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Pio X e il terremoto del 1908 a Messina

Ultimo Aggiornamento: 27/09/2009 07:17
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27/09/2009 07:16

Pio X e il terremoto del 1908

Un padre premuroso per gli orfani di Reggio e di Messina


di Alejandro Mario Dieguez

Quella tragica mattina del 28 dicembre 1908 l'ufficiale postale Antonio Barrera riuscì per primo a dare notizia del disastro dalla postazione telegrafica di Scaletta Zanglea, raggiunta dopo una affannosa fuga lungo i resti della ferrovia:  "Scampata miracolosamente la vita. Sconosco sorte miei compagni. Messina distrutta".

Quattro ore prima, esattamente alle 5.20 del mattino, un terremoto che raggiunse l'xi grado della scala Mercalli, seguito da un maremoto di una violenza straordinaria, aveva devastato in soli 31 secondi le città di Reggio Calabria e Messina. Gli effetti furono catastrofici:  le vittime stimate 100.000, di cui 2.000 spazzate via dal mare.

Nelle ore successive, superata una iniziale reazione di incredulità, mentre a Roma le istituzioni statali, filantropiche e cattoliche incominciavano a organizzare i primi soccorsi, Pio X maturava una decisione che avrebbe senz'altro suscitato stupore:  recarsi personalmente sui luoghi del disastro, chiedendo al dirigente della sezione Ferrovie del ministero dei Lavori pubblici, un buon cattolico di origine veneta, una carrozza a disposizione. Purtroppo, il segretario di Stato Rafael Merry del Val e altri cardinali di curia, venuti a conoscenza delle trattative in corso, riuscirono a distogliere dal progetto il Pontefice, il quale, si dice, in seguito "ebbe a dolersi di essersi lasciato convincere".

Papa Sarto dovette quindi accontentarsi di guidare i soccorsi "a distanza":  i suoi primissimi provvedimenti furono l'apertura dell'ospizio di Santa Marta in Vaticano ai feriti e la costituzione di una commissione da inviare subito sui luoghi del terremoto per coordinare gli aiuti.
 
Il Pontefice seguiva nei minimi dettagli le problematiche legate ai soccorsi e, come era suo stile, interveniva personalmente in ogni singola decisione. Così, all'arcivescovo di Santa Severina in Calabria, che gli inviava una sconsolata relazione dei danni sofferti dalle chiese della sua diocesi, faceva rispondere risolutamente:  "Si terrà conto dei bisogni materiali specialmente delle chiese quando si sarà provveduto all'urgenza dei malati e dei senza pane".

Era ormai il 13 gennaio 1909 e Pio X attendeva ancora gli esiti della missione che aveva affidato una settimana prima al sacerdote reggiano Emilio Cottafavi:  provvedere all'imbarco degli orfani e dei feriti su un vapore, il "Cataluña", allestito come nave ospedale e messo a sua disposizione dall'armatore spagnolo Claudio López Brou de Comillas per il trasporto dei feriti all'ospizio di Santa Marta. Ma la nave, arrivata in ritardo per un'avaria, solo dopo molte polemiche, vicissitudini e ostacoli burocratici riuscirà a imbarcare 200 orfani che giungeranno al porto di Civitavecchia il 1° febbraio.

Oltre ai prodigi di carità che don Luigi Orione andava compiendo sui luoghi del terremoto, gli istituti religiosi romani, rispondendo a un esplicito appello di Pio X, fecero a gara per accogliere questi piccoli sventurati:  alcune comunità, come i Benedettini di San Calisto, si ridussero in quei giorni a dormire sulle tavole per ospitarne il maggior numero possibile e i monasteri femminili di clausura, prontamente dispensati dal Papa, aprirono le porte a tante ragazze che altrimenti avrebbero dovuto dormire nei capannoni della stazione Termini.
 
Due istituti furono appositamente fondati:  l'orfanotrofio Pio X delle Figlie del Sacro Cuore a Grottaferrata, che diede accoglienza a cinquanta bambine per le quali il pontefice provvide di tutto, dai letti al vestito, e l'istituto delle Missionarie Francescane di Maria di Monteverde a Roma, che ospitò fino a centottanta bambine, molte delle quali inviate dal Patronato di assistenza statale.

L'emergenza vide così impegnati in prima linea numerosi istituti che accolsero i bambini ora a titolo gratuito, ora dietro il pagamento di una modica retta:  sui luoghi del terremoto si distinsero, tra gli altri, l'orfanotrofio di Polistena - fondato dal vescovo Morabito di Mileto -, l'istituto della Provvidenza San Gaetano di Reggio Calabria, gli istituti delle Figlie di Maria Ausiliatrice di Bronte e di Alì Marina, l'istituto Sacra Famiglia di Catania; mentre a Roma aprirono le loro porte gli Artigianelli di San Giuseppe, il Collegio Pio X dei Giuseppini e i diversi istituti dei Salesiani di Don Bosco, anche dell'Italia centrale.

