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Rapporto sulla Fede: Vittorio Messori a colloquio con Joseph Ratzinger

Ultimo Aggiornamento: 18/09/2009 19:49
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18/09/2009 19:41

Rapporto sulla Fede

Vittorio Messori a colloquio con Joseph Ratzinger

INDICE




CAPITOLO PRIMO. UN INCONTRO INSOLITO
Passione e ragione - Vacanze da cardinale - Destra/sinistra; ottimismo/pessimismo. Il troppo e il troppo poco - Un teologo e un pastore - L'ombra del Sant'Uffizio - Un servizio incompreso? - "L'eresia esiste ancora".

CAPITOLO SECONDO. UN CONCILIO DA RISCOPRIRE
Due errori contrapposti - "Riscopriamo il Vaticano II vero" - Una ricetta contro l'anacronismo - Spirito e anti-spirito - "Non rottura ma continuità" - Restaurazione? - Effetti imprevisti - La speranza dei "movimenti".

CAPITOLO TERZO. ALLA RADICE DELLA CRISI. L'IDEA DI CHIESA
La facciata e il mistero - "Non è nostra, è Sua" - Per una vera riforma.

CAPITOLO QUARTO. TRA PRETI E VESCOVI
Sacerdote: un uomo a disagio - Il problema delle Conferenze Episcopali - "Ritrovare il coraggio personale" - "Maestri di fede" - Roma, malgrado tutto.

CAPITOLO QUINTO. SEGNALI DI PERICOLO
"Una teologia individualista" - "Una catechesi frantumata" - "Spezzato il legame tra Chiesa e Scrittura" - "Il Figlio ridotto, il Padre dimenticato" - "Rifare posto al peccato originale".

CAPITOLO SESTO. IL DRAMMA DELLA MORALE
Dal liberalismo al permissivismo - Una serie di fratture - "Lontani dalla società o lontani dal magistero?" - Cercando punti fermi.

CAPITOLO SETTIMO. LE DONNE, UNA DONNA
Un sacerdozio in questione - Contro un sesso "banalizzato" - A difesa della natura - Femminismo in convento - Un futuro senza suore? - Un rimedio: Maria - Sei motivi per non dimenticarla - Fatima e dintorni.

CAPITOLO OTTAVO. UNA SPIRITUALITA' PER OGGI
La fede e il corpo - Diversi rispetto al "mondo" - La sfida delle sètte.

CAPITOLO NONO. LITURGIA TRA ANTICO E NUOVO
Ricchezze da salvare - La lingua, per esempio... - "Pluralismo, ma per tutti" - Uno spazio per il Sacro - Suoni e arte per l'Eterno - Solennità, non trionfalismo - Eucaristia: nel cuore della fede - "Non c'è solo la messa".

CAPITOLO DECIMO. SU ALCUNE "COSE ULTIME"
Il Diavolo e la sua coda - Un discorso sempre attuale - Un " addio " sospetto - "Biblisti o sociologi?" - Dal purgatorio al limbo - Un servizio al mondo - Degli angeli da non dimenticare - Il ritorno dello Spirito.

CAPITOLO UNDICESIMO. FRATELLI MA SEPARATI
Un cristianesimo più "moderno"? - Qualcuno ci ripensa - Una lunga strada - "Ma la Bibbia è cattolica" - Chiese nella bufera.

CAPITOLO DODICESIMO. UNA CERTA "LIBERAZIONE"
Una "Istruzione" da leggere - Il bisogno di redenzione - Un testo da "teologo privato" - Tra marxismo e capitalismo - Il dialogo impossibile.

CAPITOLO TREDICESIMO. PER RIANNUNCIARE IL CRISTO
A difesa della missione - Un vangelo per l'Africa - "Uno solo è il Salvatore".


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CAPITOLO I. UN INCONTRO INSOLITO

Passione e ragione


"Un tedesco aggressivo, dal portamento fiero, un asceta che porta la croce come una spada".

"Un bavarese rubicondo, dall'apparenza cordiale, che abita in semplicità un piccolo appartamento vicino al Vaticano".

"Un Panzer-Kardinal che non ha mai abbandonato le vesti fastose e la croce pettorale principe di Santa Romana Chiesa".

