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Giovanni Paolo II in un libro di Gian Franco Svidercoschi

Ultimo Aggiornamento: 04/10/2009 07:23
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Giovanni Paolo II in un libro di Gian Franco Svidercoschi

L'eredità del cuore


Un Papa che non muore. L'eredità di Giovanni Paolo II è il titolo di un volume appena pubblicato (Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009, pagine 158, euro 13,50) per raccontare "il Wojtyla uomo e Papa, le grandi direttrici del suo Pontificato e la Chiesa che ha lasciato in eredità al cattolicesimo". L'autore del libro è stato vicedirettore del nostro giornale. Pubblichiamo quasi integralmente la prefazione scritta dal cardinale arcivescovo di Cracovia, le conclusioni di una riflessione posta al termine del libro e due estratti dai capitoli "Le radici polacche" e "Viaggio nella storia".

di StanisLaw Dziwisz

"Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me". Ogni volta che rileggo queste parole dell'Apocalisse, è come se rileggessi la vita di Giovanni Paolo II. Come se trovassi qui, spiegato con la massima semplicità, il segreto della sua ispirazione profetica. E cioè, del modo in cui lui, aprendo il suo animo, riusciva a far "vedere" il volto del Signore anche a chi non lo conosceva, anche a chi lo respingeva, lo negava.
 
È quella che io chiamo l'"eredità del cuore". E che, a mio giudizio, può spiegare ancora meglio il perché della straordinaria abbondanza di frutti spirituali che questo pontificato continua a far maturare. Ma, mi chiedo, gli storici, che si basano sui fatti concreti, accertati, sapranno prenderla ugualmente in considerazione nelle loro analisi?
attentato 
A dire il vero, in passato non era mai successo che l'eredità di un Papa si manifestasse in una maniera così immediata, così visibile. E, soprattutto, con una proiezione così universale. Attraversando barriere geografiche, culturali, superando muri ideologici e politici, e perfino divisioni confessionali.

Ovviamente, non si possono "quantificare" i sentimenti, e in particolare i sentimenti che appartengono alla sfera più intima. Ma tantissima gente, sotto le più diverse latitudini, è rimasta colpita o addirittura "contagiata" da come Giovanni Paolo II ha testimoniato la sua in Dio Padre, il Dio dell'amore, della misericordia; e ha visto quotidianamente nel segno della radicalità evangelica; e ha affrontato, con serenità e coraggio, tante prove, tante sofferenze, e infine la morte.
Ed è stata proprio questa testimonianza umana e cristiana, a far scoprire la trascendenza come punto comune di riferimento, punto di incontro e di convergenza; e quindi a tessere i fili di una nuova fraternità tra gli uomini di oggi.

Non è solo questo, naturalmente, il patrimonio  lasciato  da  Giovanni Paolo II. C'è la nuova immagine di Chiesa, rinnovata profondamente rispetto a com'era alla fine degli anni Settanta. C'è l'avvio di una grande azione evangelizzatrice, rivolta a promuovere un nuovo modo di essere cristiani oggi, di vivere da cristiani nel mondo contemporaneo. Senza paure e senza complessi! Perché è qui, nel mondo, come è sempre stato, che si incrociano le domande dell'uomo e le risposte di Dio.
E che ci fosse già una prima presa di coscienza da parte del popolo cristiano, me ne accorsi nei giorni della morte e dei funerali del Santo Padre. Me ne accorsi, devo dire, con una certa sorpresa. Erano giorni terribili, sconvolgenti. Eppure, proprio allora, nel vedere quella folla immensa intuii come stesse spuntando una nuova stagione spirituale. Il mondo nuovo di Dio. I nuovi cieli e la nuova terra.

Mi sembrava quasi di "vivere" quel brano finale sempre dell'Apocalisse di Giovanni, un brano stupendo, dove si parla del fiume dell'acqua che dà vita, e che è limpido come cristallo. "In mezzo alla piazza della città, da una parte e dall'altra del fiume, cresceva l'albero che dà la vita. Esso dà i suoi frutti dodici volte all'anno, per ciascun mese il suo frutto. Il suo fogliame guarisce le nazioni" (Apocalisse, 22, 2).
Ebbene, proprio in quei primi segnali di una "nuova Gerusalemme", penso si possa trovare l'elemento di maggiore continuità tra il pontificato di Giovanni Paolo II e quello del suo successore.

Anche Benedetto XVI si sta impegnando a fondo per la crescita di una nuova religiosità, che sappia riportare Dio nella coscienza dell'uomo d'oggi. Una religiosità che non sia moralismo né intellettualismo, e neppure solo una dottrina, un carico di imposizioni, di divieti; ma sia invece l'incontro con Qualcuno, sia vita, gioia. E capacità di difendere la verità di Cristo da tutte le minacce odierne, ma anche di vivere la novità rivoluzionaria del Vangelo nella società moderna.

