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la beatificazione di don Carlo Gnocchi

Ultimo Aggiornamento: 26/10/2009 18:09
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La dichiarazione d'amore di don Carlo Gnocchi

Geloso di un Novecento grande e disperato


Il 2 ottobre si tiene a Milano, nell'Università Cattolica del Sacro Cuore, il convegno ""Amiamo di un amore geloso il nostro tempo". Don Carlo Gnocchi e il Novecento". Sul tema pubblichiamo un articolo di uno dei relatori.

di Daniele Bardelli

La riprovazione dei mali causati dal progresso impetuoso del Novecento ha fatto spesso condannare i cattolici come inguaribili reazionari, secondo uno scontato pregiudizio che confonde il riferimento alla tradizione con la rinuncia a confrontarsi con il presente e la sua problematicità. Il "secolo nuovo" è stato invece lumeggiato da figure significative di credenti pienamente coinvolti nel loro tempo, impazienti di raccogliere le sfide dell'economia, dei mutamenti sociali, dell'evoluzione politica, non solo per difendere i propri consolidati valori, ma per vivificare la modernità. Non si comprenderebbe altrimenti la dichiarazione d'amore che don Carlo Gnocchi espresse nei confronti di un Novecento "così grande e così avvilito, così ricco e così disperato, così dinamico e così dolorante", che tuttavia egli avrebbe nuovamente scelto "senza un istante di esitazione" se fosse tornato a nascere, nutrendo per esso "un amore geloso". 

Una predilezione manifestata nel 1937, quando già conosceva le inquietudini del secolo, l'attesa e il travaglio di tempi nuovi che le istanze frenetiche delle avanguardie e i piani redentivi delle ideologie cercavano di propiziare, mentre per i cattolici restavano da chiudere definitivamente molti solchi che ancora li isolavano dagli ambiti che la modernità modellava in formule inedite, come le nuove aggregazioni sociali di massa e lo Stato.

Il cardinale Schuster, nel 1944, indicava al clero ambrosiano la necessità di imitare don Bosco, don Orione e don Guanella per riuscire a fare intendere il messaggio cristiano agli uomini di un'epoca tanto determinata a superare il passato, proiettata nelle visioni di un futuro di tendenziale autonoma perfezione. "La predica più efficace" di quei "preti di fede, che non fecero mai carriera perché vollero restare a disposizione unicamente del popolo", fu la loro stessa vita, e sul loro modello don Carlo Gnocchi orientò la propria missione terrena, obbedendo alle necessità che le circostanze gli ponevano innanzi, anche se controverse o rischiose.

Fu, dunque, oltre che parroco, direttore spirituale degli allievi dell'Istituto Gonzaga, ma anche cappellano dei Balilla, convinto che non si dovesse tralasciare il "magnifico campo d'apostolato moderno" delle nuove organizzazioni di massa, per mettere i sacerdoti "a contatto con zone vastissime di anime non altrimenti accostabili per via ordinaria". "La nostra consegna - ammoniva dalle pagine della Rivista del clero - è quella del Papa:  capire i tempi nuovi", senza pedissequa sottomissione e meno ancora fraintendimento di piani fra il politico e lo spirituale (dove a fraintendere era piuttosto la pretesa totalizzante del regime). Se il fascismo aveva pur "rivoltato la faccia della terra italiana", non era per nulla scontato che le "forme nuove di civiltà" annunciate da Mussolini avrebbero avuto connotati cristiani. I cattolici - clero in testa - dovevano invece lavorare perché ciò avvenisse.

L'arruolamento volontario come cappellano militare fu conseguente al desiderio di condividere con i "suoi" giovani non solo i rischi del campo di battaglia, ma l'intero dramma di un conflitto che appariva l'acme e si sarebbe rivelato il collasso di tutta un'epoca. Essere "direttamente presente al vasto fenomeno spirituale della guerra" era per don Gnocchi imperativo "per il domani", quando come prete avrebbe dovuto parlare a una generazione devastata dall'esperienza bellica.

Conobbe così nei Balcani e in Russia l'orrore che dissolse in lui ogni astrazione teorica sull'uomo e sulle sue sorti progressive. La condizione umana - a dirla con Giorgio Rumi - gli si mostrò "nella sua nudità sofferente, incapace di redimersi da sola", in grado solo di intendere la tenerezza divina.

Di fronte alle sofferenze degli alpini, don Carlo Gnocchi si dette disponibile a incarnare una tale amorevolezza in un'opera di carità che ancora non intravedeva, ma che si sarebbe rivelata "vocazione imperiosa" quando le lacrime di vittime ancora più incolpevoli, i bambini mutilati, lo accusarono "insopportabilmente" di ogni consentimento, anche solo implicito, con chi "farneticava di spazi vitali e di supremazie di razza". Il desiderio d'espiare l'"oscura colpa", la responsabilità individuale e collettiva del male, del disordine morale che aveva generato e alimentato la guerra, lo portò a sovvenire al dolore dell'innocente che "paga per tutti".

È questo l'educatore che padre Gemelli volle come assistente ecclesiastico degli studenti della Cattolica. E fu proprio durante i due anni in cui vi lavorò, fra il 1946 e il 1948, che per don Gnocchi si decise la strada del futuro, nella fatica di un discernimento tra i desideri umani, le altrui volontà, le urgenze di ciò che vedeva crescere fra le sue mani.

Alla fine, dall'università dovette prendere congedo, per la difficoltà a corrispondere ai doveri di un ruolo che Gemelli concepiva "come una funzione parrocchiale", e che come tale richiedeva completa dedizione. Lo riconosceva anche don Gnocchi:  costretto da "situazioni più forti e obbliganti" a scegliere fra l'ancora giovane opera della Pro Infanzia e la già robusta Università Cattolica del Sacro Cuore, "a quale - si chiedeva - io dovevo cedere?".

Al di là delle prospettive diverse e anche divergenti circa l'educazione, con Gemelli ci furono importanti tratti di sintonia:  il sacerdote vedeva la necessità di restituire all'uomo "una meta ragionevole di vita, una ferma volontà per conseguirla e una chiara norma di moralità"; il rettore coglieva l'urgenza di formare i giovani perché con l'intelletto, il carattere e la volontà potessero "scegliere un fine, imporselo, raggiungerlo". Per entrambi certamente "il naturale" da solo non bastava alla salvezza, ma neppure il soprannaturale "senza il concorso della natura", cioè della persona nella sua umana concretezza di "carne animata e anima incarnata".

Su questi presupposti etici e pedagogici si fondavano itinerari che rettore e assistente potevano pensare differentemente declinati, ma che tendevano entrambi alla "restaurazione" della persona nella sua integralità umana e spirituale, in un dopoguerra che già mostrava problemi e debolezze anche superiori al passato.


(©L'Osservatore Romano - 2 ottobre 2009)
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21/10/2009 21:46

Milano si prepara alla beatificazione di don Carlo Gnocchi

Il sacerdote soccorse centinaia di vittime della Seconda Guerra Mondiale

di Carmen Elena Villa

MILANO, mercoledì, 21 ottobre 2009 (ZENIT.org).-

La piazza del Duomo di Milano sarà lo scenario della beatificazione di don Carlo Gnocchi (1902-1956), ispiratore della Fondazione che porta il suo nome e che presta il proprio servizio in 28 centri in Italia a uomini e donne con handicap, anziani, malati di cancro e persone in stato vegetativo.

La cerimonia si celebrerà alle 10.00 del 25 ottobre e sarà presieduta dall'Arcivescovo di Milano, il Cardinale Dionigi Tettamanzi, contando sulla presenza di monsignor Angelo Amato, prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi e inviato di Papa Benedetto XVI alla cerimonia.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, don Gnocchi si offrì come cappellano volontario degli alpini che combattevano.

E' anche ricordato come un eroe della solidarietà nei confronti delle vittime della guerra. Lo chiamavano “padre dei mutilatini” e degli orfani dei combattenti, visto che il centro da lui creato provvedeva alla riabilitazione di quanti soffrivano a livello fisico le conseguenze del conflitto.

Le sue parole sono ancora di enorme attualità nel XXI secolo: “Prima che la crisi politica o economica, c'è una crisi morale, anzi, una crisi metafisica. Come tale investe più o meno attualmente tutti i popoli, perché tocca l'uomo e il suo problema esistenziale”, scriveva nel 1946.

