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All'Ambasciata di Francia presso la Santa Sede un dibattito su fede e scienza

Ultimo Aggiornamento: 04/10/2009 22:23
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All'Ambasciata di Francia presso la Santa Sede un dibattito su fede e scienza

La domanda del «come» e quella del «perché»


L'Ambasciata di Francia presso la Santa Sede ospita, nel pomeriggio del 2 ottobre, un dibattito sul tema "Fede e scienza". Si confrontano il presidente dell'università Paris-Descartes e l'arcivescovo presidente del Pontificio Consiglio della Cultura che hanno anticipato a "L'Osservatore Romano" i temi dei loro interventi.

di Axel Kahn

Il credere e la preoccupazione di dimostrare razionalmente un enunciato sono talmente in contraddizione fra loro da far sì che oggi si abbia la tendenza a opporre scienze e religioni, oppure a sforzarsi, in un gran numero di articoli e di opere, di spiegare le ragioni per le quali non sono, in fin dei conti, inconciliabili. Una simile contrapposizione è, a dire il vero, recente. Fino al XIX secolo, e ancora all'inizio del XX secolo, quasi nessuno fra i grandi scienziati rifiutava l'idea di una trascendenza organizzatrice del mondo; anzi, in generale erano animati da una fede profonda. Ciò vale anche per quegli studiosi e pensatori che ebbero a che dire con le autorità delle loro rispettive religioni come Galileo o, nel XII secolo nell'Andalusia islamica, il filosofo e medico arabo Averroè. Quest'ultimo fu costretto all'esilio dalla corrente musulmana integralista che non gli perdonava il fatto d'insegnare che esistevano due fonti legittime di verità, la religione e la metafisica.

Nel mondo cristiano, l'evidenza di Dio, riferimento ultimo, è condivisa da una lunga stirpe di scienziati fino al XX secolo:  Copernico, Keplero, il già citato Galileo, Cartesio, Leibniz, Pascal, Newton, Pasteur, Buffon, Claude Bernard. Dei due padri della teoria dell'evoluzione, Jean-Baptiste Lamarck e Charles Darwin, solo il primo era completamente ateo. Darwin, almeno nei primi anni della sua esistenza adulta, condivise l'idea di una potenza divina. 

Quanto ad Albert Einstein, continuava  a  rifiutare  nella  prima  me-tà del XX secolo l'indeterminismo quantico:  "Dio non gioca a dadi", diceva.

Oltre all'influenza di una società profondamente spiritualista e al potere repressivo delle Chiese cristiane, era la ricerca delle cause prime a condurre tutti quegli studiosi all'idea di  Dio.  Il  processo  scientifico  è fondato  sulla  ricerca delle cause e dei meccanismi di tutti i fenomeni osservati. Ciò portava gli uomini di scienza a studiare le concatenazioni causali  in  base al principio che vuole  che  il  fenomeno  d sia spiegato da c di cui b è la causa, sotto l'influenza di a.

Dio era allora quel determinante supremo "a", causa prima dell'esistente, non essendo determinato da null'altro che da se stesso. Era dunque attraverso un interrogativo metafisico che prolungava il processo scientifico, che si giungeva all'evidenza di Dio, sorgente di ogni cosa.

Il linguaggio matematico universale, geometrico, nel quale è scritto il grande libro della filosofia della natura, dimostrava, per Galileo, che Dio realizza in questo modo le sue opere. Così la scienza, lungi dallo screditare la fede nel creatore di tutte le cose, conduceva necessariamente a lui. Cartesio faceva di Dio un'evidenza che s'imponeva da sola, irrefutabile, condizione della ragione umana. Si può dubitare di tutto, diceva, persino dei dati matematici perché la mente può essere ingannata. Al contrario, "penso, dunque sono, è necessariamente vero" (seconda meditazione) e questa certezza del mio pensiero e della mia esistenza è la condizione di qualsiasi altra conoscenza. Per Cartesio l'uomo è certo di esistere e di pensare, ma può dubitare di ciò che la sua mente gli propone perché essa è imperfetta. La ragione ha però i mezzi per giungere alla conoscenza. È dunque necessario che esista, accanto a quegli esseri imperfetti che noi siamo e alle cose incerte, un essere infallibile e perfetto, condizione della verità.
Tuttavia, per l'uomo in preda ai dubbi  il cammino vero consisterà nell'identificarlo grazie a un metodo di approccio razionale descritto in dettaglio dal filosofo (Discorso sul metodo).