E adesso, in conclusione, vorrei tornare al punto da dove sono partito, all'eredità del cuore. Perché è:  nel cuore di ciascuno di noi - come mi confidano tante persone - che Giovanni Paolo II ha lasciato un frammento di sé, del suo cuore:  parole che gli abbiamo sentito pronunciare, gesti che lo abbiamo visto fare; il suo modo di pregare annullandosi completamente in Dio; e poi, il ricordo di quando, pur in mezzo a una marea di gente, sembrava che guardasse solo noi; oppure quando ci ha aiutato a superare quel momento particolarmente difficile. E sempre, in ogni occasione, lo abbiamo sentito presente nella nostra vita, lo abbiamo sentito vivo.

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E il capo del partito imprecò al telefono


La notizia arrivò in Polonia mentre era in corso una riunione del comitato centrale del Poup, il partito comunista. Uno dei capi rispose al telefono e, sentendo ciò che c'era scritto nel dispaccio dell'agenzia di stampa, se ne uscì con una imprecazione. "Proprio lui!" esclamò. Non ci fu nemmeno bisogno di dirlo, gli altri lo capirono immediatamente. E dopo la sorpresa, dopo la rabbia, subentrò in tutti un profondo stato di depressione. Al punto che, non sapendo come presentare e commentare la notizia, il telegiornale venne rinviato un'incredibile infinità di volte.

Che fosse stato eletto Papa proprio lui, Karol Wojtyla, profondo conoscitore del marxismo e diventato ormai da tempo la "bestia nera" del governo di Varsavia, fu un autentico shock per l'intero mondo sovietico. Nelle capitali dell'impero, per una decina di giorni, dominò un silenzio totale. Ma, tre settimane dopo, era già pronta una prima analisi di Mosca sugli effetti destabilizzanti che avrebbe quasi sicuramente avuto nell'Urss l'elezione di un Papa polacco. Anzi, come si leggeva nel rapporto, "l'elezione di un cittadino di un Paese socialista".

Ma anche in Occidente, in certi ambienti diplomatici e politici, non furono in pochi a storcere il naso. Ricordo, un nome fra i tanti, il senatore Giovanni Spadolini:  un vero spirito liberale, eppure spaventatissimo da quella nomina. "Che ne sarà della Ostpolitik vaticana?", mi chiese. Si temeva soprattutto che ne derivassero dei pericoli per la stabilità della situazione geopolitica ereditata da Yalta, dalle imposizioni di Stalin, ritenendola comunque l'unica "risorsa" possibile per non rompere un equilibrio così precario e quindi per salvaguardare la pace.

Alla fine degli anni Settanta, lo scenario mondiale era molto diverso da oggi. C'era ancora la "guerra fredda", con la cortina di ferro a dividere in due l'Europa. C'era ancora l'Unione Sovietica a fronteggiare l'altra superpotenza, quella americana, perpetuando così sia il rischio a un conflitto nucleare sia il dominio in duopolio su un Sud sempre più povero. C'era ancora tutto un bagaglio ideologico che condizionava negativamente i rapporti fra gli Stati e la vita interna dei singoli Paesi. L'Italia era ancora sotto l'incubo del terrorismo, solo pochi mesi prima era stato barbaramente assassinato Aldo Moro.

I timori e le critiche, per la scelta operata dal Collegio cardinalizio, non provenivano però solo da fuori. Nella Curia romana, e anche tra i vescovi, c'era chi nutriva più di una perplessità nei confronti di un Papa che arrivava da un altro mondo, da un'altra storia, e aveva quindi un'altra concezione della vita ecclesiale, del governo della Chiesa.

E poi, nei circoli cattolici più progressisti, si avvertiva una diffidenza ancora maggiore verso "il polacco". Lo consideravano un conservatore, un tradizionalista, appunto perché era espressione di una Chiesa giudicata, preconciliare, di una religiosità intrisa di bigottismo, e, sotto sotto, di un cattolicesimo di serie b, ai margini dei grandi centri di pensiero e delle grandi riforme.

Si trattava chiaramente di giudizi, anzi, di pregiudizi, viziati in partenza da una scarsissima conoscenza dei fatti reali, degli sviluppi più recenti. Non si sapeva o si sapeva molto poco del rinnovamento conciliare attuato dalla Chiesa polacca, del suo dinamismo pastorale, dei seminari pieni, delle nuove forme di impegno missionario, dell'apertura sempre più larga ai laici nella vita ecclesiale. E proprio per essere riuscita a mantenere pubblicamente una sua presenza attiva, la Chiesa aveva creato spazi di libertà non solo per sé, ma per tutti i cittadini, potendo in questo modo dare sostegno a quanti - dissidenti, intellettuali, studenti, ebrei - erano oppressi dal potere comunista.

