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Le discussioni fra la Santa Sede e la Fraternità San Pio X

Ultimo Aggiornamento: 21/09/2009 16:51
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17/09/2009 14:31

Come abbiamo già fatto presente nel Trhend A Ottobre iniziano i colloqui tra Roma e FSSPX , adesso cercheremo, nelle nostre umili possibilità, di comprendere le reali difficoltà teologiche che stanno dietro la divisione tra la Santa Sede e la Fraternità di San Pio X, difficoltà che toccano direttamente l'interpretazione corretta del Concilio Vaticano II.

Per l'informazione ci serviremo di quelli che consideriamo i migliori Blog che trattano l'argomento in questione con molta professionalità e senza pregiudizi, consiglio anche di visionare la pagina realizzata dalla sorella Caterina in
DVF dove ci tiene aggiornati sugli sviluppi ufficiali dei dialoghi dottrinali fra la Chiesa e la Fraternità Sacerdotale San Pio X (FSSPX).   
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Inizieremo a trattare l'argomento dall'interessante articolo di un grande teologo della cosiddetta Scuola Romana, Mons. Brunero Gherardini che tratta il valore Magisteriale del Vaticano II, consigliamo anche la lettura di questo Trhend: Il Concilio Vaticano II e la sua corretta interpretazione  dove potete leggere gli interessanti interventi del Papa, Benedetto XVI, sulla corretta interpretazione del suddetto Concilio.



Quale valore magisteriale per il Concilio Vaticano II


Il dibattito teologico negli ultimi anni verte intorno ai documenti del Concilio Vaticano II, alla loro redazione, alla loro interpretazione, alla loro ricezione nella vita della Chiesa; le discussioni intorno a questa pagina della storia della Chiesa hanno visto posizioni diverse, ideologiche talvolta al punto da soffocare il confronto tra studiosi. Pur nell’indifferenza ostile di molti, un vento nuovo e fresco soffia oggi nella Chiesa e le discussioni si fanno talvolta serie e serrate. L’amore della Verità e della Chiesa spinge ad una franchezza d’espressione che ha qualcosa di evangelico.
A questo proposito la prima questione sulla quale bisogna sapersi interrogare è quella relativa alla natura del Concilio Vaticano II e quindi al tenore dei suoi documenti. Dopo questa risposta e non prima si potranno definire i limiti del dibattito possibile.


L’OPINIONE DI UN AUTOREVOLE TEOLOGO DELLA SCUOLA ROMANA

Per inaugurare questo argomento la redazione di “Disputationes theologicae” ha voluto chiedere il parere dell’ultimo grande teologo della cosiddetta Scuola Romana, Mons. Brunero Gherardini. Erede di una tradizione teologica che ha illustrato l’Urbe con nomi d’eccezione quali furono, a mero titolo d’esempio, i suoi maestri e poi colleghi Antonio Piolanti e Pietro Parente, Mons. Gherardini, nato nel 1925, ordinato sacerdote nel 1948, ha insegnato per anni alla Pontificia Università Lateranense, divenendone Decano della Facoltà di Teologia. Canonico di S. Pietro in Vaticano fin dal 1994, dirige la nota rivista di studi teologici “Divinitas” dal 2000; autore di circa ottanta volumi e di innumerevoli articoli su riviste specialistiche, si è sempre distinto, duce S. Tommaso, per la chiarezza dell’esposizione e per la limpidezza delle sue tesi e dei suoi studi coraggiosi. Recentissima è la sua documentata pubblicazione sul dialogo interreligioso dal titolo “Quale accordo fra Cristo e Beliar?”, per i tipi di Fede e Cultura.



Valore "magisteriale" del Vaticano II

di Brunero Gherardini



M'è stato chiesto se il Concilio Ecumenico Vaticano II abbia valore magisteriale. La domanda è mal posta.
Un Concilio – qualunque sia la sua indole ed a qualunque finalità o necessità contingente intenda rispondere – è sempre Supremo Magistero della Chiesa. Il più solenne, al livello più alto. Sotto questo profilo e prescindendo dalla materia presa in esame, ogni suo pronunciamento è sempre magisteriale. E magisteriale nel senso più proprio e più nobile del termine.

Ciò non significa che sia in assoluto vincolante. Dogmaticamente, intendo, e sul piano dei comportamenti etici. Magisteriale, infatti, non necessariamente allude al dogma o all'ambito della dottrina morale, limitandosi a qualificare un asserto o un documento o una serie di documenti provenienti dal Magistero, supremo o no. Ho escluso che sia vincolante in assoluto, perché non in assoluto lo è sempre. Il fatto stesso che anche una semplice esortazione provenga da una cattedra di tale e tanta autorevolezza, crea certamente un vincolo. Non quello che esige l'assenso incondizionato di tutti (vescovi, preti, popolo di Dio) e ne impegna la fede; ma quello che a tutti richiede un religioso ossequio interno ed esterno.

Perché insorga l'esigenza dell'assenso incondizionato e della sua traduzione in comportamenti coerenti occorre che intervengano alcune circostanze, mancando le quali un pronunciamento conciliare, indubbiamente magisteriale, resta privo della capacità giuridica e morale di vincolare la libertà della Chiesa e dei suoi singoli membri. Nel tal caso, ovviamente, la richiesta dell'attenzione, dell'ossequio, del rispetto non solo in pubblico ma anche in privato, tocca la responsabilità d'ogni singolo cristiano-cattolico.

Quali sian le dette circostanze, è risaputo da tutti, immagino anche da coloro che non ne tengono conto. Poiché non vorrei che qualcuno le considerasse idee mie, le prendo dalle labbra d'una personalità non discutibile sia per i meriti ad essa universalmente riconosciuti, sia per l'ufficio ricoperto e per il compito che stava allora svolgendo, quando le manifestò pubblicamente ed ufficialmente: 16 nov. 1964, in pieno svolgimento del Vaticano II ed a chiarimento del suo valore conciliare. In risposta a reiterate domande, il Segretario del Concilio, S. E. Rev.ma Mons. Pericle Felici disse che "il testo dovrà sempre interpretarsi alla luce delle regole generali, da tutti conosciute". Secondo tali regole, tutta la Chiesa senz'eccezioni "è tenuta a professare le cose riguardanti la fede ed i costumi che il Concilio abbia apertamente dichiarato". Trattandosi però d'un Concilio pastorale, senz'escludere ch'esso potesse riesumare qualche enunciato dogmatico tra quelli da altri Concili ed in altre circostanze definiti, l'Ecc.mo Mons. Felici precisò che anche gl'indirizzi pastorali son dal Vaticano II proposti "come dottrina del Magistero Supremo della Chiesa" ed in quanto tali essi "vanno accettati ed abbracciati in conformità alla mente dello stesso Santo Sinodo; la quale mente, secondo le norme dell'ermeneutica teologica, è resa manifesta sia dalla dottrina trattata, sia dal tenore dell'espressione usata"
[1].

Come si vede, per indicare quale e di che natura fosse il valore stringente del Vaticano II, il Segretario del Concilio fece appello a diversi fattori. Parlando della sua pastoralità, richiamò:
  • i limiti imposti al Concilio da Giovanni XXIII, in apertura del medesimo: non la condanna degli errori né la formulazione di nuovi dogmi, ma l'adeguamento della verità rivelata "al mondo contemporaneo, alla sua mentalità e cultura"[2];
  • l'ermeneutica teologica, vale a dire l'analisi dei problemi emergenti, alla luce del dato rivelato e della Tradizione ecclesiastica;
  • il tenore delle espressioni usate.

Le prime due condizioni non abbisognan di molte spiegazioni; la terza si riferisce a moduli tecnici dai quali trasparisce l'intento o di dogmatizzare o più semplicemente d'esortare. E' da notare che un dogma insorge non perché un Concilio (anche il Vaticano II fece altrettanto) ricorre a moduli come questi: "Haec Sancta Synodus docet...Nos docemus et declaramus...definimus", o simili, ma perché il contenuto dottrinale d'un intero capitolo o dei suoi articoli vien sintetizzato in un "canone" che affermi il dogma e condanni l'errore contrario. Il tenore dell'espressione verbale è dunque formalmente decisivo. Si può serenamente asserire che un Concilio è o no dogmatico soprattutto in base alla sua "voluntas definiendi", chiaramente manifestata attraverso il suddetto tenore.

