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SUMMORUM PONTIFICUM Motu Proprio sulla Messa Antica

Ultimo Aggiornamento: 18/09/2009 20:00
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Benedetto XVI liberalizza la Messa Antica -san Pio V-



    



LETTERA APOSTOLICA
MOTU PROPRIO DATA

 

BENEDETTO XVI

SUMMORUM PONTIFICUM

Sull'uso straordinario dell'antica forma del Rito Romano*



 

I Sommi Pontefici fino ai nostri giorni ebbero costantemente cura che la Chiesa di Cristo offrisse alla Divina Maestà un culto degno, "a lode e gloria del Suo nome" ed "ad utilità di tutta la sua Santa Chiesa".


Da tempo immemorabile, come anche per l'avvenire, è necessario mantenere il principio
secondo il quale "ogni Chiesa particolare deve concordare con la Chiesa universale, non solo quanto alla dottrina della fede e ai segni sacramentali, ma anche quanto agli usi universalmente accettati dalla ininterrotta tradizione apostolica, che devono essere osservati non solo per evitare errori, ma anche per trasmettere l'integrità della fede, perché la legge della preghiera della Chiesa corrisponde alla sua legge di fede" [1].


Tra i Pontefici che ebbero tale doverosa cura eccelle il nome di San Gregorio Magno, il quale si
adoperò perché ai nuovi popoli dell'Europa si trasmettesse sia la fede cattolica che i tesori del culto e della cultura accumulati dai Romani nei secoli precedenti. Egli comandò che fosse definita e conservata la forma della sacra Liturgia, riguardante sia il Sacrificio della Messa sia l'Ufficio Divino, nel modo in cui si celebrava nell'Urbe. Promosse con la massima cura la diffusione dei monaci e delle monache, che operando sotto la regola di San Benedetto, dovunque unitamente all'annuncio del Vangelo illustrarono con la loro vita la salutare massima della Regola: "Nulla venga preposto all'opera di Dio" (cap. 43). In tal modo la sacra Liturgia celebrata secondo l'uso romano arricchì non solo la fede e la pietà, ma anche la cultura di molte popolazioni. Consta infatti che la liturgia latina della Chiesa nelle varie sue forme, in ogni secolo dell'età cristiana, ha spronato nella vita spirituale numerosi Santi e ha rafforzato tanti popoli nella virtù di religione e ha fecondato la loro pietà.


Molti altri Romani Pontefici, nel corso dei secoli, mostrarono particolare sollecitudine a che la
sacra Liturgia espletasse in modo più efficace questo compito: tra essi spicca S. Pio V, il quale sorretto da grande zelo pastorale, a seguito dell'esortazione del Concilio di Trento, rinnovò tutto il culto della Chiesa, curò l'edizione dei libri liturgici, emendati e "rinnovati secondo la norma dei Padri" e li diede in uso alla Chiesa latina.


Fra i libri liturgici del Rito romano risalta il Messale Romano, che si sviluppò nella città di
Roma, e col passare dei secoli a poco a poco prese forme che hanno grande somiglianza con quella vigente nei tempi più recenti.

"Fu questo il medesimo obbiettivo che seguirono i Romani Pontefici nel corso dei secoli seguenti assicurando l'aggiornamento o definendo i riti e i libri liturgici, e poi, all'inizio di questo secolo, intraprendendo una riforma generale" [2]. Così agirono i nostri Predecessori Clemente VIII, Urbano VIII, San Pio X [3], Benedetto XV, Pio XII e il Beato Giovanni XXIII.


Nei tempi più recenti, il Concilio Vaticano II espresse il desiderio che la dovuta rispettosa riverenza nei confronti del culto divino venisse ancora rinnovata e fosse adattata alle necessità
della nostra età. Mosso da questo desiderio, il nostro Predecessore, il Sommo Pontefice Paolo VI, nel 1970 per la Chiesa latina approvò i libri liturgici riformati e in parte rinnovati. Essi, tradotti nelle varie lingue del mondo, di buon grado furono accolti da Vescovi, sacerdoti e fedeli. Giovanni Paolo II rivide la terza edizione tipica del Messale Romano. Così i Romani Pontefici hanno operato "perché questa sorta di edificio liturgico [...] apparisse nuovamente splendido per dignità e armonia" [4].