Limitare Dio, in un certo senso, a questo ruolo di condizione di un ragionamento  umano  alla  ricerca della  verità  fu  molto  criticato  dagli altri  studiosi  e  filosofi del XVII secolo  come  Leibniz  e  Pascal, per i quali l'intervento divino si manifesta al mondo ben al di là della mente umana.

Certo, l'ateismo fa capolino nel XVII e nel XVIII secolo, ma più in filosofi  come Spinoza e Diderot che fra  gli scienziati. Per Spinoza è la natura  nel  suo  insieme  a essere causa  di  se  stessa  e a determinare le  proprietà  delle  cose  e degli esseri,  e  anche  le  azioni  umane. Questa sorta di panteismo ateo porterà Spinoza a essere condannato e respinto dalle autorità israelite di Amsterdam.
È stato di conseguenza l'interrogativo sulle cause prime, la questione del perché, a indurre tanti pensatori e scienziati dei secoli passati a ricorrere alla razionalità metafisica quando la metodologia scientifica diveniva inoperante, e a condurli all'idea di Dio, del grande orologiaio o del grande architetto dell'universo.

Nel XIX secolo Auguste Comte e la scuola positivista rimetteranno in discussione la legittimità di qualsiasi interrogativo "al di là della fisica", vale a dire della scienza. Screditeranno in tal modo qualsiasi interrogativo metafisico. Il pensiero teocratico, poi metafisico, costituisce per Auguste Comte due stadi successivi dell'umanità nella sua ascesa verso i tempi moderni in cui le verità positive scaturiscono dal processo scientifico. Si pone solo la domanda del "come". Quella del "perché", di ordine metafisico, rimanda a una fase oggi superata del pensiero umano che ha acquisito gli strumenti tecnici e cognitivi per inseguire le verità oggettive. Conviene non perdersi ponendosi domande che a tutt'oggi restano - probabilmente in modo transitorio - inaccessibili alle scienze.

Una simile denuncia degli interrogativi metafisici taglia, in un certo senso, i ponti che nella storia avevano portato in modo del tutto naturale i padri della scienza moderna a passare dai fenomeni della natura alla loro causa prima, vale a dire Dio.

È questo l'elemento determinante della rottura moderna fra scienza e fede. A dire il vero, la vittoria dello scientismo positivista non è né completa né definitiva. Una prima dimostrazione di ciò è l'evoluzione ultima del positivismo verso una dottrina e una pratica quasi-religiose le cui chiese, oggi senza fedeli, esistono ancora in alcuni Paesi dell'America Latina. D'altro canto, gli scienziati, compresi i più grandi, non sono pronti a sradicare ogni pensiero metafisico; basta leggere la corrispondenza fra i grandi fisici dell'inizio del secolo, ad esempio Einstein e Heisenberg, per convincersene.

L'unica esigenza imperiosa di uno scienziato di fronte a un credo è che quest'ultimo non interferisca con la ricerca razionale della soluzione dei problemi studiati. Allo stesso modo, è legittimo per i credenti rifiutare qualsiasi pretesa da parte degli scienziati di screditare la loro fede dal momento che il suo oggetto non è un bersaglio logico degli approcci scientifici. Resta vera la frase attribuita al cardinale Barberini, futuro Papa Urbano viii, allora difensore di Galileo.

Rispondendo ad alcuni avversari del grande scienziato che denunciavano il carattere blasfemo delle sue scoperte astronomiche, il futuro sommo pontefice avrebbe detto:  "Sapete, fratelli miei, Dio dice come andare in cielo, non dice come è fatto".
Un simile posizione riassume, in fondo, le condizioni di una coesistenza pacifica fra scienza, metafisica e fede.


(©L'Osservatore Romano - 3 ottobre 2009)
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Due profili dello stesso volto


di Gianfranco Ravasi

Axel Kahn racconta un episodio autobiografico suggestivo:  "Alla sua morte mio padre mi lasciò una lettera con quest'ultimo appello:  Sii ragionevole e umano". È una sorta di motto che è divenuto anche il titolo di un suo libro, Raisonnable et humain (Parigi, Broché, 2004), e una divisa della sua stessa ricerca che ha costantemente intrecciato alla conoscenza razionale e all'analisi scientifica della genetica e della neurobiologia l'attenzione alla metafisica e alla simbolica spirituale. Si delinea, così, nell'opera dell'attuale presidente dell'università Paris-Descartes, un approccio multidisciplinare alla realtà, nella linea di una grande tradizione culturale che non è solo degli umanisti, ma anche di celebri scienziati, come per esempio Max Planck che nel suo saggio sulla Conoscenza del mondo fisico affermava:  "Scienza e religione non sono in contrasto, ma hanno bisogno una dell'altra per completarsi nella mente di un uomo che pensa seriamente".

