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San Callisto e gli affreschi delle catacombe a lui intitolate

Ultimo Aggiornamento: 17/10/2009 19:34
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14/10/2009 18:51

San Callisto e gli affreschi delle catacombe a lui intitolate

Il Papa che insegna nell'oscurità


di Giovanni Carrù

Segretario della Pontificia Commissione
di Archeologia Sacra


"Callisto, figlio di Domizio, di origine romana, della regione del Trastevere, pontificò per sei anni, due mesi, dieci giorni. Visse ai tempi di Macrino ed Elagabalo, durante il consolato di Antonino (218) e di Alessandro (222). Fu sepolto il 14 ottobre, nel cimitero di Calepodio, al iii miglio della via Aurelia. Fece anche un altro cimitero sulla via Appia - dove riposano molti presbiteri e martiri - che ancora oggi si chiama cimitero di S. Callisto" (Liber Pontificalis, i, 144). Questo è l'essenziale ritratto proposto, nel corso del vi secolo, dal biografo del Liber Pontificalis, che sembra ispirarsi al busto del Papa nell'antica serie dei clipei pontifici, che decoravano, forse già nel V secolo, la navata centrale della basilica di San Paolo fuori le mura, ma anche ai vetri dorati più antichi, almeno dal IV secolo.

La figura di Papa Callisto si colloca nell'atmosfera religiosa inaugurata dalla dinastia dei Severi, connotata da un atteggiamento tollerante, come si desume da un brano dell'Historia Augusta, che sembra parlarci di un filocristianesimo, tanto è vero che l'imperatore Alessandro avrebbe fatto incidere sugli edifici pubblici e sul suo stesso palazzo la massima giudea e cristiana:  "Non fare ad altro ciò che non vuoi sia fatto a te" (Historia Augusta, Alessandro Severo, 51, 7-8). D'altra parte, i cristiani cercarono di mantenere un atteggiamento leale nei confronti dell'imperatore e, anzi, Tertulliano ricorda un episodio emblematico a questo riguardo. "I cristiani d'Africa temevano che, per un'imprudenza commessa da un soldato cristiano, si mettesse a repentaglio tam bonam et tam longam pacem" (Tertulliano, De corona, i, 5).

Se dal concitato panorama africano, torniamo a Roma, il clima generale non cambia, anche se la comunità dell'Urbe era mossa da controversie interne, tutte improntate alle questioni e alle disquisizioni teologiche, al centro delle quali si impegnano e prendono posizione proprio Callisto e lo Pseudo Ippolito. Tra i due, fu il presbitero identificato con un Ippolito - secondo le ultime valutazioni degli storici del cristianesimo antico - piuttosto che il pratico e concreto Callisto, a dare l'apporto più consistente per il dibattito teologico, che si muoveva specialmente attorno alle questioni trinitarie. In questo clima, si sviluppa il grande scontro tra i due Padri della Chiesa, talché lo Pseudo Ippolito ci ha lasciato un ritratto di Callisto a tinte fosche (Philosophumena, ix, 12), anche se quest'ultimo salì al soglio pontificio nel 217. Era stato Papa Zefirino ad affidare all'allora diacono Callisto la sovrintendenza del cimitero ufficiale della Chiesa di Roma, al iii miglio della via Appia.

Gli scavi della metà dell'Ottocento da parte di Giovanni Battista de Rossi hanno rimesso in luce questo piccolo cimitero scavato in un'area di 70 metri per 30, caratterizzato da due scale parallele, che davano accesso a due gallerie, interessate da loculi semplici e tutti uguali, riservati ai fratelli della comunità. Nell'area, però, furono ritrovati anche ambienti più spaziosi:  primo fra tutti quello dove trovarono riposo i più celebri pontefici del iii secolo, tra i quali Sisto ii, ucciso, con i suoi diaconi, durante la persecuzione di Valeriano nel 257. Ma altri piccoli cubicoli mostrano una decorazione ad affresco, rappresentata da scene e figure riconducibili alla più antica catechesi cristiana, tanto che l'iconografo tedesco Joseph Wilpert definì questi ambienti con la suggestiva denominazione di "cappelle dei sacramenti".

Queste semplici immagini ricordano i brani più commoventi del vangelo, riferibili al colloquio della samaritana al pozzo, alla resurrezione di Lazzaro, alla parabola del Buon Pastore, al battesimo del Cristo, al banchetto eucaristico. E non mancano gli episodi veterotestamentari, come il sacrificio di Isacco, il prodigio di Mosè che fa scaturire l'acqua dal deserto, l'incredibile storia di Giona. Le due economie testamentarie si intersecano, dando luogo a un emozionante intreccio delle storie emblematiche della salvezza, dove l'Antico Testamento prefigura il Nuovo, dove i profeti annunciano l'avvento del Messia.