ZENIT ha parlato con il postulatore della causa di beatificazione di don Gnocchi, padre Rodolfo Cosimo Meoli F.S.C, che ha spiegato come la sua vita continui ad avere grande eco nel mondo odierno.

Come visse la sua infanzia don Carlo?

P. Rodolfo Cosimo Meloli: Fu un'infanzia attraversata da grandi lutti: suo padre morì di silicosi nel 1907, quando Carlo aveva soltanto 5 anni. Due anni dopo morì suo fratello Mario per meningite. L'altro fratello Andrea, il primogenito, sarà portato via dalla tubercolosi nel 1915. Carlo resta solo con la madre Clementina Pasta. Lei è donna coraggiosa e, nonostante sia costretta a vivere in condizioni difficilissime, non solo non perde la fiducia in Dio, ma arriva a pregare così: "Due miei figli li hai già presi, Signore; il terzo te l'offro io, perché tu lo benedica e lo conservi sempre al tuo servizio".

In queste circostanze, come si rese conto della sua chiamata al sacerdozio?

P. Rodolfo Cosimo Meloli: La madre giocò senz'altro un ruolo fondamentale; la grazia di Dio e la frequenza alle attività parrocchiali fecero il resto. Ci fu poi la corrispondenza alle ispirazioni della grazia, fatto tutto personale questo, di cui Don Carlo ha dato ampie prove per tutto il corso della sua vita”.

Quali sono state le sue virtù principali?

P. Rodolfo Cosimo Meloli: Più che "delle virtù" parlerei "della virtù": la carità, che tutte le racchiude e le nobilita. Carità fatta attenzione, tenerezza, compassione, accoglienza, disponibilità...

Come decise di creare la fondazione "Pro Iuventute"?

P. Rodolfo Cosimo Meloli: Era andato in guerra come cappellano volontario. "Un prete non può non stare dove si muore!", diceva. Poi la tragica esperienza della ritirata di Russia fece maturare in lui il disegno concreto di provvedere all'assistenza degli orfani dei suoi alpini e delle tante altre piccole vittime innocenti di ordigni bellici. "Desidero e prego dal Signore una sola cosa: servire per tutta la vita i suoi poveri. E' questa la mia 'carriera'", scriveva a un suo cugino. La prima istituzione da lui creata era denominata "Pro Infanzia Mutilata" (1947), divenuta "Fondazione Pro Iuventute" nel 1952.

Qual è lo scopo di questa fondazione?

P. Rodolfo Cosimo Meloli: L'opera sorse con lo scopo di soccorrere i "mutilatini di guerra". Poi, nel corso degli anni e soprattutto con la graduale scomparsa dei mutilatini, l'opera di don Carlo ha progressivamente ampliato le attività assistenziali. Oggi nei Centri della Fondazione sono accolti pazienti con ogni forma di disabilità, pazienti che hanno bisogno di interventi e cure riabilitative, anziani non autosufficienti e malati oncologici in fase terminale.

In che modo la sua testimonianza può illuminare i sacerdoti in questo Anno Sacerdotale?

P. Rodolfo Cosimo Meloli: Don Carlo è il volto moderno della santità. Ha saputo interpretare in modo superlativo la sua vocazione: quella di essere luce, sostegno, conforto e speranza per tutti quelli che incontrava. La sua vita si è consumata per il bene degli altri. E' stato l"alter Christus" che ieri, oggi, sempre è chiamato ad essere ogni sacerdote. Consiglierei a tutti la lettura meditata dei suoi scritti e delle sue lettere”.

Perché è importante la sua testimonianza per il XXI secolo e per la difesa della dignità umana?

P. Rodolfo Cosimo Meloli: Penso perché ha messo al centro della sua azione l'uomo, gli uomini, tutti gli uomini, la forza vitale dell'amore, il sogno della fraternità e della solidarietà universale, senza pregiudizi e senza preclusioni.

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22/10/2009 19:11

Domenica 25 il rito presieduto dall'arcivescovo Amato

Attesi in 40.000 a Milano per la beatificazione di don Carlo Gnocchi


da Milano Alberto Manzoni

A pochi giorni dalla beatificazione di don Carlo Gnocchi - che avverrà domenica 25, alle 10, sul sagrato del Duomo di Milano - sono pressoché esauriti i biglietti gratuiti per l'accesso alla piazza. Ciò significa che vi saranno almeno quarantamila persone. È prevedibile che altri vorranno assistere anche al di fuori degli spazi transennati alla celebrazione, la quale sarà trasmessa in diretta da Raiuno, da Telenova e sul portale internet dell'arcidiocesi ambrosiana (www.chiesadimilano.it).

L'evento ricorderà, soprattutto ai più anziani, quello avvenuto il 1° marzo 1956, allorché centomila persone seguirono i funerali di don Carlo, celebrati alla presenza dell'allora arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini:  nella cattedrale chi ci stava, gli altri tutt'intorno. La celebrazione eucaristica sarà presieduta dal cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, mentre il rito della beatificazione verrà presieduto, in rappresentanza del Papa, dall'arcivescovo Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Concelebreranno anche il cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della Congregazione per i Vescovi, almeno sedici presuli e circa duecento sacerdoti, fra i quali diversi cappellani militari, in particolare degli alpini.

La celebrazione sarà preceduta da numerose iniziative, a partire dal corteo d'automobili che nel pomeriggio di sabato 24 accompagnerà l'urna con il corpo di don Carlo dalla cappella del centro "Santa Maria Nascente" - Istituto della fondazione "Don Carlo Gnocchi" - fino alla chiesa di San Bernardino alle Ossa, da cui partirono i funerali 53 anni fa. E da qui, dopo una veglia di preghiera nella basilica di Santo Stefano e dopo la notte durante la quale gli alpini veglieranno l'urna, alle 9 di domenica s'avvierà il corteo verso piazza Duomo. L'urna, ancora coperta, sarà portata a spalla dagli alpini. Al momento della proclamazione di don Carlo beato sarà tolto il drappo dall'urna, mentre verrà scoperto anche lo stendardo sulla facciata della cattedrale.

Terminata la messa, alle ore 12 ci sarà il collegamento video per l'Angelus del Papa; quindi l'urna verrà trasportata presso la chiesa di San Sigismondo, in Sant'Ambrogio, dove rimarrà esposta alla venerazione dei fedeli fino al 27 ottobre.

Presenti in gran numero - circa 15.000 - saranno le "penne nere" che hanno nel cuore don Gnocchi, cappellano nella tragica campagna di Russia, dalla quale il prete milanese tornò portando a tante famiglie le ultime parole dei loro giovani congiunti, morti per le ferite o per il freddo. Ma oltre agli alpini, e oltre a operatori e assistiti della "Don Gnocchi", vi saranno gli scout, i fratelli delle scuole cristiane, i membri dell'Aido (Associazione italiana donatori di organi) che hanno motivi particolari per ricordare il grande educatore e il pioniere della donazione di organi. Infatti, com'è noto, come ultimo atto d'amore don Carlo donò le proprie cornee perché altre persone potessero vedere, dopo la sua morte. Alla celebrazione sarà presente anche Silvio Colagrande, che ancor oggi vede grazie a una delle due cornee donategli da don Carlo nel 1956. Colagrande è intervenuto alla conferenza stampa, in arcivescovado, dove hanno parlato anche monsignor Gianni Zappa, moderatore curiae e presidente del Comitato organizzatore per la beatificazione e monsignor Angelo Bazzari, presidente della Fondazione "Don Gnocchi" - la più grande realtà italiana del "terzo settore". Nei loro interventi hanno ricordato i tratti salienti della figura di don Gnocchi - riassunti nel motto "Sempre accanto alla vita" - per introdursi alla giornata del 25 ottobre. Che - come ha notato monsignor Zappa - è la data di nascita di Carlo Gnocchi, avvenuta nel 1902, a San Colombano al Lambro. Monsignor Bazzari ha sottolineato come gli operatori della Fondazione siano "i continuatori non soltanto di un patrimonio ideale e valoriale", ma anche dell'opera concreta a favore dei più sofferenti, affidata da don Carlo ai suoi collaboratori con la frase "Amis, ve raccomandi la mia baracca" (cioè, con l'affettuosità del dialetto, "Amici, vi raccomando la mia baracca").


