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Dottorato «honoris causa» al cardinale bibliotecario e archivista di Santa Romana Chiesa

Ultimo Aggiornamento: 16/10/2009 18:43
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Dottorato «honoris causa» al cardinale bibliotecario e archivista di Santa Romana Chiesa

Quando è nata la teologia politica


L'Istituto Patristico Augustinianum ha conferito il dottorato honoris causa in Teologia e scienze patristiche al cardinale archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa. La cerimonia di conferimento si svolge nel pomeriggio di venerdì 16 ottobre alla presenza di padre Robert Dodaro, preside dell'istituto, padre Robert Prevost, priore generale dell'ordine di Sant'Agostino, e dell'arcivescovo Rino Fisichella, rettore della Pontificia Università Lateranense. Pubblichiamo integralmente il testo della laudatio.

di Manlio Simonetti

Raffaele Farina viene oggi onorato soprattutto per la sua attività pratica di governo e di amministrazione, espletata negli incarichi più vari, sempre importanti, impegnativi e delicati:  ma agl'inizi della sua carriera egli si è illustrato anche nel campo delle lettere, e una non soltanto marginale attività letteraria ha continuato a svolgere anche quando il suo impegno prioritario era ormai rivolto altrove. A questa attività dedico questo breve intervento, e mi concentro subito sulla monografia per la quale don Farina è tuttora ricordato nell'ambito degli studi patristici:  mi riferisco ovviamente al volume L'impero e l'imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea. La prima teologia politica del cristianesimo, presentato come tesi di dottorato nel 1965 nella facoltà di Storia ecclesiastica della Pontificia Università Gregoriana e pubblicato a Zurigo nel 1966.

Sono passati più di quarant'anni dalla data della pubblicazione e questa monografia conserva ancora un posto di spicco in una bibliografia eusebiana ormai molto ampia, anche se non quanto richiederebbe l'importanza del personaggio oggetto di quello studio, che considero seconda soltanto a quella di Origene nell'ambito delle antiche lettere cristiane. Questa mia riserva potrà sembrare immotivata, perché Eusebio è stato sempre oggetto di studio, ma essa vuole rilevare la sua alterna fortuna nel corso dei secoli, che si è ovviamente ripercossa anche nell'ambito degli studi. In effetti Eusebio è stato sempre apprezzato in quanto inventor della storia della Chiesa, ma già nel tempo antico alla lode si aggiungeva la riserva e così è sempre stato. L'aver infatti Eusebio preso le parti di Ario all'inizio della controversia gli valse allora l'ostilità da parte degli avversari di quello e per conseguenza una valutazione dottrinalmente negativa che lo ha accompagnato nel corso dei secoli e che solo di recente, nel contesto di un apprezzamento scientifico, e non ingenuamente apologetico, della controversia ariana, è stata rimossa.

Ma intanto, in epoca molto più recente, un'altra critica è stata avanzata ai danni di Eusebio, soprattutto da parte protestante:  quella di essere stato il prototipo del vescovo cortigiano, tutto teso a guadagnarsi comunque il favore dell'imperatore:  critica ancora più infondata dell'altra, in quanto Eusebio ebbe fuggevoli contatti con Costantino solo un paio di volte in tutta la sua attività episcopale, e che è stata provocata dall'apprezzamento entusiastico di Costantino che Eusebio a piene mani ha profuso nei suoi scritti, che facilmente a osservatori superficiali è apparsa pura piaggeria e che invece è soltanto risvolto esteriore di una nuova concezione del rapporto tra Chiesa e impero, di quella che don Farina ha giustamente definito come la teologia politica di Eusebio.

Mi sono in effetti dilungato un po' nel presentare quelle critiche proprio per individuare con esattezza la collocazione e il significato specifico del volume di don Farina nell'ambito degli studi dedicati al grande storico, uno studio nel quale va innanzitutto apprezzata la capacità di non farsi condizionare e fuorviare da quei rilievi negativi ancora ampiamente diffusi, sia l'uno sia l'altro, quando l'autore attendeva alla sua tesi dottorale.

