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Papa Pacelli visto da Mazzolari

Ultimo Aggiornamento: 04/10/2009 06:55
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04/10/2009 06:54

Papa Pacelli visto da Mazzolari

Don Primo e il deserto intorno a Pio XII


di Raffaele Alessandrini

Che cosa può sopportare e che cosa non può sopportare la Chiesa? Si chiedeva un giorno di maggio del 1941, don Primo Mazzolari. La Chiesa non può sopportare "che siano violate la libertà e la dignità della persona e della coscienza". Al contrario, proseguiva il prete cremonese, essa "sopporta senza aprire bocca di essere spogliata e tiranneggiata in qualsiasi modo"; mentre "non può sopportare che vengano spogliati, conculcati, manomessi i diritti dei poveri e dei deboli, individui, città, nazioni e popoli, cristiani e non cristiani". E qui don Primo sottolineava:  come "alcuni gesti di munifica protezione di Pio XII, in favore di ebrei perseguitati" avessero già "commosso e sollevato l'ammirazione del mondo". (Risposta ad un aviatore. I problemi della ricostruzione cristiana). Il testo come si diceva è del 1941.

Singolare destino quello dei profeti. Incompresi e guardati con diffidenza in vita per via della loro andatura:  il loro passo "troppo lungo", diceva Paolo VI di don Primo. E per questo non di rado condannati alla solitudine. Servitori scomodi della verità e della giustizia e magari, come il parroco di Bozzolo, o come un don Lorenzo Milani, provvisti di scorza ruvida, modi spicci e diretti estranei alle perifrasi diplomatiche; e solo per questo giudicati, a volte, agitatori e sovversivi. Ma sono profeti. Riconoscibili per alcuni tratti di fondo:  la fedeltà; l'obbedienza piena - anche quando a parole affermino di non ritenerla sempre una virtù - e la carità paolina che tutto crede, tutto scusa, tutto spera, tutto soffre. E soprattutto un'umiltà aliena dalle luci, dal clamore e dal vittimismo.
 


Dopo aver espresso con forza appassionata il loro punto di vista i profeti autentici sanno piegare il capo e sottomettersi in silenzio al giudizio di altri, uomini anch'essi, ma investiti dall'ardua mansione di guidare la comunità e di salvaguardarla quando, tra i rumori e le confusioni del mondo, non è sempre facile distinguere le voci che gridano nel deserto.

I profeti sanno piegare il capo come ad esempio Antonio Rosmini e il teatino Gioacchino Ventura che nel 1849, di fronte all'interdetto delle loro opere - rispettivamente Delle cinque piaghe della Santa Chiesa e Il discorso per i morti di Vienna - non avevano esitato a fare atto immediato di sottomissione. Non così Vincenzo Gioberti il cui saggio polemico Il Gesuita moderno figurava nel medesimo provvedimento della Congregazione dell'Indice. Il filosofo torinese non sopportò la proibizione reagendo con astio nei confronti della gerarchia e dello stesso Pio ix.

Una condotta di tal genere sarebbe stata inconcepibile per il prete Primo Mazzolari che pure nel corso della sua vita di pubblicista e scrittore è stato più volte colpito dalla censura.
Restando coerente alla propria coscienza egli ubbidisce da uomo di Chiesa, si muove nel suo alveo, ricorre di continuo al magistero dei Papi, ne parla con ammirazione, li vede e li descrive come autorevoli - non autoritari - maestri di verità e di pace, interpreti del disegno di Dio nella storia.
Nel riferirsi alla carità del Papa, don Mazzolari traccia uno profilo efficacissimo di Pio XII, Papa della carità. "La nostra generazione - scrive - ebbe un'esistenza tribolatissima, ma nessuno al pari di noi ebbe la grazia di vedere su tanto male ergersi la materna pietà della Chiesa, cosicché, narrandola, sentiamo di poter ripetere con san Giovanni:  "Ciò che i miei occhi hanno visto, ciò che le mie mani hanno toccato del Verbo di carità, questo ora lo annunciamo"". (La carità del Papa. Pio XII e la ricostruzione dell'Italia).