Per rendere maggiormente stabile e duratura l'opera di assistenza, il 24 marzo 1909, Papa Sarto stanziò, dalla sua "borsa particolare", un milione di lire che secondo i calcoli doveva essere più che sufficiente al mantenimento e all'educazione di 400 orfani per un decennio.

Nominò poi come suo speciale incaricato l'avvocato romano Giuseppe Fornari, segretario del Comitato di soccorso della Gioventù Cattolica Italiana, affinché si prendesse cura degli orfani accolti per conto del Papa nei diversi istituti, "visitandoli, vigilando al loro benessere ed alla loro igiene, pagando le dovute quote mensili e provvedendo a tutto quanto era necessario per la loro buona riuscita".

Superata la prima emergenza, l'avvocato Fornari si adoperò per attuare la calda raccomandazione del Papa perché, qualora il collocamento dei bambini non potesse farsi nei luoghi d'origine, fossero raccolti il più possibile in Roma o nelle vicinanze e i fratelli fossero riuniti nello stesso istituto o almeno in istituti vicini.

Per più di un decennio quindi, come attestano le carte conservate nell'Archivio Segreto Vaticano recentemente messe a disposizione dei ricercatori, Giuseppe Fornari si prese cura come un padre degli orfani sotto ogni aspetto:  legale, sanitario, disciplinare, morale  e materiale. Incontrandoli periodicamente,  aiutava loro a orientarsi negli studi e a discernere la propria vocazione:  coloro che manifestavano maggiore predisposizione portarono a compimento  il corso magistrale per poi fare ritorno nelle loro terre come insegnanti, qualcun altro riuscì anche a compiere gli studi universitari. Negli altri casi, quando gli orfani venivano finalmente restituiti ai legittimi tutori, Fornari si adoperava per procurare loro strumenti di lavoro, come le macchine da cucito, che gli avrebbero permesso di affrontare la vita con le proprie forze.

Grazie all'oculata amministrazione gestita da Fornari, l'opera assistenziale avviata dal Papa diede un tetto e un mestiere a 605 orfani del terremoto calabro-siculo del 1908, poté essere estesa da Papa Benedetto xv a circa 240 bambini e ragazzi superstiti del terremoto della Marsica del 1915 e servì a lenire le miserie causate dall'epidemia influenzale, detta spagnola, del 1918. Anzi, a distanza di vent'anni dal disastro che oggi ricordiamo, quella somma stanziata da Papa Sarto era ancora sufficiente per sostenere qualche orfano, allora accolto piccolissimo o malato.

È questo un aspetto oggi meno noto della grande figura di san Pio X che non passò, però, inosservato ai suoi contemporanei, neanche alla stampa anticlericale,  la quale non poté nascondere la sua ammirazione per quanto, in silenzio, il Pontefice aveva compiuto.



(©L'Osservatore Romano - 27-28 dicembre 2008)
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Luigi Orione e Annibale Maria Di Francia tra i sopravvissuti al funesto sisma

«Stasera dormirò coi morti»


di Aurelio Fusi

Il 28 dicembre si celebra il primo centenario del terremoto che distrusse le città di Reggio Calabria e di Messina. In quella occasione la capacità organizzativa dello Stato italiano, che aveva trovato la sua unità da pochi decenni, venne messa a dura prova dalle disastrose conseguenze del cataclisma. Ma, nello stesso tempo, la macchina dei soccorsi trovò validi collaboratori sia tra le fila dei civili come degli ecclesiastici.

Tra questi ultimi è da annoverare san Luigi Orione, vero eroe di carità cristiana. Negli anni dal 1908 al 1912, le due città terremotate assistettero alla sua prima grande rivelazione pubblica, con la manifestazione della sua multiforme carità. Questa rivelazione di sé, Don Orione la diede luminosamente, "non nella confusione, bensì in una distinzione amorevole, in un calore di amore e di fervida coscienza", come testimoniò il duca Tommaso Gallarati Scotti.

Don Orione diverrà da allora il padre dei terremotati, non solo nel senso letterale, ma anche traslato e metaforico del termine, perché sarà padre dei terremotati della vita, dei poveri, dei malati, degli orfani. Il 1908, dopo momenti dolorosi come la morte del discepolo don Gaspare Goggi e della madre Carolina Feltri, fu l'anno del cambiamento, in cui il santo della carità lasciò Tortona per ampliare il suo campo d'azione. La permanenza di tre anni in Sicilia come vicario generale della diocesi di Messina segnò anche l'inizio della popolarità nazionale di don Orione, che da quella data in poi non sarà più solo e principalmente tortonese.