Questa capacità va tanto più apprezzata in quanto autentica rara avis in un ambiente di studio, quello delle università ecclesiastiche del nostro Paese, nel quale la storia della Chiesa era in quegli anni ancora oggetto di uno studio aduggiato da remore molto forti di carattere confessionale e perciò apologetico, mentre nelle università di Stato non la si studiava affatto. Oggi, che la situazione è profondamente migliorata sia nell'uno sia nell'altro versante, siamo in grado di valutare adeguatamente il significato pionieristico della monografia di don Farina, di autentica rottura nei confronti di una tradizione di studio ormai obsoleta. Ciò premesso, avviciniamoci ai contenuti del volume eusebiano.

In una monografia il cui argomento, definito dall'articolato titolo, l'autore ha voluto puntigliosamente precisare e delimitare, a prima vista può sorprendere il vasto spazio che nella prima parte del volume è dedicato a presentare la dottrina trinitaria di Eusebio, con ovvia privilegiata attenzione alla figura del Lògos divino:  ma chiarisce il significato di questa trattazione il sottotitolo del volume:  La prima teologia politica del cristianesimo, e pur solo di passaggio richiamo l'attenzione su "teologia politica", termine e concetto ormai pienamente acclimatati nella riflessione filosofica e storica dei nostri giorni, ma non certo al tempo in cui il volume di Farina è stato elaborato:  altro segno della sua novità e originalità. In effetti con questa espressione siamo nel cuore della riflessione di Eusebio, graniticamente unitaria nell'ancorarne la dimensione politica a quella teologica, in una dilatazione della concezione trinitaria di Origene che l'Alessandrino, stante la situazione della Chiesa ai suoi giorni, non aveva potuto minimamente sospettare. In effetti tutto lo svolgimento del discorso di don Farina è strutturato sulla base dell'interazione tra teologia, ecclesiologia e politica nella riflessione di un Eusebio che interpretò il trapasso tra la dura persecuzione di Diocleziano, Galerio e Massimino all'aperto favore per la Chiesa da subito manifestato da Costantino come vittoria della verità sull'errore, del bene sul male e come inaugurazione della pace messianica. 

In un contesto ideologico universalmente diffuso nel mondo antico, che da sempre aveva attribuito al capo dello Stato anche la suprema autorità religiosa, Eusebio ha considerato l'incipiente impero romano cristiano come il regno di Dio in terra, in una visione rigidamente monarchica, che vedeva realizzata, nella figura dell'imperatore cristiano l'immagine del Lògos divino, e nella vittoria finale della verità sull'errore la realizzazione del disegno divino teso a riscattare l'uomo peccatore dall'errore, che lo aveva asservito alle potenze avverse, tramite un percorso provvidenziale, che dipanatosi tra Antico e Nuovo Testamento, si era finalmente concluso grazie all'opera di Costantino, vicario di Dio Re sulla terra, così come Cristo è vicario di Dio Re in cielo.

Questa grandiosa, ancorché largamente utopica, concezione unitaria del rapporto tra Chiesa e impero don Farina ha illustrato al meglio in tutti i suoi aspetti:  carattere monarchico unico universale dell'impero, significato della pax romana ormai diventata pax christiana, provvidenzialità dell'impero romano, sua identificazione con la Chiesa, l'imperatore nuovo Mosè, nel quale si sono realizzate le promesse dell'Antico e del Nuovo Testamento e nel quale si dovrebbe realizzare la coincidenza di politica e morale. Vorrei rilevare in modo particolare l'esplicita chiarezza con cui don Farina ha dimostrato che Eusebio ha inteso l'imperatore cristiano come capo della Chiesa. Tenuto conto che, se la concezione eusebiana dell'impero cristiano ebbe in occidente vita breve a causa della radicale trasformazione provocata dalle invasioni dei barbari, essa però restò in vita in oriente per tutta la durata dell'impero bizantino, e che anche in occidente fu operante per più di un secolo, il concetto che l'imperatore in quanto capo dell'impero lo era anche della Chiesa ha suscitato difficoltà in ambienti e in epoche in cui il potere papale era ormai saldamente stabilito e l'ideologia ormai dominante cercava di retroiettarlo fin quasi alle origini della Chiesa.