Così come non si sapeva o si sapeva molto poco del pensiero teologico-filosofico di Karol Wojtyla, della concezione che aveva maturato dell'uomo in quanto persona e della storia in quanto "luogo" in cui si realizza il disegno del Creatore. Dunque, non un atteggiamento "contro" qualcuno o qualcosa - e non importa che fosse il materialismo dialettico o il liberismo economico - bensì quella "verità" sull'uomo che presuppone il primato dell'essere umano sulle cose, la priorità dell'etica sulla tecnica e sui sistemi socio-economici, la superiorità dello spirito sulla materia. E poi anche da vescovo, del resto, monsignor Wojtyla si era sempre preoccupato più di rafforzare la missione della Chiesa, di rivendicare il rispetto dei diritti umani, che non di sfidare frontalmente il regime.

Diventato Papa, non nascose affatto le sue origini. Anche perché, con il passare dei mesi, si rese conto del carattere di provvidenzialità che il suo "essere polacco" avrebbe potuto avere per la Chiesa universale. E lo ricordò con parole forti (e forse anche un po' polemiche) durante il suo primo ritorno in Patria, nella visita ad Auschwitz (Oswiecim). "Può ancora meravigliarsi qualcuno che il Papa, nato ed educato in questa terra; il Papa che è venuto alla sede di San Pietro dalla diocesi nel cui territorio si trova il campo di Oswiecim, abbia iniziato la sua prima enciclica con le parole "Redemptor hominis" e che l'abbia dedicata nell'insieme alla causa dell'uomo...?".

Il 1° settembre del 1939, con l'invasione nazista della Polonia, era scoppiata la seconda guerra mondiale. Karol aveva allora 19 anni. Era fuggito con il padre verso Est, aveva percorso quasi 200 chilometri a piedi fino al fiume San; ma qui, avendo saputo che l'esercito russo era entrato nel territorio polacco da Oriente, era stato costretto a tornare indietro. Insomma, è come se il giovane Wojtyla avesse vissuto in prima persona il famigerato patto Ribbentrop-Molotov, la spartizione della Polonia fra Hitler e Stalin quando ancora andavano d'accordo.
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Pietro tra Novecento e nuovo secolo


di Andrea Riccardi


Questo libro di Svidercoschi pone una questione decisiva per il futuro, l'eredità di Giovanni Paolo II, la questione della memoria storica si connette profondamente con quella della sua eredità nella Chiesa del XXI secolo. Benedetto XVI, appena eletto, si è posto chiaramente nella linea del suo predecessore. Lo ha fatto non solo per un atto di riverenza dovuto nei confronti della grandezza spirituale di Giovanni Paolo II. Papa Ratzinger è un uomo dal profilo teologico e pensante, chiaro e profondo, che lo ha portato a cogliere questa profonda spiritualità di Wojtyla anche collaborando personalmente con lui. Così ha voluto dirsi espressamente "successore di Giovanni Paolo II".

L'eredità di Giovanni Paolo II si connette al Concilio, come ho detto. Paolo VI è morto tredici anni dopo la conclusione del Vaticano II, di cui è stato l'architetto. Ma il tempo postconciliare di Papa Montini è stato assai turbolento, anche se egli ha operato riforme e indicato orientamenti di grande importanza nella linea del Vaticano II. La crisi degli anni montiniani era anche connessa alla difficile recezione del Vaticano II. Eletto nel cuore di questa crisi, Papa Wojtyla non ha imboccato un'altra strada, ma ha approfondito quella del Concilio.

Si può dire che Giovanni Paolo II sia stato il Papa della recezione del Concilio:  una recezione creativa, tutta incentrata sull'evangelizzazione. Per lui, il Vaticano II era la riproposizione della Tradizione e del Vangelo nel cuore del difficile secolo XX. Questa recezione non è stata però solo un evento novecentesco. Giovanni Paolo II ha guardato al nuovo millennio, anzi ha sentito forte la responsabilità di guidare la Chiesa in una nuova epoca. Il Grande Giubileo del Duemila è stato per lui un passaggio decisivo a cui ha guardato fin dal 1978, come provano numerose testimonianze.