Nel documento ricordato - scritto nel maggio 1941, ma pubblicato solo mezzo secolo dopo, nel 1991 - in risposta a una domanda precisa sulla natura della sopportazione della Chiesa, don Primo aveva tra l'altro risposto:  "parlare di potenza neutra o di un atteggiamento imparziale del Pontefice di fronte all'attuale conflitto sarebbe calpestare il cuore della Chiesa, la sua missione di guida per avvilirla in una difesa d'interessi temporali, che pur avendo il loro peso non debbono neanche essere richiamati quando sono in gioco gli interessi eterni". Ma che cosa può sopportare ancora la Chiesa? Essa - elencava il parroco di Bozzolo - può sopportare il male che le fanno i suoi nemici; può sopportare di essere spogliata da beni materiali e da privilegi concessi; può sopportare le persecuzioni aperte e subdole; può sopportare di essere misconosciuta nella sua carità e riempita di obbrobrio per colpe non sue; può sopportare il disonore che le viene dalla vita indegna dei suoi figli stessi, i loro rinnegamenti e i loro tradimenti; può perfino sopportare di essere baciata da un Giuda, rinnegata da un Pietro".

"Ma - continua Mazzolari - la Chiesa non può sopportare che vengano diminuite o falsate le verità che essa ha il dovere di custodire e che costituiscono il patrimonio dell'umanità redenta; non può sopportare che sia cancellato dalla storia il senso della giustizia che è patrimonio di tutti, ma in modo particolare dei poveri. Infine non può sopportare:  il potente che abusa della propria forza per opprimere i deboli; il sapiente che abusa della propria intelligenza per circuire e trarre in inganno l'ignorante; il ricco che abusa delle proprie ricchezze.

Vi sono dunque dei limiti alla sopportazione della Chiesa, limiti derivanti "non dai raffreddamenti ma dai colmi della sua carità". La Chiesa deve prendere, e prende, posizione. Non può trattare alla stessa stregua vittima e carnefice, oppressore e oppresso. Ciò che è un abominio per il Signore lo è pure per la sua Chiesa. È indicativo che don Mazzolari ricordi, ad avvalorare le sue asserzioni, anche quanto "L'Osservatore Romano", del 12 marzo 1941, ha scritto in un articolo non firmato - ma quasi certamente del conte Giuseppe Dalla Torre - nel compimento del secondo anno di pontificato di Papa Pacelli. "Si dice, si ripete:  il Papa, la Santa Sede, potenza neutra. Si suol dire e ripetere che questa spirituale potenza è imparziale. È un errore. Potenza neutra? Significherebbe - afferma l'articolista - ammettere che il Papa (...) abbia degli interessi egoistici da salvaguardare o estranei a quello che un conflitto mondiale investe in ogni piano della vita materiale e morale dei popoli (...) che il Papa di fronte alla verità e alla mistificazione, alla giustizia e all'ingiustizia, alla causa dell'amore e a quella dell'odio, al bene e al male (...) non avesse da scegliere; potesse non scegliere; non lo volesse; (...) il Papa non è neutro (...) Il Papa è un combattente. Lo è come un forte, Pio XII. La giustizia, la cooperazione dei popoli, il novus ordo hanno in Lui, agli occhi e al cuore di tutti il loro inconfondibile difensore".

Don Primo apprezza in pieno la sostanza dell'articolo aggiungendo peraltro che trattandosi di cose di grande importanza "avrebbe preferito "il tono piano al tono lirico, il documento all'affermazione".
Lo scritto, forse proprio per questo, si prestava a essere più agevolmente strumentalizzato - come in effetti poi fu - dalle diverse parti in lotta per annettersi arbitrariamente l'appoggio della Chiesa alla propria causa.

La Chiesa non è neutrale; e sarebbe "un delitto" osserva, don Primo, pensare per il fatto che essa predichi la pazienza ed esalti il valore del dolore - specialmente del dolore innocente agli occhi di Dio - "che essa accettasse le tristezze dei prepotenti come un mezzo provvidenziale per moltiplicare i meriti e i meriti sovrannaturali dei buoni. La sofferenza personale ben sopportata mi redime e redime, ma non fa diventare buona l'ingiustizia di chi ha pesato su di me (...) soffrendo bene l'ingiustizia creo una corrente di bontà:  ma non per questo gli uomini sono dispensati dal fermare con tutte le forze la sorgente del male che continua a generare l'errore. Soffrire non è un bene in sé e se il Signore ci aiuta a cavare il bene dal male non vuole che noi chiamiamo bene il male, il quale va tolto di mezzo nei limiti della nostra responsabilità e della nostra carità".
La sopportazione cristiana e della Chiesa stessa è un atto morale, ispirato da quella carità che include la giustizia e l'esalta, ma non è un atto indiscriminato.