Ma in talune regioni non pochi fedeli aderirono e continuano ad aderire con tanto amore ed
affetto alle antecedenti forme liturgiche, le quali avevano imbevuto così profondamente la loro cultura e il loro spirito, che il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, mosso dalla cura pastorale nei confronti di questi fedeli, nell'anno 1984 con lo speciale indulto Quattuor abhinc annos, emesso dalla Congregazione per il Culto Divino, concesse la facoltà di usare il Messale Romano edito dal Beato Giovanni XXIII nell'anno 1962; nell'anno 1988 poi Giovanni Paolo II di nuovo con la Lettera Apostolica Ecclesia Dei, data in forma di Motu proprio, esortò i Vescovi ad usare largamente e generosamente tale facoltà in favore di tutti i fedeli che lo richiedessero.


A seguito delle insistenti preghiere di questi fedeli, a lungo soppesate già dal Nostro
Predecessore Giovanni Paolo II, e dopo aver ascoltato Noi stessi i Padri Cardinali nel Concistoro tenuto il 22 marzo 2006, avendo riflettuto approfonditamente su ogni aspetto della questione, dopo aver invocato lo Spirito Santo e contando sull'aiuto di Dio, con la presente Lettera Apostolica stabiliamo quanto segue:


Art. 1. Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della "lex orandi"
("norma della preghiera") della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da San Pio V e nuovamente edito dal Beato Giovanni XXIII deve venire considerato come espressione straordinaria della stessa "lex orandi" e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della "lex orandi" della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella "lex credendi" ("norma della fede") della Chiesa; sono infatti due usi dell'unico rito romano.

Perciò è lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l'edizione tipica del Messale Romano promulgato dal Beato Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa.

Le condizioni per l'uso di questo Messale stabilite dai documenti anteriori
Quattuor abhinc annos e Ecclesia Dei, vengono sostituite come segue:


Art. 2. Nelle Messe celebrate senza il popolo, ogni sacerdote cattolico di rito latino, sia secolare
sia religioso, può usare o il Messale Romano edito dal Beato Papa Giovanni XXIII nel 1962, oppure il Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970, e ciò in qualsiasi giorno, eccettuato il Triduo Sacro. Per tale celebrazione secondo l'uno o l'altro Messale il sacerdote non ha bisogno di alcun permesso, né della Sede Apostolica, né del suo Ordinario.


Art. 3. Le comunità degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica, di diritto
sia pontificio sia diocesano, che nella celebrazione conventuale o "comunitaria" nei propri oratori desiderano celebrare la Santa Messa secondo l'edizione del Messale Romano promulgato nel 1962, possono farlo. Se una singola comunità o un intero Istituto o Società vuole compiere tali celebrazioni spesso o abitualmente o permanentemente, la cosa deve essere decisa dai Superiori maggiori a norma del diritto e secondo le leggi e gli statuti particolari.


Art. 4. Alle celebrazioni della Santa Messa di cui sopra all'art. 2, possono essere ammessi -
osservate le norme del diritto - anche i fedeli che lo chiedessero di loro spontanea volontà.


Art. 5. § 1. Nelle parrocchie, in cui esiste stabilmente un gruppo di fedeli aderenti alla
precedente tradizione liturgica, il parroco accolga volentieri le loro richieste per la celebrazione della Santa Messa secondo il rito del Messale Romano edito nel 1962. Provveda a che il bene di questi fedeli si armonizzi con la cura pastorale ordinaria della parrocchia, sotto la guida del Vescovo a norma del canone 392, evitando la discordia e favorendo l'unità di tutta la Chiesa.


§ 2. La celebrazione secondo il Messale del Beato Giovanni XXIII può aver luogo nei giorni
feriali; nelle domeniche e nelle festività si può anche avere una sola celebrazione di tal genere.


§ 3. Per i fedeli e i sacerdoti che lo chiedono, il parroco permetta le celebrazioni in questa forma
straordinaria anche in circostanze particolari, come matrimoni, esequie o celebrazioni occasionali, ad esempio pellegrinaggi.


§ 4. I sacerdoti che usano il Messale del Beato Giovanni XXIII devono essere idonei e non
giuridicamente impediti.


§ 5. Nelle chiese che non sono parrocchiali né conventuali, è compito del Rettore della chiesa
concedere la licenza di cui sopra.


Art. 6. Nelle Messe celebrate con il popolo secondo il Messale del Beato Giovanni XXIII, le
letture possono essere proclamate anche in lingua volgare, usando le edizioni riconosciute dalla Sede Apostolica.