Il Vaticano II mai manifestò tale "voluntas", come si rileva facilmente dal tenore dei suoi moduli e delle sue formulazioni: mai un "canone", mai una condanna, mai una nuova definizione, ma, tutt'al più, il richiamo a qualche definizione del passato. La conclusione che se ne trae è ovvia: si tratta d'un Concilio che, per principio, escluse la formulazione di nuove dottrine dogmatiche; queste, se pure di per sé non dogmatiche, avrebbero potuto assurgere a valore di dogma solo se la materia fosse stata definita in altri Concili ed ora riesumata. In ogni altro caso, le eventuali novità non son che tentativi di rispondere alle istanze del momento e sarebbe teologicamente scorretto, anzi privo d'effetti, l'innalzarle a validità dogmatica senza il supporto dell'accennata "voluntas definiendi". Ne consegue che un siffatto innalzamento equivarrebbe ad una forzatura del Vaticano II, il cui insegnamento potrà dirsi infallibile ed irreformabile solo là dove è un insegnamento precedentemente definito.

In base ai principi ermeneutici di S. E. Mons Felici, ciò non comporta per nessuno – né per un vescovo, né per un prete o un teologo, né per il popolo di Dio - la libertà di "snobbare" gl'insegnamenti del Vaticano II. Provenendo essi dal Supremo Magistero, godono tutti d'una non comune dignità ed autorevolezza. Nessuno potrà impedire allo studioso di verificarne il fondamento - lo esige anzi l'invocata ermeneutica teologica – ma nessuno dovrebbe mai osare di negar loro religiosa attenzione interna ed esterna.

C'è tuttavia un "ma" ed un "se". Facciamo l'ipotesi che in qualcuno dei sedici documenti del Vaticano II, o addirittura in tutti, si rilevino errori. In astratto, è possibile: si è sempre discusso se un Concilio possa venir meno alle sue dichiarate intenzioni e finalità, o se possa addirittura cader in eresia. Il mio sommesso parere è che ciò non sia da escludere, attesa la fragilità o la malizia del cuore umano; ritengo tuttavia che, ove ciò si verificasse, un Concilio cesserebbe d'esser tale. Quanto al Vaticano II, da circa cinquant'anni l'attenzione critica s'è come assopita dinanzi ad esso, soffocata dal continuo osanna che l'ha circondato. Eppure i problemi non mancano, ed estremamente seri. Non parlo ovviamente d'eresia, ma di spunti dottrinali non in linea con la Tradizione di sempre e quindi non facilmente riconducibili al "quod semper, quod ubique, quod ab omnibus" del Lerinense, mancando a tali spunti la continuità dell' "eodem sensu eademque sententia" del suo "Commonitorium". Per esempio, un "subsistit in" non può esser accolto a cuor leggero, se non si dimostri, attraverso la ricerca e la discussione critica - intendo ad alto livello scientifico - che tutto sommato può esser interpretato in maniera ortodossa: il che, a mio avviso, dovrebbe escludere il decantato allargamento della "cattolicità" e della capacità salvifica alle denominazioni cristiane non cattoliche. Se poi si consideri la "Dignitatis hnumanae" come l'antisillabo rispetto al famoso documento del beato Pio IX (1864), la continuità con la Tradizione viene infranta ancor prima di porne il problema. Ed infine, se si dichiara tradizionale la dottrina dei due titolari della suprema piena ed universale potestà di governo nella Chiesa – il Papa e il Collegio dei vescovi, con il Papa e sotto il Papa, mai senza né sopra - giustificandola con "la relazione reale inadeguata", s'afferma un nonsenso ancor prima d'un errore storico e teologico.

C'è poi da tener presente un'altra circostanza, in base alla quale il valore dei documenti, pur se tutti conciliari e quindi magisteriali, non è sempre il medesimo: altro è una Costituzione, altro un Decreto ed altro ancora una Dichiarazione. C'è una validità decrescente da documento a documento. Ed anche se risultasse con ogni evidenza un eventuale errore del Vaticano II, la sua gravità varierebbe in base alla sua collocazione in una delle tre diverse tipologie di documenti.

Riassumendo, dunque, direi:

  • il Concilio Ecumenico Vaticano II è indubbiamente magisteriale;
  • altrettanto indubbiamente non è dogmatico, bensì pastorale essendosi sempre come tale presentato;
  • le sue dottrine son infallibili ed irreformabili solo se e là dove son desunte da pronunciamenti dogmatici;
  • quelle che non godono di supporti tradizionali costituiscono, nel loro complesso, un insegnamento autenticamente conciliare e quindi magisteriale, se pur non dogmatico, ingenerando così l'obbligo non della fede, ma d'un'accoglienza attenta e rispettosa, nella linea d'una leale e riverente adesione;
  • quelle, infine, la cui novità appare o inconciliabile con la Tradizione, o ad essa contrapposta, potranno e dovranno esser seriamente sottoposte ad esame critico sulla base della più rigorosa ermeneutica teologica.

Salvo ovviamente "meliore iudicio".


[1] Sacrosanctum Oecumenicum Concilium Vaticanum II, Constitutiones, Decreta, Declarationes, Poliglotta Vaticana 1966, p. 214-215.
[2] Ibid. p. 865-866.

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Le discussioni fra la Santa Sede e la Fraternità San Pio X: un punto di vista teologico


Ci si potrebbe interrogare sulla reale efficacia della "disputa teologica" e sui limiti effettivi del dibattito intorno al Concilio Vaticano II, che sembra comportare ancora oggi un certo numero di tabù insormontabili. Tuttavia non si può negare che la personalità di un Papa "universitario" abbia impegnato la discussione teologica in una prospettiva di ricerca della Verità che si sta rivelando molto meno schiava dei pregiudizi rispetto a qualche anno fa. Allo stesso tempo si deve rilevare, con un certo disappunto, che un certo pessimismo cronico di alcune frange del mondo tradizionale sembra voler chiudere gli occhi davanti all'apertura intellettuale che si annuncia all'orizzonte. L'Abbé Barthe, già noto ai nostri lettori per il suo intervento sul magistero ordinario infallibile, dipinge in questa sede il quadro di una tale apertura tra i teologi designati dalla Sede Apostolica, che lascia intravedere delle reali prospettive di approfondimento riguardo le questioni più dibattute. In particolare mette in evidenza la disponibilità della Santa Sede ad ascoltare le obiezioni relative a certi passaggi del Vaticano II, qualunque sia l'origine di esse, vengano dai teologi della scuola romana o persino dalla Fraternità San Pio X.

La ricerca della verità non si impone dei limiti "a priori". Nell'insieme il quadro che si delinea con questa nuova apertura è quello di un clima di ricerca incoraggiante, che sembra aver abbandonato lo sterile spirito della dialettica hegeliana, che finisce per lasciare a ciascuno la "propria" verità, per abbordare la discussione nello spirito di un'autentica "disputatio theologica" la quale deve condurre ad un'unica verità che le due parti devono abbracciare: lo scopo è di giungere, nei limiti del possibile, ad una reale soluzione dei problemi, senza velleitarismi. La Verità non appartiene agli uni o agli altri, la Verità deve essere di tutti ed è per tutti. La prospettiva descritta dall'Abbé Barthe si rivela di particolare interesse, specie nella misura in cui essa traccia i reali contorni del dibattito e mette in evidenza quello che oggi è probabilmente l'unico modo di affrontarlo.

Le discussioni fra la Santa Sede e la Fraternità San Pio X:

il Concilio visto
alla luce dell'interpretazione di Mons. Gherardini?


de l'Abbè Claude Barthe

Il punto di partenza di questo mio articolo - le cui riflessioni impegnano solo il sottoscritto - è la mia lettura nell’ultimo numero di «La Nef » (settembre 2009, p. 21), di un’intervista di Padre Manelli, Superiore dei Francescani dell’Immacolata, con Christophe Geoffroy e Jacques de Guillebon. Padre Manelli dichiara: “Egli (il Papa) cerca di evitare rotture, specialmente nella ricezione del Concilio Vaticano II – è la famosa “ermeneutica della riforma nella continuità”. Possono tuttavia esserci nel Concilio delle discontinuità su punti precisi, la cosa non avrebbe nulla di scandaloso, poiché quest’ultimo ha voluto essere “pastorale”, possono esservi degli “errori” che il Papa può correggere, come Mons. Gherardini ha dimostrato in uno studio che noi abbiamo pubblicato e che sarà presto tradotto in francese”.