"Gira solo in giacca e cravatta, spesso guidando lui stesso per Roma una piccola utilitaria: a vederlo nessuno penserebbe che è tra gli uomini più importanti del Vaticano.

Si potrebbe continuare con queste citazioni contraddittorie, tratte da articoli apparsi sui giornali del mondo intero. Sono articoli a commento di alcune primizie (pubblicate nel novembre 1984 sul mensile italiano Jesus e tradotte poi in molte lingue) dei contenuti dell'intervista concessaci dal cardinal Joseph Ratzinger, dal gennaio 1982 Prefetto della Sacra Congregazione per la dottrina della fede. e, come si sa, l'istituzione vaticana che, fino a vent'anni fa e per quattro secoli, fu detta "Inquisizione Romana e Universale" o "Sant'Uffizio".

Leggendo descrizioni tanto contrastanti dello stesso aspetto fisico del card. Ratzinger, qualche malizioso sospetterà che anche il resto di quei commenti sia piuttosto distante da quell'ideale di "oggettività dell'informazione" di cui discutiamo spesso noi giornalisti nelle nostre assemblee.

Non ci pronunciamo in merito; ci limitiamo a ricordare che in ogni cosa c'è anche un lato positivo.

Nel nostro caso, in queste contraddittorie "trasfigurazioni" subite dal Prefetto della Fede sotto la penna di qualche collega (non di tutti, certo), c'è forse il segno dell'interesse appassionato con il quale è stata accolta l'intervista con il responsabile di una Congregazione il cui riserbo era leggendario, la cui norma suprema era il segreto.

L'avvenimento, in effetti, era davvero insolito. Dandoci alcuni giorni di colloquio, il card. Ratzinger ha concesso quella che è in assoluto la più lunga e completa tra le sue rarissime interviste. Occorre poi considerare che nessun altro nella Chiesa – a parte, ovviamente, il Papa - avrebbe potuto rispondere alle nostre domande con maggiore autorità. La Congregazione per la dottrina della fede è infatti lo strumento per mezzo del quale la Santa Sede promuove l'approfondimento della fede e vigila sulla sua integrità. e, dunque, la depositaria stessa dell'ortodossia cattolica. Non a caso sta al primo posto nell'elenco ufficiale delle Congregazioni della Curia romana; infatti, come scrisse Paolo VI dandole la precedenza su tutte nella riforma postconciliare, "è la Congregazione che tratta le cose più importanti".

Vista dunque la singolarità di una simile intervista del Prefetto della Fede - e visti anche i contenuti, espliciti e franchi al limite della crudezza è ben comprensibile che in alcuni commentatori l'interesse si sia trasformato in passione, in bisogno di schierarsi: pro o contro. Una presa di posizione che ha coinvolto la stessa persona fisica del card. Ratzinger, trasformata in positiva o in negativa dallo stato d'animo del giornalista.

Vacanze da cardinale

Per quel che mi riguarda, di Joseph Ratzinger conoscevo gli scritti ma non lo avevo incontrato che una volta di sfuggita. Il nostro appuntamento era per il 15 agosto 1984 in quella piccola, illustre città che gli italiani chiamano Bressanone e i tedeschi Brixen: una delle capitali di quella terra che è l’Alto Adige per gli uni, Sud Tirol per gli altri; luogo di principi vescovi, di lotte tra papi e imperatori; terra di incontro - e di scontro, oggi come sempre - tra cultura latina e germanica. Un posto quasi simbolico, dunque, anche se non certo scelto apposta. Perché, allora, Bressanone-Brixen?

Qualcuno, forse, pensa ancora ai membri del Sacro Collegio, ai Cardinali di Santa Romana Chiesa come a principi che l'estate si muovono dai loro fastosi palazzi dell'Urbe per andare a villeggiare in qualche luogo di delizie.

Per Sua Eminenza Joseph Ratzinger, Cardinale Prefetto, la realtà è piuttosto diversa. I pochissimi giorni che riesce a strappare alla Roma d'agosto, li passa nella non freschissima conca di Bressanone. Lì non abita in qualche villa od albergo, ma sta nel seminario, che affitta a prezzi economici alcune stanze: la diocesi ne ricava qualche entrata per il mantenimento degli studenti in teologia.

