesso: Maschile
16/09/2009 19:43

UDIENZA AI BAMBINI DELL’OPERA PER L’INFANZIA MISSIONARIA, 30.05.2009

Alle ore 12 di questa mattina, nell’Aula Paolo VI, il Santo Padre Benedetto XVI ha ricevuto in Udienza 7.000 Bambini dell’Opera per l’Infanzia Missionaria.
Dopo il saluto dell’Em.mo Card. Ivan Dias, Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli e di due bambini, il Papa ha risposto "a braccio" alle domande rivolte da tre ragazzi.
Pubblichiamo di seguito la trascrizione delle domande dei bambini e delle risposte del Papa
:

DIALOGO DEL SANTO PADRE CON I BAMBINI

Prima domanda: Mi chiamo Anna Filippone, ho dodici anni, sono ministrante, vengo dalla Calabria, diocesi di Oppido Mamertina-Palmi. Papa Benedetto, il mio amico Giovanni ha il babbo italiano e la madre ecuadoriana ed è molto felice. Pensi che le diverse culture un giorno potranno vivere senza litigare nel nome di Gesù?

Santo Padre: Ho capito che volete sapere come noi, da bambini, abbiamo fatto ad aiutarci reciprocamente. Devo dire che ho vissuto gli anni della scuola elementare in un piccolo paese di 400 abitanti, molto lontano dai grandi centri.
Eravamo quindi un po' ingenui e in questo paese c'erano, da una parte, agricoltori molto ricchi e anche altri meno ricchi ma benestanti, e, dall'altra, poveri impiegati, artigiani.
La nostra famiglia poco prima dell'inizio della scuola elementare era arrivata in questo paese da un altro paese, quindi eravamo un po' stranieri per loro, anche il dialetto era diverso. In questa scuola, quindi, si riflettevano situazioni sociali molto diverse.
Vi era tuttavia una bella comunione tra di noi. Mi hanno insegnato il loro dialetto, che io non conoscevo ancora. Abbiamo collaborato bene e, devo dire, qualche volta naturalmente anche litigato, ma dopo ci siamo riconciliati e abbiamo dimenticato quanto era avvenuto.
Questo mi sembra importante. Qualche volta nella vita umana sembra inevitabile litigare; ma importante resta, comunque, l'arte di riconciliarsi, il perdono, il ricominciare di nuovo e non lasciare amarezza nell'anima. Con gratitudine mi ricordo di come tutti abbiamo collaborato: uno aiutava l'altro e andavamo insieme sulla nostra strada.
Tutti eravamo cattolici, e questo era naturalmente un grande aiuto. Così abbiamo imparato insieme a conoscere la Bibbia, cominciando dalla creazione fino al sacrificio di Gesù sulla croce, e poi anche gli inizi della Chiesa. Abbiamo imparato insieme il catechismo, abbiamo imparato insieme a pregare, ci siamo insieme preparati per la prima confessione, per la prima comunione: quello fu un giorno splendido. Abbiamo capito che Gesù stesso viene da noi e che Lui non è un Dio lontano: entra nella mia propria vita, nella mia propria anima. E se lo stesso Gesù entra in ognuno di noi, noi siamo fratelli, sorelle, amici e dobbiamo quindi comportarci come tali. Per noi, questa preparazione sia alla prima confessione come purificazione della nostra coscienza, della nostra vita, e poi anche alla prima comunione come incontro concreto con Gesù che viene da me, che viene da noi tutti, sono stati fattori che hanno contribuito a formare la nostra comunità. Ci hanno aiutato ad andare insieme, a imparare insieme a riconciliarci quando era necessario.
Abbiamo fatto anche piccoli spettacoli: è importante anche collaborare, avere attenzione l'uno per l'altro. Poi a otto o nove anni mi sono fatto chierichetto. In quel tempo non c'erano ancora le chierichette, ma le ragazze leggevano meglio di noi. Esse quindi leggevano le letture della liturgia, noi facevamo i chierichetti.
In quel tempo erano ancora molti i testi latini da imparare, così ognuno ha avuto la sua parte di fatica da fare.
Come ho detto, non eravamo santi: abbiamo avuto i nostri litigi, ma tuttavia c'era una bella comunione, dove le distinzioni tra ricchi e poveri, tra intelligenti e meno intelligenti non contavano. Era la comunione con Gesù nel cammino della fede comune e nella responsabilità comune, nei giochi, nel lavoro comune.
Abbiamo trovato la capacità di vivere insieme, di essere amici, e benché dal 1937, cioè da più di settanta anni, non sia più stato in quel paese, siamo restati ancora amici. Quindi abbiamo imparato ad accettarci l'un l'altro, a portare il peso l'uno dell'altro. Questo mi sembra importante: nonostante le nostre debolezze ci accettiamo e con Gesù Cristo, con la Chiesa troviamo insieme la strada della pace e impariamo a vivere bene.