(©L'Osservatore Romano - 23 ottobre 2009)
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23/10/2009 20:00

Domenica 25 ottobre in piazza Duomo a Milano don Carlo Gnocchi sarà proclamato beato

«Sei pronto a rischiare la prigione per me?»


di Giulia Galeotti

Alle 10 di mattina del 27 febbraio 1956, un dodicenne cieco, che era stato colpito da uno schizzo di calce viva mentre lavorava alla costruzione della sua casa abruzzese, venne sottoposto a Roma a una visita oculistica. Il dottore era Cesare Galeazzi, noto professore milanese, mentre il bambino, che qualche giorno dopo avrebbe riacquistato la vista, si chiamava Silvio Colagrande. Nulla fu casuale:  l'incontro si tenne per espressa volontà di don Carlo Gnocchi che, ormai prossimo alla morte, dal suo letto di ospedale convocò l'amico Galeazzi impartendogli un ordine preciso:  utilizzare le sue cornee per ridare la vista ai suoi amati bambini. E così avvenne. Tra i tanti sogni che il sacerdote riuscì a realizzare, vi fu anche questo.
Oggi l'innesto di cornea da cadavere non solleva problemi giuridici né morali, ma nel 1956 le cose stavano in tutt'altro modo. Si trattava, infatti, di un intervento proibito dalle leggi dello Stato italiano e non del tutto pacifico per la Chiesa, che non aveva ancora espresso un parere definitivo sulla donazione di organi e tessuti. Don Gnocchi spinse l'uno e l'altra alla piena accettazione del gesto.
L'idea di don Carlo non fu improvvisa. Leggendo le parole che scrisse fin dalla campagna di Russia con gli alpini, la sua sembra una vocazione profetica:  tra tutte le immagini di grande sofferenza che incontrava quotidianamente, don Carlo ritornò molto spesso sugli occhi disperati di chi non ce la faceva più ("quei loro occhi d'angoscia impotente, come potrò dimenticarli? Gli occhi allucinati e imploranti. Ho sempre nel cuore, fermi, aperti, pungenti, gli occhi dei miei morti"). E, nel settembre 1955, quando venne posta la prima pietra del Centro Pilota a Milano, don Gnocchi palesò espressamente le sue intenzioni. Suor Silvestra Lucato ne ricorda chiaramente le parole:  "Se dovessi morire voglio che mi portiate qui e che cerchiate di dare i miei occhi a due dei miei ragazzi. Mi restano solo gli occhi, anche questi sono per i miei mutilatini".
Carlo Gnocchi sa perfettamente che la sua decisione va contro la legge. E sa anche benissimo che le eventuali conseguenze dell'intervento ricadranno sui suoi "complici". Quattro giorni prima di morire, con la limpida schiettezza che lo contraddistingueva, domandò a don Barbareschi:  "Sei pronto a rischiare la prigione per me? Io voglio dare la cornea. Se ti senti, vai a cercare un oculista, che si tenga a disposizione. Se ti va male, sappi che andrai in galera".
L'oculista scelto fu Cesare Galeazzi, che qualche tempo prima aveva contattato don Gnocchi in modo non del tutto tranquillo. Come egli stesso ha raccontato, il professore aveva avuto una reazione di grande disappunto quando, negli anni immediatamente successivi alla guerra, aveva letto sui giornali che un certo don Gnocchi, ex cappellano degli alpini durante la disperata campagna di Russia, avendo dato vita a un'iniziativa per soccorrere i bambini mutilati di guerra, si era rivolto al professor Streiff di Losanna, che gratuitamente aveva operato due bambini dell'Opera di don Carlo. "La notizia m'indispose. Gli scrissi immediatamente dicendogli molto energicamente che mi sentivo offeso come italiano e come oculista:  "Lei, reverendo, ha intrapreso una bellissima fatica, ma si dimentica evidentemente che gli oculisti italiani, senza modestia, in tema di chirurgia oculare non sono inferiori ai loro colleghi esteri. Trattandosi inoltre del dramma della fanciullezza italiana colpita dal furore bellico, desidereremmo affiancarla nella sua benemerita iniziativa:  se crederà di servirsene, conti sull'Istituto Oftalmico di Milano che ho l'onore di dirigere, e sulla mia opera di chirurgo"".
Per tutta risposta, due giorni dopo, uscendo dalla sala operatoria, a Galeazzi viene annunciato che un sacerdote lo sta aspettando da oltre un'ora. "Mai dimenticherò l'incontro:  su di un viso esprimente intelligenza, volontà, bontà, la luce di due grandi occhi azzurri, di un azzurro incredibile". Fu l'inizio di un'amicizia e di una collaborazione ricca e fruttifera, culminata con l'innesto delle cornee di don Gnocchi, la mattina del 29 febbraio 1956, il giorno dopo la sua morte.
Una domenica pomeriggio il professor Galeazzi venne messo al corrente del progetto di don Carlo. Ricevuta una telefonata da una suora cabriniana della Columbus ("professore venga subito, don Carlo ha chiesto di lei"), si precipitò in clinica. "Giaceva nel letto, sotto la tenda a ossigeno, il viso esangue, le belle mani stanche e bianche:  con palese sforzo fece cenno a un sacerdote presente di uscire, e fummo soli. "Cesare, ti chiedo un grande favore, non negarmelo:  fra poche ore io non ci sarò più, prendi i miei occhi e ridona la vista a uno dei miei ragazzi, ne sarei tanto felice. Parti subito per Roma, ma subito ti prego, non c'è tempo da perdere:  là nella mia casa c'è da pochi giorni un ragazzo biondo e poi forse anche un altro, mi hanno detto che un trapianto di cornee potrebbe farli rivedere. Avrei già dovuto parlartene, parti, parti subito, fammi questo regalo, promettimelo"". Il professore è preoccupato, ma non per il lato legale della questione, quanto per quello medico:  "Com'erano le cornee di questo ragazzo? Era veramente recuperabile? E se non lo fosse stato? Potevo non mantenere l'impegno?".
Giunto a Roma, Galeazzi valuta Silvio Colagrande adatto all'innesto, mentre non ne trova altri con indicazione clinica favorevole all'intervento. Convinto che ciò che interessa a don Carlo è ridare la vista - e non che il destinatario sia necessariamente uno dei suoi ragazzi - il professore chiama il suo ospedale di Milano, chiedendo di mettere in stato di preallarme uno dei tanti casi in lista di attesa. Dopo Silvio, verrà infatti operata Amabile Battistello, una diciannovenne divenuta paziente di Galeazzi tramite la Croce Rossa.
Galeazzi sta per rientrare a Milano, quando giunge la notizia della morte di don Carlo. Il suo aiuto, Celotti, si reca subito alla clinica Columbus, ma viene intercettato dalla polizia:  "Qui non si tocca niente". Il medico, però, non si lascia intimorire e, aggirate le forze dell'ordine, riesce a compiere il suo triste ma indispensabile compito:  asporta i bulbi oculari di don Gnocchi. All'uscita dalla clinica la sua macchina viene per un tratto seguita da quella della polizia, ma poi l'inseguimento fallisce:  volutamente, secondo il racconto dello stesso Galeazzi.
Nel 1956, infatti, la legge italiana non ammetteva né trapianti né innesti. Non che del tema non si parlasse, ma la proposta di legge per permettere l'innesto di cornee era ferma da cinque anni in Parlamento. La scienza, dal canto suo, premeva non poco per legalizzare questo intervento, essendosene ormai provata l'opportunità e la riuscita. Già in occasione del xxXVIii Congresso, l'Assemblea generale della Società oftalmologica italiana aveva ufficialmente posto il problema della liceità giuridica dell'espianto corneale, e nel giugno 1950 la Società romana di medicina legale e delle assicurazioni aveva indetto una serie di giornate scientifiche. Esse si conclusero con la formulazione di una proposta di legge per iniziativa dei deputati De Maria e Capua, annunciata alla Camera il 20 febbraio 1951. Fu l'inizio del lungo e travagliato iter legislativo di quella che sarà la legge sul trapianto da cadavere, la 235 del 1957, alla cui promulgazione il gesto di don Gnocchi aveva dato un decisivo input. Nella relazione che verrà presentata alla Camera nel 1968 per modificare quella legge, si afferma che essa fu "la diretta conseguenza del nobile gesto dell'indimenticabile padre Gnocchi, il quale, in punto di morte, fece dono, primo nella nostra nazione, dei propri occhi per ridare la vista ad un cieco, scuotendo con il proprio esempio i sentimenti della pubblica opinione".
Anche per la Chiesa si trattò di un gesto decisivo, visto il dibattito che la attraversava. Ma il Pontefice fu estremamente chiaro:  la domenica successiva alla morte di don Carlo, Pio xii ne elogiò il gesto durante l'Angelus. La posizione, tra l'altro, era già stata espressa, e venne più volte ribadita.
"Ricordo ancora con commozione quando il professore mi tolse le bende, dopo 22 giorni di buio assoluto, e mi ordinò di guardare il mondo", ha raccontato Amabile Battistello. "Mi abbracciò commosso e poi fece un gesto semplice che mi colpì molto:  con il dito indice premette un bottone di un vecchio registratore che si mise in moto, e mi pregò di ascoltare. Fu allora che udii don Carlo che tentava di dire delle parole, con una voce sofferente che usciva a stento dalla gola, ma che possedeva una forza misteriosa. Essa implorava:  "Tu professore, dopo la mia morte, prendi questi miei occhi e fa' che qualcuno possa vedere con essi"".


