L'Ambasciata di Francia presso la Santa Sede ospita, nel pomeriggio del 2 ottobre, un dibattito sul tema "Fede e scienza". Si confrontano il presidente dell'università Paris-Descartes e l'arcivescovo presidente del Pontificio Consiglio della Cultura che hanno anticipato a "L'Osservatore Romano" i temi dei loro interventi.
di Axel Kahn
Il credere e la preoccupazione di dimostrare razionalmente un enunciato sono talmente in contraddizione fra loro da far sì che oggi si abbia la tendenza a opporre scienze e religioni, oppure a sforzarsi, in un gran numero di articoli e di opere, di spiegare le ragioni per le quali non sono, in fin dei conti, inconciliabili. Una simile contrapposizione è, a dire il vero, recente. Fino al XIX secolo, e ancora all'inizio del XX secolo, quasi nessuno fra i grandi scienziati rifiutava l'idea di una trascendenza organizzatrice del mondo; anzi, in generale erano animati da una fede profonda. Ciò vale anche per quegli studiosi e pensatori che ebbero a che dire con le autorità delle loro rispettive religioni come Galileo o, nel XII secolo nell'Andalusia islamica, il filosofo e medico arabo Averroè. Quest'ultimo fu costretto all'esilio dalla corrente musulmana integralista che non gli perdonava il fatto d'insegnare che esistevano due fonti legittime di verità, la religione e la metafisica.
Nel mondo cristiano, l'evidenza di Dio, riferimento ultimo, è condivisa da una lunga stirpe di scienziati fino al XX secolo: Copernico, Keplero, il già citato Galileo, Cartesio, Leibniz, Pascal, Newton, Pasteur, Buffon, Claude Bernard. Dei due padri della teoria dell'evoluzione, Jean-Baptiste Lamarck e Charles Darwin, solo il primo era completamente ateo. Darwin, almeno nei primi anni della sua esistenza adulta, condivise l'idea di una potenza divina.
Quanto ad Albert Einstein, continuava a rifiutare nella prima me-tà del XX secolo l'indeterminismo quantico: "Dio non gioca a dadi", diceva.
Oltre all'influenza di una società profondamente spiritualista e al potere repressivo delle Chiese cristiane, era la ricerca delle cause prime a condurre tutti quegli studiosi all'idea di Dio. Il processo scientifico è fondato sulla ricerca delle cause e dei meccanismi di tutti i fenomeni osservati. Ciò portava gli uomini di scienza a studiare le concatenazioni causali in base al principio che vuole che il fenomeno d sia spiegato da c di cui b è la causa, sotto l'influenza di a.
Dio era allora quel determinante supremo "a", causa prima dell'esistente, non essendo determinato da null'altro che da se stesso. Era dunque attraverso un interrogativo metafisico che prolungava il processo scientifico, che si giungeva all'evidenza di Dio, sorgente di ogni cosa.
Il linguaggio matematico universale, geometrico, nel quale è scritto il grande libro della filosofia della natura, dimostrava, per Galileo, che Dio realizza in questo modo le sue opere. Così la scienza, lungi dallo screditare la fede nel creatore di tutte le cose, conduceva necessariamente a lui. Cartesio faceva di Dio un'evidenza che s'imponeva da sola, irrefutabile, condizione della ragione umana. Si può dubitare di tutto, diceva, persino dei dati matematici perché la mente può essere ingannata. Al contrario, "penso, dunque sono, è necessariamente vero" (seconda meditazione) e questa certezza del mio pensiero e della mia esistenza è la condizione di qualsiasi altra conoscenza. Per Cartesio l'uomo è certo di esistere e di pensare, ma può dubitare di ciò che la sua mente gli propone perché essa è imperfetta. La ragione ha però i mezzi per giungere alla conoscenza. È dunque necessario che esista, accanto a quegli esseri imperfetti che noi siamo e alle cose incerte, un essere infallibile e perfetto, condizione della verità.
Tuttavia, per l'uomo in preda ai dubbi il cammino vero consisterà nell'identificarlo grazie a un metodo di approccio razionale descritto in dettaglio dal filosofo (Discorso sul metodo).
Limitare Dio, in un certo senso, a questo ruolo di condizione di un ragionamento umano alla ricerca della verità fu molto criticato dagli altri studiosi e filosofi del XVII secolo come Leibniz e Pascal, per i quali l'intervento divino si manifesta al mondo ben al di là della mente umana.
Certo, l'ateismo fa capolino nel XVII e nel XVIII secolo, ma più in filosofi come Spinoza e Diderot che fra gli scienziati. Per Spinoza è la natura nel suo insieme a essere causa di se stessa e a determinare le proprietà delle cose e degli esseri, e anche le azioni umane. Questa sorta di panteismo ateo porterà Spinoza a essere condannato e respinto dalle autorità israelite di Amsterdam.
È stato di conseguenza l'interrogativo sulle cause prime, la questione del perché, a indurre tanti pensatori e scienziati dei secoli passati a ricorrere alla razionalità metafisica quando la metodologia scientifica diveniva inoperante, e a condurli all'idea di Dio, del grande orologiaio o del grande architetto dell'universo.
Nel XIX secolo Auguste Comte e la scuola positivista rimetteranno in discussione la legittimità di qualsiasi interrogativo "al di là della fisica", vale a dire della scienza. Screditeranno in tal modo qualsiasi interrogativo metafisico. Il pensiero teocratico, poi metafisico, costituisce per Auguste Comte due stadi successivi dell'umanità nella sua ascesa verso i tempi moderni in cui le verità positive scaturiscono dal processo scientifico. Si pone solo la domanda del "come". Quella del "perché", di ordine metafisico, rimanda a una fase oggi superata del pensiero umano che ha acquisito gli strumenti tecnici e cognitivi per inseguire le verità oggettive. Conviene non perdersi ponendosi domande che a tutt'oggi restano - probabilmente in modo transitorio - inaccessibili alle scienze.
Una simile denuncia degli interrogativi metafisici taglia, in un certo senso, i ponti che nella storia avevano portato in modo del tutto naturale i padri della scienza moderna a passare dai fenomeni della natura alla loro causa prima, vale a dire Dio.
È questo l'elemento determinante della rottura moderna fra scienza e fede. A dire il vero, la vittoria dello scientismo positivista non è né completa né definitiva. Una prima dimostrazione di ciò è l'evoluzione ultima del positivismo verso una dottrina e una pratica quasi-religiose le cui chiese, oggi senza fedeli, esistono ancora in alcuni Paesi dell'America Latina. D'altro canto, gli scienziati, compresi i più grandi, non sono pronti a sradicare ogni pensiero metafisico; basta leggere la corrispondenza fra i grandi fisici dell'inizio del secolo, ad esempio Einstein e Heisenberg, per convincersene.
L'unica esigenza imperiosa di uno scienziato di fronte a un credo è che quest'ultimo non interferisca con la ricerca razionale della soluzione dei problemi studiati. Allo stesso modo, è legittimo per i credenti rifiutare qualsiasi pretesa da parte degli scienziati di screditare la loro fede dal momento che il suo oggetto non è un bersaglio logico degli approcci scientifici. Resta vera la frase attribuita al cardinale Barberini, futuro Papa Urbano viii, allora difensore di Galileo.
Rispondendo ad alcuni avversari del grande scienziato che denunciavano il carattere blasfemo delle sue scoperte astronomiche, il futuro sommo pontefice avrebbe detto: "Sapete, fratelli miei, Dio dice come andare in cielo, non dice come è fatto".
Un simile posizione riassume, in fondo, le condizioni di una coesistenza pacifica fra scienza, metafisica e fede.