Art. 7. Se un gruppo di fedeli laici fra quelli di cui all'art. 5 § 1 non abbia ottenuto soddisfazione
alle sue richieste da parte del parroco, ne informi il Vescovo diocesano. Il Vescovo è vivamente pregato di esaudire il loro desiderio. Se egli non può provvedere per tale celebrazione, la cosa venga riferita alla Pontificia Commissione "Ecclesia Dei".


Art. 8. Il Vescovo, che desidera rispondere a tali richieste di fedeli laici, ma per varie cause è
impedito di farlo, può riferire la questione alla Commissione "Ecclesia Dei", perché gli offra consiglio e aiuto.


Art. 9 § 1. Il parroco, dopo aver considerato tutto attentamente, può anche concedere la licenza
di usare il rituale più antico nell'amministrazione dei sacramenti del Battesimo, del Matrimonio, della Penitenza e dell'Unzione degli infermi, se questo consiglia il bene delle anime.


§ 2. Agli Ordinari viene concessa la facoltà di celebrare il sacramento della Confermazione
usando il precedente antico Pontificale Romano, qualora questo consigli il bene delle anime.


§ 3. Ai chierici costituiti "in sacris" è lecito usare il Breviario Romano promulgato dal Beato
Giovanni XXIII nel 1962.


Art. 10. L'Ordinario del luogo, se lo riterrà opportuno, potrà erigere una parrocchia personale a
norma del canone 518 per le celebrazioni secondo la forma più antica del rito romano, o nominare un cappellano, osservate le norme del diritto.


Art. 11. La Pontificia Commissione "Ecclesia Dei", eretta da Giovanni Paolo II nel 1988
[5], continua ad esercitare il suo compito. Tale Commissione abbia la forma, i compiti e le norme, che il Romano Pontefice le vorrà attribuire.


Art. 12. La stessa Commissione, oltre alle facoltà di cui già gode, eserciterà l'autorità della
Santa Sede, vigilando sulla osservanza e l'applicazione di queste disposizioni.


Tutto ciò che da Noi è stato stabilito con questa Lettera Apostolica data a modo di Motu
proprio, ordiniamo che sia considerato come "stabilito e decretato" e da osservare dal giorno 14 settembre di quest'anno, festa dell'Esaltazione della Santa Croce, nonostante tutto ciò che possa esservi in contrario.


Dato a Roma, presso San Pietro, il 7 luglio 2007, anno terzo del nostro Pontificato
.

BENEDETTO PP. XVI



[1] Ordinamento generale del Messale Romano, III ed., 2002, n. 397.

[2] Giovanni Paolo II, Lett. Ap. Vicesimus quintus annus, 4 dicembre 1988, 3: AAS 81 (1989), 899.

[3] Ibid.

[4] San Pio X, Lett. Ap. motu proprio data, Abhinc duos annos, 23 ottobre 1913: AAS 5 (1913), 449-450; cfr. Giovanni Paolo II, Lett. Ap. Vicesimus quintus annus, n. 3: AAS 81 (1989), 899.

[5] Cfr Giovanni Paolo II, Lett. ap. motu proprio data Ecclesia Dei, 2 luglio 1988, 6: AAS 80 (1988), 1498.


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* Traduzione italiana rivista e corretta alla stregua del testo ufficiale del Motu proprio, pubblicato in AAS 99 (2007), p. 777-781

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18/09/2009 19:58

Lettera di Benedetto XVI ai Vescovi di tutto il mondo per presentare il Motu proprio Summorum Pontificum (sopra riportato) sull’uso della Liturgia romana anteriore alla riforma del 1970.

* * *
Cari Fratelli nell’Episcopato,

con grande fiducia e speranza metto nelle vostre mani di Pastori il testo di una nuova Lettera Apostolica "Motu Proprio data" sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma effettuata nel 1970. Il documento è frutto di lunghe riflessioni, di molteplici consultazioni e di preghiera. Notizie e giudizi fatti senza sufficiente informazione hanno creato non poca confusione. Ci sono reazioni molto divergenti tra loro che vanno da un’accettazione gioiosa ad un’opposizione dura, per un progetto il cui contenuto in realtà non era conosciuto. A questo documento si opponevano più direttamente due timori, che vorrei affrontare un po’ più da vicino in questa lettera.