Simili dichiarazioni, nuove non già per il loro tenore, quanto per la convinzione con la quale sono ormai formulate, sono in effetti come cristallizzate dalla “linea ermeneutica” che rappresenta Mons. Brunero Gherardini
[1], al quale “Disputationes Theologicae” a dato largo eco[2].
Essa rimette in auge, rinnovandola considerevolmente, quella della minoranza conciliare – minoranza di cui non si può dimenticare l’importante ruolo nell’elaborazione del testo di "transizione" o, detto in maniera più polemica, di "ambiguità" - e cioé in breve: un certo numero di passaggi del Vaticano II è suscettibile, non soltanto di precisazioni, ma anche eventualmente di future correzioni.
In maniera diversa, Mons. Nicola Bux, voce molto ascoltata alla Congregazione per la Dottrina della Fede, dichiarava all’agenzia “Fides” il 29 gennaio 2009 : « E' stato constatato che non vi sono differenze dottrinali sostanziali, e che il Concilio Vaticano II, i cui decreti furono firmati da Mons. Lefebvre, non poteva essere separato dalla Tradizione della Chiesa nella sua interezza. In uno spirito di comprensione, bisogna in seguito tollerare e correggere gli errori marginali. Le divergenze passate o più recenti, grazie all’azione dello Spirito Santo saranno risanate grazie alla purificazione dei cuori, alla capacità di perdono, e alla volontà di riuscire a superarle definitivamente ».
In questo contesto di libertà teologica e di effervescenza di sane “disputationes” alle quali questo sito vuol partecipare, le conversazioni dottrinali che verranno, implicitamente evocate da Mons. Nicola Bux, e che presto si apriranno tra i teologi che rappresentano la Congregazione della dottrina della fede e i teologi che rappresentano la Fraternità San Pio X, dovranno logicamente far progredire le cose. E’ in definitiva ciò che si può pensare, tenuto conto della qualità dei tre teologi, tutti e tre consultori alla Congregazione della Dottrina delle Fede, che dovrebbero partecipare alle discussioni per delegazione della Santa Sede (nella misura in cui le informazioni concernenti le nomine siano esatte e fermo restando che l’ “equipe” costituita possa essere modificata, ridotta o aumentata), sotto lo sguardo di Mons. Guido Pozzo, nuovo segretario della Commisione Ecclesia Dei.



Qual è il grado d’autorità di quei passaggi che presentano difficoltà nel Vaticano II?


Mons. Pozzo, che ha insegnato in maniera estremamente classica all’Università del Laterano, e che in “Le Figaro” dell’8 luglio diceva: “Il punto debole della Chiesa è la sua identità cattolica, spesso poco chiara”, e aggiungeva: “non è rinunciando alla propria identità che la Chiesa si metterà nelle migliori condizioni per dialogare con il mondo, è esattemente il contrario”, per poi concludere : “noi abbiamo bisogno di uscire da questa illusione ottimista, quasi irenica, che ha caratterizzato il post-concilio". Egli è tra l’altro uno specialista di quelle che vengono chiamate “note teologiche” (il valore normativo che si può attribuire ai testi dottrinali), in maniera tale che le discussioni non potranno evitare di occuparsi del « valore normativo » delle asserzioni discusse, del loro valore in relazione al contesto, dell’eventuale assenza dell’obbligo di fede che esse comportano[3].

Il Padre Charles Morerod, nuovo Segretario della Commissione teologica internazionale, che dovrebbe partecipare a queste discussioni, è un domenicano svizzero che ha fatto la propria tesi su Lutero e il Gaetano. E’ decano della facoltà di filosofia dell’Università San Tommaso d’Aquino, l’Angelico, redattore dell’edizione francese della rivista “Nova et Vetera”. Su richiesta della Congregazione della Dottrina della Fede, ha lavorato molto sulla questione dell’anglicanesimo. E’ vicino al Cardinal Cottier, gioisce della totale fiducia del Segretario di Stato, già Segretario del Sant’Uffizio e del Papa stesso. Nella sua importante bibliografia, si può citare: Tradition et unité des chrétiens. Le dogme comme condition de possibilité de l’œcuménisme
[4] ; Œcuménisme et philosophie. Questions philosophiques pour renouveler le dialogue[5].



E’ ormai notorio che il Padre Morerod abbia partecipato coi membri della Fraternità San Pio X a delle conversazioni dottrinali che si potrebbero definire “preliminari”. In una riunione pubblica tenutasi nell’ambito del Grec (Gruppo d’incontro tra cattolici), nei locali prossimi a Saint-Philippe-du-Roule, a Parigi il 26 febbraio 2008, nel quale dibatteva con il Padre Grégoire Célier, della Fraternità San Pio X, sul tema: « Rivedere e/o interpretare certi passaggi del Vaticano II », i due relatori erano arrivati ad un’interessante convergenza. Padre Morerod spiegava che gli sembrava: 1) che la possibilità di una ricezione del Vaticano II, « che si fondasse solidamente sullo stato del magistero anteriore », potrebbe perfettamente avere il suo posto nella Chiesa, avendo come condizione, a suo parere, che questa interpretazione non sia un rigetto del Vaticano II; 2) che poteva essere ammessa la non-confessione di certi punti del Vaticano II, con “una certa esigenza di rispetto” dell’insegnamento “ufficiale” del Vaticano II.



Alcune precisazioni interpretative dal sapore d’ “incompiuto”


Il Padre Karl Josef Becker, gesuita che dovrebbe anche lui partecipare a queste discussioni nel 1928, teologo molto amato da Benedetto XVI, è stato professore esterno alla facoltà di teologia dell’Università gregoriana (ha in particolare insegnato la teologia sacramentaria e scritto sulla giustificazione e l’eclesiologia). Ha pubblicato un articolo comparso ne «L’Osservatore Romano» del 5 dicembre 2006 [6], nel quale tutti hanno visto un’applicazione del discorso del Papa del dicembre 2005 e che menzionerò più avanti. Egli difendeva la tesi che il “subsistit in” di Lumen Gentium 8 (la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica) non vuol dire altro che il tradizionale: est (la Chiesa di Cristo è puramente e semplicemente la Chiesa Cattolica). E addirittura, secondo la rilettura molto volontarista del padre Becker, il “subsistit in” sarebbe destinato a rinforzare l’est, da cui ne risulterebbe, secondo la sua valutazione, e prendendo di mira la parte dell’ecumenismo conciliare che è più difficile da mettere in accordo con la dottrina tradizionale, che l’ecclesialità parziale delle chiese separate non è sostenibile [7].

Fernando Ocáriz, il terzo teologo che dovrebbe ugualmente far parte dell’equipe di Pozzo per partecipare ai dibattiti teologici, è nato nel 1944, vicario generale dell’Opus Dei, ha insegnato alla Pontificia Università della Santa Croce, è l’autore di numerosissime pubblicazioni.



La sua designazione è da attribuire certamente al suo interesse per la questione dell’interpretazione omogenea della dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis Humanae, a proposito del punto più sensibile –l’apparente sostituzione della teologia della tolleranza con quella della libertà in materia di "diritto pubblico della Chiesa[8]" – sul quale ha lui stesso scritto[9]. Si può tra l’altro senza grandi rischi affermare che egli è per la formula che si può definire “di transizione” sulla libertà religiosa nel Catechismo della Chiesa Cattolica[10].
Quanto al Padre Charles Morerod, approfittando della parte importante che ha assunto nei lavori dell’Anglican-Roman Catholic International Commission (ARCIC), ha dimostrato nel suo Œcuménisme et philosophie. Questions philosophiques pour renouveler le dialogue[11], che un dialogo ecumenico serio avrebbe dovuto essere integrato da chiarimenti sui presupposti filosofici delle posizioni teologiche dei cristiani separati, presupposti che possono largamente spiegare la loro incomprensione dei dogmi della Chiesa.
Ma è soprattutto il suo Tradition et unité des chrétiens. Le dogme comme condition de possibilité de l’œcuménisme
[12], che merita una particolare attenzione per l’argomento che ci interessa. Quest’opera rappresenta uno sforzo considerevole d’interpretazione tradizionale dell’ecumenismo portata a un grado elevatissimo d’acume e di agilità, perché non mira nientemeno che a dimostrare come il dogma cattolico in generale e quello dell’infallibilità pontificia in particolare sono….i motori più efficaci dell’ecumenismo. Dimostrazione paradossale (paradossale nella misura in cui si sostiene comunemente, per gioirne o per lamentarsene, che l’ecumenismo cerca d’attenuare i lati spigolosi del dogma cattolico).
Ora il paradosso si raddoppia quando la pia interpretatio del saggio domenicano fa una lettura tomista di un punto di vista spesso criticato nel testo conciliare, la « gerarchia delle verità ».
Secondo lui, se si accorda ai separati che, dalle due parti, c’è stata cattiva comprensione delle posizioni rispettive, bisognerà pronunciare alla fine una formula obbligatoria per tutti - altrimenti detto, un dogma - che manifesti che ormai ci si capisce perfettamente e che ci si accorda univocamente nell’esprimere la fede degli Apostoli.
Riguardo il decreto conciliare sull’ecumenismo al n. 11 § 3
[13], ricorda che la Tradizione cattolica, specie ricorrendo a San Tommaso, ha sempre affermato che il rifiuto di credere in un qualsivoglia articolo di fede porta a rifiutare l’autorità di Dio da cui dipende la fede, e annichila di fatto il motivo di credere e quindi polverizza la fede.
Tuttavia, come espone anche San Tommaso, l’insieme delle verità da credere si organizza secondo un certo ordine, che non sopprime in nessun modo l’importanza di ogni articolo. Il Padre Morerod spiega, che così intesa, la “gerarchia di verità” non è in fondo niente altro che un metodo di catechesi elementare per spiegare, per esempio, la Maternità divina a partire dall’Incarnazione, un modo pedagogico di portare alla fede cattolica coloro che se ne sono allontanati.


