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Grazie ai missionari l'antropologia divenne scienza

Ultimo Aggiornamento: 03/10/2009 18:53
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03/10/2009 18:53

Lingue e culture di terre lontane

Grazie ai missionari l'antropologia divenne scienza


di Giulia Galeotti

"Sul piano scientifico, i missionari hanno veramente raccolto tutto ciò che valeva la pena di essere conservato":  da questa provocazione antropologica che Claude Lévi-Strauss lanciò in Tristi tropici, è nata l'idea di una ricerca interdisciplinare sulle culture e le lingue dei missionari, come spiega Nicola Gasbarro, dell'università di Udine, nella densa introduzione ai due recenti volumi, Le culture dei missionari (Roma, Bulzoni, 2009, pagine 376, euro 25) e Le lingue dei missionari (Roma, Bulzoni, 2009, pagine 320, euro 22).
Il tema è stato oggetto di un convegno internazionale tenutosi nella città friulana nel gennaio 2006, quando, partendo da ottiche e saperi diversi, gli studiosi intervenuti hanno affrontato parte di quel ricchissimo e inesplorato materiale antropologico, storico-religioso, linguistico e letterario conservato in archivi, spesso sconosciuti e poco organizzati, sparsi per la penisola. Un materiale che, invece, meriterebbe uno studio approfondito per le potenzialità che ancora racchiude. Fino a oggi, infatti, come ricorda Lucetta Scaraffia nel suo contributo, la storia delle missioni è stata (poco) studiata prevalentemente da ricercatori appartenenti alle stesse congregazioni missionarie analizzate onde fornire, per lo più, la necessaria documentazione alla canonizzazione dei fondatori. Oppure essa "è stata manipolata per fornire le prove della collusione dei missionari con il colonialismo da parte di storici di impronta terzomondista". 

Le domande da cui Gasbarro parte nell'introduzione sono stimolanti e di ampio respiro. "Le missioni sono la prima occidentalizzazione del mondo di un inevitabile processo di civilizzazione o una faticosa costruzione di altre identità collettive, prima impensabili, che non riusciamo a comprendere con i limitati strumenti antropologici che abbiamo a disposizione?". E ancora, "come evitare il rischio evidente di trasformare le dinamiche di conversione religiosa in processo di assimilazione culturale?" Pur non potendo sciogliere i tanti nodi problematici, dalla lettura dei volumi risulta però con chiarezza che quel che serve per affrontare il tema è una seria storia sociale e antropologica che indaghi l'attività missionaria.

Bistrattate o formalmente accantonate, le relazioni dei missionari hanno invece fornito un prezioso materiale per gli antropologi, trattandosi di un accurato lavoro scientifico che non consiste solo nella descrizione delle culture con cui essi sono venuti a contatto, ma anche nella compilazione di dizionari e poi nella realizzazione di traduzioni della Bibbia in molte lingue indigene. Ciò ha contribuito, tra l'altro, "alla conservazione di lingue che diversamente si sarebbero perdute durante le epoche coloniali" (Scaraffia). Sono diversi i saggi che raccontano la creazione di vocabolari e grammatiche (spesso annesse). Se il gesuita José Anchieta scrive un dizionario di tupi, lingua locale degli indigeni brasiliani, a beneficio dei missionari che verranno dopo di lui (Francesco Guardiani), i missionari teatini, avviando per primi lo studio sistematico della lingua georgiana, redigono (tra l'altro) dizionari georgiano-italiano. E ancora, il vocabolario italiano-aramaico, arabo, etiopico e il dizionario ghée-italiano-amharegna e arabo volgare di Giuseppe Sapeto (saggio di Francesco Surdich). È molto interessante seguire i missionari alle prese con il problema della traduzione, aspetto centrale "di un processo più complesso di traduzione culturale", come scrive Cristina Pompa, nell'analizzare la situazione nel Brasile coloniale tra il XVI e il XVIII secolo.