Nei corridoi e nel refettorio dell'antico edificio barocco si incontrano anziani ecclesiastici attirati in quella modesta villeggiatura dalle rette modiche; si incrociano comitive di pellegrini tedeschi e austriaci in tappa nel loro viaggio verso Sud.

Il cardinal Ratzinger sta lì, mangia le semplici cose preparate dalle suore tirolesi, seduto allo stesso tavolo con i preti in villeggiatura. Da solo, senza il segretario tedesco che l'assiste a Roma, con la temporanea compagnia dei familiari che vengono a trovarlo dalla vicina Baviera.

Un suo giovane collaboratore, a Roma, ci ha parlato della intensa dimensione di preghiera con cui contrasta il pericolo di trasformarsi in Grande Burocrate, nel firmatario di decreti che non si curino dell'umanità delle persone coinvolte. "Spesso - ci diceva quel giovane - ci raduna nella cappella del palazzo per una meditazione e una preghiera in comune. C'è in lui un bisogno continuo di radicare il nostro lavoro quotidiano (spesso ingrato, a contatto con la patologia della fede), in un cristianesimo vissuto come servizio al popolo di Dio".

Destra/sinistra; ottimismo/pessimismo

Un uomo, dunque, interamente calato in una dimensione religiosa. Ed è solo ponendosi in questa sua prospettiva che è possibile capire davvero il senso di quanto dice. Da questo punto di vista non hanno più senso quegli schemi (conservatore-progressista; destra-sinistra) che vengono da una dimensione ben diversa, quella delle ideologie politiche, e non sono dunque applicabili alla visione religiosa che, per dirla con Pascal, "è di un altro ordine che supera, in profondità e in altezza, tutti i restanti".

Così, sarebbe fuorviante applicargli un altro schema grossolano (ottimista; pessimista): quanto più l'uomo di fede fa suo l'evento che fonda l'ottimismo per eccellenza - la Risurrezione del Cristo -, tanto più può permettersi il realismo, la lucidità, il coraggio di chiamare i problemi con il loro nome per affrontarli, senza chiudere gli occhi o schermarseli con lenti rosa.

In una conferenza dell'allora teologo professor Ratzinger (era il 1966) troviamo questa conclusione a proposito della situazione della Chiesa e della fede: "Forse vi sareste attesi un quadro più lieto e luminoso. E ce ne sarebbe forse anche motivo, per certi aspetti. Ma mi sembra importante mostrare i due volti di quanto ci ha riempito di gioia e di gratitudine al Concilio, comprendendo così anche l'appello e l'incarico che vi sono contenuti. E mi sembra importante segnalare il pericoloso, nuovo trionfalismo nel quale cadono spesso proprio i denunciatori del trionfalismo passato. Fino a quando la Chiesa è pellegrina sulla terra, non ha diritto di gloriarsi di se stessa. Questo nuovo modo di gloriarsi potrebbe diventare più insidioso di tiare e sedie gestatorie che, comunque, sono ormai motivo più di sorriso che di orgoglio".

Questa sua consapevolezza che "il posto della Chiesa sulla terra, è solo vicino alla croce" non porta certo - per lui -alla rassegnazione ma, anzi, al suo contrario: "Il Concilio - dice - voleva segnare il passaggio da un atteggiamento di conservazione a un atteggiamento missionario. Molti dimenticano che il concetto conciliare opposto a "conservatore" non è "progressista" ma "missionario"".

"Il cristiano - ricorda ancora a chi lo sospettasse di pessimismo - sa che la storia è già salvata, che dunque alla fine lo sbocco sarà positivo. Ma non sappiamo attraverso quali vicende e traversie arriveremo a quel gran finale. Sappiamo che le potenze degli inferi "non prevarranno sulla Chiesa", ma ignoriamo a quali condizioni questo avverrà".

A un certo punto l'ho visto allargare le braccia e indicare la sua unica ricetta davanti a una situazione ecclesiale in cui vede luci ma anche insidie: "Oggi più che mai il Signore ci ha resi consapevoli che Lui soltanto può salvare la Sua Chiesa. Essa è di Cristo, tocca a Lui provvedere. A noi è chiesto di lavorare al massimo delle forze, senza angosce, con la serenità di chi è consapevole di essere servo inutile pur dopo avere fatto tutto il suo dovere. Anche in questo richiamo alla nostra pochezza vedo una delle grazie di questo periodo difficile"."Un periodo - continua - in cui ci è richiesta la pazienza, questa forma quotidiana dell'amore. Un amore in cui sono presenti al tempo stesso la fede e la speranza".

