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VERSO IL SACERDOZIO a cura di mons. Massimo Camisasca

Ultimo Aggiornamento: 13/10/2009 09:47
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VERSO IL SACERDOZIO a cura di mons. Massimo Camisasca -
 
“L’uomo vero”

Città del Vaticano (Agenzia Fides) -

Chi leggesse i testi che sono pubblicati dalla Santa Sede dal Concilio Vaticano II ad oggi, a riguardo della formazione dei sacerdoti o dei giovani chiamati al sacerdozio, non potrebbe non rimanere colpito dal fatto che in essi grande spazio è dedicato alla formazione umana.

Questo è l’indice di un’urgenza profonda che merita di essere presa in considerazione. L’urgenza cioè, che i giovani che si preparano al sacerdozio siano delle persone che intraprendono questa strada non per paura di fronte ad altre scelte, non per una rinuncia, ma perché hanno percepito la possibilità autentica del potenziamento e della realizzazione della loro stessa umanità. Non si può pensare di affrontare separatamente il tema della formazione umana e quello della formazione cristiana.

In questi anni, invece, in seguito a una giusta attenzione a che il sacerdote sia un uomo completo, si è accentuata spesso la ricerca dell’uomo perfetto più che dell’uomo vero. La Ratio fundamentalis del 1970 diceva che la vocazione sacerdotale, «quantunque sia un dono soprannaturale e del tutto gratuito, si appoggia necessariamente su doti naturali, così che, se ne manca qualcuna, giustamente si deve dubitare che esista vera vocazione». E negli Orientamenti educativi per la formazione al celibato sacerdotale del 1974 si arriva a dire che «se non c’è l’uomo, non c’è il chiamato».

Osservazioni giuste che non devono però spingerci a cercare nel giovane un uomo perfetto, ma un uomo in cammino autentico, un uomo che mette seriamente davanti a Cristo tutta la realtà della sua umanità, tutte le doti e tutte le ombre. Un uomo che non ha censurato nulla di sé, ma che sa affrontare il sacrificio di sé, perché sa che ha già ricevuto il più grande tesoro.

Non dobbiamo avere timore di accogliere nei nostri seminari e nelle nostre case di formazione personalità vive, ricche, anche problematiche, purché in esse ci sia, come più volte i documenti del Magistero richiamano, una chiarezza d’intendimento. Per usare le parole dell’Optatam totius, «la retta intenzione e la libera volontà».
L’esperienza stessa della casa di formazione e del seminario deve essere un’esperienza che non censura nulla della vita della persona ma, attraverso il giusto sacrificio, porta a compimento ogni vera attesa. La casa di formazione o il seminario devono essere anzitutto una casa di esperienza di fede, di esperienza del popolo di Dio come luogo in cui sono realizzate le promesse, in cui la profezia si è compiuta.

Mons. Massimo Camisasca, Superiore generale della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di san Carlo Borromeo.

(Agenzia Fides 23/6/2006; righe 31; parole 422)
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13/10/2009 08:58

Mons. Massimo Camisasca -

“I pericoli dello spiritualismo e dell’attivismo"

Città del Vaticano (Agenzia Fides) -

Una delle urgenze più acute della formazione sacerdotale è di aiutare colui che intende diventare prete ad evitare i rischi dello spiritualismo e dell’attivismo. Spiritualismo e burocrazia sono le due opposte tentazioni, in realtà rispecchiantesi l’una nell’altra, che impediscono alla missione della Chiesa di sorgere e svilupparsi.

La riduzione spiritualistica concepisce il Cristianesimo unicamente come rapporto individuale con Dio, dello spirito dell’individuo con lo spirito di Dio: rischio di disincarnazione che nasce dall’egoismo o dalla paura, perciò da una assenza di misericordia per l’uomo, da una dimenticanza profonda della realtà del cristianesimo, che è Dio - fatto - Uomo, Dio che si è curvato sull’uomo per salvarlo. Lo spiritualismo confina il Cristianesimo in una preghiera disincarnata, in un silenzio solipsista, in una fuga dalle responsabilità del presente.

D’altra parte l’attivismo, favorito dalla burocratizzazione della vita ecclesiale sviluppatesi dopo il Concilio Vaticano II, riduce la vita cristiana a riunioni, convegni, documenti, a una attività vissuta come un “fare per gli altri”, da cui però é assente la consapevolezza e la responsabilità di annunciare Cristo.

Nell’uno e nell’altro errore manca la bellezza di una vita comunionale vissuta, che è l’unica esperienza da cui un uomo può sentirsi mandato fino agli estremi confini del mondo. Tutti e due questi rischi nascono da una perdita di consapevolezza di che cosa sia la missione, e anzi da una perdita di consapevolezza della missione come scopo del sacerdozio e come scopo della vita cristiana.

Don Giussani, il fondatore del movimento di Comunione e Liberazione, in un intervento durante la sessione plenaria della Congregazione per il Clero, tenuto il 19 ottobre 1993, sul tema: “Vita, ministero e formazione dei sacerdoti” ha affermato: «Se uno avesse domandato personalmente a Cristo: ‘Qual è il pensiero dominante su te stesso? Che cosa sei ai tuoi occhi?’, mi immagino che Egli avrebbe risposto: ‘Io sono il mandato dal Padre’. Il proprio esistere come missione. Tant’è vero che, costituendo il luogo umano per cui attraverso il suo Spirito avrebbe preso le sue vie nel mondo, questa è la parola generatrice che Cristo disse: ‘Come il Padre ha mandato me, così io mando voi’».