In primo luogo, c’è il timore che qui venga intaccata l’Autorità del Concilio Vaticano II e che una delle sue decisioni essenziali – la riforma liturgica – venga messa in dubbio. Tale timore è infondato. Al riguardo bisogna innanzitutto dire che il Messale, pubblicato da Paolo VI e poi riedito in due ulteriori edizioni da Giovanni Paolo II, ovviamente è e rimane la forma normale – la forma ordinaria – della Liturgia Eucaristica. L’ultima stesura del Missale Romanum, anteriore al Concilio, che è stata pubblicata con l’autorità di Papa Giovanni XXIII nel 1962 e utilizzata durante il Concilio, potrà, invece, essere usata come forma extraordinaria della Celebrazione liturgica. Non è appropriato parlare di queste due stesure del Messale Romano come se fossero "due Riti". Si tratta, piuttosto, di un uso duplice dell’unico e medesimo Rito.

Quanto all’uso del Messale del 1962, come forma extraordinaria della Liturgia della Messa, vorrei attirare l’attenzione sul fatto che questo Messale non fu mai giuridicamente abrogato e, di conseguenza, in linea di principio, restò sempre permesso. Al momento dell’introduzione del nuovo Messale, non è sembrato necessario di emanare norme proprie per l’uso possibile del Messale anteriore. Probabilmente si è supposto che si sarebbe trattato di pochi casi singoli che si sarebbero risolti, caso per caso, sul posto. Dopo, però, si è presto dimostrato che non pochi rimanevano fortemente legati a questo uso del Rito romano che, fin dall’infanzia, era per loro diventato familiare. Ciò avvenne, innanzitutto, nei Paesi in cui il movimento liturgico aveva donato a molte persone una cospicua formazione liturgica e una profonda, intima familiarità con la forma anteriore della Celebrazione liturgica.

Tutti sappiamo che, nel movimento guidato dall’Arcivescovo Lefebvre, la fedeltà al Messale antico divenne un contrassegno esterno; le ragioni di questa spaccatura, che qui nasceva, si trovavano però più in profondità. Molte persone, che accettavano chiaramente il carattere vincolante del Concilio Vaticano II e che erano fedeli al Papa e ai Vescovi, desideravano tuttavia anche ritrovare la forma, a loro cara, della sacra Liturgia; questo avvenne anzitutto perché in molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo Messale, ma esso addirittura veniva inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale portò spesso a deformazioni della Liturgia al limite del sopportabile. Parlo per esperienza, perché ho vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni. E ho visto quanto profondamente siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della Liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa.

Papa Giovanni Paolo II si vide, perciò, obbligato a dare, con il Motu Proprio "Ecclesia Dei" del 2 luglio 1988, un quadro normativo per l’uso del Messale del 1962, che però non conteneva prescrizioni dettagliate, ma faceva appello, in modo più generale, alla generosità dei Vescovi verso le "giuste aspirazioni" di quei fedeli che richiedevano quest’uso del Rito romano. In quel momento il Papa voleva, così, aiutare soprattutto la Fraternità San Pio X a ritrovare la piena unità con il Successore di Pietro, cercando di guarire una ferita sentita sempre più dolorosamente. Purtroppo questa riconciliazione finora non è riuscita; tuttavia una serie di comunità hanno utilizzato con gratitudine le possibilità di questo Motu Proprio. Difficile è rimasta, invece, la questione dell’uso del Messale del 1962 al di fuori di questi gruppi, per i quali mancavano precise norme giuridiche, anzitutto perché spesso i Vescovi, in questi casi, temevano che l’autorità del Concilio fosse messa in dubbio. Subito dopo il Concilio Vaticano II si poteva supporre che la richiesta dell’uso del Messale del 1962 si limitasse alla generazione più anziana che era cresciuta con esso, ma nel frattempo è emerso chiaramente che anche giovani persone scoprono questa forma liturgica, si sentono attirate da essa e vi trovano una forma, particolarmente appropriata per loro, di incontro con il Mistero della Santissima Eucaristia. Così è sorto un bisogno di un regolamento giuridico più chiaro che, al tempo del Motu Proprio del 1988, non era prevedibile; queste Norme intendono anche liberare i Vescovi dal dover sempre di nuovo valutare come sia da rispondere alle diverse situazioni.