Un nuovo contesto teologico e le sue virtualità

Le dimostrazioni in forma di precisazioni dei Padri Becker, Ocáriz, Morerod e molti altri ancora sono molto seducenti. L’inconveniente è che esse sono rese necessarie perché i testi in questione (riguardo ciò che ho evocato: il n.8 di Lumen Gentium, il n. 2 di Dignitatis humanae e il n.11 di Unitatis Redintegratio, ma esistono altri luoghi di difficoltà
[14]) non contengono le precisazioni che avrebbero evitato tutte le interpretazioni devianti[15].
Non è forse, più in generale, la grande difficoltà che solleva tale o tal’altra asserzione del Vaticano II, e nello specifico quella di aver avuto ciò che potremmo qualificare come un «velare nuovamente» (ndt “réenveloppement du dogme” nell’originale), facendo allusione alla teoria dello “svelamento” (ndt “désenveloppement” nell’originale), che rappresenta, secondo il Card. Journet, la funzione dogmatica (ndt si fa notare che l’espressione désenveloppement\svelamento, in francese è prossima per il suono, ma distante per significato da quella di développent\sviluppo del dogma, tanto evocata dall’evoluzionismo modernista, ed è quindi carica di significato).


Ma prima di tutto bisogna far notare, che il fenomeno innescato dal discorso indirizzato il 22 dicembre 2005 da un Papa teologo, Benedetto XVI, alla Curia romana, sulla buona interpretazione del Vaticano II, si situa in una fase storica del « ritorno al dogma » particolarmente interessante. Si potrebbe del resto difendere che l’esercizio del suo incarico di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, specialmente dal 1985 (con la pubblicazione di Inchiesta sulla Fede) fino al 2005, ha costituito una specie di pre-pontificato di reinterpretazione e d’inquadramento dei punti sensibili del Vaticano II.
Al limite, ciò che si dice e scrive oggi liberamente un pò dappertutto era perfettamente conosciuto: cioè a dire che l’autorità dei passaggi del Vaticano II che sono apparsi o paiono, prout sonant, non accordarsi con le asserzioni dogmatiche anteriori, non avevano niente di dogmatico. Allo stesso modo si potrebbe dire che le reinterpretazioni in forma di precisazioni ortodosse di quei passaggi, le quali oggi si moltiplicano da parte di penne autorizzate a parlare, sono sempre esistite. Ma è permesso far notare che queste due vie coniugate, le quali prendono oggi un carattere quasi ufficiale, restano in una certa misura insoddisfacenti: la prima via (la non infallibilità dei punti contestati) perchè essa è puramente negativa e non regola il fondo del dibattito; la seconda (la reinterpretazione tomista di questi punti) perché appare relativamente artificiale o perché essa è in ogni caso e con tutta evidenza a posteriori.
Ma tuttavia come nella via spirituale l’accesso alle vie della mistica non può fare economia delle purificazioni ascetiche, tutta l’attuale effervescenza scatenata o attivata dal discorso teologico liberatore del 2005, ha un valore preparatorio sul lungo termine – e senza dubbio sul lunghissimo termine – indispensabile. Mi sarà concesso di dire che la presente situazione magisteriale presenta (parlo sempre in questo caso, unicamente, dei punti sensibili del Vaticano II, e in nessuna maniera dei progressi indiscutibili di questo Concilio, come il decreto Ad gentes, e, a mio avviso la costituzione Dei Verbum) è abbastanza inedito nella storia dei dogmi . Non si tratta , come classicamente, di eresie esterne e di condanne interne, ma di flussi dottrinali interni e del rigetto (fino all’ora presente) all’esterno della loro contestazione. Si è in presenza di una crisi che assomiglia se si vuole ad una crisi – molto tardiva, è vero – d’adolescenza, nella quale il meglio e il peggio si mescolano per accedere alla maturità.
Il peggio sarebbe di restare in mezzo guado - per esempio: Unitatis redintegratio non assegna una finalità chiaramente precisata in termini dogmatici all’ecumenismo. Il meglio è nella materia nuova che è emersa – parlo sempre a titolo personale - e che fa si che, non dispiaccia a coloro che vorrebbero ritornare allo “status quo ante”, è impossibile pretendere per esempio di cancellare l’ecumenismo dall’insegnamento della Chiesa. Più esattamente, bisognerà, dopo un lavoro teologico che non si è mai interrotto da quarant’anni, ma al quale un Papa teologo permette uno sviluppo libero e insperato, fare dell’ecumenismo un insegnamento della Chiesa in quanto tale. Le difficoltà di questi testi che chiamo “d’adolescenza” (poiché mi è stato ovunque rimproverato l’appellativo di “magistero incompiuto”) possono essere allora capiti come degli interrogativi.
Mi spiego approfondendo questo esempio dell’ecumenismo. Leggendo il n. 3 di Unitatis Redintegratio, si può capire questo testo come il riconoscimento tradizionale dell’esistenza di elementi della Chiesa cattolica, come il Battesimo, la Sacra Scrittura, a volte l’Ordine, in seno alle comunità separate: "Tra gli elementi o i beni nell’insieme dei quali la Chiesa si edifica ed è vivificata, alcuni e anche molti, e di grande valore, possono esistere al di fuori dei limiti della Chiesa Cattolica". Ma Unitatis Redintegratio aggiunge, ciò che apporta una difficoltà considerevole, una certa legittimazione delle comunità separate in quanto tali: «Di conseguenza , queste Chiese e comunità separate , sebbene noi crediamo che soffrano di deficienze, non sono affatto sprovviste di significato e di valore nel mistero della salvezza. Lo spirito di Cristo, in effetti, non rifiuta di servirsi di esse, la forza dei quali deriva dalla pienezza di grazia e di verità che è stata affidata alla Chiesa Cattolica”. I termini del testo sembrano dire dunque che in quanto separate queste Chiese sarebbero delle “continuazioni” (ndt “relais” nell’originale) della Chiesa Cattolica. La qual cosa sarebbe, se tale era la vera interpretazione, in rottura con l’insegnamento anteriore.
E tuttavia è necessario convenire che se – conformemente alla dottrina tradizionale – alcuni separati in buona fede accedono alla salvezza attraverso questi elementi cattolici che si rinvengono de facto nelle loro comunità, non è la loro appartenenza concreta a queste comunità separate che può (nell’insondabile mistero di Dio) apportar loro questi elementi cattolici salutari. Allo stesso tempo, è vero, che questa appartenenza è anche il principale ostacolo oggettivo al loro ritorno nell’unità della Chiesa. E’ chiaro che il dogma del passato non ha fatto proprio esplicitamente questo fatto, e cioè che gli elementi cattolici che esistono nelle comunità separate possano essere strumento della grazia per i cristiani separati in buona fede e dunque che essi appartengono in voto alla Chiesa di Pietro, né che essi siano in attesa di essere rivivificati dal ritorno alla Chiesa cattolica dei cristiani separati, i quali di tali elementi beneficiano (cosa che non ho in nessun modo la pretesa di spiegare in poche righe). In fondo è come se l’ “interrogativo” del n. 3 di Unitatis Redintegratio testimoniasse di due deficienze, una riguardo il passato che diceva troppo poco, e l’altra riguardo il presente che, di contro, dice troppo.


Nota della redazione: Per eventuali citazioni invitiamo sempre a rifarsi al testo nella lingua originale dell'autore, nella fattispecie il francese, in questo spirito le note non sono state tradotte.