Una società come la nostra può essere toccata solo dalla grazia di un’umanità diversa, caratterizzata da questa autocoscienza nuova. Io sono mandato affinché, attraverso la mia umanità altri possano essere raggiunti da Colui che è stato mandato dal Padre. Se Dio si è fatto uomo, infatti, è perché l’uomo può essere toccato solo dalla grazia di un’umanità ritrovata. Se questo è vero sempre, è vero soprattutto per la società di oggi che è coperta, istante per istante, da miliardi di parole e di messaggi, in cui tutto ha un valore così relativo da essere quasi uguale a zero. Il cristianesimo non può rinunciare alla verità della sua origine, a una comunicazione personale.
Tutto può aiutare, ma niente può sostituire la comunicazione personale.

(Agenzia Fides 30/6/2006 - righe 36; parole 484)
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13/10/2009 09:02

Mons. Massimo Camisasca -

“La continua educazione della liturgia”

Città del Vaticano (Agenzia Fides) -

La liturgia è, in un certo senso, il primo luogo di educazione e di formazione per un seminarista e continua ad esserlo per il prete, con una profondità sempre maggiore. Essa è un avvenimento che dà forma alla vita, è la forma originale della nostra conoscenza di Cristo.

Nella liturgia Cristo si dona a noi e diventa, dentro di noi e al di là di noi stessi, fonte di conoscenza. Questo vale sia per i sacramenti che per la liturgia delle ore. Perciò non è possibile che una tensione alla conoscenza di Cristo dimentichi la partecipazione consapevole alla liturgia come esperienza di Cristo, come comunicazione a noi della sua sapienza attraverso la conoscenza dell’Antico e del Nuovo Testamento, come preghiera di Cristo e a Cristo.

La liturgia è la scuola formidabile del nostro essere e del nostro sapere. Educare alla liturgia è tutt’altro che gusto per un estetismo liturgico, o tentativo di rendere interessante ciò che ha smesso di esserlo per l’arbitrarismo di nostre parole o di nostri gesti. È invece educazione alla forma essenziale della vita cristiana e della sua missione.

(Agenzia Fides 7/7/2006 - Righe 13; Parole 193)
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13/10/2009 09:14

Mons. Massimo Camisasca -

“Educazione al silenzio”

Città del Vaticano (Agenzia Fides) -

Non c’è possibilità di stare di fronte ad una Presenza, alla persona di Cristo presente ora, se non si è educati al silenzio. L’eremita Laurentius diceva: «Allora compresi che la mia vita sarebbe trascorsa nella memoria di ciò che mi era accaduto. E il tuo ricordo mi riempie di silenzio». La nostra conoscenza di Cristo è un donum Dei altissimi, va perciò implorata, tenacemente e fedelmente.

Per questo un tempo della giornata sistematicamente dedicato al silenzio è fondamentale nella vita di un prete, che altrimenti finisce, dispersa tra mille particolari e preoccupazioni. La vita di un prete, anche del più attivo missionario, deve avere in fondo un’ossatura monastica, o rimane fragile, senza capacità di costruzione autentica. È nel silenzio che s’impara a stare con la gente in modo diverso, a parlare alla gente in modo diverso, a ridere con la gente in modo diverso. Si diventa più lieti e più profondi nello stesso tempo.

Il silenzio non può essere ridotto ad un tempo di “aggiornamento”. Anche se è un tempo di lettura - della vita dei santi o della storia della Chiesa - esso ha la struttura della preghiera. Per questo insegno ai miei seminaristi a cominciare l’ora di silenzio che quotidianamente facciamo nella nostra Casa di Formazione con dieci minuti di preghiera in ginocchio di fronte a Cristo e a concluderla con una decina del rosario: preghiera che è domanda, che è offerta di sé, preghiera che è invocazione della benedizione di Dio sulla Chiesa, sulle persone che ci sono affidate. Solo una ragione stringente di carità dovrebbe dispensare da questo tempo della giornata donato direttamente a Cristo.

(Agenzia Fides 14/7/2006 - righe 19, parole 280)
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13/10/2009 09:16

Mons. Massimo Camisasca -

“Educazione alla gratuità”

Città del Vaticano (Agenzia Fides) -

La gratuità è una dimensione fondamentale della vita sacerdotale. Educare ad essa è oggi ancor più necessario, in un’epoca in cui una posizione menzognera di fronte alla realtà è contrabbandata come l’unica possibile dalla mentalità corrente. Questa mentalità è quella del consumo, l’opposto della gratuità. La realtà esterna a noi, il “tu”, qualunque esso sia, cosa o persona, viene sentita dalla mentalità dominante - e perciò imposta a noi - come qualcosa di cui servirci, come qualcosa da esaurire, da bruciare in un’utilità immediata, invece che qualcosa a cui aprirci, da accogliere, da ascoltare, da far fiorire dall’interno.