In secondo luogo, nelle discussioni sull’atteso Motu Proprio, venne espresso il timore che una più ampia possibilità dell’uso del Messale del 1962 avrebbe portato a disordini o addirittura a spaccature nelle comunità parrocchiali. Anche questo timore non mi sembra realmente fondato. L’uso del Messale antico presuppone una certa misura di formazione liturgica e un accesso alla lingua latina; sia l’una che l’altra non si trovano tanto di frequente. Già da questi presupposti concreti si vede chiaramente che il nuovo Messale rimarrà, certamente, la forma ordinaria del Rito Romano, non soltanto a causa della normativa giuridica, ma anche della reale situazione in cui si trovano le comunità di fedeli.
È vero che non mancano esagerazioni e qualche volta aspetti sociali indebitamente vincolati all’attitudine di fedeli legati all’antica tradizione liturgica latina. La vostra carità e prudenza pastorale sarà stimolo e guida per un perfezionamento. Del resto le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda: nel Messale antico potranno e dovranno essere inseriti nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi. La Commissione "Ecclesia Dei" in contatto con i diversi enti dedicati all’ "usus antiquior" studierà le possibilità pratiche. Nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso. La garanzia più sicura che il Messale di Paolo VI possa unire le comunità parrocchiali e venga da loro amato consiste nel celebrare con grande riverenza in conformità alle prescrizioni; ciò rende visibile la ricchezza spirituale e la profondità teologica di questo Messale.

Sono giunto, così, a quella ragione positiva che mi ha motivato ad aggiornare mediante questo Motu Proprio quello del 1988. Si tratta di giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa. Guardando al passato, alle divisioni che nel corso dei secoli hanno lacerato il Corpo di Cristo, si ha continuamente l’impressione che, in momenti critici in cui la divisione stava nascendo, non è stato fatto il sufficiente da parte dei responsabili della Chiesa per conservare o conquistare la riconciliazione e l’unità; si ha l’impressione che le omissioni nella Chiesa abbiano avuto una loro parte di colpa nel fatto che queste divisioni si siano potute consolidare. Questo sguardo al passato oggi ci impone un obbligo: fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in quest’unità o di ritrovarla nuovamente. Mi viene in mente una frase della Seconda Lettera ai Corinzi, dove Paolo scrive: "La nostra bocca vi ha parlato francamente, Corinzi, e il nostro cuore si è tutto aperto per voi. Non siete davvero allo stretto in noi; è nei vostri cuori invece che siete allo stretto… Rendeteci il contraccambio, aprite anche voi il vostro cuore!" (2 Cor 6,11–13). Paolo lo dice certo in un altro contesto, ma il suo invito può e deve toccare anche noi, proprio in questo tema. Apriamo generosamente il nostro cuore e lasciamo entrare tutto ciò a cui la fede stessa offre spazio.

Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto. Ovviamente per vivere la piena comunione anche i sacerdoti delle Comunità aderenti all’uso antico non possono, in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi. Non sarebbe infatti coerente con il riconoscimento del valore e della santità del nuovo rito l’esclusione totale dello stesso.

In conclusione, cari Confratelli, mi sta a cuore sottolineare che queste nuove norme non diminuiscono in nessun modo la vostra autorità e responsabilità, né sulla liturgia né sulla pastorale dei vostri fedeli. Ogni Vescovo, infatti, è il moderatore della liturgia nella propria diocesi (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 22: "Sacrae Liturgiae moderatio ab Ecclesiae auctoritate unice pendet quae quidem est apud Apostolicam Sedem et, ad normam iuris, apud Episcopum").

Nulla si toglie quindi all’autorità del Vescovo il cui ruolo, comunque, rimarrà quello di vigilare affinché tutto si svolga in pace e serenità. Se dovesse nascere qualche problema che il parroco non possa risolvere, l’Ordinario locale potrà sempre intervenire, in piena armonia, però, con quanto stabilito dalle nuove norme del Motu Proprio. Inoltre, vi invito, cari Confratelli, a scrivere alla Santa Sede un resoconto sulle vostre esperienze, tre anni dopo l’entrata in vigore di questo Motu Proprio. Se veramente fossero venute alla luce serie difficoltà, potranno essere cercate vie per trovare rimedio.

Cari Fratelli, con animo grato e fiducioso, affido al vostro cuore di Pastori queste pagine e le norme del Motu Proprio. Siamo sempre memori delle parole dell’Apostolo Paolo dirette ai presbiteri di Efeso: "Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posti come Vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo sangue" (Atti 20,28).

Affido alla potente intercessione di Maria, Madre della Chiesa, queste nuove norme e di cuore imparto la mia Benedizione Apostolica a Voi, cari Confratelli, ai parroci delle vostre diocesi, e a tutti i sacerdoti, vostri collaboratori, come anche a tutti i vostri fedeli.