[1] Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Case Mariana Editrice, 25 mars 2009.
[2] Mons. Brunero Gherardini, « Quale valore magisteriale per il Concilio Vaticano II », da Disputationes Theogicae, 5 maggio 2009 ; Claude Barthe, « Il Magistero ordinario infallibile. L’abbé Barthe difende la posizione di Mons. Gherardini », 18 giugno 2009.
[3]. Sur la manière dont la FSSPX décline le thème de la non-infaillibité des points contestés de Vatican II : Jean-Michel Gleize, « Le concile Vatican II a-t-il exercé l’acte d’un véritable magistère ? » et Alvaro Calderón « L’autorité doctrinale du concile Vatican II », dans Magistère de soufre (Iris, 2009, pp. 155-204 et 205-218)
[4]. Parole et Silence, 2005.
[5]. Parole et silence, 2004.
[6]. « Nel clima dell’Immacolata i quarant’anni del Concilio. Subsistit in (Lumen gentium, 8) », pp. 1, 6-7.
[7]. Un autre ancien professeur de l’Université Grégorienne, le P. Francis A Sullivan, avait d’ailleurs contesté cette interprétation dans « A Response to Karl Becker, S.J., on the Meaning of Subsistit In » Theological Studies, vol. 67 (2006), pp. 395-409. Le P. Sullivan, d’une tendance opposée à celle du P. Becker, ne croit cependant pas davantage que lui à l’autorité infaillible de Vatican II. Dans la ligne Sullivan, mais dans une perspective tout autre que le débat sur les points contestés de Vatican II, la bibliographie sur la relativisation de l’autorité magistérielle dans la théologie actuelle est considérable. En français : un classique, Jean-François Chiron, L’infaillibilité et son objet. L’autorité du magistère infaillible de l’Église s’étend-elle aux vérités non révélées ? (Cerf, 1999) ; et la plus récente contribution : Grégory Woimbée, Quelle infaillibilité pour l’Église ? De jure veritatis (Téqui, 2009).
[8]. Dernier ouvrage paru donnant un bref, mais très substantiel résumé du débat : Guillaume de Thieulloy, « Vers une relecture de Vatican II), dans La théologie politique de Charles Journet (Téqui, 2009, pp. 149-163). Pour l’état le plus complet et le plus parfaitement référencé de la doctrine d’avant Dignitatis humanae, voir le chapitre 9 du schéma De Ecclesia (Documenta oecumenico Vaticano II apparando, Constitutio De Ecclesia, c. 9, traduction dans Claude Barthe, Quel avenir pour Vatican II. Sur quelques questions restées sans réponse (François-Xavier de Guibert, 1999, pp. 163-179).
[9]. « Délimitación del concepto de tolerancia y su relación con el principio de libertad », Scripta Theologica 27 (1995), pp. 865-884. Cf. sur cette question : P. Basile Valuet, osb, La liberté religieuse et la Tradition catholique, éditions Sainte-Madeleine, 1998, dont il faut souligner qu’il ne semble pas vouloir assimiler l’enseignement conciliaire au magistère ordinaire universel. Tiennent, en revanche, pour la qualification de magistère ordinaire et universel à la doctrine conciliaire de la liberté religieuse (dont ils donnent des interprétations catholiques aux nuances diverses, qu’il n’est pas possible de rapporter ici) : Brian W. Harrison, Le développement de la doctrine catholique sur la liberté religieuse (Dominique Martin Morin, 1988) ; de nombreux articles de Dominique-M. de Saint-Laumer, par exemple « Liberté religieuse. Le débat est relancé », Sedes Sapientiae, 25, pp. 23-48 ; Bernard Lucien, : Les degrés d’autorité du Magistère (La Nef, 2007). [10]. « Le devoir social de religion et le droit à la liberté religieuse », nn. 2104-2109.
[11]. Op. cit., Parole et silence, 2004.
[12]. Op. cit., Parole et Silence, 2005.
[13]. « En exposant la doctrine, ils [les théologiens catholiques] se souviendront qu’il y a un ordre ou une “hiérarchie” des vérités de la doctrine catholique en raison de leur rapport différent avec les fondements de la foi chrétienne ».
[14]. Le n. 2 de la Déclaration Nostra aetate : « « Elle [l’Église catholique]considère avec un respect sincère — observantia : respect religieux — ces manières d’agir et de vivre, ces règles et doctrines qui, quoiqu’elles diffèrent en beaucoup de points de ce qu’elle-même tient et propose, cependant apportent souvent un rayon de la Vérité qui illumine tous les hommes ».
[15]. En ce qui concerne l’ensemble des difficultés levées par la FSSPX et la manière dont elle les présente, on peut notamment lire le livre collectif : Magistère de soufre, op. cit. (Iris, 2009).





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Concilio pastorale? = non tutto vincolante!


Un appassionante articolo di Roberto De Mattei sulla storiografia dell'ultimo Concilio. Dove è significativo, tra l'altro, che argomenti di questo spessore, e di questo genere, appaiano su quotidiani di primaria diffusione nazionale e non più solo in bollettini di nicchia, snobbati dai più. Davvero da questi segni appare con evidenza che non solo l'atmosfera: anche il clima, sta cambiando. E questo spiega molte reazioni scomposte del campo avverso: al disprezzo e al fastidio è subentrata la paura e, presto, il panico.

DUE RILETTURE DEL VATICANO II RISCOPRONO “L’ININTERROTTA TRADIZIONE ECCLESIALE” E IL PESO NON DOGMATICO DEL CONCILIO

Roma. Il Concilio Vaticano II, fino a ieri appaltato alla lettura storiografica della “scuola di Bologna”, inizia a essere oggetto di una nuova fase di riflessione storico-critica, che prende le mosse dall’ormai celebre discorso alla Curia romana di Benedetto XVI del 22 dicembre 2005. Lo stesso Papa Ratzinger è ritornato più volte sull’argomento: l’ultima volta nel discorso ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per il Clero del 16 marzo 2009, in cui il Papa ha ribadito la necessità di rifarsi “all’ininterrotta Tradizione ecclesiale” e di “favorire nei sacerdoti, soprattutto nelle giovani generazioni, una corretta ricezione dei testi del Concilio Ecumenico Vaticano II, interpretati alla luce di tutto il bagaglio dottrinale della chiesa”. L’unica maniera di rendere credibile il Vaticano II - ha sempre sostenuto il cardinale Ratzinger e sostiene oggi Benedetto XVI - è presentarlo come una parte dell’intera e unica Tradizione della chiesa e della sua Fede. In questo solco si è inserito il recente libro “Vatican II. Renewal within Tradition” (Oxford University Press 2008) di Matthew Lamb e Matthew Levering, due docenti dell’Università Ave Maria in Florida. Al discorso di Benedetto XVI, che apre il volume, seguono una serie di densi contributi, rispettivamente dedicati alle quattro costituzioni conciliari, ai nove decreti e alle tre dichiarazioni del Vaticano II.

I nomi degli autori sono di prestigio: tra essi, due cardinali americani (Avery Dulles e Francis George), noti teologi, come il domenicano dell’Angelicum padre Charles Morerod [ora incaricato dei colloqui con la FSSPX], studiosi di peso come il filosofo del diritto Russell Hittinger. La tesi di fondo è che il Vaticano II può essere inteso solo in continuità con la tradizione bimillenaria della chiesa, secondo la formula di Leone XIII “vetera novis augere et perficere”. La dimostrazione si svolge sul piano di un’analisi testuale dei documenti, considerata naturalmente riduttiva da chi sostiene la priorità qualitativa dell’”evento” conciliare rispetto alle sue decisioni dottrinali che, come ha scritto Giuseppe Alberigo, “non possono essere lette come astratti dettati normativi, ma come espressione e prolungamento dell’evento stesso”.

E’ in questo dibattito che si inserisce ora il recente libro di monsignor Brunero Gherardini, “Concilio ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare”, edito dalla Casa Mariana Editrice di Frigento dei Francescani dell’Immacolata. Un’opera la cui importanza deriva, oltre che dal suo contenuto, dalla figura stessa dell’autore, decano della Pontificia Università Lateranense, postulatore della causa di canonizzazione di Pio IX, direttore della rivista “Divinitas” ed ultimo esponente della grande “scuola teologica romana”.

L’autorità del volume è accresciuta dalla prefazione di monsignor Mario Oliveri, vescovo di Albenga e dalla premessa di monsignor Albert Malcolm Ranjith, [ex] segretario della Congregazione del Culto Divino e arcivescovo di Colombo (Sri Lanka). Tema centrale del volume di monsignor Gherardini è quello della natura pastorale del Concilio, un punto su cui i fautori delle pur diverse tesi sostanzialmente concordano. Il Vaticano II fu un concilio pastorale: tale lo dissero sempre Giovanni XXIII, Paolo VI e i suoi successori, fino all’attuale Pontefice. Ma quali sono le conseguenze di questa “pastoralità”, che è, in ultima analisi, la relazione della chiesa con il mondo?