Queste ingenue pitture, forse pensate proprio da Callisto e dal suo entourage, rappresentano le prime forme di catechesi figurata rivolta al grande popolo di Dio, forse poco abituato a leggere i Sacri Testi, ma assai sensibile alla lezione delle scuole del catecumenato, che potevano utilizzare questa semplice, ma estremamente significativa, biblia pauperum. La storia della salvezza, raccontata dalle decorazioni delle catacombe più celebri di Roma, non era riferita soltanto attraverso i più emblematici episodi biblici, ma veniva espressa anche da sintetici simboli, che riconducevano immediatamente alle idee fondamentali della salvezza e della resurrezione. Ecco, allora, che sulle pareti dei cubicoli, ma anche sulle lastre di chiusura dei loculi, si riconoscono i segni inconfondibili di un linguaggio ad alto tenore soterico:  il pesce, che allude al Cristo Salvatore; la colomba, che ricorda l'aereo volo dell'anima; la fenice, che vuole evocare la resurrezione della carne; il pavone, che riconduce all'idea di un empireo paradisiaco; l'agnello, che, da un lato, allude pure all'oltremondo bucolico e, dall'altro, alla vittima sacrificale.

Tutte queste immagini semplici o complesse nacquero nel mondo oscuro delle catacombe, con gli auspici di una Chiesa, che si stava organizzando, anche per i suggerimenti e le idee di Callisto, che curò, custodì e valorizzò uno dei cimiteri cristiani più antichi dell'Urbe, che sarebbe divenuto il punto di riferimento della comunità romana della Chiesa del tempo.

Anche, ai nostri giorni, il cimitero di San Callisto, gestito in maniera esemplare dalla comunità salesiana, costituisce, per i responsabili della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, il monumento più rappresentativo per i pellegrini che, giungendo a Roma, vogliono comprendere i primi gesti della comunità cristiana, che aveva accolto i principi degli apostoli e a cui proprio Paolo aveva indirizzato la lettera più complessa e ricca del suo prezioso epistolario.



(©L'Osservatore Romano - 15 ottobre 2009)
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L'iconografia di Ottato di Vescera nel complesso callistiano

Un vescovo africano a Roma


di Fabrizio Bisconti

Nel cuore delle Catacombe di San Callisto, a fianco della celebre Cripta dei Papi, negli anni centrali dell'Ottocento, il grande archeologo romano Giovanni Battista de Rossi si imbatté nella monumentale Cripta di Santa Cecilia, che mostrò una serie infinita di sistemazioni, restauri e decorazioni. Tra le altre immagini, in un angolo, come ricorda il de Rossi, si riconoscevano "l'immagine di una giovane santa in ricco vestito, cinta il capo del nimbo, le braccia aperte nell'orazione (...) il busto del Salvatore dipinto dentro l'incavo di una nicchia (...) l'effigie di un vescovo col nome suo scrittogli da presso:  Urbanus" (Città del Vaticano, 1864-1877, La Roma sotterranea cristiana, ii, pp. 113-114). Queste decorazioni, anche in seguito alle valutazioni dell'iconografo tedesco Joseph Wilpert, denunciano una cronologia avanzata che dal momento bizantino giunge al medioevo.

Nella cripta si apre un ampio lucernario affrescato e descritto, nel corso del tempo, dal de Rossi, dal Wilpert e da Paul Styger, anche se lo stato di conservazione non aveva mai permesso una lettura dettagliata e coerente, seppure era apparsa sempre evidente una teoria di santi martiri e l'immagine di una santa orante, forse proprio Cecilia, venerata nel complesso catacombale di San Callisto.

Nei primi anni Novanta del secolo scorso, i restauratori della
Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, coordinati da chi scrive, iniziarono un intervento di restauro, capace di chiarire lo sviluppo del programma iconografico:  un monumentale scenario, organizzato in grandi pannelli sovrapposti, che emulano la decorazione dei catini absidali delle basiliche paleocristiane romane. Nel riquadro più in alto - sotto a un pannello illeggibile, campito, forse, da una mano divina che impugna la corona trionfale - laddove si era sempre riconosciuta la figura di Cecilia in preghiera, è, dunque, ora ben riconoscibile un uomo in assoluto e rigido prospetto, vestito di una candida tunica percorsa da linee scure e mossa da esili e rare panneggiature. Il personaggio sostiene un codice aperto; il volto, completamente perduto, era incorniciato da un ampio nimbo dorato a disco; ai suoi lati sono accesi due ceri.

Il pannello inferiore accoglie una coppia di bianchi ovini ai lati di una croce, mentre, nel quadro inferiore, tre personaggi in tunica e pallio sono definiti dalle didascalie:  Sebastiano, Quirino e Policamo. Alcuni lacerti di affresco delle pareti laterali mostrano brevi tratti di altre teorie di santi anonimi. Le caratteristiche iconografiche e le peculiarità stilistiche avvicinano queste pitture agli affreschi più tardi delle catacombe romane e napoletane, accompagnandoci verso il momento dei pellegrinaggi nei santuari ipogei e in particolare verso i primi anni del VI secolo, cioè verso quella stagione figurativa composita che risente della prima lezione ravennate - come dimostra il pannello degli agnelli alla croce - e verso la tradizione africana. A questo ultimo riguardo, dobbiamo soffermarci sui due ceri posti ai lati della figura del lettore, che rappresentano una connotazione assai fortunata nell'iconografia funeraria d'area africana, specialmente nei mosaici tombali. Dall'Africa il motivo delle candele accese si diffuse nell'altoadriatico, a Ravenna, in Pannonia, in Illiria e specialmente in Campania e a Roma.