(©L'Osservatore Romano - 24 ottobre 2009)
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«Non dimenticatevi di vivere»


Pubblichiamo ampi stralci di un articolo del presidente della Fondazione Don Gnocchi tratto dall'ultimo numero della rivista "Communio" (Jaca Book) appena uscito e dedicato all'azione sociale della Chiesa.

di Angelo Bazzari

"Mi raccomando. La passione sociale è un distintivo delle anime che hanno capito il cristianesimo e che vogliono viverlo attivamente. Come non c'è un Cristo diviso e separato dai suoi fratelli, così non ci può essere un cristiano separato dai fratelli", ha detto l'Adam, e Péguy anche più fortemente ha definito il cristianesimo "un immischiarsi furiosamente nelle cose che non ci riguardano".
Questa raccomandazione che don Carlo Gnocchi rivolgeva al giovane e promettente Alberto Crespi nel 1943 riassume bene il suo approccio alla questione sociale e all'impegno politico che il secondo dopoguerra aveva messo sul tappeto con estrema urgenza per i cattolici impegnati nella ricostruzione del Paese. 
Don Carlo, del resto, era cresciuto alla scuola del cardinale Ferrari, arcivescovo di Milano dal 1894 al 1921, che della dottrina sociale della Chiesa aveva fatto il perno del suo servizio pastorale e della formazione di sacerdoti e di laici di forte e convinta spiritualità, vestita di concretezza per mordere la realtà sociale.

Quella di don Gnocchi era una preoccupazione eminentemente educativa. Ce lo ricorda nell'opera Educazione del cuore del 1937, pubblicata non appena iniziato il suo impegno spirituale al prestigioso Istituto Gonzaga dei Fratelli delle scuole cristiane di Milano, finalizzato ai giovani della borghesia milanese potenziali candidati alla futura classe dirigente del Paese:  "I giovani impieghino ad altro rendimento le loro esuberanti energie di mente e di cuore, sentano la passione politica, si appassionino per la questione sociale, che porta loro la voce accorata di tante miserie e di tante ingiustizie, lottino pure per l'arte, prendano il tifo per lo sport, si mettano a capofitto in qualche associazione, pur di fare:  scrivano, leggano, combattano, si azzuffino, soffrano, corrano, ma vivano, perbacco, vivano e non si lascino vivere".

È un'accorata esortazione ad appropriarsi nel copione sociale e nella vita pubblica delle responsabilità non solo per diritto, ma per obbligo di osservanza, che enuncerà con maggiore forza e sistematicità in Restaurazione della persona umana del 1946, con queste parole:  "Il cittadino deve prendere viva parte diretta alla vita nazionale e al governo della cosa pubblica; non ne ha soltanto il diritto facoltativo, ma un obbligo grave di coscienza, il medesimo che gli comanda di essere persona. Di questo egli deve convincersi e bisogna energicamente convincere anche il popolo italiano, il quale, nel suo costituzionale disinteresse alla vita pubblica e, per la sua naturale pigrizia, ha più volte, nella sua breve e sfortunata storia politica, consentito che il campo della cosa pubblica, lasciato incontrastato libero dai probi cittadini, e il governo dello Stato fossero facile preda degli incompetenti, degli ambiziosi, dei professionisti della politica o peggio dei profittatori e degli avventurieri".

Espressioni indubbiamente taglienti e forti, dettate da esperienze di vita durante il ventennio fascista, sostenuto da una propaganda manipolativa e truffaldina, alimentata da violenze devastanti, che don Gnocchi aveva patito sulla sua pelle e vissuto in prima persona nella lande desolate del Don, in una terra insolente e inospitale, durante la tragica ritirata di Russia nel gennaio del 1943.

Parole sgorgate da una straordinaria capacità di giudizio critico sulla realtà che stava vivendo e suggerite da quello spirito di profezia che ha sempre connotato il suo pensare e caratterizzato il suo agire.
Ma c'è un'ulteriore spiegazione di queste dure parole, riassumibile nell'intuizione profonda del significato dell'Incarnazione, la "differenza cristiana" in azione.

Il tema dell'incarnazione del Verbo di Dio è sempre stato al centro, in modo esplicito o in maniera implicita, del pensiero e dell'opera di don Carlo. Lo scrive in un altro passo di Restaurazione della persona umana:  "L'essenza gaudiosa e la novità rivoluzionaria del messaggio cristiano è tutta nella verità dell'Incarnazione, che si traduce, per ogni uomo e per la civiltà tutta, nella possibilità e nella certezza di una rinascita provocata dall'innesto della vita divina sull'esausta vita umana:  così come nella persona di Cristo".
Per don Gnocchi è più che mai essenziale e decisivo per l'umanità riscoprire il senso dell'Incarnazione perché "in questo faticoso itinerario della mente a Dio, la nostra epoca porta caratteristiche e condizioni particolari:  anzitutto un immenso e disperato bisogno di Dio. Mai epoca della storia ha cercato più forsennatamente della nostra una verità, una giustizia ed un amore supremo. Se ancora si illude di poterli trovare altrove che in Dio, è soltanto un fatale errore di orientazione; l'istinto che la sospinge e la esalta è profondamente vero e il dispendio di eroismo offerto per questa impresa è quanto di più gigantesco l'umanità abbia realizzato sulla via della verità e della carità".

Non quindi un "concetto" di Dio, il Dio dei filosofi, come direbbe Pascal, perché "il nostro tempo ha bisogno di un Dio di giustizia e di amore nel quale gli uomini si ritrovino fratelli e perciò diano una mano a sanare le gravi ingiustizie che ancora li dividono:  un Dio terrestre e umano, da amare e da seguire appassionatamente come un capo e una dottrina nuda e essenziale e pur capace di sostenere lo slancio eroico e il bisogno di dedizione che è nel cuore dell'uomo moderno. Orbene - conclude don Carlo - mi pare che nessuno meglio di Gesù Cristo possa rispondere a questi requisiti:  Dio disceso in questo mondo e pure uomo come tutti noi, vissuto e morto su questa terra, giovane, forte e dolce, che ha sperimentato tutta la nostra vita in quello che ha di più umile e ci ha amato fino a morire per la nostra salute. Bisogna che l'uomo moderno si riaccosti direttamente ed esclusivamente a Lui. Non sarà facile trovarlo solo e puro, a causa della ressa dei santi, di devozioni, di credenze e di prescrizioni che gli hanno messo intorno certa religione barocca e popolaresca, risentirne la forza e novità, dopo tanta letteratura oleografica e predicazione convenzionale. Ma pure il Vangelo, per chi lo sa leggere, custodisce integra e pura la sua figura e la sua dottrina e la Chiesa cattolica, nella sua azione essenziale, ne rivive l'opera salvatrice del mondo".

L'antropologia cristiana è tutta qui. Per il cristiano infatti "l'individuo è una parola detta da Dio una volta sola, per sempre e che soltanto Lui conosce adeguatamente. L'enigma stesso che ogni uomo racchiude per sé e per gli altri, lo colloca in una lontananza e in un isolamento misterioso e lo rende assolutamente indicibile, inesprimibile. Ogni uomo, coi sensi più intimi del proprio essere, sperimenta nelle sue profondità vitali questo carattere costante di "aseità" augusta e misteriosa". Ne consegue un rovesciamento di prospettiva rispetto alle ideologie che, in genere, subordinano la persona e la vita individuale agli imperativi dello Stato o alle diverse e totalitarie utopie che si sono accreditate dalla notte dei tempi, sia pure nell'illusorio intento di far guadagnare all'uomo la felicità.