La posizione della persona di fronte all’essere è una questione fondamentale per ogni uomo, ma essa si rivela di importanza straordinaria per noi che siamo chiamati ad essere educatori, che siamo chiamati a vivere la nostra vita in rapporto con altre persone che dovremmo aiutare proprio a questa posizione di verità. Cosa diremo, cosa porteremo agli altri, se noi stessi non vivremo questa gratuità?
Come si può vivere con gli altri se non si riesce ad accogliere l’altro per ciò che è, non per ciò che dà?

Siamo creature fatte e create da Dio, il nostro essere è per sua natura dipendenza, apertura, ascolto.
L’educazione alla gratuità mira a far ritrovare questa posizione originaria. Come concretamente? Attraverso un pezzo di tempo dentro la settimana, sistematicamente dedicato al rapporto con altri, chiunque essi siano, per l’unica ragione che essi sono. Avendo come utilità quella di riportare dentro il nostro cuore, dentro la nostra mente, la percezione della Gratuità Assoluta che fa tutte le cose, gli uomini e il mondo, gratuità da cui veniamo e cui andiamo e in cui ogni cosa consiste.

Questo tempo, poco o tanto, regolarmente speso per questa educazione di sé, è educazione ad una dimensione permanente della vita. Esso tende, se vissuto in modo vero, ad influire sul modo in cui instauriamo i rapporti con qualsiasi persona, così come i momenti di silenzio, perché in fondo hanno la stessa natura: sono un atto di preghiera.

(Agenzia Fides 21/7/2006 - righe 24, parole 347)
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13/10/2009 09:17

Mons. Massimo Camisasca -

“Aderire alla libertà di Dio”

Città del Vaticano (Agenzia Fides) -

Nella nostra storia di uomini agiscono, come componenti costitutive, la libertà di Dio e la libertà dell’uomo. La libertà di Dio è la sua iniziativa continua con la quale, instancabilmente, egli si piega sulla nostra umanità.

“Innocentiae restitutor et amator”, dice una preghiera della liturgia (Missale Romanum, Colletta del giovedì della II settimana di Quaresima): “tu che generi continuamente la nostra innocenza, la nostra verità”. Dio liberamente rigenera la nostra vita, in mille modi, nelle mille circostanze della storia di ognuno di noi.
 
La libertà dell’uomo, la libertà che è chiamata nella storia di ognuno di noi, è accettare di correre quello stesso rischio che Dio ha corso, di entrare dentro il rischio di Dio fatto uomo, in una parola, di aderire alla realtà dell’Incarnazione.

La forma che è propria dell’esistenza non sta nel non sbagliare; il compimento della storia dell’uomo non risiede nella perfezione, ma in un’iniziativa personale e propria che riconosce e coglie l’iniziativa di Dio verso la nostra vita e da essa si lascia dare, appunto, forma e compimento.

Non è sempre indolore e quieto l’incontro delle due libertà. Esso può destare stupore, può spingerci a vertiginose altezze o disorientarci profondamente. Può umanamente sorgere la tentazione di “scendere a patti”, in un personalismo parossistico, con Dio. È importante dunque che, avvertendo questi rischi, negli anni di formazione al sacerdozio ci educhiamo alla incommensurabilità della libera iniziativa di Dio, all’impossibilità di misurare le sue intenzioni e la sua opera. Ci allontaneremo così, a poco a poco, passo dopo passo, dall’ingiustizia del giudizio sugli altri, dall’ingiustizia del giudizio su noi stessi, e dall’ingiustizia del giudizio su Dio. “Io non giudico gli altri e neppure giudico me stesso” (cfr. 1Cor 4, 1-5).

Ma c’è un altro aspetto, fondamentale ed esaltante, dell’incontro della libertà di Dio e della libertà dell’uomo nella vita mortale. L’opera della libertà dell’uomo non è destinata a durare. Proprio nell’incontro con la libertà di Dio, che agisce nella nostra vita, la nostra azione diviene opera di uomini scelti da Dio, chiamati da Dio; cioè opera dello Spirito santo. Solo nella adesione del nostro agire all’iniziativa di Dio che si cala su di noi, l’opera nostra può recare in sé la scintilla della perennità che è caratteristica dello Spirito stesso.

(Agenzia Fides 6/10/2006 - righe 26, parole 383)
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13/10/2009 09:24

Mons. Massimo Camisasca -

“Davanti a Cristo, vicari di Cristo”

Città del Vaticano (Agenzia Fides) -

Esiste un aspetto precipuo della vita di coloro che Cristo ha scelto per la vocazione di sacerdoti, aspetto che passa inosservato per la maggiore parte delle persone.
La vocazione sacerdotale riempie la vita di responsabilità, nel senso etimologico del termine: il prete è chiamato a rispondere all’attesa degli uomini. Cristo sceglie alcuni uomini come terminali e tramiti della domanda dell’uomo. Domanda di aiuto, di comprensione, di pietà, di preghiera, di senso. Imparare a scoprire questo compito per cui Dio ci ha scelti aiuta a identificare l’urgenza più grande della nostra vita, di uomini e di preti: stare davanti alla presenza di Gesù.

L’aiutare la gente, l’andare incontro ai bisogni delle persone, alle loro richieste, o semplicemente l’ascoltare le loro parole, ha senso, è veramente sacerdotale, è autenticamente cristiano, solo se non si riduce a un «fare per gli altri». La nostra opera - che non è mai in contraddizione con il silenzio e la preghiera che sono anzi l’humus da cui essa trae sostanza -, il nostro aiuto e la nostra disponibilità, debbono invece tradursi nel «fare agli altri».