A dire il vero (per quanto vale quella "oggettività dell'informazione" di cui parlavamo) nei giorni passati insieme non mi è parso di scorgere in lui nulla che giustificasse l'immagine di dogmatico, duro Grande Inquisitore che alcuni hanno voluto cucirgli addosso. L'ho visto talvolta amareggiato, ma l'ho anche sentito ridere di gusto, raccontando un aneddoto o commentando una battuta. Al senso dello humour affianca un'altra caratteristica che contrasta anch'essa con lo schema da "inquisitore": la capacità di ascolto, la disponibilità a farsi interrompere dalle domande e la prontezza a rispondere a tutte con estrema franchezza, lasciando che il registratore continui a girare. Un uomo, dunque, lontano dal cliché che vuole il "cardinale di curia" sfuggente e sornionamente diplomatico. Giornalista ormai da molti anni, abituato dunque a ogni genere di interlocutori (alti prelati vaticani compresi), confesso di essermi stupito di trovare una risposta chiara e diretta a ogni mio quesito, anche il più delicato.

Il troppo e il troppo poco

Al giudizio del lettore (quali che siano poi le sue conclusioni) affidiamo dunque le sue affermazioni, come le abbiamo trascritte sforzandoci di essere fedeli a quanto abbiamo sentito.

Non sarà inutile ricordare che i contenuti di questo libro sono stati rivisti dall'interessato che, approvandoli (non solo nell'originale italiano ma anche nelle traduzioni, a cominciare da quella tedesca, normativa per le molte altre), ha dichiarato di riconoscervisi.

Questo diciamo a chi - nei vivacissimi commenti ai preannunci sul giornale - è sembrato insinuare che nell'intervista ci fosse troppo dell'intervistatore. L'approvazione del card. Ratzinger ai testi fa sì che questa non sia "il card. Ratzinger secondo un giornalista", ma "il Ratzinger che, intervistato da un giornalista, ne ha riconosciuto la fedeltà di interpretazione".

Altri - al contrario - hanno sospettato che, nel testo, ci fosse troppo poco di nostro: quasi si fosse trattato di un'operazione "pilotata", di una mossa all'interno di chissà quale complessa strategia, dove il giornalista è ridotto a mero prestanome. Sarà allora bene precisare lo svolgimento dei fatti, nella loro semplice verità. Una generica richiesta di intervista era stata avanzata dagli editori con i quali collaboro. Si diceva che, qualora il cardinale avesse potuto mettere a disposizione non qualche ora, ma qualche giorno, l'articolo previsto per un giornale avrebbe potuto trasformarsi in libro. Dopo qualche tempo, la segreteria del card. Ratzinger ha risposto convocando il giornalista a Bressanone. Qui, il Prefetto si è messo a disposizione dell'intervistatore, senza alcun accordo previo, con la sola condizione della revisione dei testi prima della pubblicazione. Nessun contatto precedente, dunque, e nessun contatto o intervento successivo ma piena fiducia e libertà (nella ovvia fedeltà) per l'estensore del colloquio.

Tra coloro che hanno sospettato un troppo poco ci sono forse anche quelli che ci hanno rimproverato di non essere stati con Joseph Ratzinger abbastanza "polemici", "critici", magari "cattivi". Ma queste obiezioni vengono da chi è fautore di ciò che a noi sembra, semplicemente, del pessimo giornalismo. Il giornalismo, cioè, in cui l'interlocutore non è che un pretesto per permettere al cronista di intervistare se stesso, di esibirsi, facendo risaltare la sua visione delle cose.

Crediamo invece che il servizio vero di noi che ci diciamo "informatori" sia appunto quello di informare i lettori sul punto di vista dell'intervistato, lasciando ai lettori stessi il giudizio. Stimolare l'interlocutore a spiegarsi, dargli voce in ciò che ha da dire: come con ogni altro, così abbiamo cercato di fare anche con il Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.