Dato presso San Pietro, il 7 luglio 2007
BENEDICTUS PP. XVI
[Modificato da Cattolico_Romano 18/09/2009 19:58]
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Sul vero significato di questo documento pontificio, Giovanni Peduto ha raccolto la riflessione del cardinale Darío Castrillón Hoyos, presidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei e per molti anni prefetto della Congregazione per il Clero:


R. – Io direi che già Giovanni Paolo II voleva dare ai fedeli che amavano l’antico rito - alcuni dei quali erano passati al movimento dell’arcivescovo Lefebvre, ma che poi lo avevano lasciato per mantenere la piena unità con il Vicario di Cristo - l’opportunità di celebrare il rito che era più vicino alla loro sensibilità. Il Santo Padre Benedetto XVI ha partecipato sin dall’inizio a tutta la questione Lefebvre ed ha quindi conosciuto benissimo il problema che creava a quei fedeli la riforma liturgica. Il Papa ha un amore speciale per la liturgia. Un amore che si traduce anche in capacità di studio, di approfondimento della Liturgia stessa.
Ecco perché Benedetto XVI considera un tesoro inestimabile la Liturgia anteriore alla Riforma del Concilio. Il Papa non vuole tornare indietro. E’ importante sapere e sottolineare che il Concilio non ha proibito la Liturgia di San Pio V e bisogna inoltre dire che i Padri del Concilio hanno celebrato la Messa di San Pio V. Non è come alcuni sostengono, perché non conoscono la realtà, un tornare indietro. Al contrario: il Concilio ha voluto dare ampia libertà ai fedeli. Una di queste libertà è proprio quella di prendere questo tesoro – come dice il Papa – che è la Liturgia, per mantenerlo vivo.


D. – Cosa cambia, in realtà, con questo Motu Proprio?

R. – Con questo Motu Proprio, in realtà, il cambiamento non è tanto grande. La cosa principale è che in questo momento i sacerdoti possono decidere, senza permesso né da parte della Santa Sede né da parte del vescovo, se celebrare la Messa nel rito antico. E questo vale per tutti i sacerdoti. I parroci sono essi stessi che in parrocchia devono aprire la porta a quei sacerdoti che, avendo le facoltà, vanno a celebrare. Non è, quindi, necessario chiedere nessun altro permesso.


D. – Eminenza, questo documento è stato accompagnato da polemiche e timori: ma cosa non è vero di quanto è stato detto o letto?

R. – Non è vero, per esempio, che sia stato tolto ai vescovi il potere sulla Liturgia, perché già il Codice dice chi deve dare il permesso per dire Messa e non è il vescovo: il vescovo dà il celebret, la potestà di poter celebrare, ma quando un sacerdote ha questa potestà, sono il parroco e il cappellano che devono offrire l’altare per celebrare. Se qualcuno lo impedisce, tocca allora alla Pontificia Commissione Ecclesia Dei prendere misure, a nome del Santo Padre, affinché questo diritto – che è un diritto ormai chiaro dei fedeli - venga rispettato.


D. – Alla vigilia dell’entrata in vigore del Motu Proprio, quali sono i suoi auspici?

R. – I miei auspici sono questi: l’Eucaristia è la cosa più grande che noi abbiamo, è la manifestazione più grande dell’amore, dell’amore redentore di Dio che ci vuole accompagnare con questa presenza eucaristica. Questo non deve essere mai un motivo di discordia: lì ci deve essere solo l’amore. Io auspico che questo possa essere un motivo di gioia per tutti coloro che amano la tradizione, un motivo di gioia per tutte quelle parrocchie che non avranno più divisioni, ma avranno – al contrario – una molteplicità di santità con un rito che è stato certamente il fattore e lo strumento di santificazione per più di mille anni. Ringraziamo, quindi, il Santo Padre che ha recuperato per la Chiesa questo tesoro. Non viene imposto niente agli altri. Il Papa non impone l’obbligo; il Papa impone però di offrire questa possibilità laddove i fedeli lo richiedono. Se ci fosse un conflitto, perché umanamente due gruppi possono entrare in contrasto, l’autorità del vescovo – come dice il Motu Proprio – deve intervenire per evitarlo, ma senza cancellare il diritto che il Papa ha dato a tutta la Chiesa.

http://www.radiovaticana.org/it1/Articolo.asp?c=154791




ma senza cancellare il diritto che il Papa ha dato a tutta la Chiesa.




                   
ORDINARIUM MISSAE

RITUS INITIALIS

INTROITUS

In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti.
Amen.
Dominus vobiscum.
Et cum spiritu tuo.