Ma dove si trova il punto sorgivo di questa differenza, che può sembrare solo linguistica, ma che in verità sintetizza una rivoluzione nel nostro agire da uomini e da sacerdoti? Appunto: nello stare davanti alla presenza di Gesù. Se la posizione della nostra vita davanti a Gesù è un «per Lui» e non un «a Lui», il nostro agire si pone ad una distanza da Gesù, ad una distanza dall’altro. Il fare per un altro esprime un legame intriso di nostalgia, di lontananza, per la semplice ragione che solo Gesù ha «fatto per gli altri»; solo Gesù è nato, è vissuto, è morto ed è risuscitato per noi. Affinché la nostra esistenza e la nostra opera siano un aiuto autentico a chi ci è affidato, è necessario dunque giungere al «fare a Gesù», cioè comprendere la carità, che è abbraccio di una realtà presente. Questo ci indicano le parole del Salvatore, che egli stesse chiama definitive: «L’avete fatto a me» (cfr Mt 25, 40).

Il sacerdote è chiamato a stare davanti a Gesù, perché è chiamato ad essere vicario di Gesù in mezzo alla gente. Il mistero dell’Incarnazione permette agli uomini di stare con Cristo, ma affinché lo stare con Cristo e davanti a Cristo acquisti uno spessore autentico, deve permeare tutto il dramma della nostra vita e delle vite che ci sono affidate. Nella misura in cui diventiamo vicari di Cristo, cioè ci identifichiamo a lui, acquistiamo la capacità di entrare nei problemi della vita, diventiamo capaci di relazionarci con la gente e di stare di fronte alla nostra stessa umanità. È l’unica strada, perché lui solo è il Salvatore. Soltanto nell’imitazione di Gesù, nella identificazione a lui, nello stare con verità davanti a lui, risiede la possibilità di essere veri con la gente.

Allora la domanda centrale diventa: come possiamo essere identificati a Cristo?
Proprio questo è l’identificazione a Gesù: non possiamo decidere di amarlo, ma soltanto domandare di essere amati, riconoscere che Egli ci ama.

(Agenzia Fides 27/10/2006; righe 33, parole 517)
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13/10/2009 09:25

Mons. Massimo Camisasca -

“Chiamati ad essere padri nella Chiesa”

Città del Vaticano (Agenzia Fides) -

La paternità è l’imitazione di Dio.
Da quando Gesù Cristo ha rivelato la parola definitiva della storia, che Dio è Padre e che perciò l’essenza dell’Essere è la paternità, l’orma di Dio nell’uomo è il costituirsi di questa paternità.

Paternità significa prendersi cura dell’altro, perché Dio è colui che genera e non abbandona: «Anche se tuo padre e tua madre ti abbandonassero, io non ti lascerò» (cfr. Sal. 27, 10; Is. 49, 15). Perciò la paternità e la maternità carnale e spirituale sono la suprema imitazione della presenza di Dio. Sono la suprema partecipazione allo scopo per cui esistiamo.

Paternità e maternità si differenziano per ragioni fisiologiche, psicologiche, storiche. In senso primigenio però si equivalgono, perché sono accomunate dallo stesso compito generativo ed educativo.

Dio è colui che ammette all’essere ed educa all’essere. Da qui deriva il compito del Padre. Perciò paternità spirituale significa educazione. Ora, questo compito Cristo lo ha lasciato alla santa madre Chiesa. Perciò la nostra paternità e maternità è relativa alla Chiesa: essa genera i figli nel fonte battesimale, li alimenta, li educa e li sostiene attraverso i sacramenti, attraverso la catechesi, attraverso una appartenenza degli uni agli altri, nella quale si sviluppa una vita quotidiana vera che è la fonte della educazione.

I sacerdoti sono i servitori della maternità e paternità di Dio e della Chiesa, sono servitori del corpo di Cristo. E questo aspetto rivela una dimensione decisiva della paternità spirituale di cui il prete è investito: non è riferimento a se stessi, ma alla Chiesa. La paternità è condurre i figli alla Chiesa, al corpo di Cristo.

Nella paternità spirituale è però insito il rischio che la nostra persona diventi schermo tra chi incontriamo e la vita della Chiesa. Vi è il pericolo che le nostre qualità, i nostri pregi e difetti, ciò che siamo o possiamo sembrare, occulti ciò che autenticamente dobbiamo essere; è quindi importante un chiaro rapporto tra la Chiesa e la persona. Non dobbiamo inventare niente, ma servire qualcosa che esiste già; che si rinnova, certo, ma che nel tempo mantiene una sua continuità. Siamo chiamati ad arricchire la Chiesa di una nuova forma: nella Chiesa c’è qualcosa di nuovo ad ogni nascita in essa, ma questa nascita è più propriamente una nuova manifestazione dell’antico.

Ciascuno di noi deve coltivare con grande rispetto la tradizione della Chiesa, il fiume che è giunto a noi e ci ha permesso di innestarci in esso. .

