Hitler: del Vaticano me ne infischio
25 luglio 1943. Mussolini è caduto e Badoglio afferma – a parole – di voler continuare la guerra. Il Führer ancor ignaro dell’arresto del Duce (ma già il giorno dopo, saputolo, dirà: «Lo porto fuori subito con i paracadutisti »), non si fida di colui che ritiene «il nostro più acerrimo nemico». Ordina subito l’occupazione di Roma (come accadrà dopo l’8 settembre). «Prepareremo tutto per impadronirci fulmineamente di tutta questa gentaglia, per far piazza pulita di tutta quella marmaglia. Domani manderò giù un uomo che dia ordine al comandante della 3ª divisione corazzata granatieri di entrare seduta stante a Roma con un gruppo speciale, di arrestare subito tutto il governo, il re, tutta la banda, soprattutto di arrestare subito il principe ereditario e di impadronirsi di questa canaglia, soprattutto di Badoglio e di tutta quella gentaglia».
E quanto al Vaticano? Al delegato permanente del ministro degli Esteri del Reich Walther Hewel, che il 26 luglio gli chiede proprio se non sia il caso di farne occupare le uscite, Hitler sprezzante risponde: «È del tutto indifferente, in Vaticano ci entro subito. Crede che abbia soggezione del Vaticano? Quello (e leggasi Pio XII, che però non viene nominato, ndr ) lo prendiamo subito. In primo luogo là dentro c’è tutto il corpo diplomatico. Me ne infischio. La gentaglia è là e noi tireremo fuori tutto quel branco di porci... Poi in un secondo momento ci scusiamo, questo non ci importa. Là facciamo una guerra...». In realtà la «sparata» del Führer non ebbe seguito: Hitler avrebbe subito inviato nei Sacri Palazzi non i soldati, ma l’ambasciatore del Reich, von Weizsäcker, già il 27 luglio a colloquio con il segretario di Stato cardinale Maglione (che pure pochi giorni dopo con altri ambasciatori sarebbe ritornato sulla possibilità che «le truppe germaniche» fossero pronte «all’occupazione d’importanti punti strategici dell’Italia, di Roma e della stessa Città del Vaticano»).
Quello appena citato è uno dei rarissimi episodi riguardanti la Santa Sede (un altro caso è la valutazione di Hitler ed Hermann Göring il 26 luglio 1943 su «chi potrebbe essere il più indicato per bloccare la Città del Vaticano»; un terzo, nel maggio ’43, si riferisce alle richieste vaticane circa lo status di Roma «città aperta»), contenuto nel primo tomo de I verbali di Hitler. Rapporti stenografici di guerra 1942-1945 (a cura di Helmut Heiber, pp. 676, euro 38) relativo al biennio 1942-43 e appena pubblicato dalla Libreria Editrice Goriziana (il secondo, sul 1944-45 è atteso per la fine dell’anno). Si tratta di poco più di mille fogli che verbalizzano riunioni di Hitler con i vertici del Reich, svoltesi per lo più alla Wolfsschanze, la «Tana del lupo» a Rastenburg, nella Prussia Orientale, ma anche a Wehrwolf, in Ucraina occidentale. Coprono un periodo che va dal dicembre del 1942 – quando il Führer, per divergenze con la Wehrmacht, ordinò che ogni parola dei suoi incontri fosse stenografata – alla primavera del 1945. E costituiscono quella piccolissima parte che – grazie al Military Intelligence Service americano, su soffiata degli stessi stenografi nazisti – fu salvata dal rogo dei 105.000 fogli bruciati su ordine di Bormann al momento del tracollo tedesco, ai primi di maggio 1945, all’Hintersee, non distante da Berchtesgaden, la residenza del dittatore sulle Alpi bavaresi.
Fonte non trascurabile per la contestualizzazione di azioni militari e utile anche a smentire i tentativi dei generali nazisti di gettare ogni colpa sul Führer, l’opera arriva in Italia mezzo secolo dopo la prima edizione tedesca. E se – purtroppo – «genere» e «mole» non possono certo favorire letture tutte d’un fiato; se, nonostante i capitoli introduttivi e le note datate, la comprensione dei testi non è sempre facile (né giovano frammentarietà nei discorsi, affermazioni criptiche, diffusi interventi di pura tecnica militare), non per questo la registrazione degli addetti dello Stenographischer Dienst im Führerhauptquartier (gli unici a stare seduti negli incontri) non finisce per trascinare il lettore nell’atmosfera della guerra vista al vertice del Reich: là dove le battaglie si vincono e si perdono prima che sul campo. Non solo. Anche se qui è il Führer comandante militare quello predominante (non il carnefice dell’Olocausto, ammesso che questi tratti possano essere separati...), come sottolinea nell’introduzione l’analista militare Fabio Mini, l’opera invita a verificare la consistenza di radicati stereotipi destinati a rimozione.
A cominciare dall’immagine di un Hitler pazzo visionario circondato dai «suoi» generali, che non sono sempre tali, benché appaiano tutti succubi di lui: dall’ossequioso Wilhelm Keitel al più consapevole Alfred Jodl – facendo solo un paio di nomi –, per continuare con il mito del perfetto apparato militare tedesco (che tale non fu mai, né quando Hitler combatté con più facilità assistito dalla fortuna – come nel 1940 –, né quando combatté con ostinazione per avere fortuna – come nel 1943). Inoltre, se non sorprendono gli storici i giudizi negativi del dittatore nei confronti dell’Italia e del suo esercito o il disprezzo per Casa Savoia specie alla caduta del Duce (per il quale invece il Führer manifesta stima affettuosa), i verbali evidenziano in ogni caso sia la marginalità del fronte italiano per i tedeschi (benché ritenuto utile da Hitler per l’espansione ad Est), sia la priorità assoluta della lotta contro l’Urss.