Fratres, agnoscamus peccata nostra, ut apti simus ad sacra mysteria celebranda.
Confiteor Deo omnipotenti et vobis, fratres,
quia peccavi nimis cogitatione, verbo, opere et omissione:
mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa.
Ideo precor beatam Mariam semper Virginem,
omnes Angelos et Sanctos,
et vos fratres, orare pro me ad Dominum Deum nostrum.
Misereatur nostri omnipotens Deus
et, dimissis peccatis nostris, perducat nos ad vitam aeternam.
Amen.
Tratto da: www.maranatha.it
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Testo del signor Cardinale Joseph Ratzinger apparso all’inizio dell’edizione francese del libro di Mons. Klaus Gamber “La Réforme liturgique en question” (tit. orig. “Die Reform der Römischen Liturgie”), ed. Sainte-Madeleine (1992), 84330 Le Barroux, Francia. Il testo francese è stato preso dal sito dei monaci dell’Abbazia di Sainte-Madeleine di Barroux (http://www.barroux.org/docum/documpres.html ).

“Il coraggio di un vero testimone”


Un giovane sacerdote mi diceva di recente: “Ci vorrebbe oggi un nuovo movimento liturgico”. Era l’espressione di una preoccupazione che, di questi giorni, solo degli spiriti volontariamente superficiali potrebbero allontanare. Ciò che importava a questo sacerdote, non era di conquistare nuove e audaci libertà: quali libertà non ci siamo già arrogati? Sentiva che abbiamo bisogno di un nuovo inizio che tragga origine dall’intimo della liturgia, come l’aveva voluto il movimento liturgico quando si trovava all’apogeo della sua vera natura, quando non si trattava di fabbricare testi, di inventare azioni e forme, ma di scoprire il centro vivente, di penetrare nel tessuto propriamente detto della liturgia, affinché l’adempimento di questa fosse il risultato della sua stessa sostanza.



La riforma liturgica, nella sua concreta realizzazione, si è allontanata sempre più da questa origine. Il risultato non è stata una rianimazione ma una devastazione. Da un canto, abbiamo una liturgia degenerata in “show”, nella quale si cerca di rendere la religione interessante con l’aiuto di idiozie alla moda e di massime morali seducenti, con dei successi momentanei nel gruppo dei fabbricanti di liturgia, e una attitudine all’arretramento tanto più pronunciata presso coloro che cercano nella liturgia non lo “shomaster” spirituale, ma l’incontro col Dio vivente davanti al quale ogni “fare” diventa insignificante, essendo solo questo incontro capace di farci accedere alle autentiche ricchezze dell’essere.

D’altro canto, abbiamo la conservazione di forme rituali la cui grandezza emoziona sempre, ma che, spinte all’estremo, manifestano un isolamento ostinato e alla fine non lasciano altro che tristezza. Certo, tra i due estremi rimangono tutti i sacerdoti e le loro parrocchie che celebrano la nuova liturgia con rispetto e solennità, ma vengono rimessi in discussione dalla contraddizione tra i due estremi, e la mancanza di unità interna nella Chiesa alla fine fa comparire la loro fedeltà, a torto per molti di loro, come una semplice verità personale di neoconservatorismo. Un nuovo impulso spirituale è quindi necessario affinché la liturgia sia di nuovo per noi una attività della comunità della Chiesa e che venga strappata all’arbitrio dei sacerdoti e dei loro gruppi liturgici.

Non si può “costruire” un movimento liturgico di questo genere –non più di quanto si possa costruire un qualche cosa di vivo-, ma si può contribuire al suo sviluppo sforzandosi di assimilare di nuovo lo spirito della liturgia e difendendo pubblicamente quanto abbiamo fin qui ricevuto. Questo nuovo inizio ha bisogno di “padri” che siano dei modelli, e che non si contentino di indicare la via da seguire. Chi cerca oggi di tali “padri” incontrerà immancabilmente la persona di Klaus Gamber, che ci è stato purtroppo portato via troppo presto, ma che forse, e proprio nel lasciarci, ci è divenuto autenticamente presente in tutta la forza delle prospettive che ci ha dischiuso.

Giustappunto perché lasciandoci sfugge alla diatriba delle parti, potrebbe in questo momento di sconforto, divenire il “padre” di un nuovo inizio. Gamber ha portato con tutto il suo cuore la speranza dell’antico movimento liturgico. Senza dubbio, venendo da una scuola straniera, è rimasto un “outsider” sulla scena tedesca, dove non lo si voleva accettare sul serio; ancora di recente una tesi ha incontrato ingenti difficoltà perché la giovane ricercatrice aveva osato citare Gamber troppo diffusamente e con troppa benevolenza. Ma forse questo essere messo da parte è stato provvidenziale perché ha costretto Gamber a seguire la sua propria via e gli ha evitato il peso del conformismo.