Non nascondendo però (lo precisiamo a evitare ipocrite declamazioni su impossibili "neutralità") di essere noi stessi coinvolti nell'avventura della Chiesa, in questa svolta della sua storia. Non nascondendo di avere approfittato della occasione per cercare noi stessi di capire che cosa avviene in una dimensione ecclesiale che, seppure laici, ci riguarda però personalmente. Seppure avanzate a nome dei lettori, le domande al cardinale erano dunque anche nostre, rispondevano anche al nostro bisogno di comprendere. È un dovere, ci pare, di chiunque si dice credente; di chiunque si riconosce membro della Chiesa cattolica.

Un teologo e un pastore

È indubbio che, nominando Joseph Ratzinger responsabile dell'ex-Sant'Uffizio, Giovanni Paolo II ha voluto compiere una scelta di "prestigio". Dal 1977, chiamatovi da Paolo VI, era cardinale arcivescovo di una diocesi dal passato illustre e dal presente importante come Monaco di Baviera. Ma il sacerdote messo a sorpresa su quel seggio episcopale era già uno dei più famosi studiosi cattolici, con un posto preciso in ogni storia della teologia contemporanea.

Nato nel 1927 a Marktl-am-Inn, nella diocesi bavarese di Passau, ordinato nel 1951 a Freising (diocesi di Monaco), laureato con una tesi su sant'Agostino e poi docente di teologia dogmatica nelle più celebri università tedesche (Munster, Tubingen, Regensburg), Ratzinger aveva alternato pubblicazioni scientifiche a saggi di alta divulgazione divenuti best-seller in molti Paesi. I critici rilevano nella sua produzione non eruditi interessi settoriali, ma la ricerca globale di quello che i tedeschi chiamano das Wesen, l'essenza stessa della fede e la sua possibilità di confrontarsi con il mondo moderno. Tipica, al proposito, quella sua Einfùhrung in das Christentum, introduzione al cristianesimo, una sorta di classico continuamente ristampato, sul quale si è formata una generazione di chierici e di laici, attirati da un pensiero del tutto "cattolico" e nel contempo del tutto "aperto" al nuovo clima del Vaticano II. Al Concilio, il giovane teologo Ratzinger prese parte come esperto dell'episcopato tedesco, conquistando la stima e la solidarietà di coloro che nella storica assise vedevano una occasione preziosa per adeguare ai tempi la prassi e la pastorale della Chiesa.

Un equilibrato "progressista", insomma, se si vuole usare quello schema deviante di cui parlavamo. In ogni caso - a conferma della sua fama di studioso attento e moderno - nel 1964 il professor Ratzinger è tra i fondatori di quella rivista internazionale Concilium in cui si riunisce la cosiddetta "ala progressista" della teologia. Un gruppo imponente, con il cervello direttivo in un'apposita "Fondazione Concilium" a Nimega, in Olanda, e che può disporre di un mezzo migliaio di collaboratori internazionali, i quali ogni anno producono oltre duemila pagine tradotte in tutte le lingue. Vent'anni fa Joseph Ratzinger era là, tra i fondatori e i direttori di un giornale-istituzione che doveva divenire l'interlocutore assai critico proprio della Congregazione per la dottrina della fede.

Cosa ha significato questa collaborazione per colui che sarebbe poi diventato Prefetto dell'ex-Sant'Ufficio? Un infortunio? Un peccato di gioventù? E che è successo nel frattempo? Una svolta nel suo pensiero? Un "pentimento"?

Glielo chiederò un po' scherzoso, ma la risposta sarà pronta e seria: "Non sono cambiato io, sono cambiati loro. Sin dalle prime riunioni, feci presente ai miei colleghi due esigenze. Primo: il nostro gruppo non doveva essere settario, arrogante, come se noi fossimo la nuova, vera Chiesa, un magistero alternativo con in tasca la verità sul cristianesimo. Secondo: bisognava confrontarsi con la realtà del Vaticano II, con la lettera e con lo spirito autentici del Concilio autentico, non con un immaginario Vaticano III; senza, dunque, fughe solitarie in avanti. Queste esigenze, in seguito, sono state tenute sempre meno presenti sino a una svolta - situabile attorno al 1973 - quando qualcuno cominciò a dire che i testi del Vaticano II non potevano più essere il punto di riferimento della teologia cattolica. Si diceva infatti che il Concilio apparteneva ancora al "momento tradizionale, clericale" della Chiesa e che bisognava dunque superarlo: un semplice punto di partenza, insomma. Ma, in quegli anni, io mi ero già da tempo dimesso, sia dal gruppo di direzione che da quello dei collaboratori. Ho sempre cercato di restare fedele al Vaticano II, questo oggi della Chiesa, senza nostalgie per uno ieri irrimediabilmente passato e senza impazienze per un domani che non è nostro".