Individuata, dunque, la forte componente africana e compresa - nelle grandi linee - la cronologia, che sembra attestarsi e oscillare tra il V e il VI secolo, non resta che riconoscere il personaggio centrale di tutta la scenografia, che è poi il nodo di tutto il programma iconografico. Il primo istinto ci farebbe pensare a Cipriano, per la colleganza con Sisto ii sepolto nella cripta adiacente. I due sono congiunti, ma solo alla fine dell'VIII secolo, nei pannelli dipinti posti a decorare la tomba di Papa Cornelio nello stesso complesso. Il vescovo cartaginese godeva in San Callisto di un culto forte e antico, se già la depositio martyrum, il più antico documento agiografico romano, documenta una regolare celebrazione in suo onore. Il personaggio potrebbe anche essere identificato con Numidiano, un santo africano ricordato nella lista di Papi e martiri fatta incidere da Sisto III, nel V secolo, in una lastra sistemata nella cripta dei Papi e ora perduta, ove erano ricordati Sisto ii, Cornelio, Ponziano, Fabiano, Eusebio, Dionisio, Eutichiano, Gaio, Felice, Milziade, Stefano, Lucio, Antero, Laudiceo, Policarpo, Urbano, Manno, Giuliano, Numidiano e Ottato.

Su quest'ultimo personaggio, forse aggiunto in un secondo momento nella lista sistina, abbiamo altre notizie provenienti dal cimitero di San Callisto:  la raffigurazione nel pannello della tomba di Cornelio, di cui si è detto, e un'epigrafe, trovata in frammenti dal de Rossi, che ci parla di un Optatus episcopus vesceretanus che recessit Numidiae. Sfogliando le liste episcopali africane ci imbattiamo in un Ottato vescovo di Vescera, attuale Biskra nel sud dell'Algeria, che prese parte al concilio di Cartagine del 411 e a quello di Zerta del 412. Questo si può identificare, presumibilmente, con il vescovo ricordato da Agostino in una lettera inviata al tribuno Bonifazio, incaricato della difesa del limes numidico, lungo il quale si attestava appunto Vescera (Epistulae, 185, 2, 2), da non identificare, invece, con l'Ottato definito, in un'altra lettera, novellus rudisque doctor, con il quale Agostino discute sull'origine dell'anima (Epistulae, 202, 3, 7).

Ottato di Vescera, dunque, giunto probabilmente a Roma a seguito delle persecuzioni vandaliche, o giuntene le spoglie, ebbe sistemazione e memoria a San Callisto, come testimoniano l'epigrafe funeraria, la pittura del lucernario della cripta di Santa Cecilia, di cui si è detto, la menzione al 27 novembre nel Martirologio Geronimiano e il ricordo del tardo itinerario del pellegrino malmesburiense che, tra l'altro, lo associa all'altro africano Policamo, pure ritratto nel santorale di Santa Cecilia. Le reliquie di Ottato, nelle traslazioni altomedievali di Paolo I in San Silvestro in Capite e di Pasquale i in Santa Prassede, sono sempre ricordate unitamente a quelle di Policamo. La congiunzione anche nel lucernario di Santa Cecilia, a questo punto, si arricchisce di suggestioni.

La decorazione del lucernario, a nostro modo di vedere, non può essere associata agli interventi di Sisto iii, seguiti alla prima ondata degli esuli africani, ma deve essere avvicinata agli ultimi anni del pontificato di Simmaco, quando, avendo Teodorico abbandonato al suo destino l'antipapa Lorenzo e i suoi seguaci filobizantini, il Papa poté finalmente esercitare appieno le sue funzioni, aiutando i cattolici perseguitati dai sovrani ariani. Sotto Trasamondo (496-523), infatti, si verificò l'ennesima, ma estrema, recrudescenza delle violenze contro i cattolici. Non è escluso che le nostre pitture riflettano proprio questo stato di cose, se si pone al centro di tutto il programma decorativo la figura di Ottato, che a Roma in genere e a Callisto in specie, poteva essere assurta a manifesto politico-religioso cattolico della interminabile questione vandalo-ariana.

L'ideatore del complesso programma decorativo, forse ispirato dalla lunga lista sistina, compone attorno all'immagine dell'africano Ottato un ampio santorale della via Appia, ma anche un ricco manifesto della recuperata padronanza cattolica dell'autorità pontificia. L'insieme figurativo, da ultimo, testimonia, da un lato, il fenomeno della integrazione e della interazione delle chiese e, dall'altro, il largo gesto dell'accoglienza della comunità di Roma nei confronti dei fratelli d'Africa.


(©L'Osservatore Romano - 18 ottobre 2009)
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