In questo centenario, molti ricorderanno quel tragico 28 dicembre per far emergere tra l'oscurità del male la luce della carità perché, come scrisse Seneca, "ciò che fu atroce a sopportare, può essere sublime a ricordare".
Domenica 27 dicembre 1908, sul giornale umoristico di Messina, "Il telefono", si poteva leggere una sacrilega parodia della novena di Natale con una delirante invocazione a Gesù Bambino, rimasta tristemente famosa:  "O Bambinello mio, vero uomo e vero Dio, per amor della tua croce, fa sentir la nostra voce:  Tu che sai, che non sei ignoto, manda a tutti un terremoto".

Ore 5.20 circa del giorno seguente:  una scossa di terremoto - di soli trenta secondi, ma del decimo grado della scala Mercalli - e un maremoto, con onde che raggiunsero i dieci metri di altezza, travolsero Messina e l'antistante costa calabra. I morti furono circa ottantamila, il 91 per cento degli edifici venne raso al suolo o reso instabile.

Don Orione apprese la notizia il 29 dicembre dai giornali che parlavano di distruzioni anche a Noto presso Siracusa dove la congregazione aveva già una colonia agricola. Scosso dalle notizie, anche se frammentarie, decise di intervenire. Si recò dal vescovo di Tortona il 2 gennaio 1909 per chiedere di potersi recare sui luoghi della sciagura a portarvi il suo aiuto. Per le spese di viaggiò non esitò a vendere un paio di buoi e il 4 gennaio, con la corsa delle 9.18, lasciò Tortona in compagnia di un sacerdote della diocesi, più anziano, don Carlo Pasquali e nella tarda serata fece una tappa a Roma, dove si fermò anche parte del giorno successivo, molto probabilmente per un salto in Vaticano, onde avere indicazioni e ricevere disposizioni. Ripartì in giornata e la mattina seguente - Epifania del 1909 - raggiunse la Calabria. Mentre don Pasquali proseguì lungo la costa tirrenica per raggiungere monsignor Morabito, vescovo di Mileto, egli passò sull'altro versante dell'appennino calabro, puntando su Cassano Jonio per predisporre con il vescovo La Fontaine l'accoglienza dei primi orfani.

Presi gli accordi con il vescovo, ripartì alla sera con il treno che aveva ancora qualche sobbalzo per le scosse di terremoto. La mattina del 7 era a Catanzaro Marina, da dove spedì il primo scritto per Tortona:  "Caro Sterpi, sono a Catanzaro Marina. Stanotte due scosse di terremoto. Stabilito apertura Colonia Agricola con monsignor La Fontaine. Sono diviso da don Pasquali. Vado Reggio. Pregate e fate pregare giovani".

Purtroppo la precarietà dei mezzi di trasporto frenò la marcia. Mentre aveva scritto "vado Reggio" nell'evidente previsione di raggiungere presto quella città, dopo una sessantina di chilometri il treno si fermò a Roccella Jonica. Ne approfittò per scrivere un secondo biglietto, questa volta indirizzato a don Giuseppe Ravazzano:  "Sono a poca distanza da Reggio. Stasera dormirò coi morti (...) Scrivo da una rovina. Avrò da farmi quattro ore a piedi. Stanotte due belle scosse che il treno saltava".
 
Ma, di nuovo, nonostante la speranza di essere presto a Reggio nel cuore della tragedia, dopo una settantina di chilometri, il treno si fermò a Bova e il viaggio venne nuovamente interrotto. Questa volta, però, la sosta fu provvidenziale. Per don Orione fu una breve parentesi di serenità nel concitato peregrinare di quei giorni. Cercata ospitalità presso il seminario locale, vi trovò i Salesiani e fra essi un suo antico insegnante all'oratorio di Valdocco di Torino. Gli ultimi quarantacinque chilometri, da Bova a Reggio, presentarono le maggiori difficoltà:  a coprirli occorsero un giorno e una notte.

Nel capoluogo calabro don Orione arrivò solo il 9 mattina. Raggiunse subito l'unico centro organizzato della città, la scuderia del palazzo arcivescovile, dove il vicario capitolare, Dattola, aveva organizzato un'infermeria. Già durante quella prima giornata di permanenza a Reggio, don Orione seguì il suo solito ritmo di attività, prendendo una sommaria visione della situazione. La città che prima del terremoto aveva circa quarantacinquemila abitanti, ora ne contava un terzo di meno ed era pressata da mille urgenti necessità. Per questo senza troppi indugi don Orione pensò di condurre a don Pasquali gli orfanelli che aveva raccolto, mentre lui sarebbe tornato a prestare la sua opera sul luogo del disastro. Così, la sera del 9 gennaio, lo stesso giorno in cui era arrivato a Reggio, ripartì con gli orfani per Gioia Tauro, presso Mileto, dove vi era la ferrovia ancora funzionante.