Continua, passando dall'astrazione teorica alla concretezza dell'esperienza personale: "Amavo il mio lavoro di insegnante e di studioso. Non ho certo aspirato a essere messo a capo prima dell'arcidiocesi di Monaco, poi della Congregazione per la dottrina della fede. È un servizio pesante che mi ha permesso però di capire, scorrendo ogni giorno i rapporti che da tutto il mondo giungono sul mio tavolo, che cosa sia la preoccupazione per la Chiesa universale. Dalla mia sedia così scomoda (ma che permette almeno di vedere il quadro generale) ho capito che certa "contestazione" di certi teologi è segnata da mentalità tipiche della borghesia opulenta dell'Occidente. La realtà della Chiesa concreta, dell'umile popolo di Dio, è ben diversa da come se la raffigurano in certi laboratori dove si distilla l'utopia".

L'ombra del Sant'Uffizio

Comunque lo si giudichi, è dunque un fatto oggettivo: il cosiddetto "gendarme della fede" non è in realtà uomo della Nomenklatura, un funzionario che conosca solo curie e apparati; è uno studioso con una esperienza pastorale concreta.

Ma anche la Congregazione che è stato chiamato a presiedere non è certo più quel Sant'Uffizio attorno al quale (per effettive responsabilità storiche, ma anche per influsso della propaganda antichiesastica dal Settecento europeo sino ad oggi) si era creata una tenebrosa leggenda nera". Oggi è la stessa ricerca storica di parte laica che riconosce come il Sant'Uffizio reale sia stato assai più equo, moderato, cauto di quanto non voglia certo mito tenace.

Gli studiosi raccomandano poi di distinguere tra "Inquisizione spagnola" e "Inquisizione Romana e Universale". Questa fu fondata nel 1542 da Paolo III, il papa che cercava in ogni modo di convocare quel Concilio che sarebbe passato alla storia con il nome di Trento. Come prima misura per la riforma cattolica e per fermare l'eresia che da Germania e Svizzera minacciava di dilagare ovunque, Paolo III istituì uno speciale organismo composto di sei cardinali con la potestà di intervenire dappertutto fosse giudicato necessario. La nuova istituzione non aveva, all'inizio, carattere permanente e neppure un nome ufficiale: soltanto dopo venne chiamata Sant'Uffizio o Congregazione della Inquisizione Romana e Universale. Essa non subì mai ingerenze del potere secolare e si adeguò a procedure precise e in qualche modo garantiste, almeno relativamente alla situazione giuridica dei tempi e all'asprezza delle lotte di religione. Cosa che non avvenne invece con l'Inquisizione spagnola, che fu ben altra cosa: fu infatti un tribunale del re di Spagna, uno strumento dell'assolutismo statale che (sorto all'origine contro ebrei e musulmani sospetti di "finta conversione" a un cattolicesimo inteso dalla Corona come strumento anche politico), agì spesso in contrasto con Roma, da dove i Papi non mancarono di ammonire e di protestare.

Comunque sia, ora, anche per l'ex-Inquisizione romana o ex-Sant'Uffizio, tutto questo - a cominciare dal nome stesso - non è che un ricordo. Come dicevamo, la Congregazione fu la prima a essere riformata da Paolo VI, con un motu proprio del 7 dicembre 1965, ultimo giorno del Concilio. La riforma le riconfermò, pur mutandone le procedure, il compito di vigilare sulla retta fede ma le assegnò anche un ruolo positivo: di stimolo, di proposta, di indicazione.

Quando ho chiesto a Ratzinger se gli fosse costato passare dalla condizione di teologo (magari tenuto d'occhio da Roma ... ) a quello di controllore del lavoro dei teologi, non ha esitato a rispondermi: "Mai avrei accettato questo servizio alla Chiesa se il mio compito fosse stato innanzitutto quello del controllo. Con la riforma, la nostra Congregazione ha conservato sì compiti di decisione e di intervento, ma il motu proprio di Paolo VI le pone come obiettivo prioritario il ruolo costruttivo di "promuovere la sana dottrina per dare nuove energie agli annunciatori del Vangelo". Naturalmente, siamo chiamati come prima anche a vigilare, a "correggere gli errori e a ricondurre sulla retta via gli erranti", come dice lo stesso documento, ma questa difesa della fede deve essere volta alla sua promozione".