È, allora, necessario che lo scienziato lasci cadere quell'orgogliosa autosufficienza che lo spinge a relegare la filosofia e la teologia nel deposito dei relitti di un paleolitico intellettuale e quell'hybris che lo illude di dichiarare la capacità onnicomprensiva della scienza nel conoscere, circoscrivendo ed esaurendo la totalità dell'essere e dell'esistere, del senso e dei valori. Ma si deve vincere anche la tentazione del teologo desideroso di perimetrare i campi della ricerca scientifica e di finalizzarne o piegarne i risultati apologeticamente a sostegno delle sue tesi. Come scriveva Schelling, occorre che scienziato e teologo "custodiscano castamente la loro frontiera", rimanendo aderenti ai loro specifici canoni di ricerca, pronti però anche a rispettare e a tenere in considerazione i metodi e i risultati degli altri approcci alla realtà in esame.
È questa la tesi di fondo che regge l'articolo che Kahn ha preparato per il nostro giornale, in premessa al dialogo che egli con me intesserà sul tema nella sede romana dell'Ambasciata di Francia presso la Santa Sede. "La credenza - egli scrive - non deve interferire nella ricerca razionale della soluzione dei problemi studiati e, in modo simmetrico, è legittimo che i credenti rifiutino ogni pretesa da parte degli scienziati di squalificare la loro fede quando il suo oggetto non è una meta logica degli approcci scientifici". Egli, dunque, propone "una coesistenza pacifica" tra scienza e fede, lasciando alle spalle quello scontro che ha ai suoi occhi un vertice (o una sorgente) nel positivismo di Comte, negatore della "legittimità di ogni interrogazione al di là della fisica".

Un impulso ulteriore a questa discrasia radicale è riconoscibile nel neopositivismo del Novecento. Il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein (1921) dichiarava come prive di senso le proposizioni della metafisica, dell'etica e dell'estetica, perché esse non sono immagine di nessun fatto del mondo. I neopositivisti del cosiddetto "Circolo di Vienna" andarono oltre e interpretarono in senso svalutativo radicale l'affermazione di Wittgenstein riguardo ai discorsi non scientifici. In realtà, per il filosofo viennese - che non era certo un agnostico - si tratta solo di un'"ineffabilità" insita in quelle proposizioni, per cui "su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere". Anche se sopravvivono ancora ben vigorosi epigoni delle tesi del "Circolo", come Dawkins e altri difensori di uno scientismo a oltranza, ha ragione Kahn nel considerare ormai marginale e semplificatoria tale impostazione.

Come si diceva, la sua è la proposta di un reciproco e coerente rispetto tra i due campi:  la scienza si dedica ai fatti, ai dati, al "come"; la metafisica e la religione si consacrano ai valori, ai significati ultimi, al "perché", secondo specifici protocolli di ricerca. È quella che lo scienziato statunitense Stephen J. Gould, morto nel 2002, ha sistematizzato nella formula dei Non-Overlapping-Magisteria, ossia della non-sovrapponibilità dei percorsi della conoscenza filosofico-teologica e della conoscenza empirico-scientifica. Essi incarnano due livelli metodologici, epistemologici, linguistici che, appartenendo a piani differenti, non possono intersecarsi, sono tra loro incommensurabili, risultano reciprocamente intraducibili e si rivelano in tal modo non conflittuali.

Riconosciuta la positività di tale impostazione, che rigetta facili concordismi sincretistici e assegna pari dignità ai diversi tracciati di analisi della realtà, bisogna però opporre una riserva che è ben evidente già a partire dalla stessa esperienza storica. Entrambe, scienza e teologia (o filosofia), hanno in comune l'oggetto della loro investigazione (l'uomo, l'essere, il cosmo) e - come ha osservato acutamente Michal Heller nel suo bel saggio Nuova fisica e nuova teologia, appena tradotto in italiano (Milano, San Paolo, 2009, pagine 200, euro 12) - "esistono alcuni tipi di asserzioni che si lasciano trasferire dal campo delle scienze sperimentali a quello filosofico e viceversa senza confondere i livelli", anzi, con esiti fecondi; si pensi al contributo che la filosofia ha offerto alla scienza riguardo alle categorie tempo e spazio.