Don Gnocchi ammonisce infatti affermando che "non l'uomo è per la causa, ma le cause sono per l'uomo". L'uomo rimane una realtà inviolabile e irripetibile. Perciò "nessun uomo può essere, e tanto meno essere reso, copia di un altro perché egli è copia di Dio, riflesso di una delle sue infinite qualità e una faccia del suo prisma. È dovere di ogni uomo verso se stesso e della società verso ogni uomo, di conservare, di rispettare e di sviluppare questa originalità della persona, sigillo della sua divina origine per meglio attuare il disegno di Dio sull'individuo e sulla storia".

Questa consapevolezza però non deve indurre l'uomo ad avvitarsi su di sé, a murarsi in uno splendido isolamento, perché "la persona non è una goccia d'acqua senza consistenza che si può dissolvere nell'oceano, nemmeno allo scopo di costituire la maestà e la potenza di questo, né una monade chiusa e senza finestre. Tra il rifiuto di sé e l'abdicazione di sé, c'è il dono di sé". 

Siamo al centro gravitazionale del pensiero e del cuore pulsante dell'azione sociale di don Gnocchi:  la persona è se stessa quando si dona, ovvero esercita la carità, proprio come fa Dio incarnandosi e vestendosi di umanità. Non l'utopia quindi, non la sola compassione, non l'esercizio del potere danno ragione dell'agire cristiano nella vita sociale e politica, ma il dono di sé, che si fa progetto condiviso con altri uomini per riportare l'umanità a come Dio l'ha sognata da sempre e che don Carlo traduce così:  "Cristo dunque, vero Dio e vero uomo, è l'esemplare e la forma perfetta cui deve mirare e tendere ogni uomo che voglia possedere una personalità veramente umana, capace cioè di attuare pienamente l'istinto che la sospinge a superarsi e ad ascendere verso il divino... Ogni restaurazione della persona umana, che non voglia essere parziale, effimera o dannosa, non può essere quindi che la restaurazione in Cristo di ogni uomo".

Questa restaurazione integrale della persona umana implica il dovere di affrontare con serietà il mistero del male e del dolore, soprattutto di quello innocente, che fa scandalo e problema. Occorre "attraversare" il mistero della croce di Cristo, emblema di ogni impotenza, sintesi di ogni dolore, ma anche dichiarazione pubblica di un amore senza confini e senza misura, se si vuole avere la chiave per comprendere il vivere umano.

La croce come apparente eclissi di Dio, ma anche annuncio di una definitiva irruzione della Grazia nel mondo e l'avvio di una nuova umanità redenta. Ecco perché don Gnocchi scrive che "dopo Cristo non è più possibile altra redenzione che non sia "cristiana" e il sangue dell'uomo non ha potere di purificazione e di pacificazione se non è versato e commisto a quello di Cristo nel calice della messa, rinnovazione e attuazione del sacrificio del Redentore".
E ancora, perché concepisce la cura della salute dell'uomo come vera e propria azione redentiva:  "La cura degli ammalati, le arti della medicina, la carità verso i sofferenti, la lotta contro tutte le cause dell'umana sofferenza sono una vera e continua redenzione materiale che fa parte della redenzione totale di Cristo e di essa ha tutto l'impegno e la dignità". Una mirabile sintesi e un riepilogo della sua vita, della sua opera e del suo pensiero, scolpiti in queste parole"Nella misteriosa economia del cristianesimo, il dolore degli innocenti è dunque permesso perché siano manifeste le opere di Dio e quelle degli uomini:  l'amoroso e inesausto travaglio della scienza; le opere multiformi dell'umana solidarietà; i prodigi della carità soprannaturale".

Non basta l'ammirazione per un uomo che non ha trattenuto niente per sé, donando, primo in assoluto in Italia, persino le cornee a due ragazzini non vedenti, come gesto di amore infinito per i suoi mutilatini. Non è sufficiente lo stupore per la straordinaria opera in forte espansione che oggi porta il suo nome. Serve poco sapere dove ha tratto le risorse per realizzare quello che ha costruito se non si comprende appieno la radice di tutto il suo operare, meglio, di tutto il suo essere. Don Gnocchi ha scelto la carità come "via definitiva" perché essa è segno della presenza di Dio nella storia, nonostante il male e la sofferenza, capace già ora di prefigurare e far gustare ciò che un giorno sarà definitivo per l'umanità. Una carità che va strutturata, organizzata in modo da "recuperare e intensificare la vita che non c'è, ma ci potrebbe essere", condividendo la sofferenza come prassi terapeutica e coniugando con rigore scienza e carità, al fine di realizzare una "terapia dell'anima e del corpo, del lavoro e del gioco, dell'individuo e dell'ambiente:  medici, fisioterapisti, maestri, capi d'arte ed educatori, concordemente uniti nella prodigiosa impresa di ricostruire quello che l'uomo o la natura hanno distrutto, o almeno, quando questo è impossibile, di compensare con la maggior validità nei campi inesauribili dello spirito, quello che è irreparabilmente perduto nei piani limitati e inferiori della materia".

In questa opera di restaurazione integrale della persona umana è decisiva per don Gnocchi l'attuazione del rapporto di "fiduciosa collaborazione", ossia di sussidiarietà tra Stato e iniziativa privata:  "Il modo più rapido, più economico e più conclusivo per lo Stato di attuare i propri compiti assistenziali è quello di entrare in stretta e fiduciosa collaborazione con l'iniziativa privata. In questa umanissima attività, dove la giustizia e la carità si danno la mano, fin quasi a confondersi, né lo Stato può fare senza l'iniziativa privata, né questa deve fare senza lo Stato. La giustizia retributiva può giungere anche ad organizzare una società lucida e perfetta come una macchina, ma appunto perché tale, arida ed effimera, dove venga a mancare l'olio della carità individuale".

Precisando molto bene l'importanza sociale della sua opera e il senso politico della sua stessa esistenza, vissuta a stretto contatto con i ruoli politici istituzionali. "Nell'esercizio dell'assistenza sociale, l'opus perfectum si trova soltanto nel connubio tra la giustizia e la carità, tra lo Stato e l'individuo, perché l'attività assistenziale, in quanto riguarda prevalentemente l'ora del bisogno, della prova e del dolore umano, è forse una di quelle che più da vicino attingono il sacrario misterioso della persona umana, dinanzi al quale lo Stato, e tanto più quello democratico, deve riverentemente arrendersi ed agire".
Il 25 ottobre di quest'anno, a Milano, don Gnocchi sarà proclamato beato, prototipo esemplare di una carità fattiva, fortemente proiettata sul futuro, utile per il mondo.


(©L'Osservatore Romano - 24 ottobre 2009)
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La Chiesa ambrosiana in festa per la beatificazione di don Carlo Gnocchi

"Don Carlo Gnocchi, presbitero pieno di zelo pastorale tra i giovani negli oratori e nei pericoli della guerra, che coronò la sua missione dedicando le sue energie ai piccoli orfani, mutilati, poliomielitici, vittime innocenti del dolore", d’ora in poi sarà chiamato Beato e la sua festa "si celebrerà nei luoghi e secondo le regole stabilite dal Diritto ogni anno il 25 ottobre". Sono le parole pronunciate stamani in piazza Duomo a Milano, a nome del Papa, da monsignor Angelo Amato, prefetto della Congregazione dei Santi. Alla cerimonia di beatificazione, presieduta dall'arcivescovo di Milano, cardinale Dionigi Tettamanzi, hanno partecipato oltre cinquantamila persone. Il servizio da Milano di Fabio Brenna:


Un compleanno speciale per don Carlo Gnocchi, beatificato nel corso della celebrazione in piazza Duomo a Milano, nel giorno della sua nascita avvenuta il 25 ottobre 1902. Una festa a cui si è aggiunto il saluto del Papa e dei fedeli riuniti per l’Angelus in Piazza San Pietro. Benedetto XVI ha voluto ricordare così il “papà dei mutilatini”:

“Egli fu dapprima valido educatore di ragazzi e giovani. Nella seconda guerra mondiale divenne cappellano degli Alpini, con i quali fece la tragica ritirata di Russia, scampando alla morte per miracolo. Fu allora che progettò di dedicarsi interamente ad un’opera di carità. Così, nella Milano in ricostruzione, Don Gnocchi lavorò per ‘restaurare la persona umana’ raccogliendo i ragazzi orfani e mutilati e offrendo loro assistenza e formazione. Diede tutto se stesso fino alla fine, e morendo donò le cornee a due ragazzi ciechi. La sua opera ha continuato a svilupparsi ed oggi la Fondazione Don Gnocchi è all’avanguardia nella cura di persone di ogni età che necessitano di terapie riabilitative”.