Un servizio incompreso?

Eppure, malgrado ogni riforma, anche tra i cattolici molti oggi non riescono più a capire il senso del servizio reso alla Chiesa da questa Congregazione. La quale, trascinata sul banco degli imputati, ha diritto anch'essa a far sentire le sue ragioni. Che suonano più o meno così, se abbiamo bene inteso quanto si trova in documenti e pubblicazioni e ciò che ci è stato detto da teologi che ne difendono la funzione, giudicandola "più che mai essenziale".

Dicono dunque costoro:

"Punto irrinunciabile di partenza è, ancora e sempre, una prospettiva religiosa, al di fuori della quale ciò che è servizio apparirebbe intolleranza, ciò che è sollecitudine doverosa sembrerebbe dogmatismo. Se si entra dunque in una dimensione religiosa, si comprende come la fede sia il bene più alto e prezioso, proprio perché la verità è l'elemento fondamentale per la vita dell'uomo. Dunque, la preoccupazione perché la fede non si corrompa dovrebbe essere considerata - almeno dai credenti - ancor più necessaria della preoccupazione per la salute del corpo. Il vangelo ammonisce di "non temere coloro che uccidono il corpo", ma di temere "piuttosto coloro che, assieme al corpo, possono uccidere anche l'anima" (Mt 10,28). E lo stesso vangelo che ricorda come l'uomo non viva di "solo pane", ma innanzitutto della "Parola di Dio" (Mt 4,4). Ma quella Parola, più indispensabile del cibo, va accolta nella sua autenticità e va preservata da ogni alterazione. È lo scetticismo di fronte alla possibilità per l'uomo di conoscere la verità con la conseguente perdita del concetto vero di Chiesa e l'appiattimento della speranza nella sola storia (dove ciò che soprattutto conta è il "corpo" il "pane", non più "l’anima", la "Parola di Dio che ha fatto sì che appaia irrilevante, quando non anacronistico o addirittura dannoso, il servizio di una Congregazione come quella per la dottrina della fede".

Continuano i difensori della Congregazione di cui ora è Joseph Ratzinger il Prefetto: "Circolano dei facili slogans. Secondo uno di questi, ciò che oggi conta sarebbe solo l'ortoprassi, cioè il "comportarsi bene", l’"amare il prossimo". Sarebbe invece secondaria, se non alienante, la preoccupazione per l'ortodossia e, cioè, il "credere in modo giusto", secondo il senso vero della Scrittura letta all'interno della Tradizione viva della Chiesa. Slogan facile perché superficiale: infatti i contenuti dell'ortoprassi, dell'amore per il prossimo, non cambiano forse radicalmente a seconda dei modi di intendere l'ortodossia? Per trarre un esempio attuale dal tema scottante del Terzo Mondo e dell'America Latina: qual è la giusta prassi per soccorrere i poveri in modo davvero cristiano e dunque efficace? La scelta di una retta azione non presuppone forse un retto pensiero, non rinvia forse alla ricerca di una ortodossia?".

Queste, dunque alcune delle ragioni sulle quali siamo invitati a pronunciarci.

Parlando con lui di queste questioni preliminari, indispensabili prima di entrare nel vivo del discorso, lo stesso Ratzinger mi ha detto: "In un mondo dove, in fondo, lo scetticismo ha contagiato anche molti credenti, è un vero scandalo la convinzione della Chiesa che ci sia una Verità con la maiuscola, e che questa Verità sia riconoscibile, esprimibile e, entro certi limiti, anche definibile in modo preciso. È uno scandalo che è condiviso anche da cattolici che hanno perso di vista l'essenza della Chiesa. La quale non è un’organizzazione solo umana, deve difendere un deposito che non è suo, ne deve garantire l'annuncio e la trasmissione attraverso un Magistero che lo ripresenti in modo adeguato e autentico agli uomini di ogni tempo".

Ma su questo tema della Chiesa, precisa subito, ritornerà più avanti e più volte; perché qui starebbe, per lui, una delle radici della crisi attuale.