(Agenzia Fides 3/11/2006; righe 29, parole 409)
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13/10/2009 09:40

Mons. Massimo Camisasca - Il sacerdote:

l’uomo di Dio al servizio degli altri uomini

Città del Vaticano (Agenzia Fides) -
 
La vocazione è innanzitutto un’iniziativa di Dio verso la nostra vita. Ciò vuol dire che il sacerdote è, sopra ogni altra cosa, un “Uomo di Dio”: un uomo che Dio sceglie. Un’affermazione questa che, però, può essere sottoposta a diversi fraintendimenti. Dire che il sacerdote è un uomo scelto da Dio non significa che è una persona che vive chiuso nel suo Mistero. Insomma, uno “con la testa fra le nuvole”, che non ha nulla da dire al mondo e agli uomini del mondo, perché - partecipando di un altro mondo - non è interessato a questo mondo e non ha niente di rilevante da comunicargli. Evidentemente non è questo il significato di “Uomo di Dio”.

Il sacerdote, invece, è una persona che impara a guardare il mondo così come Dio guarda il mondo e gli uomini. Ma questo è un processo di lungo periodo. Non a caso Gesù, per educare i suoi discepoli ad entrare nello sguardo di Dio, ha dovuto convivere anni con loro: non sono certo bastate una o due lezioni. E questa convivenza non è stata comunque sufficiente. Se non ci fosse stato lo Spirito di Dio che avrebbe detto loro a poco a poco tutto quanto, quest’immedesimazione con lo sguardo di Dio, vissuta nel tempo della predicazione degli apostoli non sarebbe stata sufficiente. Quest’entrare nello sguardo di Dio è certamente un’opera dello Spirito nella nostra vita, che ci apparenta lentamente, ma in modo reale con il pensiero di Dio.

Ma qual è la, lenta e faticosa, strada da percorrere? Bisogna partire con la lettura e la meditazione della Scrittura in quanto letta dalla Chiesa, la scrittura che ci viene presentata dal messale e dal breviario. Attraverso la Scrittura impariamo a comprendere cosa interessa a Dio in ciò che accade. E di conseguenza impariamo anche noi a vedere quello che è portatore di pace, di gioia, di comunione nelle cose che accadono e non di divisione, di lacerazione, di negazione, di violenza e di tristezza.

La seconda strada sono gli scritti dei Santi. E’ lì che vediamo l’itinerario che hanno compiuto per entrare nello sguardo di Dio.

La terza via è la conversazione con gli amici che mi aiutano in questa direzione. In questo modo si sperimenta che io sono stato scelto: che Dio ci ha amati per primo. Ecco perché Egli ha mandato il suo Figlio per me. Se non c’è questa esperienza personale dell’amore, la vita sacerdotale non è possibile. Il sacerdozio è propriamente l’esperienza dell’amore ricevuto, dell’amore personale, ricevuto da Cristo che si dilata in esperienza della Chiesa come propria sorte personale. “Questa è la mia eredità, il mio calice”, dice il salmo: il sacerdote come un uomo di Dio sente la vita della Chiesa come propria sorte personale.

Ma il sacerdote è anche un uomo per gli altri uomini. Vale a dire è donazione. Chi vuol trattenere qualcosa per sé è meglio che non diventi sacerdote. La vita sacerdotale che cos’è se non la partecipazione alla vita di Gesù? E la Sua vita è stata donazione. Egli ha dato se stesso senza misura. La sua unica misura è stata quella di non aver avuto misura. Qui si comprende come il fondamento della vita sacerdotale sia nei sacramenti, perché i sacramenti sono proprio l’espressione della donazione senza misura che Gesù vive: Gesù continua a donare se stesso.

Per tutte queste ragioni il sacerdote può essere uomo di Dio per gli altri uomini solo se se attinge continuamente da Gesù, cioè dai sacramenti, la forza e la misura della propria donazione. Sappiamo che la donazione di Gesù realizza uno scambio: Egli dà a noi tutto se stesso e prende su di sé tutto il nostro male. Questa è anche la vita sacerdotale, che consiste nel portare i pesi degli altri. Ma ciò non sarebbe mai possibile se ciascuno di noi non si affidasse completamente nelle braccia di Gesù.

(Agenzia Fides 10/11/2006; righe 41, parole 650)
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13/10/2009 09:42

Mons. Massimo Camisasca -

“Il sacerdote: luce nella notte”

Città del Vaticano (Agenzia Fides) -

L’abbandono fiducioso a Dio ci permette di andare incontro a tutte le povertà del mondo con uno sguardo pieno di esultanza. Non solo per cercare la luce, ma per portarla, «per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte» (Lc 1, 79). A ciò siamo chiamati in questi tempi di grande solitudine: Gesù ci manda all’uomo concreto, all’uomo reale, all’uomo pieno di ferite e di problemi. Viene in mente il libro di Gilbert Cesbron: I santi vanno all’Inferno.

Dove potremo trovare la forza e il calore necessari ? «Gloria filiae regis ab intus» dice il Salmo, «tutta la gloria della figlia del re sta in ciò che ella ha dentro di sé» (Sal 44, 14 volg.). Se saremo vuoti non riempiremo nessuno, se saremo spenti non porteremo nessuna luce, se saremo aridi non feconderemo alcun terreno. Tutto ciò che possiamo fare intorno a noi dipende da ciò che portiamo. Come ha scritto Antonio Rosmini: «Solo dei grandi uomini possono formare altri grandi uomini».