“Costituzioni dogmatiche”

Il Vaticano II, chiarisce Gherardini, in quanto “pastorale”, fu privo di un carattere dottrinale “definitorio”. L’assenza di intenti definitori sembra contraddetta dall’aggettivo “dogmatica”, con cui il Concilio qualifica due sue importanti costituzioni: la Lumen Gentium e la Dei Verbum. In realtà, come spiega l’autore, di esse si parla come di “costituzioni dogmatiche” solo perché esse recepirono e riproposero come verità di fede dogmi definiti in precedenti Concili (pp. 50-51). Il fatto che solo due documenti conciliari furono definiti dogmatici, rende comunque evidente che tale carattere non ebbero gli altri documenti. Il Concilio Vaticano II ha certamente un suo specifico insegnamento, non privo di autorevolezza, ma come spiega Gherardini, “le sue dottrine, non riconducibili a precedenti definizioni, non sono né infallibili né irreformabili, e dunque nemmeno vincolanti; chi le negasse non per questo sarebbe formalmente eretico. Chi poi le imponesse come infallibili ed irreformabili andrebbe contro il Concilio stesso” (p. 51). Ne consegue che è lecito riconoscere al Vaticano II un’indole dogmatica solamente là dove esso ripropone come verità di fede dogmi definiti in precedenti concili. “Le dottrine, invece, che gli son proprie non potranno assolutamente considerarsi dogmatiche, per la ragione che son prive dell’ineludibile formalità definitoria e quindi della relativa ‘voluntas definiendi’” (p. 51). Non si tratta di mettere in soffitta l’ultimo concilio, o di liquidarlo, “si tratta solamente di rispettare la natura, il dettato, le finalità e la pastoralità che esso stesso rivendica” (p. 24).
 
Benedetto XVI afferma che il Concilio Vaticano II deve essere letto alla luce della Tradizione, rivendicando un “ritorno alla verità del testo”, al di là delle intenzioni o delle conseguenze dell’”evento”. Tuttavia, secondo monsignor Gherardini, i testi presentano una loro ambiguità e possono essere oggetto di critica, storica e teologica. Un tipico esempio è la costituzione che fu detta “pastorale”,
Gaudium et Spes, del 7 dicembre 1965, sulla chiesa nel mondo contemporaneo. La parola “pastorale” qualifica il suo approccio “umanistico” di simpatia, di apertura, di comprensione verso l’uomo, la sua storia e “gli aspetti della vita odierna e della società umana”, con particolare attenzione ai “problemi che sembrano oggi più urgenti”. Il mito ottocentesco e novecentesco del Progresso permea il documento: progresso della cultura e delle istituzioni (n. 53); progresso economico e sociale (n. 66); progresso tecnico (n. 23); e più in generale “progresso umano” (nn. 37, 39, 53, 72). Si tratta di un cristianesimo di nuovo conio che allarga i propri confini “ai cristiani anonimi di Karl Rahner e a quelli impliciti di E. Schillebeeckx, oltre che ai cristiani finalmente maturi dell’assise conciliare” (p. 72). La Gaudium et Spes, pur contenendo un’implicita dottrina, è tuttavia un documento privo di valore vincolante, nei punti in cui si discosta dalla Tradizione della chiesa. Quando infatti un Concilio presenta sé stesso, il contenuto e la ragione dei suoi documenti sotto la categoria della pastoralità, autoqualificandosi come pastorale, esclude in tal modo ogni intento definitorio: “E perciò non può pretender la qualifica di dogmatico, né altri posson conferirgliela” (p. 23). A differenza di tutti gli altri Concili Ecumenici della storia, il Vaticano II non è caratterizzato da una sua incidenza dottrinale - e ancor meno dogmatica - ma dalle novità di atteggiamento, di valutazione, di movimento e di azione introdotte nei gangli vitali della chiesa (p. 65). Il paradosso è consistito in questo: si è voluto elevare a dogma un Concilio che aveva apertamente chiarito di non voler affermare nessun principio assoluto.

Ciò che è pastorale va giudicato non tanto nei principi quanto nei risultati concreti. Monsignor Gherardini, riecheggiando quanto già nel 1985 il cardinale Ratzinger affermava nel suo
“Rapporto sulla fede”, rileva che il disastro ecclesiale, dal Vaticano II a oggi, ha assunto, con progressione crescente, proporzioni gigantesche. “A un osservatore attento e soprattutto a un cattolico coerente non dovrebb’esser difficile prender atto del disastro e riconoscerlo fra le pieghe di quel relativismo, che paragonerei al montare di uno tsunami limaccioso e travolgente” (p. 93). Nella supplica al Santo Padre che conclude il suo libro, monsignor Gherardini suggerisce come necessaria un’attenta e scientifica analisi dei singoli documenti del Concilio, del loro insieme e d’ogni loro argomento, nonché delle loro fonti immediate e remote: un’analisi che dovrebbe essere comparativa con quella degli altri venti concili, allo scopo di provare se il Vaticano II sia nel solco della continuità più o meno evolutiva, o sia invece con essa in parziale o totale rottura. Il Concilio Vaticano II, infatti, non è più grande della chiesa né della sua Tradizione.

Fonte: Il Foglio 15.9.09, via Papa Ratzinger blog

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21/09/2009 16:51

Il magistero ordinario infallibile, l’Abbé Barthe difende la posizione di Mons. Gherardini



La nostra redazione ha ricevuto un’obiezione di un certo interesse da parte di uno dei nostri lettori in relazione al rapporto tra possibilità di critica teologica dei testi del Vaticano II e sottomissione dell’intelligenza al Magistero ordinario infallibile; si tratta di un dibattito annoso e particolarmente spinoso per l’esiguità di pronunciamenti sulla natura e sulle note del magistero ordinario, tuttavia cercheremo di abbordarne la complessità con una serie di interventi. Ringraziamo il contraddittore, che preferisce restare anonimo, per il suo intervento e invitiamo i nostri lettori che vogliano esprimere una diversa visione teologica a partecipare alla disputa.


Il testo del contraddittore :

Paolo VI definì, in un discorso del 12 gennaio 1966, il Magistero dell'ultimo Concilio come 'Magistero ordinario supremo'. Ebbene, il Magistero ordinario universale (se non si vorrà riconoscere come tale quello del Concilio si dovrà farlo rispetto al Magistero di tutti i vescovi sparsi per il mondo in unione con il Papa che da quarant'anni ha per oggetto le dottrine del Vaticano II), laddove proponga dottrine fondate sulla divina Rivelazione, è totalmente vincolante. Lo afferma il Concilio Vaticano I:

"Con fede divina e cattolica deve credersi tutto ciò che è contenuto nella parola di Dio scritta o tramandata, e che è proposto dalla chiesa come divinamente rivelato sia con giudizio solenne, sia nel suo magistero ordinario universale".

Dunque, come accade ad es. per la dottrina riguardante la libertà religiosa contenuta nella dichiarazione Dignitatis Humanae (I, 2), da parte del fedele vi è l'obbligo di credere, di esercitare l'atto di Fede e non solamente l'obbligo di avere per essa profondo rispetto.

L'argomento è oggetto di scontri teologici piuttosto accesi, specie se si valutano alcune scuole teologiche, entrambe di tendenza tradizionale. La nostra redazione ha chiesto un parere ad un teologo che ha a lungo studiato la problematica in questione l'Abbé Claude Barthe. Nato nel 1947, laureato in storia e diritto, ha studiato al seminario tradizionale di Econe e all'Istituto Cattolico di Tolosa; ordinato sacerdote nel 1979 ha fondato e cura tuttora la rivista "Catholica". Tra le numerose monografie ricordiamo "Propositions pour une paix de l'Eglise" ("Proposte per una pace della Chiesa"), sulla situazione teologica e liturgica della Chiesa di oggi, ma anche opere di filologia come "Le IV livre du Rationel de Guillaume Durand de Mende", così come l'edizione francese commentata del "Cerimoniale Episcoporum" voluto dal Concilio di Trento; il suo ultimo lavoro, raccoglie uno studio sulle tendenze odierne tra politica ecclesiastica e scuole teologiche: "Les oppositions romaines à Benoit XVI" ("Le opposizioni romane a Benedetto XVI"). Conosciuto per la rapida intelligibilità delle sue tesi, l'abbé Barthe è anche apprezzato per l'immediatezza concisa dei suoi interventi sempre congiunti ad una ricerca approfondita.

*********************************************

CONSIDERAZIONI SUL MAGISTERO ORDINARIO INFALLIBILE

dell'Abbé Claude Barthe


(traduzione dall'originale francese di G. Lenzi)


Vorrei in questa sede fare qualche riflessione sulle chiare analisi teologiche che Mons. Brunero Gherardini, ha espresso su "Disputationes Theologicae", le quali hanno anticipato e riassumono quelle del suo libro apparso in questi giorni su questa capitale questione, "Concilio Ecumenico Vaticano II, una discorso da fare". Allo stesso tempo questi miei accenni già pubblicati in buona parte sulla rivista "Objections", vogliono essere una risposta all'obiezione che è stata mossa a Mons. Gherardini su queste stesse pagine.