Il collegamento col Papa ha suggellato una domenica di sole, con 50 mila persone accorse a testimoniare ancora una volta l’affetto per il cappellano degli Alpini in Russia, precursore dei trapianti col dono delle sue cornee, quando, alla sua morte, il 28 febbraio 1956, non esisteva ancora una legge in Italia. Il rito di beatificazione è stato presieduto dall’arcivescovo di Milano, cardinale Dionigi Tettamanzi, alla presenza di mons. Angelo Amato, prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, e del cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della Congregazione per i Vescovi. Nell’omelia, il cardinale Tettamanzi ha sottolineato la molteplicità delle vocazioni di questo prete ambrosiano che, ha detto, “ha consumato la sua vita nella ricerca del volto di Cristo impresso nel volto di ogni uomo”, nella convinzione che solo la carità poteva e può salvare il mondo:

“Don Carlo ha saputo coinvolgersi con dedizione entusiastica e disinteressata, non solo nella vita della Chiesa ma anche in quella della società; e lo ha fatto coltivando con grande intelligenza e vigore l’intimo legame tra la giustizia e la carità. Una carità che tende le mani alla giustizia, egli diceva. E noi possiamo continuare la sua opera chiedendo oggi alla giustizia di tendere le mani alla carità!”.

Nel messaggio finale, mons. Amato ha ricordato come don Carlo Gnocchi fu “un prete tutto di Cristo, tutto della Chiesa, tutto del prossimo bisognoso e sofferente”. Del neo beato ha ricordato le parole dal fronte russo: “Desidero e prego dal Signore una sola cosa: servire per tutta la vita i suoi poveri: ecco la mia ‘carriera’”.

“Amis, vi raccomando la mia baracca”, disse don Gnocchi prima di morire, raccomandando la sua opera che si prendeva cura dei più deboli, provati dalla guerra. La sua “baracca” è cresciuta, prendendosi cura di tutte le persone fragili: dai disabili, agli anziani, ai malati oncologici in fase terminale fino ai pazienti in stato vegetativo persistente. In Italia, la Fondazione che porta il suo nome è presente con 28 centri e 3800 posti letto; quotidianamente presta servizi a oltre 10 mila persone e porta avanti progetti di sviluppo internazionale come organizzazione non governativa in Europa, Asia, Africa e America Latina.

Uno dei “mutilatini” dell’opera di don Carlo Gnocchi è Silvio Colagrande che durante l’infanzia perse la vista a causa di uno spruzzo di calce viva. Venne mandato dai genitori presso un centro di accoglienza aperto a Inverigo, in provincia di Como. Lì conobbe don Carlo Gnocchi e grazie a lui recuperò il dono della vista. Il 28 febbraio del1956 venne infatti sottoposto ad un trapianto, il primo in Italia, delle cornee. Il donatore era il sacerdote lombardo, deceduto poche ore prima. Sono passati 53 anni da quel trapianto ed oggi Silvio Colagrande è direttore del Centro don Gnocchi “Santa Maria alla Rotonda” di Inverigo. Fabio Colagrande gli ha chiesto il significato del suo legame, ancora vivo e profondo, con l'opera del sacerdote lombardo:

R. – Sentivo la necessità di mantenere con don Carlo un rapporto e continuare a ricambiare il dono che avevo ricevuto, lavorando in quella direzione che lui ci aveva indicato quando eravamo bambini.

D. – Lei aveva circa 12 anni quando ricevette questo dono della vista proprio da don Gnocchi: cosa ricorda di quei giorni, quali erano i suoi sentimenti?

R. – Ricordo bene tutto, i giorni precedenti, quelli dopo e le mie emozioni di allora in un contesto dove non tutto mi era chiarissimo. Ricordo esattamente come ho potuto riscoprire e rivedere dopo tre giorni dall’operazione. Ho avuto i segni di quello che don Carlo già rappresentava per la gente perché qualcuno mi ha mandato anche una medaglietta per dirmi di ricordare che quella cornea era una reliquia di don Carlo, già ritenuto santo allora. Per me questo è stato il pensiero di tutto il resto della mia vita, per coltivare questo rapporto e mantenere un legame sempre vivo che mi pare più importante poter manifestare nella quotidianità operativa.

D. – Lei capì che avrebbe ricevuto in dono una delle cornee di don Gnocchi proprio quando era già in ospedale per l’operazione, per il trapianto?

R. – Sì, era il 28 febbraio e intorno alle sei di sera gli infermieri mi stavano preparando ma nessuno mi aveva detto esattamente che cosa sarebbe successo in quelle giornate e in quei momenti. Ho sentito alla radio che don Carlo era morto e allora ho capito che ero stato scelto. Quindi, a maggior ragione, il mio legame con don Carlo non poteva disgiungersi da quello che don Carlo aveva creato per noi per ridarci tutte quelle speranze, quelle aspettative di vita, e quest’opera che rappresentava anche un aspetto estremamente spirituale di quanto lui faceva: le ultime parole della pedagogia del dolore innocente ci rivelano come lui pensasse a questo connubio tra le opere umane e le opere di Dio, tra la carità umana e la carità soprannaturale, da cui veniva fuori un’azione di amore che lui ha trasfuso in quest’opera.
(Montaggio a cura di Maria Brigini)

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A Milano la beatificazione di don Carlo Gnocchi

Un imprenditore della carità elevato agli onori dell'altare


Don Carlo Gnocchi:  un nome legato indissolubilmente alle opere di carità. Un prete autentico che ha messo in pratica gli insegnamenti evangelici offrendo aiuto e sostegno ai fratelli che erano nel bisogno. La sua figura "resta di grande attualità ancora oggi. Come profeta di speranza e come eroe della carità, egli continua a ispirare impegno e imitazione". Così ha tratteggiato la vita e l'opera di don Gnocchi l'arcivescovo Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, nel presiedere il rito della sua beatificazione. La cerimonia si è svolta in piazza del Duomo a Milano, domenica mattina 25 ottobre, alla presenza del cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo della diocesi ambrosiana, che ha presieduto l'Eucaristia.

"Don Carlo fu un eroe e un santo - ha proseguito il prefetto Amato - e il segreto dell'eroismo della sua santità fu il suo amore per Cristo:  "Solo Cristo - egli diceva - può essere principio di vita divina per l'uomo. Cristo fu per il nostro beato l'unica avventura della sua vita sacerdotale. Fu un prete tutto di Cristo, tutto della Chiesa, tutto del prossimo bisognoso e sofferente". Il presule lo ha definito "prete fino in fondo" e il suo ministero sacerdotale "fu il servizio ai giovani come educatore sapiente, come cappellano eroico, come benefattore generoso dei mutilatini. Il suo incontenibile entusiasmo apostolico era ancorato alla Provvidenza divina, da lui vista, come don Bosco, incarnata concretamente nelle persone buone e generose".

Don Gnocchi ebbe, infatti, ha aggiunto il prefetto, "un'energia creativa, una imprenditorialità tutta milanese nel trovare mezzi e persone per far crescere e prosperare quella che lui chiamava "la mia baracca". Era un vero imprenditore della carità".

Nell'omelia il cardinale Tettamanzi ha detto che è "nella ricerca del volto di Cristo impresso nel volto d'ogni uomo che don Carlo ha consumato la sua vita. Lo ha cercato in ogni soldato, in ogni alpino - ferito o morente -, in ogni bimbo violato dalla ferocia della guerra, in ogni mutilatino vittima innocente dell'odio, in ogni mulattino frutto della violenza perpetrata sull'innocenza della donna, in ogni poliomielitico piegato nel corpo dal mistero stesso del dolore".

È proprio qui il segreto dell'amore di don Carlo per l'uomo:  "La vivissima coscienza che nel cuore di ogni essere umano abita lo splendore del volto di Dio. Ma ogni cristiano è chiamato ad amare sino alla fine e senza paura ogni essere umano, sapendo che in tutti è l'impronta incancellabile del volto di Dio, di tutti Creatore e Padre".

"La seconda lettura - ha aggiunto il porporato - tratta dalla lettera di Paolo a Timoteo (1 Timoteo, 2, 1-5), ci rimanda ad un tratto caratteristico della carità di don Gnocchi. L'Apostolo raccomanda, in particolare, "che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio".