Inoltre, continua lo studioso polacco, "la distinzione dei livelli non dovrebbe legittimare l'esclusione aprioristica della possibilità di qualsiasi sintesi". È così che ha preso vigore, accanto alla sempre valida (a livello di metodo) "teoria dei due livelli", una sussidiaria "teoria del dialogo" propugnata da Józef Tischner che fa leva sul fatto che ogni uomo è dotato di una coscienza e, quindi, ogni ricerca sulla vita umana e sul rapporto con l'universo esige una pluralità armonica di itinerari e di esiti.

Non è soddisfacente, allora, per una più compiuta risposta dissociare radicalmente i contributi scientifici da quelli filosofici e viceversa, pena una perdita della vera "concretezza" della realtà e dell'autenticità della stessa conoscenza umana che non è monodica, cioè solo razionale e formale, ma anche simbolico-affettiva (le pascaliane "ragioni del cuore").

Questa "teoria del dialogo" - che, per altro, faceva parte dell'eredità dell'umanesimo classico - è fatta balenare anche nella lettera che Giovanni Paolo II aveva indirizzato nel 1988 al direttore della Specola Vaticana:  "Il dialogo deve continuare e progredire in profondità e in ampiezza. In questo processo dobbiamo superare ogni tendenza regressiva che porti verso forme di riduzionismo unilaterale, di paura e di autoisolamento. Ciò che è assolutamente importante è che ciascuna disciplina continui ad arricchire, nutrire e provocare l'altra ad essere più pienamente ciò che deve essere e contribuire alla nostra visione di ciò che siamo e di dove stiamo andando".

Distinzione ma non separatezza, dunque, tra scienza e fede. Il "fenomeno" a cui si dedica la scienza, ossia la "scena" come si è soliti dire, non è indipendente dal "fondamento" e, quindi, esperienza e "trascendenza" sono distinte nei livelli ma non isolate e incomunicabili.

A questo punto, se vogliamo attestarci solo sul versante che ci è proprio, quello teologico, possiamo condividere quanto scriveva nel 1982 sulla rivista "Scripta Theologica" José Luis Illanes:  "La teologia può attuare il suo contributo solo se si mantiene in contatto con le altre scienze. Essa ha bisogno di essere ascoltata ma ha altrettanto bisogno di ascoltare gli altri saperi. Il teologo, come lo scienziato, deve essere umile, e in misura ancor maggiore:  non solo perché ciò che sa lo riceve dalla parola di Dio, affidata alla Chiesa, di fronte a cui deve mantenersi in atteggiamento di devoto ascolto, ma anche perché riconosce che la scienza teologica non lo autorizza a prescindere da altri saperi". E qui idealmente ritorniamo al motto del padre di Axel Kahn, "ragionevole e umano". Due profili dello stesso volto:  cancellato uno, il viso si sfigura. Per dirla con una battuta folgorante dei Pensieri di Pascal:  "Due eccessi:  escludere la ragione, non ammettere che la ragione".


(©L'Osservatore Romano - 3 ottobre 2009)
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Fede e scienza, un dialogo necessario

Colloquio tra mons. Gianfranco Ravasi e il genetista Axel Kahn

di Chiara Santomiero

ROMA, domenica, 4 ottobre 2009 (ZENIT.org).-

“Escludere la ragione e non ammettere che la ragione”: sono questi i due eccessi da evitare nel confronto tra fede e scienza.
 
Lo ha affermato mons. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della cultura, prendendo in prestito un pensiero del filosofo Pascal, nel corso del dibattito con il genetista Axel Kahn, presidente dell’Università Paris-Descartes, tenutosi venerdì scorso a Roma, nell’Ambasciata francese presso la Santa Sede, per iniziativa della stessa ambasciata in collaborazione con la Delegazione della Commissione europea presso la Santa Sede.

Due eccessi ai quali sostituire “due sguardi, quello della scienza e quello della fede” necessari, secondo Ravasi, “per una visione completa della realtà che si indaga”. Il rapporto tra scienza e fede deve svolgersi “nella distinzione e nel dialogo”. Se, infatti, ognuna di essa riguarda “ambiti distinti, con percorsi autonomi e differenti metodologie”, tuttavia entrambe “hanno bisogno l’una dell’altra per completarsi nella mente di un uomo che pensa”.