"L'eresia esiste ancora"

Malgrado il ruolo anche positivo assunto dalla Congregazione, essa conserva tuttavia il potere di intervenire là, dove sospetti si annidino "eresie" che minaccino l'autenticità della fede. All'orecchio di noi moderni, i termini "eresia", "eretico", suonano talmente inconsueti che si è costretti a metterli tra virgolette. Pronunciandoli o scrivendoli, ci si sente trascinati verso epoche che sembrano remote. Eminenza, chiedo, ci sono davvero ancora degli "eretici", ci sono ancora le "eresie"?

"Mi permetta innanzitutto - replica - di richiamare a questo proposito la risposta che dà il nuovo codice di diritto canonico, promulgato nel 1983 dopo 24 anni di lavoro che l'hanno completamente rifatto e perfettamente allineato al rinnovamento conciliare. Al canone (cioè articolo) 751 si dice: "Viene detta eresia l'ostinata negazione, dopo aver ricevuto il battesimo, di una qualche verità che si deve credere per fede divina e cattolica, o il dubbio ostinato su di essa". Per quanto riguarda le sanzioni, il canone 1364 stabilisce che l'eretico - al pari dell'apostata e dello scismatico - incorre nella scomunica latae sententiae. Ciò vale per tutti i fedeli ma i provvedimenti sono aggravati contro l'eretico che sia anche sacerdote. Vede dunque che, anche per la Chiesa postconciliare (per quanto vale questa espressione "postconciliare" che non accetto, e spiegherò perché), eretici ed eresie - rubricate dal nuovo Codice come "delitti contro la religione e l'unità della Chiesa" esistono e si è previsto il modo per difenderne la comunità dei credenti".

Continua: "La parola della Scrittura è attuale per la Chiesa di ogni tempo così come rimane sempre attuale la possibilità per l'uomo di cadere in errore. È dunque attuale anche oggi l'ammonimento della seconda lettera di Pietro a guardarsi "dai falsi profeti e dai falsi maestri che introdurranno eresie perniciose" (2, 1). L'errore non è complementare alla verità. Non si dimentichi che, per la Chiesa, la fede è un "bene comune", una ricchezza di tutti, a cominciare dai poveri, i più indifesi davanti ai travisamenti: dunque, difendere l'ortodossia è, per la Chiesa, opera sociale a favore di tutti i credenti. In questa prospettiva, quando si è davanti all'errore, non bisogna dimenticare che vanno tutelati i diritti del singolo teologo ma vanno tutelati anche i diritti della comunità. Naturalmente tutto va sempre visto alla luce del grande ammonimento evangelico: "verità nella carità". Anche per questo, quella scomunica in cui ancor oggi incorre l'eretico, è considerata come "sanzione medicinale": una pena, cioè, che non vuole castigarlo quanto correggerlo, guarirlo. Chi si convince del suo errore e lo riconosce è sempre riaccolto a braccia aperte, come un figlio particolarmente caro, nella piena comunione della Chiesa".

Eppure, osservo, tutto questo sembra - come dire? - troppo semplice e chiaro per corrispondere alla realtà del nostro tempo, tanto poco riconducibile a schemi prefissati.

"È vero - ammette -. In concreto le cose non sono così chiare come le definisce (né può fare diversamente) il nuovo Codice. Quella "negazione", e quel "dubbio ostinato" di cui si parla, oggi non li incontriamo quasi mai in forma palese. Che nonostante ciò essi esistano in un'epoca spiritualmente complessa come la nostra è da attenderselo: solamente essi non vogliono apparire come tali. Quasi sempre si opporranno le proprie ipotesi teologiche al Magistero, dicendo che questo non esprime la fede della Chiesa, ma solo "l'arcaica teologia romana". Si dirà che non la Congregazione per la fede ma essi, gli "eretici", individuano il senso "autentico" della fede trasmessa. Dove c'è ancora un legame ecclesiale un po' più forte, ci si imbatte in un fenomeno diverso eppure collegato: io resto ogni volta meravigliato dall'abilità di teologi che riescono a sostenere l'esatto contrario di ciò che sta scritto in chiari documenti del Magistero. Eppure quel rovesciamento è presentato, con abili artifici dialettici, come il significato "vero" del documento in questione".
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