Qui si coglie nitidamente l'atteggiamento che motiva l'adesione di don Mazzolari alla Resistenza. Non l'odio nei confronti dell'avversario, ma la volontà di opporsi all'errore nell'intento di edificare una pace fondata sulla giustizia. "Il perdono stesso delle offese - dice don Primo - va all'uomo non all'azione di lui, la quale rimane giudicata anche dopo il perdono, anzi giudicata veramente e irrevocabilmente solo dopo il perdono".



Nel 1942 il parroco di Bozzolo, sempre guardando a Pio XII, scrive uno dei suoi testi più intensi:  Anch'io voglio bene al papa. L'affetto di don Primo per Papa Pacelli è frutto di uno sguardo e di un ascolto attento e prolungato, filtrato dapprima attraverso l'atteggiamento che i suoi fedeli stessi spontaneamente rivolgono al nuovo Pontefice, dopo la morte di Pio xi; quindi con la lettura della prima enciclica - la Summi pontificatus (20 ottobre 1939) - con la meditazione sulla carità e la sempre più matura presa responsabilità del laicato in un quadro europeo in cui si toccano con mano i riscontri alla lettura chiaroveggente di Jacques Maritain - a cominciare dal saggio sui Tre riformatori divenuto celebre in Italia grazie alla traduzione del giovane Giovanni Battista Montini.
E poi con gli appuntamenti radiofonici, i radiomessaggi, le omelie, il rapporto si fa più attento e si concentra sulla persona, una persona da amare incondizionatamente:  il Papa, avverte don Primo, con commozione, è solo; di una "solitudine senza abbandoni". Per un cristiano parteggiare per qualcuno o per qualcosa non è di per sé un titolo di onore. Parteggiando, "mi metto con chi ha più ragione, o credo che ne abbia. È però la sola maniera di stare con qualcuno". Piccole solidarietà passeggere a volte, che però - medita don Mazzolari - tolgono me stesso dalla mia paurosa solitudine. "Sono folla, sono coro, sono truppa:  sono con qualcuno o contro qualcuno, sono con qualcuno anche se contro la giustizia e la carità".

Marciando insieme è poi sempre possibile qualche momento di abbandono alla corrente che ci trasporta; e dunque di tanto in tanto è più facile godere di un poco di sollievo. Invece il Papa - osserva don Primo - "non può abbandonarsi, come faccio io e come fanno tanti". È vero che egli parteggia. "È dalla parte della giustizia, del diritto, della libertà, della pace; ma dove sono gli uomini giusti? Dove i veri pacifici? Dove coloro che operano senza odio, senza interessi omicidi? (...) Egli non può essere con nessuno, come noi vorremmo, perché da nessuna parte c'è cuore interamente puro e mani interamente pulite. Egli può soltanto soffrire con tutti e, se necessario, essere contro tutti. Gli uomini di passione non possono capire questo linguaggio e gli fanno intorno il deserto:  perché dove c'è più Dio c'è più deserto, dove c'è più amore di vero bene, c'è più deserto". Finalmente un giorno il parroco di Bozzolo incontra in udienza il vescovo di Roma:  ""Padre santo benedite i miei quattrocentocinquanta soldati". L'agonia della guerra, appena velata nel dolce star insieme, riappare d'improvviso sul volto di lui:  "Per i vostri che sono 450, per i miei che sono milioni, milioni...". Se il mio cuore, che ne porta così pochi, sta per scoppiare ogni giorno, il suo chi glielo tiene? E mi prende una sconfinata tenerezza, quasi una pietà per questa sua agonia così poco capita e gli bacio, a compenso, due tre volte le mani che benedicono tutti e sempre, ma non bastano a fermare l'immane fratricidio. Se "questo", come dicono molti è uno "star fuori", una neutralità come una altra, non so più che cosa significhi il soffrire. "Basta guardarlo e ognuno si accorge che la frattura della cattolicità è come crocifissa in lui".

Il parroco di Bozzolo così riprende il suo cammino con l'alta, esile figura bianca di Papa Pacelli - e della sua Via Crucis - impressa nel cuore e le sue parole sembrano riflettere all'unisono un programma di vita e una confessione di fedeltà:  "Santità, camminando come vogliamo camminare, potremo anche sbagliare la strada, accentuare un messaggio non nostro con qualche cosa di troppo nostro. Ma anche sbagliando possiamo aiutarti, perché ogni sincera e audace esperienza ti può servire per sbarrare una strada che non conduce o per avviarne una che conduce.
A noi non importa cadere per aprire piuttosto che per chiudere, a noi importa servire in un'obbedienza  che  accetta  tutte le audacie e non rifiuta nessuna umiliazione.
Noi vogliamo servire in ginocchio e in piedi il Cristo che è in te".