Seconda domanda: Mi chiamo Letizia e ti volevo fare una domanda. Caro Papa Benedetto XVI, cosa voleva dire per te quando eri ragazzo il motto: «I bambini aiutano i bambini»? Avresti mai pensato di diventare Papa?

Santo Padre: A dire la verità, non avrei mai pensato di diventare Papa, perché, come ho già detto, sono stato un ragazzo abbastanza ingenuo in un piccolo paese molto lontano dai centri, nella provincia dimenticata.
Eravamo felici di essere in questa provincia e non pensavamo ad altre cose. Naturalmente abbiamo conosciuto, venerato e amato il Papa — era Pio XI — ma per noi era a un'altezza irraggiungibile, un altro mondo quasi: un nostro padre, ma tuttavia una realtà molto superiore a tutti noi.
E devo dire che ancora oggi ho difficoltà a capire come il Signore abbia potuto pensare a me, destinare me a questo ministero. Ma lo accetto dalle sue mani, anche se è una cosa sorprendente e mi sembra molto oltre le mie forze. Ma il Signore mi aiuta.

Terza domanda: Caro Papa Benedetto, io sono Alessandro. Volevo chiederti: tu sei il primo missionario, noi ragazzi come possiamo aiutarti ad annunciare il Vangelo?

Santo Padre: Direi che un primo modo è questo: collaborare con la Pontificia Opera dell'Infanzia Missionaria. Così siete parte di una grande famiglia, che porta avanti il Vangelo nel mondo. Così appartenete a una grande rete. Vediamo qui come si rispecchia la famiglia dei popoli diversi. Voi state in questa grande famiglia: ognuno fa la sua parte e insieme siete missionari, portatori dell'opera missionaria della Chiesa.
Avete un bel programma, indicato dalla vostra portavoce: ascoltare, pregare, conoscere, condividere, solidarizzare Questi sono gli elementi essenziali che realmente sono un modo di essere missionario, di portare avanti la crescita della Chiesa e la presenza del Vangelo nel mondo. Vorrei sottolineare alcuni di questi punti.
Anzitutto, pregare.
La preghiera è una realtà: Dio ci ascolta e, quando preghiamo, Dio entra nella nostra vita, diventa presente tra di noi, operante. Pregare è una cosa molto importante, che può cambiare il mondo, perché rende presente la forza di Dio. Ed è importante aiutarsi nel pregare: preghiamo insieme nella liturgia, preghiamo insieme nella famiglia. E qui direi che è importante cominciare la giornata con una piccola preghiera e poi anche finire il giorno con una piccola preghiera: ricordare i genitori nella preghiera. Pregare prima del pranzo, prima della cena, e in occasione della comune celebrazione della domenica.
Una domenica senza la messa, la grande preghiera comune della Chiesa, non è una vera domenica: manca proprio il cuore della domenica e così anche la luce per la settimana.
E potete aiutare anche gli altri — specialmente quando forse a casa non si prega, non si conosce la preghiera — insegnare agli altri a pregare: pregare con loro e così introdurre gli altri nella comunione con Dio.
Poi, ascoltare, cioè imparare realmente che cosa ci dice Gesù.
Inoltre, conoscere la Sacra Scrittura, la Bibbia. Nella storia di Gesù impariamo — come ha detto il Cardinale — il volto di Dio, impariamo come è Dio. E’ importante conoscere Gesù profondamente, personalmente. Così egli entra nella nostra vita e, tramite la nostra vita, entra nel mondo.
E anche condividere, non volere le cose solo per se stessi, ma per tutti; dividere con gli altri.
E se vediamo un altro che forse ha bisogno, che è meno dotato, dobbiamo aiutarlo e così rendere presente l'amore di Dio senza grandi parole, nel nostro personale piccolo mondo, che fa parte del grande mondo. E così diventiamo insieme una famiglia, dove uno ha rispetto per l'altro: sopportare l'altro nella sua alterità, accettare proprio anche gli antipatici, non lasciare che uno sia marginalizzato, ma aiutarlo a inserirsi nella comunità. Tutto questo vuol dire semplicemente vivere in questa grande famiglia della Chiesa, in questa grande famiglia missionaria: Vivere i punti essenziali come la condivisione, la conoscenza di Gesù, la preghiera, l'ascolto reciproco e la solidarietà è un'opera missionaria, perché aiuta a far sì che il Vangelo diventi realtà nel nostro mondo.

© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana
__________________________________________________

Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 | Pagina successiva
Nuova Discussione
 | 
Rispondi
Cerca nel forum

Feed | Forum | Bacheca | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra
Crea forum gratis, gestisci la tua comunità! Iscriviti a FreeForumZone
FreeForumZone [v.6.1] - Leggendo la pagina si accettano regolamento e privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 05:06. Versione: Stampabile | Mobile
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com