A volte ci prende la paura che il male stia vincendo in noi, e può capitare che amplifichiamo questo giudizio fino a estenderlo al mondo intero. Non dobbiamo cedere a questa tentazione! Piuttosto, nei momenti di maggior sconforto, dobbiamo riprendere il cammino verso il Signore della storia, riscoprire la nostra appartenenza a Lui. La dipendenza è all’origine della positività della vita, il primo riverbero positivo dell’esistenza dell’essere in noi. Ecco dunque il nostro compito: riconoscere la nostra relatività a Colui che ci salva, a colui che è stato crocifisso per liberarci dalla schiavitù (cfr. Rm 6, 6). Il dono di noi stessi ai nostri fratelli uomini è possibile solo come risposta al dono totale di Dio che ci ha amati per primo (cfr. 1 Gv 4, 10).

Nel secondo libro dei Dialoghi di Gregorio Magno, dedicato alla vita di San Benedetto, quanto detto finora sulla dipendenza a Dio che salva si comprende con chiarezza. Gregorio Magno racconta che San Benedetto, negli ultimi anni della propria vita, si era ritirato nella parte più alta di una Torre per riposare e lì ebbe una visione. «All’improvviso - racconta Gregorio Magno - il mondo intero, come raccolto in un raggio di sole, fu posto davanti ai suoi occhi». L’autore immagina anche la possibile obiezione di un ipotetico interlocutore: «Com’è possibile che il mondo fosse diventato tanto piccolo da essere contemplato nella sua totalità?». E prontamente risponde: «Non si era rimpicciolito il mondo, era diventato grande l’animo di Benedetto».

Questo affascinante brano dei Dialoghi è stato commentato dal Cardinale Joseph Ratzinger nel suo libro “Fede, verità, tolleranza”. Ha scritto Ratzinger: «San Benedetto può vedere meglio perché scorge tutto dall’alto e sa trovare questa postazione perché è divenuto interiormente grande. L’uomo deve imparare a salire, deve divenire grande, e allora la luce di Dio può toccarlo, egli la può conoscere e in virtù di essa acquisire uno sguardo d’insieme. I grandi uomini, che, nella paziente salita e sopportando le purificazioni della vita, sono diventati capaci di vedere e perciò pietre miliari, segnavia di secoli, possono dirci qualcosa oggi. Ci mostrano come pure nella notte si possa trovare la luce e come possiamo far fronte alle minacce montanti degli abissi dell’esistenza umana, come si possa andare incontro al futuro capaci di Speranza».

(Agenzia Fides 17/11/2006 - righe 38, parole 550)
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Mons. Massimo Camisasca -

“Il sacerdote: amore per la verità”

Città del Vaticano (Agenzia Fides) -

Il sacerdote deve saper rendere conto della propria fede più degli altri, documentando nella propria esperienza il cambiamento di vita prodotto dalla sequela di Cristo. Il compito dell’annuncio del sacerdote, come notava l’allora Cardinale Ratzinger nel libro “La Chiesa: una comunità sempre in cammino”, non richiede un telegrafista, bensì un testimone. Qual è, infatti, la sua missione se non riferire la parola di un Altro, in prima persona, in modo del tutto personale fino a farla diventare propria? Ecco le parole con cui Ratzinger spiegava questo cammino: «La formazione sacerdotale consiste in un processo per cui, nel tempo, ci si introduce, si comprende, si penetra e si vive dentro questa Parola».

Lo studio, il percorso di formazione che conduce a diventare sacerdote non ha nulla a che vedere con un mero accumulo di conoscenze. Non a caso la parola latina “studium” implica, prima dell’idea di una conoscenza, quella di un lavoro, di un’applicazione di tutta la persona affinché ciò che si è incontrato nello studio si possa dilatare da tutto il suo essere. Come dice l’apostolo Giovanni, lo studio ha come scopo «che conoscano Te, unico vero Dio, e Colui che hai mandato, Gesù Cristo (Gv 17, 3). Esso nella vita di un giovane chiamato al sacerdozio, non parte da nulla, parte dall’Avvenimento della Fede che gli è accaduto anzitutto diventando cristiano. Nell’educazione allo studio di un giovane sacerdote è necessario che, pian piano, la fede diventi punto di partenza e punto di arrivo anche della formazione intellettuale dei giovani, perché il loro sapere sbocchi nell’unità della fede, nella visione unitaria della vita che la fede comporta.

Per comprendere questo aspetto, riprendiamo ancora il testo del Cardinale Ratzinger: «Oggi, in un’epoca di crescente specializzazione, mi sembra che l’unità interna della teologia, e la sua costruzione concentrica a partire dall’essenziale, abbiano una priorità urgente. Un teologo deve sì possedere una vasta cultura, ma la teologia deve essere in grado di alleggerirsi dai pesi e concentrarsi sull’essenziale. Deve essere in grado di distinguere tra conoscenza specifica e conoscenza fondamentale: deve offrire una visione organica del tutto in cui è integrato l’essenziale. Se non si impara a giudicare dal tutto, rimane disarmato, in balia delle mode mutevoli».