Bisogna ricordare con fermezza i diversi gradi che impegnano l'insegnamento supremo del Papa solo o del Papa e dei vescovi uniti a Lui. E' necessario soprattutto specificare che il magistero più elevato deve collocarsi intorno a due gradi di autorità:


1) Quello delle dottrine irreformabili del Papa solo oppure del collegio dei Vescovi (Lumen gentium N. 25 § 2, 3). Questo magistero infallibile al quale bisogna " obbedire nella obbedienza della Fede", può essere a sua volta proposto sotto due forme:


a) Le dichiarazioni solenni del Papa solo o del Papa e dei vescovi riuniti in Concilio.


b) Il magistero ordinario e universale(Dz 3011).


2) Secondariamente quello degli insegnamenti del Papa o del Collegio dei Vescovi col Papa, senza intenzione di proporlo in maniera definitiva, ai quali è dovuto "un assenso religioso della volontà e dello spirito" ( Lumen gentium N.25 § 1). Si parla in questo caso, in genere, di "magistero autentico", sebbene l'espressione non sia stata fissata in maniera assoluta.


Il contraddittore, come già l'aveva fatto notare l'Abbé Bernard Lucien, nel suo libro "Les degrès d'authorité du magistére", difende il magistero ordinario ed universale, magistero infallibile misconosciuto, schiacciato se così possiamo esprimerci, fra il magistero solenne infallibile ed il magistero autentico non infallibile. Questa giusta rivalutazione tuttavia non obbliga assolutamente a farvi rientrare tutto l'insieme dei testi del Vaticano II, né tutte le parti di ciascuno dei testi e specialmente le dottrine che sono state oggetto di molte discussioni, nello specifico:


a) Il passaggio dalla dottrina tradizionale della tolleranza a quella della libertà religiosa contenuta nel n. 2 della dichiarazione "Dignitatis Humanae" del Vaticano II;


b) La riverenza da portare alle religioni non cristiane nel n. 2 della dichiarazione "Nostra Aetate";


c) L'ecclesialità "imperfetta" che sembrerebbe essere accordata alle religioni cristiane non cattoliche nel numero 3 del decreto "Unitatis redintegratio".


I padri conciliari non intesero mai innalzare questi propositi, così come altri, la cui formulazione è evidentemente incompiuta, a livello di magistero infallibile da riceversi nell'obbedienza della fede. Il fatto che essi non siano connessi alla professione di Fede Cattolica è quindi una questione di buon senso.


L'infallibilità del Concilio è paradossalmente un tema tradizionalista


In effetti la questione tanto discussa non è stata mai sollevata altrove se non nel mondo tradizionalista, di cui una parte di teologi, in maniera senza dubbio molto bene intenzionata, ma di cui in fin dei conti non si riesce a percepire l'utilità, vorrebbe che queste dottrine si accordassero perfettamente con il magistero anteriore. Ma a dire il vero mai nessuna istanza romana ha preteso la cosa ed ancor meno ha preteso farne una dottrina infallibile! D'altro canto i teologi "non tradizionalisti" non sono obnubilati da "Dignitatis humanae", ma da "Humanae vitae". La loro letteratura a proposito dell'autorità del magistero è immensa, ma essa si occupa – o almeno si occupava fino a "Ordinatio sacerdotalis" sull'impossibilità di ordinare preti le donne – solo del valore dell'enciclica di Paolo VI sull'immoralità intrinseca della contraccezione. Certamente qualche rarissimo autore, tacciato di massimalismo, ha sostenuto che la dottrina del N. 14 di "Humanae vitae" fosse Magistero Ordinario Universale (espressa dal Papa ed approvata dai vescovi in comunione con Lui), magistero di conseguenza infallibile: si tratta dei moralisti C. Ford e Germain Grisez, ed del P. Ermenegildo Lio, i quali hanno inutilmente fatto pressione affinché questa infallibilità fosse riconosciuta ufficialmente.


Per tutti gli altri teologi, "Humanae vitae" non voleva essere altro che "magistero autentico" (e ciò ci appare come un fatto storicamente certo, anche se noi consideriamo, da parte nostra, che questa dottrina in sé stessa sia di fatto infallibile, in quanto conseguenza diretta della legge naturale).


I teologi della contestazione sostengono che una dottrina non sia vincolante se semplicemente autentica. I teologi, invece, favorevoli a "Humanae vitae", al seguito di Giovanni Paolo II, affermano che benché non sia infallibile, sia vincolante in maniera assoluta. Ma costoro hanno dovuto ammettere che può essere prudentemente discussa. Così anche S.E.R. Mons. William Levada, allora Arcivescovo di Portland: " Visto che l'insegnamento certo, ma non infallibile, non comporta l'assoluta garanzia a proposito della sua veridicità, è ben possibile, per una persona che sia arrivata a delle ragioni veramente convincenti, giustificare la sospensione dell'adesione."


Se quindi "Humanae vitae", che è nella linea della continuità con l'insegnamento anteriore a riguardo della condanna della contraccezione, non è stata mai proposta come infallibile, a maggior ragione "Dignitatis humanae", la quale propone in una maniera che può essere intesa in diversi modi, una dottrina che ha tutte le apparenze di una novità, non può avere questa pretesa. L'argomento, sicuramente insufficiente se preso in se stesso, ci rimanda ad un'inquietudine delle origini per quanto riguarda l'infallibilità, la quale é introdotta dal famoso fine semplicemente "pastorale" del Concilio.


Il contesto: un Concilio "semplicemente pastorale", cioè "semplicemente autentico"


All'origine di tutto c'è la dichiarazione preliminare di Giovanni XXIII nel suo discorso " Gaudet mater Ecclesia" del 11 Ottobre 1962: visto che una dottrina infallibilmente definita è già stata sufficientemente espressa dai concili precedenti, ora non resta che presentarla "nella maniera che corrisponde alle esigenze della nostra epoca" e dare attraverso quest'azione "un insegnamento di carattere soprattutto pastorale". Il punto cruciale è dunque sapere se il Concilio abbia potuto essere infallibile senza volerlo veramente e ciò per il solo fatto che pronunciava delle dottrine che adempivano oggettivamente le "condizioni" tipiche degli enunciati che devono esse fermamente accettati e creduti. Ma bisognerebbe anche valutare la reale pertinenza della questione.


Il Vaticano II è incontestabilmente un concilio eccezionale, unico nel suo genere, in tutta la storia della Chiesa, il quale ha provocato un sommovimento senza eguali nella fede e nella disciplina. Non si può dubitare che richiami un certo numero di insegnamenti tradizionali (come quello dell'infallibilità per esempio), e che abbia prodotto dei bei testi (sulle missioni o sulla Rivelazione per esempio). Ma è impossibile ragionare teologicamente fuori dal contesto pregnante del suo svolgimento e delle sue conseguenze, nel quale il fatto di volere attenuare le chiusure della dottrina tradizionale sembrava naturale nonché necessario per realizzare una "apertura verso il mondo". In questo contesto "pastorale", i Padri conciliari, coltivando una certa ambiguità che permetteva di scioccare un po' meno i propri contemporanei, i quali giudicavano come "tirannico" per le coscienze moderne, il potere di "scogliere e legare", hanno dovuto semplicemente lasciarsi trasportare dalla corrente generale. Questo Concilio ha si insegnato, ma "pastoralmente". Si può fare un parallelo in chiave analogica (un po' lontano ma che può illuminarci) con i sacramenti. La loro validità è dipendente dell'uso "serio" fattone dal ministro e richiesto dal rito essenziale (materia e forma), uso che manifesta oggettivamente che ha l'intenzione di fare ciò che la Chiesa vuol fare. Un uso "serio", cioè grazie al quale è visibile, secondo il senso comune, che il ministro vuole veramente compiere il rito efficace. Così un prete che, nel contesto di una semplice lezione di catechismo, compie i gesti e pronuncia le parole di un sacramento ciononostante non compie l'atto sacramentale. Supponiamo, per favorire la nostra riflessione, che un sacerdote, in un contesto ambiguo, lasci intendere almeno come idea diffusa, che non vuole veramente compiere un atto sacramentale formale (cosa che d'altronde capita oggigiorno in certe cerimonie). Quest'atto sarebbe almeno di validità discutibile. Mutatis mutandis, la situazione a-magisteriale che ha preceduto il Vaticano II rende almeno dubbia una delle specificità del Concilio, e non la meno importante, quella della volontà del Papa e dei vescovi sull' obbligo all'adesione. Invece, anche dopo tutte le dispute per l'interpretazione che conosciamo bene, è perfettamente presente la chiara volontà di "fissare una certa linea". Il Concilio Vaticano II ha creato una "disposizione dell'animo", ma non ha creato nessun corpo dottrinale. I teologi non-tradizionalisti, quasi unanimemente, non hanno mai smesso di conservare la spiegazione di "pastorale" come praticamente sinonimo di "autentico", cioè di non infallibile.