Giovanni Paolo II infatti è stato anche il Papa del nuovo secolo. Non lo è stato solo per motivi cronologici, ma per una comprensione profonda dei "tempi nuovi". Il Duemila è stato il secolo che ha lasciato alle sue spalle le ideologie, mentre si è avviato alla globalizzazione del mercato e dell'economia. Il Papa, che si era misurato forte e giovane con il Novecento, è avanzato nel 2000 debole e malato. Ma gli ultimi cinque anni del suo pontificato non sono una "coda" di un governo glorioso, un tempo esangue e stanco. Hanno, in sé, un loro valore:  la testimonianza della "forza debole" del cristiano, che non si è fatto bloccare dalla difficoltà delle sue condizioni fisiche. Giovanni Paolo II ha condotto il suo ministero con vigore, pur nella sua fragilità estrema. Anche questo fa parte dell'eredità di Papa Wojtyla, che non è solo una grande visione, ma anche la testimonianza di un uomo di fede, per cui niente è impossibile a chi crede. Dobbiamo perciò essere grati a Gian Franco Svidercoschi che, con passione e competenza, traccia innanzi a noi la figura di Giovanni Paolo II, la propone alle giovani generazioni, mentre ci aiuta tutti a non dimenticare e a ricordare la sua grandezza.

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Quella risposta arrivata il 13 maggio


Nel  giugno  seguente [1979], la  visita  in  Polonia. Karol Wojtyla desiderava rivedere almeno una volta la sua Patria. Ma, quello che era di per sé un viaggio sentimentale e insieme un viaggio di fede, non poteva inevitabilmente non assumere delle connotazioni politiche. Anche perché in quel periodo storico, e a maggior ragione, adesso con un polacco salito sulla cattedra di Pietro, la sfida del comunismo, di un ateismo eretto a sistema, strumento di oppressione dei credenti e delle Chiese, era al primo posto delle preoccupazioni e della strategia diplomatica della Santa Sede.

Giovanni Paolo IIPapa Wojtyla, senza comunque tirare mai la corda, aveva fatto capire subito come  la  pensasse. Aveva  aggiornato l'Ostpolitik vaticana, vincolando ogni eventuale accordo con l'Est (proprio in nome dell'Atto di Helsinki) al rispetto dei diritti umani. Aveva detto che sarebbe stato lui, ora, a parlare per la "Chiesa del silenzio". Aveva rilanciato la questione dell'unità europea, rifiutando perciò la logica divisoria di Yalta. E aveva insistito ripetutamente sul concetto di libertà religiosa, non più solo in una prospettiva individuale o come libertà di culto, ma nel senso di una dimensione "sociale e pubblica" della fede.
 
Alla fine, anche Breznev, il despota del Cremlino, dovette cedere. Il Papa polacco tornò nella sua Polonia, e, come intuì immediatamente il cardinale König, quella visita fu un terremoto. La presenza di milioni di persone, specialmente di giovani. Le Messe nelle piazze. Le preghiere che sembravano tante frecciate contro il regime. Come a Varsavia. "Scenda il Tuo Spirito! E rinnovi la faccia della terra. Di questa Terra!". Il Papa che a Gniezno dava voce ai popoli slavi. Il Papa in preghiera ad Auschwitz. Il Papa nella sua Cracovia. Tutto fu un vero terremoto. E spaventò anche il capo della diplomazia vaticana, Casaroli, il quale, mentre una sera Wojtyla parlava dalla finestra con i giovani, si lamentò con alcuni cardinali:  "Ma che cosa vuole? Uno spargimento di sangue? Oppure vuole rovesciare il governo?".

Proprio durante quel viaggio, invece, i polacchi scoprirono di non avere più paura; e, la stessa voglia di libertà, di riscatto, cominciò ad allargarsi per cerchi concentrici ai Paesi vicini. L'anno dopo nacque Solidarnosc. Il proletariato si rivoltava contro lo Stato-partito, che aveva calpestato i diritti dei lavoratori, del lavoro stesso. Era il primo sindacato libero nel blocco sovietico. E, con il sindacati, c'era tutta la società polacca. C'era il sostegno di Giovanni Paolo II. E quando pochi mesi dopo la situazione prese a farsi pericolosa, e arrivarono i segnali di una possibile invasione da parte dell'Armata Rossa, Wojtyla scrisse al presidente sovietico richiamando la storia della sua Patria, le sofferenze patite, il suo diritto a essere libera, sovrana, a decidere del proprio destino.

Quella lettera però non ebbe mai alcuna risposta. A meno che non si voglia considerare una "risposta" il tentativo di uccidere il Papa polacco, di eliminare colui che sarebbe stato un testimone troppo scomodo, troppo "ingombrante", al momento del colpo di Stato del generale Jaruzelski, e poi della repressione, della cancellazione legale non solo del movimento operaio ma, in pratica, della libertà di un'intera nazione. "Penso che esso sia stato - scrisse il Papa dell'attentato in Memoria e identità - una delle ultime convulsioni delle ideologie della prepotenza, scatenatasi nel XX secolo". Come non leggere in queste righe l'idea del Papa, se non addirittura la convinzione, che per individuare chi avesse armato la mano di Alì Agca sarebbe stato necessario risalire a qualche servizio segreto dell'Est?



(©L'Osservatore Romano - 25 settembre 2009)

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