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Attentato a Kabul, colpiti due nostri blindati: morti 6 parà della Folgore

Ultimo Aggiornamento: 18/09/2009 19:34
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18/09/2009 09:57

http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Mondo/2009/09/cristina-kabul.shtml

Mi ha detto: «Aspetta qui». Poi un sorriso e il lampo


Partiamo alle 7 da Abu Dhabi, con un aereo C-130 dell'aeronautica militare, diretto a Kabul. Di fronte a me è seduto un parà della Folgore. Sorride. Ha il pizzetto e uno sguardo molto allegro. Lo ricordo perfettamente perché mi ha regalato i tappi per le orecchie, che non avevo.
Non si può parlare su un C-130, a causa del rumore, perciò ci capiamo a gesti. Mi insegna ad allacciare la cintura, sorridendomi con aria paterna. Ci offre un tramezzino, a me e agli altri. Io rifiuto perché ho solo sete.
All'atterraggio apre un pacchetto di salviette profumate e le offre a quanti siedono vicino a lui. Da poco ho scoperto che tra i morti dell'attentato c'era anche lui, quel parà molto gentile seduto di fronte a me sull'aereo militare, il sergente maggiore Roberto Valente. Ho scoperto che aveva anche un bambino.
Avevo avuto un presentimento, quando mi hanno detto che sui Lince c'erano anche i nostri militari. Il pensiero è andato subito a quel soldato con il basco amaranto e il pizzetto, di cui non conoscevo ancora il nome, perché era partito con il primo gruppo dall'aereoporto di Kabul.
Prima di lasciare la zona militare dello scalo aveva salutato me e gli altri due giornalisti dicendoci: «Andiamo al quartier generale, magari ci vediamo se uno di questi giorni venite al Comando».

I Lince su cui viaggiavano erano diretti al quartier generale Isaf-Nato. Noi, invece, saremmo dovuti andare a Camp Invicta, alla base militare alla periferia di Kabul.
Ripercorro il viaggio. Per lo più abbiamo dormito, eravamo tutti un po' stravolti perché avevamo alle spalle una notte in bianco: partenza da Fiumicino, oltre cento militari e tre civili (giornalisti), con un volo Alitalia per Abu Dhabi. Lì arriviamo a mezzanotte e dobbiamo attendere diverse ore prima di imbarcarci sul C-130 per Kabul, mentre un altro gruppo parte per Herat. Ricordo il tenente Antonio Fortunato, sullo stesso volo. È tra le vittime dell'esplosione. Ricordo facce serene, scherzi, sorrisi.
Dopo quattro ore circa atterriamo a Kabul. Sbrighiamo le varie procedure di recupero dei bagagli che vengono poi caricati su un camion container. I primi Lince partono. «Voi restate qui, vi veniamo a prendere dopo», ci dice un militare, forse era proprio il tenente Fortunato, che guidava il primo gruppo. Un grande professionista, dicono, che conosceva a memoria tutti i percorsi.
Noi attendiamo all'aeroporto il nostro turno, chiacchieriamo e scherziamo. Poi sentiamo il rumore sordo di un'esplosione. Noto un certo movimento tra i militari in servizio alla base, cercano di capire cosa è successo. Inizialmente penso a un razzo e ho l'impressione che sia esploso nelle vicinanze dell'aeroporto. «Ci danno il benvenuto con i razzi», scherziamo. Ma quando rivolgiamo uno sguardo verso la città, in lontananza distinguiamo una colonna di fumo. Seguono momenti di grande concitazione. Arriva un Lince con a bordo alcuni militari. Quello sulla ralla, il mitragliere, si porta le mani alla testa e mi sembra di percepire che dica: «Uno dei nostri, uno dei nostri». Poi sento altre frasi, che mi fanno rabbrividire: «Cinque sono a terra!». E poi ancora: «Sono i nostri, sono i nostri!».

Il cielo di Kabul si fa cupo, come prima di un temporale. Anche il morale degli uomini si fa cupo. Qualcuno piange, qualcuno ha reazioni di rabbia. Ma è l'emozione del momento e la preoccupazione per la loro vita non li fermerà. Hanno una missione da portare a termine. «Siamo consapevoli dei rischi che corriamo, fa parte del mestiere», mi dice uno dei militari. «Siamo preoccupati, certo, ma siamo dei professionisti». Gli sguardi, però, sono pieni di dolore. Quei soldati erano più che commilitoni: erano i loro amici. Ho appena conosciuto un tenente che è stato sul luogo dell'attentato. È sconvolto. «Una cosa così qui non ci era mai capitata», mi dice. Cerca di sorridermi, ma è distrutto. Come molti altri. Il dolore è palpabile.
Dopo ore di attesa arriva l'ordine di salire sui Lince: dobbiamo lasciare l'aeroporto di Kabul, raggiungere Camp Invicta, la base militare alla periferia di Kabul. Il Lince mi dà un senso di claustrofobia. Se qualcosa esplode, è come essere in gabbia. Non riesco nemmeno a muovermi, perché il giubbotto antiproiettile e l'elmetto sono pesantissimi. Restiamo in attesa per un po', poi arriva il contrordine: «Scendere dai blindati, non si parte ancora».

Nessuno mi spiega perché e io non oso fare domande perché l'atmosfera è piuttosto tesa. Mi fido di loro. So che se ci fanno partire è perché si può partire, se restiamo, invece, è perché non sono sicuri. Loro sanno come fare.
Sento che dicono che ci sono dei warnings, degli allarmi. La strada è pericolosa. Aspettiamo all'aeroporto fino all'imbrunire. Mi chiedono di interrompere i collegamenti telefonici con la radio perché potrebbero intercettarci e non è il caso che sappiano che stiamo per andare a Camp Invicta. Spengo il telefono. Finalmente arriva l'ordine: «Si parte». Ricomincia la procedura: cintura, giubbotto antiproiettile, elmetto.

Nel Lince dove sono sistemata, sul sedile posteriore, cerco di cacciar via la paura. Alla mia sinistra c'è il mitragliere. È nervoso. Si scambiano ordini via radio. Dall'altro lato c'è un collega giornalista. Altri due militari sono seduti sui sedili anteriori. La paura c'è e credo di non essere l'unica. Del resto, dicono che i soldati devono averne, perché la paura aumenta il livello di allerta. I sei militari diretti al quartier generale sono morti su un veicolo come questo. «Se succede qualcosa, cosa facciamo?», chiedo al soldato al volante. «Assolutamente niente - mi risponde - resti dov'è e non si muova».

Quando il blindato lascia finalmente la base ho il cuore in gola e la polvere nel naso. Fuori dai vetri il paesaggio è buio e minaccioso. Quando si avvicina un'automobile o, peggio, un grosso camion, mi sento stringere lo stomaco. Noi andiamo molto veloci e in una ventina di minuti raggiungiamo Camp Invicta. Quando vedo l'insegna mi sento sollevata. Siamo salvi. Qualcun altro però non tornerà più a casa. Questione di minuti: sui Lince sventrati avrei potuto esserci anch'io oggi.


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