Spingendo i missionari ad apprendere e utilizzare le lingue indigene, la Chiesa ha dimostrato una singolare disponibilità ad aprirsi all'alterità linguistica dei nuovi convertiti. Ciò, tra l'altro, ha permesso di acquisire un'enorme quantità di dati che a inizio Ottocento "porterà alla conquista di metodi scientifici per lo studio del linguaggio e delle lingue naturali" (Gianguido Manzelli). Risulta inoltre che l'uso preferenziale accordato dai missionari alle lingue locali non era tanto dovuto alla reciproca comprensione, quanto piuttosto al tentativo di integrarsi effettivamente con la realtà locale (Fiorenzo Toso racconta il caso dei cappuccini in Congo nei secoli XVII-XVIII). È interessante così, leggere ad esempio notizie e considerazioni sulla "linguistica gesuitica" (Diego Poli che indaga lo spazio culturale sino-nipponico tra Cinque e Settecento).

Le vie della comunicazione sono state molte e diverse. Basti pensare all'utilizzo, alla "incorporazione" della musica degli Jívaro dell'Amazzonia ecuadoregna da parte dei missionari (Maurizio Gnerre). O alla scelta di servirsi delle conoscenze scientifiche europee per guadagnare prestigio e protezione, come tentarono di fare i gesuiti in Cina (Paola Dessì). Del resto, alcune figure hanno davvero posto le basi per una comprensione che vedeva enormi ostacoli di natura non semplicemente linguistica:  l'esperienza tibetana di padre Ippolito Desideri - che giunse a Lhasa nel 1716 - ha posto un primo ponte per l'incontro tra diversi sistemi di pensiero, l'occidentale sostanzialmente dualistico e l'orientale, "buona parte del quale sostanzialmente non-dualistico" (Enzo Gualtiero Bargiacchi).

Quello dei missionari è stato quindi un contributo indispensabile quantomeno su un duplice piano. Accanto al cruciale valore documentario, il loro impegno ha permesso l'elaborazione teorica del modo in cui impostare e costruire le relazioni tra le diverse civiltà. Lo spettro dei contributi pubblicati è effettivamente ampio. Si va dall'Ecuador al Congo, dalla Cina (oggetto di diversi contributi, tra cui quello di Chiara Giuntini su Malebranche, gesuiti e "teologia cinese") all'Etiopia, dal Brasile alle Georgia, dal Tibet al Québec, analizzando l'attività di cappuccini, salesiani, orsoline, gesuiti, tra gli altri Matteo Ricci, Cesare Antonio De Cara nel saggio di Domenico Santamaria, e José de Anchieta che Celestina Milani e Mario Iodice definiscono "un linguista interculturale". E ancora, figure come Antonio Colbacchini (studiato da Paula Montero) e Marie de l'Incarnation (saggi di Sergio Cappello e Alessandra Ferraro).

Le ricerche testimoniano come il rapporto tra missionari e popolazioni locali sia stato, per lo più, biunivoco. Il saggio di Carlo Borghero approfondisce l'influenza del confucianesimo sulla cultura europea:  l'idea che possa esistere una morale senza religione sta all'origine del libertinismo tardo seicentesco. D'altro canto, nel primo Novecento gli africani ben compresero come l'educazione missionaria mettesse in moto nuove opportunità nel mondo coloniale in formazione, permettendo in special modo l'accesso a posti importanti nelle diverse amministrazioni (Benoît de L'Estoile). Da più contributi, risulta inoltre che la posizione dei missionari nel panorama coloniale si caratterizzò per una più o meno evidente conflittualità con i governi statali, avendo interessi ben diversi. Spesso, ad esempio, i missionari erano in netta opposizione quanto all'uso della mano d'opera locale o dei lavori forzati.

Se i due volumi hanno anche il merito di sfatare l'idea storiograficamente diffusa in Italia secondo la quale in età contemporanea la separazione tra missionari e antropologi risulterebbe totale, essi rimarcano però anche un altro fondamentale aspetto, e cioè il contributo che la Chiesa ha ricevuto dall'impegno dei missionari. Un arricchimento che non è stato solo in termini di conversione e diffusione del messaggio in territori altri e lontani:  si è infatti trattato di un contributo decisivo anche in patria, giacché i missionari hanno fornito alla Chiesa diverse "armi" per affrontare la secolarizzazione imperante in Occidente, dando, come scrive Scaraffia, "materiali e ipotesi di interpretazione fondamentali per la battaglia culturale ingaggiata contro l'evoluzionismo" e tanto altro ancora.


(©L'Osservatore Romano - 4 ottobre 2009)
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