Don Carlo ha saputo coinvolgersi con dedizione entusiasta e disinteressata non solo nella vita della Chiesa, ma anche in quella della società. E lo ha fatto coltivando con grande intelligenza e vigore l'intimo legame tra la carità e la giustizia:  una carità che "tende le mani alla giustizia", egli diceva". "Noi - ha affermato il cardinale - possiamo continuare la sua opera chiedendo oggi alla giustizia di tendere le mani alla carità. Don Carlo è stato mirabile nell'operare una sintesi concreta di pensiero e di impresa, appellando alle diverse istituzioni pubbliche e insieme alle molteplici forme di volontariato, ponendo come criterio necessario e insuperabile la centralità della persona umana sempre onorata nell'inviolabilità della sua dignità e nella globalità unitaria delle sue dimensioni - fisiche, psichiche e spirituali -, insistendo sull'opera educativa e culturale come decisamente prioritaria per lo sviluppo autentico della società. Mai egli ha dimenticato il privilegio e comandamento evangelico del servizio agli "ultimi"".

Una menzione poi alla vocazione sacerdotale del nuovo beato:  "Ha vissuto la sua vocazione come impegno leale nel mondo - ha detto il porporato - senza sminuire, anzi arricchendo, il suo essere di sacerdote. Impegno nel mondo così come si presentava al suo tempo:  lontano dalle nostalgie del passato, calato cordialmente nel presente, aperto, profetico e anticipatore del futuro, mai nel segno del pessimismo o della paura. Egli era convinto che il tempo nel quale Dio lo aveva chiamato a vivere era il migliore possibile. Nell'opera Educazione del cuore scrisse:  "Amiamo di un amore geloso il nostro tempo, così grande e così avvilito, così ricco e così disperato, così dinamico e così dolorante, ma in ogni caso sempre sincero e appassionato. Se avessimo potuto scegliere il tempo della nostra vita e il campo della nostra lotta, avremmo scelto... il Novecento senza un istante di esitazione"".

Infine, il cardinale ha concluso ricordando le parole di don Gnocchi rivolte al mondo moderno, con le quali "augurava un tempo nuovo, un nuovo tipo di umanità; augurava la personalità cristiana, cioè "cristianesimo e cristiani attivi, ottimisti, sereni, concreti e profondamente umani; che guardano al mondo, non più come a un nemico da abbattere o da fuggire, ma come a un (figlio) prodigo da conquistare e redimere con l'amore". Sono parole preziose anche per noi:  amiamo il nostro tempo; impegniamoci nel nostro mondo; portiamo in tutti gli ambienti della nostra vita le speranze umane e la "speranza grande" che ci viene da Cristo, il vincitore della morte e di ogni male".



(©L'Osservatore Romano - 26-27 ottobre 2009)
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Omelia per la Beatificazione di don Carlo Gnocchi

Prima Domenica dopo la Dedicazione

Milano-Duomo, 25 ottobre 2009

SOLO LA CARITA’ PUO’ SALVARE IL MONDO


Carissimi fratelli e sorelle,

a tutti rinnovo il saluto liturgico: la grazia, la pace e la gioia del Signore Gesù sia nel cuore di ciascuno di voi. Insieme vogliamo rendere grazie a Dio per il dono fatto alla Chiesa di un nuovo beato nella persona di don Carlo Gnocchi.

Una gratitudine che estendiamo a quanti il Signore si è scelto come “strumenti” di questo evento di grazia: in particolare il Santo Padre Benedetto XVI – cui vanno la nostra preghiera e il nostro affetto - e S.E. l’arcivescovo mons. Angelo Amato, che oggi lo rappresenta in mezzo a noi; l’immensa schiera delle persone che hanno incontrato, conosciuto, stimato, amato don Carlo e ne hanno testimoniato il cammino di santità; quanti hanno tenuto viva la memoria di questo sacerdote ambrosiano continuandone le opere e lasciandosi ispirare dal suo carisma di carità intelligente e coraggiosa verso i giovani, i soldati, i piccoli, i malati, i sofferenti, i poveri, gli emarginati; tutti noi presenti e partecipi a questo solenne Rito di beatificazione, compresi quanti ci seguono grazie ai mezzi di comunicazione.

Ci vuole santi, come lui è santo

Questo rendimento di grazie al Signore, mentre dice la nostra gioia spirituale, diventa per noi un richiamo particolarmente forte a riscoprire la fondamentale e comune vocazione alla santità: questo e non altro è il grande progetto d’amore e di felicità che dall’eternità Dio ha stabilito per tutti e per ciascuno di noi: ci vuole santi, come lui è santo!

Questo è il progetto che abita il cuore di Dio e di conseguenza non ci può essere nel nostro cuore un desiderio, un’aspirazione, un bisogno più forti e radicali che di fare nostro questo progetto e con la massima generosità possibile. Così cammineremo sulla strada della santità: una strada divina ma al tempo stesso umana e umanizzante.

Beatificando don Carlo la Chiesa dichiara autorevolmente che il desiderio di farsi santo è stato il sentimento dominante del suo cuore e insieme il principio fecondo della sua comunione d’amore con Dio e della sua infaticabile attività al servizio dell’uomo: una santità mistica e umanamente contagiosa e missionaria; una santità che lo conduceva a vivere nell’intimità di Dio e ad aprirsi e donarsi agli uomini in ogni ambito della loro esistenza.

Di questo progetto divino di amore e di felicità don Carlo era profondamente convinto e non temeva affatto di proporlo, peraltro in modo affascinante ed esigente, ai suoi giovani: «Nulla è più santificante e salvifico della santità. Credetelo. […] La santità irradia tacitamente Fede e bontà. […] Ben più e ben meglio delle discussioni e delle industrie umane, la santità ha il magico potere di convertire. Credetelo!» (Andate e insegnate, in Scritti, Milano 1993, 51-52).

Così parlava ai giovani dei suoi oratori di Cernusco sul Naviglio e di San Pietro in Sala a Milano, ripetendo quasi come slogan la celebre frase di Leon Bloy: «Non vi è al mondo che una tristez­za: quella di non essere santo».

E questo sia il richiamo che vogliamo accogliere dal Rito che stiamo celebrando: la sfida che tutti ci interpella, la missione che come credenti ci viene affidata è quella di portare nel nostro mondo il fuoco della santità, il fuoco dell’amore, il fuoco della vera gioia.

Ma come portarlo? E’ una domanda che trova risposta nella prima lettura della liturgia ambrosiana che oggi celebra la Domenica detta del “Mandato missionario”.


 

In ogni uomo lo splendore del volto di Dio

Gli Atti degli Apostoli (8, 26-39) ci presentano un ministro della regina Candace d’Etiopia: è alla ricerca di Dio ed è affascinato dal Dio d’Israele. Dal tempio di Gerusalemme sta tornando verso la sua terra e in viaggio legge il libro del profeta Isaia. E’ inquieto perché non ne comprende il contenuto. Proprio in quel momento gli si accosta il diacono Filippo, che si era messo in cammino obbedendo alla voce dell’angelo. Senza alcuna paura Filippo intavola il discorso, sale sul carro dell’etiope, prende il libro, ne spiega il senso e annuncia Gesù.

Questo ministro e questo diacono incarnano alcuni tratti che caratterizzano il nuovo beato. Anche don Carlo, come l’eunuco etiope, è stato inquieto cercatore di Dio e come Filippo fu coraggioso cercatore dell’uomo.

E’ nella ricerca del volto di Cristo impresso nel volto d’ogni uomo che don Carlo ha consumato la sua vita. Lo ha cercato in ogni soldato, in ogni alpino - ferito o morente -, in ogni bimbo violato dalla ferocia della guerra, in ogni mutilatino vittima innocente dell’odio, in ogni mulattino frutto della violenza perpetrata sull’innocenza della donna, in ogni poliomielitico piegato nel corpo dal mistero stesso del dolore.

Sta qui il segreto dell’amore di don Carlo per l’uomo: la vivissima coscienza che nel cuore di ogni essere umano abita lo splendore del volto di Dio.

Ma ogni cristiano è chiamato ad amare sino alla fine e senza paura ogni essere umano, sapendo che in tutti è l’impronta incancellabile del volto di Dio, di tutti Creatore e Padre.

L’impegno per la “personalità cristiana” nel mondo

La seconda lettura, tratta dalla lettera di Paolo a Timoteo (1 Timoteo 2,1-5), ci rimanda ad un tratto caratteristico della carità di don Gnocchi. L’Apostolo raccomanda, in particolare, “che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio”.