E’ difficile esprimere in poche parole ciò che, nella disputa tra i liturgisti, è veramente essenziale e ciò che non lo è. Forse l’indicazione seguente potrò essere utile. J.A. Jungmann, uno dei veri grandi liturgisti del nostro secolo, aveva definito a suo tempo la liturgia, tale quale la si ascoltava in Occidente rappresentandola soprattutto attraverso la ricerca storica, come una “liturgia frutto di uno sviluppo”; probabilmente anche per contrasto con la nozione orientale che non vede nella liturgia il divenire e la crescita storici, ma solamente il riflesso della liturgia eterna, la cui luce, attraverso lo svolgimento sacro, illumina il nostro tempo mutevole con la propria bellezza e grandezza immutabili. Le due concezioni sono legittime e in definitiva non sono inconciliabili.

Ciò che è avvenuto dopo il Concilio significa tutt’altro: al posto di una liturgia frutto di uno sviluppo continuo, è stata messa una liturgia fabbricata. Si è usciti dal processo vivente di crescita e di divenire per entrare nella fabbricazione.

Non si è più voluto proseguire il divenire e la maturazione organici del vivente attraverso i secoli, e li si è rimpiazzati – come fosse una produzione tecnica – con una fabbricazione, prodotto banale del momento. Gamber, con la vigilanza di un autentico profeta e con il coraggio di un autentico testimone, si è opposto a questa falsificazione e ci ha insegnato instancabilmente la viva pienezza di una liturgia autentica, grazie alla sua conoscenza incredibilmente ricca delle fonti.

Un uomo che conosceva e amava la storia, ci ha mostrato le molteplici forme del divenire e del cammino della liturgia; un uomo che vedeva la storia dall’interno, ha visto in questo sviluppo il frutto dello sviluppo stesso e il riflesso intangibile della liturgia eterna, la quale non è oggetto del nostro fare ma che può continuare meravigliosamente a maturare e fiorire, se ci uniamo intimamente al suo mistero. La morte di questo uomo e sacerdote eminente dovrebbe stimolarci; la sua opera potrebbe aiutarci a prendere nuovo slancio.

Joseph, cardinale RATZINGER.






KLAUS GAMBER

Storia della liturgia

Molto volentieri, in occasione del decesso improvviso di Klaus Gamber, dirò qualche parola in sua memoria, conoscendo il defunto da lunga data, soprattutto attraverso le sue pubblicazioni scientifiche consacrate alla storia della liturgia.
Ci sono poche discipline per le quali la storia abbia una importanza tanto fondamentale quanto per la liturgia, ovvero la scienza del culto cristiano nel senso più vasto del termine. Senza la conoscenza delle origini della liturgia, della sua evoluzione, delle suo modifiche e degli sviluppi che ha subito, non si possono comprendere le ragioni e lo stato attuale dei riti e dei testi liturgici, né il loro svolgersi nei tempi, lo spazio e le cose.
La conoscenza della storia della liturgia è dunque la condizione indispensabile per una interpretazione corretta e per un apprezzamento della liturgia di ieri così come per quella di oggi.
Considerando lo stretto legame esistente tra la fede e la liturgia (lex orandi – lex credendi), quest’ultima obbedisce a delle leggi analoghe a quelle della fede stessa, bisogna sapere che essa esige di essere preservata con grande cura, e quindi che è essenzialmente orientata verso la conservazione. Ogni ulteriore sviluppo dovrà essere oggetto di una prudente riflessione, essere in qualche modo guidata dal sensus fidelium, e non potrà divenire effettivo se non sotto il controllo attento dell’autorità. Per diversi motivi, durante questi lunghi periodi di evoluzione, possono sorgere delle deformazioni, che saranno spesso rilevate postume, e che, presto o tardi, dovranno essere corrette.
Per apprezzare al pertinenza delle riforme e degli sviluppi che la liturgia ha conosciuto nel passato, come per apportarvi eventuali rettifiche, e ancora più per contribuire allo sviluppo del culto richiesto dai nostri tempi, la conoscenza esatta degli elementi costitutivi e della loro evoluzione è una condizione importante e addirittura indispensabile.


(Translation from French made by courtesy of Angela, amici di Ratzinger)
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