(©L'Osservatore Romano - 2-3 maggio 2009)
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Tutti ci crediamo in diritto di giudicarlo


La rivista "30 giorni" ha ripubblicato in un supplemento al terzo numero di quest'anno a cura di Carlo Bellò il volume Anch'io voglio bene al papa scritto nel 1942. Pubblichiamo alcuni stralci tratti dal capitolo La via Crucis del papa.

di Primo Mazzolari

Anche per il papa, il Sinedrio è sempre convocato, e il Tribunale siede in permanenza. Tutti l'abbiamo giudicato, una, due, tante volte:  tutti ci crediamo in diritto di giudicarlo.
Ogni colpa è sua. Se ha fatto, perché ha fatto; se non ha fatto, perché non ha fatto. I peccati di omissione sono i più grossi capi d'accusa nella requisitoria che ognuno di noi ha già elaborato contro di lui...
"Se il papa avesse detto...".
"Se il papa si fosse apertamente dichiarato...". "Se il papa non avesse mostrato di aver paura...". Falsi testimoni e gente in buona fede s'avvicendano al banco dell'accusa.
Ogni giorno ha le sue accuse:  ogni epoca nuovi torti da buttargli addosso.
E quasi par che abbiano ragione questi e quelli, benché si contraddicano come i testimoni del Sinedrio.
Chi deve rispondere della salvezza di tutti può aver sempre torto davanti a qualcuno.
Ci vuol bene il papa che porti di fronte alla storia la colpa che tutti rifiutano.
Ci vuol sempre un innocente che possa essere condannato per salvare i colpevoli:  uno che muoia per il popolo.
Non ci sono apologie per difendere chi deve essere condannato.
Non domanda neanche l'avvocato d'ufficio; non risponde neanche!
Se parla ha torto, se tace ha torto. Ha torto se si mantiene calmo, ha torto se si sdegna.
""Così rispondi al pontefice?". E gli diede uno schiaffo".
Quel giorno che gli uomini gli andassero incontro da ogni strada cantandogli osanna, quel giorno il papa non sarebbe più il papa, cioè colui che tiene il posto di due crocifissi:  uno col capo in giù, perché non si credeva degno d'essere equiparato al Maestro.


Nel cerimoniale della sua incoronazione, la croce è piccola e un accolito la porta. Non il papa. Sulle spalle il gran manto, il triregno sul capo, i flabelli ai lati. Come un grande della terra.
Ci vogliono anche queste cose per segnare la prospettiva tra la "città dell'uomo e quella di Dio", tra ciò che passa e ciò che dura.
Ecco:  a intervalli brevi, il corteo sosta:  qualche cosa viene bruciato sotto gli occhi dell'eletto:  "Così passa, beatissimo padre, la gloria di questo mondo".
Il rito richiama il memento delle ceneri e l'irrisione del pretorio.
Quando la porpora, il triregno, lo scettro non durano, essi valgono quanto lo straccio scarlatto, la corona di spine, la canna del pretorio. Con questa differenza:  che mentre nel pretorio di Pilato l'illusione non è possibile, negli atrii del Vaticano, per qualcuno, essa può resistere all'assalto di qualsiasi ripetuto memento.
La croce astile, voluta dal cerimoniale e portata dall'accolito, tutti la vedono, perché è d'oro e brilla. Ma la croce di legno, larga quanto la cattolicità, greve come l'amore, la porta lui, il papa, sulle sue spalle e nel suo cuore. E pochi la vedono, perché pochi sono i cristiani che riescono a sciogliere i simboli dell'eterno dalle scorie che i secoli vi hanno aggiunto.
"Non vedete ch'egli non sorride mai!".
È un condannato anche lui:  "Si è fatto anche lui obbediente fino alla morte e alla morte di croce".
In luogo del crucifige, l'osanna... Ma non per questo è meno dura la strada del suo Calvario e meno pesante la sua croce.

Alcuni del corteo pretendono d'illudersi che non sia una Via Crucis la strada che percorrono e non un condannato a morte l'uomo che accompagnano.
Costoro non hanno pietà di lui, non pregano per lui al di là delle preghiere comandate.
S'egli è potente, s'egli è grande, non ha bisogno di nulla.
Troppi omaggi, troppo sfarzo di cerimoniale perché i cuori gli vengan vicino!
Chi lo sente, al di là del simbolo, uomo come noi, curvo sotto il peso di una responsabilità che abbraccia il cielo e la terra, il tempo e l'eternità?



(©L'Osservatore Romano - 2-3 maggio 2009)
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