Don Carlo ha saputo coinvolgersi con dedizione entusiasta e disinteressata non solo nella vita della Chiesa, ma anche in quella della società. E lo ha fatto coltivando con grande intelligenza e vigore l’intimo legame tra la carità e la giustizia: una carità che “tende le mani alla giustizia”, egli diceva. Noi possiamo continuare la sua opera chiedendo oggi alla giustizia di tendere le mani alla carità. Don Carlo è stato mirabile nell’operare una sintesi concreta di pensiero e di impresa, appellando alle diverse istituzioni pubbliche e insieme alle molteplici forme di volontariato, ponendo come criterio necessario e insuperabile la centralità della persona umana sempre onorata nell’inviolabilità della sua dignità e nella globalità unitaria delle sue dimensioni – fisiche, psichiche e spirituali -, insistendo sull’opera educativa e culturale come decisamente prioritaria per lo sviluppo autentico della società. Mai egli ha dimenticato il privilegio e comandamento evangelico del servizio agli “ultimi”.

Don Carlo ha vissuto la sua vocazione come impegno leale nel mondo, senza sminuire – anzi arricchendo – il suo essere di sacerdote. Impegno nel mondo così come si presentava al suo tempo: lontano dalle nostalgie del passato, calato cordialmente nel presente, aperto, profetico e anticipatore del futuro, mai nel segno del pessimismo o della paura.

Egli era convinto che il tempo nel quale Dio lo aveva chiamato a vivere era il migliore possibile. Nell’opera Educazione del cuore scrisse: «Amiamo di un amore geloso il nostro tempo, così grande e così avvilito, così ricco e così disperato, così dinamico e così dolorante, ma in ogni caso sempre sincero e appassionato. Se avessimo potuto scegliere il tempo della nostra vita e il campo della nostra lotta, avremmo scelto… il Novecento senza un istante di esitazione» (Educazione del cuore, in Scritti, 328).

Al mondo moderno don Carlo augurava un tempo nuovo, un nuovo tipo di umanità; augurava la personalità cristiana, cioè “cristianesimo e cristiani attivi, ottimisti, sereni, concreti e profondamente umani; che guardano al mondo, non più come a un nemico da abbattere o da fuggire, ma come a un (figlio) prodigo da conquistare e redimere con l’amore…” (Restaurazione della persona umana, in Scritti, 728-729).

Sono parole preziose anche per noi: amiamo il nostro tempo; impegniamoci nel nostro mondo; portiamo in tutti gli ambienti della nostra vita le speranze umane e la “speranza grande” che ci viene da Cristo, il vincitore della morte e di ogni male.

Il vangelo della carità

Un ultimo pensiero vogliamo trarre dal Vangelo che ci ripropone il mandato missionario di Gesù risorto: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura” (Marco 16,15). A questo mandato hanno obbedito gli apostoli e tutti gli autentici discepoli del Signore. Ha obbedito il beato Carlo Gnocchi. Vogliamo obbedire anche noi.

Sì, siamo pienamente consapevoli della nostra debolezza e talvolta della nostra infedeltà: come nella pagina evangelica è stato per gli Undici, anche noi veniamo rimproverati dal Signore Gesù per la nostra “incredulità e durezza di cuore”. Ma siamo altrettanto consapevoli di non essere lasciati soli, perché possiamo beneficiare dello stesso aiuto che ha sostenuto gli Apostoli: “Allora essi partirono per predicare dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano”.

Ritorna la questione iniziale: si tratta di dire di “sì” con tutto il cuore al progetto di santità voluto da Dio per ciascuno di noi e di viverlo nella fiducia e nell’umile e generosa carità d’ogni giorno, dalla quale dipende la salvezza del mondo.

Ci doni il Signore di condividere la convinzione e la decisione di don Gnocchi, che così scriveva nel 1945 ad un confratello nel sacerdozio: “Non desidero che la mia santificazione, dalla quale sono infinitamente lontano. Forse mi manca il coraggio delle decisioni supreme eppure comprendo che oggi solo la carità può salvare il mondo e che ad essa bisogna assolutamente consacrarsi” (Lettera a don Sterpi).

Una santità che oggi con il Rito di beatificazione la Chiesa dichiara ufficialmente. Una santità che in questa piazza, cinquant’anni fa, nel giorno dei funerali di don Carlo Gnocchi, un ragazzo scelto dall’allora Arcivescovo Montini per  portare il suo saluto al “papà di tutti i mutilatini e poliomielitici” profeticamente riconobbe. Tutti noi oggi facciamo nostre le sue parole: «Prima ti dicevo: “Ciao don Carlo”. Oggi ti dico: “Ciao, san Carlo”».

+ Dionigi card. Tettamanzi

Arcivescovo di Milano

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26/10/2009 18:09

Beato don Carlo Gnocchi

 

Messaggio finale

 

 

Angelo Amato, SDB

 

 

 

Al termine di questa solenne celebrazione della beatificazione di Don Carlo Gnocchi, un ringraziamento particolare va al Santo Padre Benedetto XVI, che ha dato un’ulteriore testimonianza del suo apprezzamento e della sua vicinanza a questa gloriosa Chiesa ambrosiana, ricca di apostoli sapienti e santi.

Per il nostro Beato «l’uomo è uomo solo se ama».1 Indirizzandosi ai suoi piccoli ricoverati, scriveva: «Altri potrà servirli meglio che io non abbia saputo o potuto fare; nessun altro, forse, amarli più che io non abbia fatto».2

Don Carlo fu un eroe e un santo. L’Arcivescovo Montini, parlando agli Alpini, diceva: «Eroi eravate tutti; ma lui, per giunta, era un santo».3

E il segreto dell’eroismo della sua santità fu il suo amore per Cristo: «Solo Cristo – egli diceva – può essere principio di vita divina per l’uomo».4

Cristo fu per il nostro Beato l’unica avventura della sua vita sacerdotale. Fu un prete tutto di Cristo, tutto della Chiesa, tutto del prossimo bisognoso e sofferente.


«Ciò che mi colpiva nei suoi discorsi – attesta un testimone – era la centralità dei motivi sacerdotali nei suoi pensieri e nei suoi sentimenti. Trovavo in lui una eccezionale capacità di essere sempre sacerdote e di avere con naturalezza, senza sforzo, il pensiero sempre fisso sugli impegni umani e spirituali del suo sacerdozio».
5

Don Gnocchi era prete fino in fondo. In una lettera dalla Russia scriveva: «Sogno, dopo la guerra, di potermi dedicare per sempre ad un’opera di carità […]. Desidero e prego dal Signore una sola cosa: servire per tutta la vita i suoi poveri, ecco la mia ‘carriera’».6

E la sua carriera sacerdotale fu il servizio ai giovani come educatore sapiente, come cappellano eroico, come benefattore generoso dei mutilatini. Il suo incontenibile entusiasmo apostolico era ancorato alla Provvidenza divina, da lui vista, come Don Bosco, incarnata concretamente nelle persone buone e generose. Don Gnocchi ebbe infatti una energia creativa, una imprenditorialità tutta milanese nel trovare mezzi e persone per far crescere e prosperare quella che lui chiamava “la mia baracca”. Era un vero imprenditore della carità.

Cari fedeli, la figura del Beato Carlo Gnocchi resta di grande attualità ancora oggi. Come profeta di speranza e come eroe della carità, egli continua a ispirare impegno e imitazione. Il Dio cristiano è carità, è amore vicino e provvidente. I santi cristiani sono anch’essi testimoni positivi di questo amore vero e concreto.

Imitiamo la carità del Beato Carlo Gnocchi e continuiamo ad affidarci alla sua intercessione presso nostro Signore Gesù Cristo.

 

1 Dal Testamento di don Carlo Gnocchi.

2 Mons. Giovanni Barbareschi, L’ultima Messa di don Carlo, in Giorgio Rumi – Eduardo Bressan (ed.), Don Carlo Gnocchi, Milano, Mondadori 2002, p. 6.

3 Giovanni Battista Montini, Discorsi e scritti milanesi II (1954-1963), Brescia, Istituto Paolo VI 1997, p.3488

4 Carlo Gnocchi, Andate e insegnate, in Gli scritti, p. 42.

5 Testimonianza di Mons. Pisoni, Positio super virtutibus, Vol. II, p. 652. Roberto Parmeggiani, Ho conosciuto don Gnocchi, I Testimoni raccontano, Milano, Ancora 2000, p. 79.

6 Roberto Parmeggiani, Ho conosciuto don Gnocchi,. p. 80.

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