“La tentazione in Occidente – ha affermato Ravasi – è stata quella di sbeffeggiarsi reciprocamente guardando, da un lato, alla teologia come a un prodotto della paleologia culturale destinato ad essere abbandonato con l’avvento della scienza e tentando, dall’altro, di imporre alla scienza dei limiti fondati su affermazioni teologiche”.

“La scienza – ha proseguito Ravasi – si interroga sui fatti, sul ‘come’, mentre la metafisica e la religione sono consacrate all’indagine dei valori ultimi, del ‘perché’”.

Se è vero che teologia e scienza hanno “grammatiche diverse”, tuttavia, secondo Ravasi, “hanno anche coincidenze metodologiche ed espressive”. Il linguaggio scientifico moderno, ad esempio “ricorre molto alla categoria del simbolo, avvicinandosi a quello teologico”.

D’altra parte, “secondo S. Agostino ‘la fede se non è pensata è nulla’. L’adesione di fede non è solo affettiva ma richiede un’elaborazione intellettuale e la teologia si serve di categorie logiche”.

Allo stesso modo se la conoscenza di fede si pone su un canale diverso rispetto a quello della semplice razionalità “non è l’unica di questo tipo sperimentata dall’uomo. Si può pensare all’esperienza dell’innamoramento, in cui travalichiamo ininterrottamente il risultato che la scienza ci offre e vediamo nel volto dell’altro la bellezza al di là dell’oggettività”.

“Si tratta – ha affermato Ravasi – di una conoscenza vera anche se non è la stessa della geometria, della razionalità. Ci sono, quindi, più verità da conquistare e la domanda da porre dovrebbe essere: cos’è la verità?”.

“Perché è bello un quadro? – si è interrogato Kahn -. Non c’è una risposta scientifica a questo interrogativo, ma è legittimo porlo, così come chiedersi cosa sia il bene o il male”. “La filosofia – ha proseguito Khan – è un metodo razionale per cercare risposte che non possono essere affrontate con la scienza e la razionalità”.

Ed è la filosofia, invece della fede, secondo Kahn, ad esigere un dialogo con la scienza; infatti “il dialogo deve avere un vocabolario di concetti comuni: se i concetti della fede e della scienza sono incommensurabili l’uno all’altro, il dialogo non può essere intellettualmente proficuo”.

“L’approccio filosofico-scientifico – ha sottolineato Kahn – presuppone una domanda aperta cui si cerca di trovare una risposta; se l’ipotesi di partenza, dopo la verifica, si rivela falsa, vi si rinuncia”. Un approccio teologico, invece “non può rinunciare alla sua premessa, cioè la Rivelazione”.

Tuttavia “il dialogo tra la fede e la scienza è utile”. “Sull’umanesimo – ha proseguito il genetista francese – le posizioni convergono e siamo più spesso in accordo che in disaccordo”. Nella ricerca sull’embrione, per esempio, ha sostenuto Kahn, “la necessaria protezione della singolarità dell’embrione – che se si sviluppa diventa un essere umano – va accordata con o senza fede. Per questo ritengo che nessun embrione debba essere creato a fine di ricerca ma si possano utilizzare quelli già esistenti, sovranumerari. Sulla condanna dei test genetici per gli immigrati io la penso come la Chiesa francese”.

“Il nostro – ha affermato Kahn – è un mondo fondato su chi crede e chi no, ma insieme bisogna creare il futuro. Occorre dialogare su ciò che l’uno e l’altro considerano la ‘via buona’”.

“L’emergere di un essere umano – ha aggiunto Kahn – è il risultato di due condizioni: possedere un genoma umano e saper guardare all’altro come a un interrogativo, qualcuno attraverso il cui valore di essere umano percepisco il mio stesso valore”.

“La reciprocità – ha concluso Kahn che si è professato ‘agnostico ma non ateo’ – per un materialista al di fuori della Rivelazione, è la condizione del pensiero morale”.

“Quando la Genesi definisce l’immagine di Dio nell’uomo – ha ricordato Ravasi – afferma che ‘maschio e femmina li creò’, cioè l’immagine di Dio è la relazione d’amore, la reciprocità”.

“Per usare ancora una volta un pensiero di Pascal – ha concluso il presidente del Pontificio Consiglio per la cultura – ‘se esiste l’amore, esiste Dio’”.

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