Il sacerdote per essere un comunicatore di verità, non la deve possedere come un bagaglio analitico, bensì come qualcosa che ha rinnovato profondamente la propria vita. Egli è propriamente il testimone della verità di cui vive. Infatti, la comunicazione di verità nella Chiesa è sempre comunicazione di grazia, da persona a persona, da cuore a cuore.

(Agenzia Fides 24/11/2006 - righe 29, parole 432)
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Mons. Massimo Camisasca -
 
“Il sacerdote: creatore di un popolo”

Città del Vaticano (Agenzia Fides) -

La nostra società ha perso completamente l’idea di persona e perciò non può esservi esperienza del popolo.
Un popolo infatti sono persone mosse da una comune esperienza. Il popolo è l’insieme delle persone testimoni dell’incontro con Cristo, capace realmente di cambiare la nostra umanità, di incidere nella vita concreta; di creare un uomo nuovo. E di conseguenza un popolo nuovo: il popolo di Dio. Qual è, dunque, la sfida di ogni cristiano e quale il compito del sacerdote in questa avventura?

Il prete, alla stregua di ogni cristiano, è chiamato a condividere e a sostenere l’avventura della ricostruzione di un popolo. Un’avventura che ci spinge direttamente a duemila anni fa, a quell’avvenimento che ha cambiato la storia e ha generato la Chiesa. Se la comunità ecclesiale vuole essere realmente costruttrice del popolo di Dio non può che ripercorrere quella strada; arrivare fino all’inizio. La percezione che la comunità cristiana ha oggi di se stessa non può essere diversa dalla percezione che poteva avere la piccola comunità di Roma o la più grande comunità di Corinto ai tempi di San Paolo.

Per arrivare a questa consapevolezza, cioè al fatto che qeull’uomo che vive tra noi è il significato della storia e del mondo, è indispensabile educare, innanzitutto il prete, ad avere di fronte proprio la Madonna. La Vergine Maria, il cui cuore ha custodito, quello che anche noi siamo chiamati a custodire: il fatto che Cristo ci salva. I cristiani spesso non hanno la consapevolezza di essere il “resto d’Israele”. La fretta di porsi dentro il mondo ha fatto perdere il senso di essere “di fronte” al mondo con la responsabilità di portare qualcosa che gli altri non hanno e non sanno.
Per poter essere educatori, occorre essere consapevoli del dono ricevuto, della responsabilità di fronte a Dio e di fronte agli uomini costituita dalla vocazione cristiana.

Questa consapevolezza nasce e rinasce continuamente di fronte ai miracoli che accadono e che Cristo non fa mai mancare nella Sua Chiesa. Questi fatti che ci riportano direttamente all’origine della nostra felicità, a quel fatto in grado realmente di cambiare la nostra umanità. Ed è proprio in forza dell’annuncio e con la rigenerazione operata dai sacramenti che questo uomo nuovo, e in particolare il sacerdote, è in grado di aggregare intorno a sé un popolo.

Liturgia, silenzio, esperienza della gratuità, studio come approfondimento della fede mi sembrano le tappe fondamentali in un’educazione del giovane seminarista verso questo suo compito di guida della comunità.

(Agenzia Fides 1/12/2006 - righe 29, parole 420)
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Mons. Massimo Camisasca -

“Il sacerdote: innanzitutto figlio, poi padre di molti”

Città del Vaticano (Agenzia Fides) -

Da ventidue anni mi occupo della formazione di giovani verso il sacerdozio e ho potuto conoscere fin nei particolari l’itinerario di più di cento vocazioni sacerdotali, autentiche o solo presunte, e compiere molte scoperte sull’origine e il progredire di una vocazione nel cuore e nella mente di un ragazzo e di un giovane.

La prima cosa che ho scoperto è che, nonostante quasi tutti i miei ragazzi siano entrati in seminario dopo la laurea o quando già lavoravano, in loro i primi segni della vocazione si erano manifestati molto presto: tra i 10 e i 15 anni. Quel che accadeva, però, era che una serie di altri interessi, passioni e incontri tipici dell’adolescenza finissero per soffocare quell’intuizione iniziale. Comunque nemmeno quello che sembra contraddire non necessariamente basta a spegnere un seme messo da Dio. Conosciamo tutti quei ruscelli che, percorsi alcuni chilometri dopo la sorgente, si nascondono tra le rocce e sembrano scomparire per sempre. In realtà proprio in questo itinerario sotterraneo le acque si arricchiscono di preziosi sali minerali. Quei corsi d’acqua spesso riappaiono tra le rocce di alta montagna e scendono infine a valle per proseguire il loro percorso di fiumi maturi e solenni. Così una vocazione che sembrava sepolta riappare per la grazia di un nuovo incontro. Nell’infanzia, adolescenza e giovinezza spesso l’incontro decisivo è quello con un prete.

Dio normalmente non suscita in un ragazzo l’idea di sacerdozio, suscita invece l’incontro con un sacerdote. In altre parole l’ipotesi del sacerdozio nasce in un ragazzo per il fascino di totalità che vede in un prete. Egli non è tanto impressionato da qualcosa che il sacerdote fa, quanto piuttosto da ciò che il sacerdote è. E chi è il sacerdote per un ragazzo? È un padre. Nel prete il ragazzo vede un uomo che attraverso ciò che fa mostra un interesse speciale per le persone che ha davanti, un interesse che non si limita ad aspetti particolari o settoriali della loro vita, ma che è interesse disinteressato alla persona, al destino personale. Questo è ciò di cui Dio si serve per far nascere in lui l’ipotesi della vocazione sacerdotale.