L'interpretazione degli autori: una chiara volontà di non definire


In ogni caso, le testimonianze ufficiali sono concordi sulla volontà di non "definire". A due riprese (6 marzo 1964, 16 novembre 1964), la Commissione Dottrinale, alla quale era stato chiesto quale dovesse essere la qualifica teologica della dottrina proposta nello schema sulla Chiesa (e la domanda mirava soprattutto alla dottrina della collegialità), rispose: "Tenendo conto della pratica conciliare e del fine pastorale dell'attuale Concilio, quest'ultimo definisce solo le cose concernenti la Fede e la Morale che esso stesso avrà esplicitamente dichiarato tali".


Paolo VI spiegò che la cosa non era avvenuta. Una volta terminato il Concilio ritornò in effetti due volte sulla questione. Una prima volta, nel discorso di chiusura del 7 dicembre 1965: "Il Magistero (..), pur non volendo pronunciarsi con sentenze dogmatiche straordinarie, ha profuso il suo autorevole insegnamento sopra una quantità di questioni, che oggi impegnano la coscienza e l'attività dell'uomo". Una seconda volta nel discorso del 12 gennaio 1966: "Vi è chi si domanda quale sia l'autorità, la qualifica teologica, che il Concilio ha voluto attribuire ai suoi insegnamenti, sapendo che esso ha evitato di dare definizioni dogmatiche solenni, impegnanti l'infallibilità del magistero ecclesiastico (…), dato il carattere pastorale del Concilio, esso ha evitato di pronunciare in modo straordinario dogmi dotati della nota di infallibilità; ma esso ha tuttavia munito i suoi insegnamenti dell'autorità del supremo magistero ordinario; il quale magistero ordinario e così palesemente autentico deve essere accolto docilmente e sinceramente da tutti i fedeli, secondo la mente del Concilio circa la natura e gli scopi dei singoli documenti".


La redazione di questi testi è in certa misura imbarazzata. Li si può interpretare in due modi a seconda che si insista sull'uno o l'altro versante della dichiarazione essenziale:


1) il concilio non ha mai fatto uso di "definizioni dogmatiche solenni impegnanti l'infallibilità del magistero ecclesiastico", ma ha potuto far uso del magistero ordinario universale (infallibile). La cosa sarebbe sufficiente a fare del Vaticano II un Concilio "a parte" nella storia della Chiesa, il quale insegna su "materie nuove" (l'ecumenismo) ma rifiutando di definire;


2) il Concilio non ha mai fatto uso di "definizioni dogmatiche solenni impegnanti l'infallibilità del magistero ecclesiastico". Se non ha mai fatto uso di definizioni solenni è perché non ha voluto essere infallibile. Il che conferma il fatto che questi testi evitino accuratamente di parlare di "obbedienza della fede": "(Questo Concilio ha tuttavia) profuso il suo autorevole insegnamento sopra un quantità di questioni che oggi impegnano la coscienza e l'attività dell'uomo"….. "ha munito i suoi insegnamenti dell'autorità del supremo magistero ordinario; il quale magistero ordinario e così palesemente autentico deve essere accolto docilmente e sinceramente da tutti i fedeli". La qual cosa rinvia all' "assenso religioso della volontà e dello spirito" richiesto dal magistero "palesemente autentico", e non già all'"obbedienza della fede" richiesta dal magistero infallibile.


Il buon senso: il rifiuto di una "definizione forte" manifesta logicamente il rifiuto di una "definizione leggera"


Nel caso volessimo supporre che siano state scartate chiaramente soltanto le definizioni solenni, resterebbe tuttavia qualcosa di incomprensibile: il Vaticano II avrebbe rifiutato le "definizioni forti" secondo un'espressione chiara e incontestabile (il magistero solenne), nella volontà tuttavia di accrescere il contenuto del Credo facendo scivolare alcune "definizioni leggere" (il magistero ordinario e universale). Inoltre i testi del Concilio – prescindendo dal contesto generale e dalle interpretazioni degli autori - contengono dei tipi di proposizione che, in un altro concilio, aldilà di questa congiuntura nella quale ci si rifiuta di porre una regola di fede, si sarebbero potuti considerare come definizioni solenni. E' il caso della sacramentalità dell'episcopato (che nessuno, è vero, metteva più in dubbio), oppure a proposito della "sussistenza" della Chiesa di Cristo nella Chiesa cattolica (del tutto nuova, ma il cui senso oscuro è ancora da precisare). Riguardo alla definizione della libertà religiosa, essa è formalizzata: "questa libertà consiste: ecc...; si fonda sulla dignità stessa della persona umana quale si conosce sia per mezzo della parola rivelata di Dio, sia mediante la stessa ragione", Dignitatis humanae, 2,1. Inoltre, ogni testo conciliare, ivi compresa la dichiarazione Dignitatis humanae è seguito da una formula come : "tutte e ciascuna delle cose proclamate in questa dichiarazione piacquero ai Padri del Concilio. E Noi in virtù del potere apostolico che abbiamo da Cristo, in unione con i venerabili Padri, Noi l'approviamo, stabiliamo e decretiamo nello Spirito Santo". A Firenze, Trento o al Vaticano I, non sarebbe stato impossibile che ci si fosse trovati in presenza di un dogma da credere.


Eppure il commento più autentico che sia possibile, in quanto emana dagli autori stessi dei documenti, lo afferma senza ambiguità: non sono dei dogmi. Malgrado le apparenze, o malgrado la necessita intrinseca. Joseph Ratzinger commentava in un complemento all'opera classica di riferimento in Germania, il Lexicon fur Theologie und Kirche : "il Concilio non ha creato nessun nuovo dogma su nessuno dei punti abbordati. (…) Ma i testi includono, ognuno secondo il proprio genere letterario, una proposizione ferma per la loro coscienza di cattolici". Soltanto una "proposizione ferma": non l'obbligo a credere. Ciò che d'abitudine in un Concilio dovrebbe comportare l'impegno del magistero solenne non lo ha comportato nel caso del Vaticano II, quindi e a maggior ragione, se valutiamo il magistero non solenne, il quale, con la grande difficoltà che esso comporta nel discernimento del grado di impegno, si troverà al di sotto dell'infallibilità, altrimenti detto sarà semplicemente autentico.


Inoltre, qualunque ipotesi si voglia considerare, "nessuna dottrina è considerata come infallibilmente definita se la cosa non è stata stabilita in maniera manifesta" (CJC, can. 749 c. 3). L'importanza di questo canone è enorme perché legata all'appartenenza alla Chiesa. In effetti tutti sono obbligati a evitare ogni dottrina contraria", tenentur devitare (CJC, can. 750). E chiunque nega una verità cade nell'eresia (can. 751). (Allorché nulla di simile succede a colui che rifiuta una verità del "magistero autentico": "i fedeli avranno cura di evitare ciò che non concorda con questa dottrina", curent devitare, can. 752). La cosa deriva, del resto, dal principio generale che vuole che non si imponga mai un fardello senza motivo, e dunque che ciò che è più esigente non si presume: "le leggi che impongono una pena (…) sono di interpretazione stretta" (can. 18).


Provare a superare la difficoltà

In definitiva ci si potrebbe chiedere se il dibattito stesso, oltre al fatto che non interessa affatto il mondo della teologia "conciliare", seppur interessato in prima persona, non sia del tutto inutile. Tutti i partecipanti al dibattito, o quasi, sono d'accordo sul fatto che alcune precisazioni magisteriali sui punti apparentemente o realmente anti-tradizionali del Vaticano II, sarebbero in ogni caso qualcosa di estremamente opportuno. Noi siamo per parte nostra convinti che queste precisazioni non possono arrivare se non per mezzo del solo "gioco" dello sviluppo omogeneo del magistero (del magistero in quanto tale, infallibile) confrontato ad una crisi della fede, va detto che questo movimento è già in gestazione in atti tra l'altro come Veritatis splendor e Dominus Jesus.


Nell'attesa di queste precisazioni, che arriveranno ineluttabilmente, ma che è cosa buona sollecitare presso i pastori e i dottori, non si potrebbe parlare ad esempio di "magistero incompiuto"? "Magistero incompiuto", nel senso che quando ha abbordato soggetti nuovi, la volontà di insegnare del Vaticano II non è andata fino in fondo, fino all'infallibilità, o che nel caso in cui sia pervenuto a questa infallibilità non ha emesso altro che dei "canovacci" ("brouillons") di dottrina infallibile? Parlando di "magistero incompiuto" si lascerebbe ai teologi del futuro la possibilità di dibattere a piacimento sul fatto che il Vaticano II, a proposito di ecumenismo, di libertà religiosa, dello status delle religioni non cristiane, è stato in seguito sia rettificato, sia completato. Ciò che resta in ogni caso fondamentale per il bene della Chiesa è che la confessione della fede possa essere rimessa su un agevole cammino grazie ad un magistero preciso e chiaramente infallibile.

disputationes-theologicae

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