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Diario di un giovane prete bergamasco

Ultimo Aggiornamento: 03/10/2009 18:58
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Diario di un giovane prete bergamasco

Don Giò e il desiderio del vero


di Fabrizio Contessa

Il desiderio del vero. Non c'è passo o azione umana che non siano dettati ultimamente da un insopprimibile desiderio di bene, di felicità, di compimento. Eppure non è frequente oggi incontrare un giovane che viva di questo desiderio:  "Voglio diventare sacerdote ed essere santo". Altri sono i modelli sociali di riferimento, altre le aspirazioni inculcate e che difficilmente fanno coincidere il sogno della propria realizzazione umana con l'appagamento dei desideri più profondi e veri. O, almeno, questa è la realtà dipinta e ingigantita dai mass media. Perché il mondo dei giovani non è poi così piatto e uniforme e, guardando bene, c'è anche chi, come Giò, è "lieto di giocarsi unicamente per il Signore". 

Giò è il nomignolo che gli amici hanno familiarmente affibbiato a Giovanni Bertocchi. Un ragazzo come tanti, nato nel 1975 in una famiglia cattolica della provincia di Bergamo. E che a 14 anni entra in seminario per conseguire la maturità classica e vi rimane fino all'ordinazione sacerdotale - il 3 giugno 2000 - divenendo così per tutti don Giò. Un prete giovane, dedito al proprio ministero, plasmato dalla misericordia del Signore. Una presenza cristiana tra le famiglie e i giovani della parrocchia. Senza gesti eclatanti, ma nell'ordinarietà e nella semplicità del lavoro pastorale. Fino al 30 aprile 2004, quando fatalmente cade sotto gli occhi attoniti dei suoi ragazzi, nella palestra dell'oratorio San Giovanni Bosco di Verdello, centro di settemila anime in provincia di Bergamo.

A cinque anni dalla morte e nel clima dell'Anno sacerdotale indetto da Benedetto XVI, i genitori hanno acconsentito ad aprire una finestra sul mondo interiore di questo giovanissimo sacerdote. È nato così, grazie al lavoro di Arturo Bellini - sacerdote e giornalista bergamasco - un libro che ne raccoglie il diario spirituale (Giovanni Bertocchi, Io sono un sogno di Dio, Padova, Edizioni Messaggero Padova, 2009, pagine 240, euro 13).
Don Bellini ha conosciuto don Giò nel 1998, due anni prima dell'ordinazione sacerdotale, quando il giovane seminarista - allora ancora senza il don - per la prima volta arrivò a Verdello con i compagni di teologia per la "Missione giovani". E lo ricorda così:  "Mi colpì per la sua sensibilità e la sua capacità di dare volto alla figura di Gesù e di parlare di Gesù". E quando poi, dopo l'ordinazione, don Giò fu destinato proprio all'oratorio di Verdello, "trovai un giovane presbitero preparato e intelligente, creativo e appassionato di Gesù e del Vangelo, contento di essere prete". Un sacerdote "attento ai segni di Dio" nella propria storia e nella vita dei ragazzi che gli erano stati affidati, "sensibile al nuovo, ma rispettoso sempre di quel che altri avevano costruito", un "paziente e fedele lavoratore nel campo di Dio".

Quella di don Giò è dunque la piccola grande storia di un seminarista e poi di un sacerdote che - spiega don Bellini - "non ha fatto cose straordinarie, ma ha vissuto in modo appassionato l'ordinario della sua vita, la sua relazione con Dio e la relazione con le persone affidate al suo ministero". Un itinerario umano fatto di tante piccole tappe, dubbi, indecisioni, entusiasmi e scoperte. Scrive infatti sulla sua agenda Giò appena diciassettenne:  "Oggi ho capito che non c'è bisogno che io faccia grandi cose. La santità devo costruirla con l'aiuto di Dio nelle piccole cose di ogni giorno. Le grandezze che il Signore mi darà la grazia di vivere saranno frutto dei miei piccoli passi quotidiani".

Il diario spirituale di Giò abbraccia un periodo di quindici anni:  dall'entrata in seminario nel settembre 1989 - "per me è l'inizio di una nuova bellissima esperienza" - all'improvvisa morte nella primavera del 2004. Contiene riflessioni tracciate con grafia minuta su agende e quadernetti insieme ad appunti di scuola, disegni e note musicali, impegni da ricordare. Linguaggio e stile sono espressione di un figlio dell'epoca moderna, di una cultura dell'"io" sempre più invadente. E anche se non sembra esserci stata la precisa volontà di tenere un diario, di fatto egli scrive in modo rapido ed essenziale i suoi pensieri e le sue domande sulla vocazione, sulla preghiera, sul senso della vita, dell'amore e della sofferenza umana. Senza nulla censurare. Talvolta, di fronte alla vocazione che lo chiama a vivere nella verginità, scoprendosi a "rincorrere il proprio cuore che corre più veloce di un motore". Altre, denunciando il proprio disimpegno:  "Non prego molto, soprattutto non mi confesso...". Altre, ancora, manifestando il desiderio di abbandono a Dio:  "Voglio essere un libro aperto (aperto come le braccia e le mani di Cristo sulla Croce!). Voglio migliaia di pagine bianche su cui sia Tu a scrivere il resto della mia storia".

Don Giò non idealizza e non teorizza la figura del prete. Sa che il "successo" del sacerdote sta nella fedeltà a ciò che è indispensabile per essere segno della misericordia di Dio. E dono e gratuità - lo ricorda in primo luogo a se stesso - sono gli unici tratti caratteristici:  "La mia scelta di vita come sacerdote implica per se stessa il dono di te all'altro. Devi essere tutto a tutti. Tutto per i ragazzi, per i loro bisogni. Tutto per i genitori, con la fatica dell'educare. Tutto per la comunità che a volte ha sete di Dio, altre no... Tutto per i baristi dell'oratorio, per le signore delle pulizie, per i catechisti, per gli anziani, per i malati, per la scuola...".

Una vocazione vissuta nella consapevolezza e nell'esperienza dell'abbraccio misericordioso di Dio. Come quella volta che in seminario, confuso e in cerca di conferme, d'improvviso notò sopra la propria testa il volo di una rondine che aveva fatto il nido proprio sopra una finestra del cortile. Per circa un quarto d'ora rimase a guardare l'andirivieni della rondine che portava il cibo ai suoi piccoli che allungavano il collo con il becco aperto e l'accoglievano con garriti di gioia. "Uno spettacolo troppo bello per vederlo da solo e così corsi a chiamare alcuni miei compagni per guardarlo insieme. Rimasi nel cortile con due o tre di loro per una decina di minuti, ma della rondine nessuna traccia e il nido era diventato silenzioso. I miei compagni rientrarono a studiare e io rimasi ancora lì fuori incantato da quella visione e stranamente sereno e felice:  avevo capito che il Signore aveva preparato quello spettacolo apposta per me e per nessun altro. Anch'io dovevo preparare qualcosa per Lui. La mia vita doveva essere il mio regalo per Lui".


(©L'Osservatore Romano - 4 ottobre 2009)
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