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Giovanni Paolo II in un libro di Gian Franco Svidercoschi

Ultimo Aggiornamento: 25/09/2009 05:58
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25/09/2009 05:51

E il capo del partito imprecò al telefono


La notizia arrivò in Polonia mentre era in corso una riunione del comitato centrale del Poup, il partito comunista. Uno dei capi rispose al telefono e, sentendo ciò che c'era scritto nel dispaccio dell'agenzia di stampa, se ne uscì con una imprecazione. "Proprio lui!" esclamò. Non ci fu nemmeno bisogno di dirlo, gli altri lo capirono immediatamente. E dopo la sorpresa, dopo la rabbia, subentrò in tutti un profondo stato di depressione. Al punto che, non sapendo come presentare e commentare la notizia, il telegiornale venne rinviato un'incredibile infinità di volte.

Che fosse stato eletto Papa proprio lui, Karol Wojtyla, profondo conoscitore del marxismo e diventato ormai da tempo la "bestia nera" del governo di Varsavia, fu un autentico shock per l'intero mondo sovietico. Nelle capitali dell'impero, per una decina di giorni, dominò un silenzio totale. Ma, tre settimane dopo, era già pronta una prima analisi di Mosca sugli effetti destabilizzanti che avrebbe quasi sicuramente avuto nell'Urss l'elezione di un Papa polacco. Anzi, come si leggeva nel rapporto, "l'elezione di un cittadino di un Paese socialista".

Ma anche in Occidente, in certi ambienti diplomatici e politici, non furono in pochi a storcere il naso. Ricordo, un nome fra i tanti, il senatore Giovanni Spadolini:  un vero spirito liberale, eppure
spaventatissimo da quella nomina. "Che ne sarà della Ostpolitik vaticana?", mi chiese. Si temeva soprattutto che ne derivassero dei pericoli per la stabilità della situazione geopolitica ereditata da Yalta, dalle imposizioni di Stalin, ritenendola comunque l'unica "risorsa" possibile per non rompere un equilibrio così precario e quindi per salvaguardare la pace.

Alla fine degli anni Settanta, lo scenario mondiale era molto diverso da oggi. C'era ancora la "guerra fredda", con la cortina di ferro a dividere in due l'Europa. C'era ancora l'Unione Sovietica a fronteggiare l'altra superpotenza, quella americana, perpetuando così sia il rischio a un conflitto nucleare sia il dominio in duopolio su un Sud sempre più povero. C'era ancora tutto un bagaglio ideologico che condizionava negativamente i rapporti fra gli Stati e la vita interna dei singoli Paesi. L'Italia era ancora sotto l'incubo del terrorismo, solo pochi mesi prima era stato barbaramente assassinato Aldo Moro.
I timori e le critiche, per la scelta operata dal Collegio cardinalizio, non provenivano però solo da fuori. Nella Curia romana, e anche tra i vescovi, c'era chi nutriva più di una perplessità nei confronti di un Papa che arrivava da un altro mondo, da un'altra storia, e aveva quindi un'altra concezione della vita ecclesiale, del governo della Chiesa.

E poi, nei circoli cattolici più progressisti, si avvertiva una diffidenza ancora maggiore verso "il polacco". Lo consideravano un conservatore, un tradizionalista, appunto perché era espressione di una Chiesa giudicata, preconciliare, di una religiosità intrisa di bigottismo, e, sotto sotto, di un cattolicesimo di serie b, ai margini dei grandi centri di pensiero e delle grandi riforme.

Si trattava chiaramente di giudizi, anzi, di pregiudizi, viziati in partenza da una scarsissima conoscenza dei fatti reali, degli sviluppi più recenti. Non si sapeva o si sapeva molto poco del rinnovamento conciliare attuato dalla Chiesa polacca, del suo dinamismo pastorale, dei seminari pieni, delle nuove forme di impegno missionario, dell'apertura sempre più larga ai laici nella vita ecclesiale. E proprio per essere riuscita a mantenere pubblicamente una sua presenza attiva, la Chiesa aveva creato spazi di libertà non solo per sé, ma per tutti i cittadini, potendo in questo modo dare sostegno a quanti - dissidenti, intellettuali, studenti, ebrei - erano oppressi dal potere comunista.

Così come non si sapeva o si sapeva molto poco del pensiero teologico-filosofico di Karol Wojtyla, della concezione che aveva maturato dell'uomo in quanto persona e della storia in quanto "luogo" in cui si realizza il disegno del Creatore. Dunque, non un atteggiamento "contro" qualcuno o qualcosa - e non importa che fosse il materialismo dialettico o il liberismo economico - bensì quella "verità" sull'uomo che presuppone il primato dell'essere umano sulle cose, la priorità dell'etica sulla tecnica e sui sistemi socio-economici, la superiorità dello spirito sulla materia. E poi anche da vescovo, del resto, monsignor Wojtyla si era sempre preoccupato più di rafforzare la missione della Chiesa, di rivendicare il rispetto dei diritti umani, che non di sfidare frontalmente il regime.

Diventato Papa, non nascose affatto le sue origini. Anche perché, con il passare dei mesi, si rese conto del carattere di provvidenzialità che il suo "essere polacco" avrebbe potuto avere per la Chiesa universale. E lo ricordò con parole forti (e forse anche un po' polemiche) durante il suo primo ritorno in Patria, nella visita ad Auschwitz (Oswiecim). "Può ancora meravigliarsi qualcuno che il Papa, nato ed educato in questa terra; il Papa che è venuto alla sede di San Pietro dalla diocesi nel cui territorio si trova il campo di Oswiecim, abbia iniziato la sua prima enciclica con le parole "Redemptor hominis" e che l'abbia dedicata nell'insieme alla causa dell'uomo...?".

Il 1° settembre del 1939, con l'invasione nazista della Polonia, era scoppiata la seconda guerra mondiale. Karol aveva allora 19 anni. Era fuggito con il padre verso Est, aveva percorso quasi 200 chilometri a piedi fino al fiume San; ma qui, avendo saputo che l'esercito russo era entrato nel territorio polacco da Oriente, era stato costretto a tornare indietro. Insomma, è come se il giovane Wojtyla avesse vissuto in prima persona il famigerato patto Ribbentrop-Molotov, la spartizione della Polonia fra Hitler e Stalin quando ancora andavano d'accordo.


(©L'Osservatore Romano - 25 settembre 2009)
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