Viviamo in una società in cui sta scomparendo la figura del padre, la figura di colui che con autorevolezza accompagna il figlio ad affrontare la battaglia dell’esistenza con spirito positivo, costruttivo. E i frutti di questa assenza della figura paterna si vedono purtroppo nella crescente insicurezza dei giovani, nel loro continuo ritardare l’uscita dall’adolescenza. Il ragazzo è affascinato dalla maturità del sacerdote, dall’autorevolezza della sua proposta, dal fatto che egli affronta la vita. Pur vivendo accanto a lui, il prete ha qualcosa che lui, il ragazzo, non ha e vorrebbe avere, non è e vorrebbe essere. La maggior parte dei ragazzi del mio seminario è stata segnata dalla presenza di sacerdoti che non li astraeva dalla loro vita normale, ma li accompagnava, mostrando come lo studio, gli affetti, le difficoltà, i progetti per il futuro, come tutto sia vero, più bello e vero, più grande seguendo Cristo.
È dall’interno di una vita normale che si capisce la straordinarietà di Gesù. Proprio questo impressiona un giovane: vedere nel prete non uno specialista della preghiera, della liturgia, e neppure solo un organizzatore di giochi o di gite, ma un uomo vero che in Cristo ha trovato lo sviluppo più autentico della sua intelligenza e la pienezza della sua vita affettiva. Resta poi in tutta la sua verità il fascino della celebrazione dei sacramenti, visti all’inizio come qualcosa di assolutamente misterioso e strano eppure attraente.

Perché vedendo una nuova figura di padre un giovane riconosce la propria vocazione?
Perché intuisce che la verginità è essere padre di molte persone, è una possibilità reale per la sua vita, una possibilità di bellezza, di utilità, di letizia. Per un ragazzo è molto importante vedere il sacerdote all’opera nella comunità di cui egli stesso fa parte. La sua paternità si rivela infatti nell’opera di guida che il sacerdote vive, nella carità con cui accompagna le persone giorno dopo giorno verso il compimento della propria esistenza. Osservando questo padre, questa guida mentre svolge il suo compito, un giovane prepara il terreno al seme di vocazione che lo Spirito può riporre nel suo cuore, al desiderio di essere padre, guida e testimone come lo è quel sacerdote.

(Agenzia Fides 15/12/2006; righe 47, parole 716)
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Mons. Massimo Camisasca -

“Vita comune e silenzio: due punti che segnano una traiettoria”

Città del Vaticano (Agenzia Fides) -

La vita comune nella sua verità coincide con la verginità, perché questo è il metodo con cui Dio ha deciso di comunicarsi agli uomini: legandoli ad un popolo. Nella sua forma essenziale questa realtà è la famiglia.

La seconda modalità è la vita comune vista come vocazione di persone scelte a vivere assieme nel suo nome. Il punto da comprendere è però che la verginità e la possibilità di una vita comune (o fraternità) possono esistere soltanto in presenza di uno sguardo sull’altro in quanto segno di Cristo. Se non c’è questo, la vita comune è impossibile, perché diventa una contiguità di uomini che prima o poi rischiano di entrare in rivalità l’uno con l’altro. Se la verginità è vissuta, invece, la vita comune diventa esperienza di una grande libertà e anche di una grande facilitazione di vita. Realmente la verginità vissuta è l’alba del mondo nuovo.

Tra l’altro, c’è da aggiungere che nella nostra società assistiamo ad un paradosso: con i tempi che corrono diventa più difficile allevare dei figli, evitare che crescendo si smarriscano, piuttosto che vivere la responsabilità del sacerdozio. La storia ci insegna che nei secoli passati - in particolare nel ‘500, nel ‘600 e nel ‘700 - la vita da prete affascinava più per le facilitazioni materiali che offriva e non per la possibilità di essere portatori di Cristo. Oggi la principale minaccia è rappresentata dalla comodità di una vita facile, libera dalle incombenze della vita quotidiana familiare.

Il secondo aspetto su cui riflettere è il nesso esistente fra silenzio e vita comune. Il silenzio è la radice della vita comune, ma la vita comune è a sua volta è la radice del silenzio. E questo non è solo un gioco di parole. Se la vita comune è una vita dialettica anziché di ascolto, una vita piena di rumore anziché di pazienza, una vita di prevaricazioni anziché di perdono, il silenzio farà fatica ad attecchire. Anzi potrebbe diventare il tempo peggiore: quello in cui la vita ci aggredisce con una serie di domande che sembrano non avere risposta.

Il silenzio veramente vissuto accompagnato dalla meditazione e dalla preghiera, al contrario, fanno rinascere la vita comune. E con essa una vita nuova. Questi piccoli ma essenziali passi da compiere se vissuti nella loro verità sono in grado di generare grandi cose: creano la capacità di carità, ridimensionano la vanagloria, rendendo capaci di vedere il bene rappresentato dal fratello.

(Agenzia Fides 22/12/2006 - righe 27, parole 412)
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