La cittadina, seguendo la costa tirrenica, dista da Reggio solo cinquantuno chilometri. Ma siccome da quella parte la linea ferroviaria era interrotta e i bambini che portava con sé non avrebbero potuto affrontare complicati trasbordi o fare lunghi percorsi a piedi, risalì la costa jonica e fece trecentoventi chilometri impiegandovi una notte e un giorno. Arrivò, infatti, a Gioia Tauro alle 18 del 10 gennaio. Alle 20.30 era di nuovo in treno per ripetere i trecentoventi chilometri in senso inverso.

Il 12 e il 13 si fermò a Reggio che aveva fissato come base operativa. Il 14 era a Messina per parlare con il geometra Mazza di Rivanazzano e di lì fece un salto a Noto per visitare i suoi religiosi e per prendere un giovane come assistente degli orfanelli di Cassano Jonio. Il 17 era nuovamente in Calabria, come si rileva da un biglietto indirizzato a Don Sterpi:  "Sono stato a Noto e porto con me un giovane di quella Colonia che farà da assistente a Cassano. Stasera sarò a Gioia Tauro da monsignor Morabito. Fate pregare. Presto vengo; io sto bene; a Noto tutto bene". Il giorno dopo, 18 gennaio 1909, con la partenza di Don Pasquali e degli orfanelli per Cassano, venne fissata la prima tenda orionina in Calabria.

Nelle settimane successive Don Orione venne dirottato a svolgere la sua attività benefica a Messina dove il movimento di assistenza degli orfani coordinato da monsignor Cottafavi per la Santa Sede e dalla contessa Spalletti per il Patronato Regina Elena, finì per gravare in buona parte sulle sue spalle. Salì a bordo della nave "Cataluña", inviata da un marchese spagnolo, per raccogliere gli orfani nei porti ancora accessibili. Il 30 gennaio gli vennero affidati per decisione del prefetto gli orfani di Messina che don Orione suddivise fra le case di Cassano e di Noto; sentì il dovere di farsi papà e mamma per tutti quei piccoli, pur non avendo sempre i mezzi necessari per aiutarli, come avrebbero avuto bisogno.



Da due santi un messaggio per l'Italia


di Flavio Peloso

La storia dell'Italia contemporanea ha ricevuto un notevole contributo dalla testimonianza di padre Annibale Maria Di Francia e di don Luigi Orione, uniti dal terremoto di Messina del 1908 e dalla santità. A far incontrare i due fu il terribile sisma che distrusse Reggio Calabria e Messina provocando decine di migliaia di morti.

Insieme i due santi scrissero una delle più gloriose pagine nella tragica storia di Messina:  salvarono dalla disperazione tantissime persone, diedero un futuro a migliaia di orfani, organizzarono la solidarietà di persone generose provenienti da gran parte dell'Italia.

Don Orione incontrò resistenze, avversità, subì anche un attentato. Al suo fianco, a consigliarlo, a difenderlo dalla malevolenza, c'era padre Annibale. Dalle macerie del disastroso terremoto lanciarono un ponte di solidarietà tra il nord e il sud dell'Italia.

L'unità d'Italia è stata fatta anche da santi come padre Annibale Di Francia e don Luigi Orione. Massimo d'Azeglio ha lasciato in tutti i libri della storia d'Italia una massima pronunciata all'indomani dell'unità della nazione:  "L'Italia è fatta, ora dobbiamo fare gli italiani". A dire il vero, l'Italia era già stata fatta ed erano ormai consapevoli del loro ruolo nazionale anche gli italiani.

Va riconosciuto, però, che al tempo di padre Annibale e di don Orione l'Italia era ancora profondamente divisa.

Quello che mancava, per fare l'unità, era la fraternità, che dell'unità è vero e insostituibile fondamento. Una fraternità non idealistica o pietistica, ma coniugata con il rispetto delle culture, con la solidarietà, con la pazienza prima e la promozione delle diversità poi. Ebbene, a stimolare questa fraternità nell'Italia del primo Novecento pochi eventi hanno contribuito quanto il dolore patito dalla gente della regione calabro-sicula con il terremoto del 1908 e quanto la solidarietà espressa sulle macerie di quei paesi da persone generose provenienti da tutta Italia.

A Reggio Calabria e Messina, negli anni dopo il terremoto, si parlavano tutti i dialetti d'Italia, assieme all'italiano  forbito  dei  vari  Tommaso Gallarati Scotti, Aiace Alfieri, Gabriella Spalletti Rasponi, Zileri Dal Verme, Gina e Bice Tincani e di altri.






(©L'Osservatore Romano - 27-28 dicembre 2008)
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