Oggi non abbiamo più difficoltà a ravvisare nell'imperatore del IV secolo il capo, come dell'impero, così anche della Chiesa e valutare sulla base di questa prospettiva il suo operato nella vita della Chiesa:  ma al tempo in cui don Farina attendeva alla sua tesi, questo chiarimento, in ambito cattolico, era ancora di là da venire, e va perciò apprezzata anche da questo spinoso punto di vista la sua capacità di aderire al difficile argomento senza farsi influenzare dai pregiudizi ancora forti nel suo ambiente.

Concludiamo questo punto lasciando la parola all'autore:  "Credo che all'ideologia imperiale di Eusebio si possa dare il titolo di energia politica (...) Non escludo in Eusebio il movente di giusticazione dell'impero di Costantino, ma non posso ammettere che la sua dottrina imperiale si dica teologia politica soltanto per questo scopo, come vogliono alcuni (...) Eusebio vede verificate in Costantino e nel suo impero le caratteristiche dell'impero e dell'imperatore ideale. D'altra parte mi sembra ingenuo escludere assolutamente dalle intenzioni di Eusebio lo scopo di fondare teologicamente l'impero di Costantino. Perciò credo che l'ideologia imperiale di Eusebio possa dirsi una visione teologica, nei principi e nel metodo, dell'impero romano cristiano, una realtà né astratta né futura, ma concreta, reale e presente. Si può dire, insomma, teologia politica, e non in un senso deteriore di opportunismo di "teologia di corte". Una tale denominazione, intesa così unilateralmente, sarebbe solo un giudizio di apprezzamento, non giustificato, di una mentalità moderna che stabilisce un paragone tra il presente e il passato; non sarebbe una definizione oggettiva (...) Eusebio è dunque teologo politico" (pp. 250-260). In un'intervista, rilasciata poco dopo la pubblicazione del volume a un periodico romano, l'autore ha precisato, soprattutto in contrapposizione alla concezione del rapporto impero-Chiesa in Agostino, il significato della teologia politica di Eusebio, concreta e vitale solo in uno specifico momento storico, quello dell'impero del IV secolo, e destinata a breve vita in occidente, anche se non in oriente.

Considerando che, quando don Farina pubblicò l'importante volume eusebiano, aveva poco più che trent'anni, gli si sarebbe facilmente pronosticato un brillante avvenire in ambito scientifico; se così non è stato, è stato perché da subito egli fu assorbito da un'attività di amministrazione e di governo, che lo ha impegnato a tempo pieno, lasciandogli solo esigui margini per poter continuare a scrivere, una sorta di relax dallo stress della prassi. E anche questa attività marginale, a eccezione di qualche altro sporadico ritorno eusebiano e costantiniano di carattere divulgativo e poco più, si è concretata in iniziative tese in certo modo a integrare la sua attività pratica, nel senso di fornire strumenti che potessero riuscire di sussidio a chi si dedicava agli studi, soprattutto nelle università pontificie.

Mi limito a ricordare la curatela dell'edizione italiana del secondo volume della Storia della Chiesa di Fliche e Martin e dell'importante monografia di Hans Jonas sullo gnosticismo e la rassegna bibliografica su Origene. Un cenno a parte merita Lo gnosticismo dopo Nag-Hammadi. Fonti, origine, dottrina, pubblicato in "Salesianum" (32, 1970), per la sicurezza e la chiarezza con le quali è stato trattato un argomento nuovo e difficile. In ambito più specificamente scolastico ci porta il sussidio scientifico più importante pubblicato da Farina, Metodologia. Avviamento alla tecnica del lavoro scientifico (Zurigo, 1973). Nella pagina liminare l'autore precisa che "il libro è destinato prevalentemente agli studenti di teologia e di discipline ecclesiastiche o comunque di scienze religiose; esso può essere un utile manuale anche per gli studenti di scienze storiche, filologiche, pedagogiche e comunque umanistiche". Rileviamo soprattutto le ultime parole di questa citazione, perché, anche se effettivamente il volume trova il suo Sitz im Leben quasi esclusivamente in ambito patristico, per altro la trattazione è svolta in modo che di essa si possa giovare ognuno che si accinga a un lavoro scientifico, di minore o maggiore impegno. In effetti lo svolgimento della materia segue quello che è, o comunque dovrebbe essere, il percorso che lo studente, o studioso che sia, compie, o dovrebbe compiere, quando mette mano a un lavoro scientifico d'impegno, dalla scelta dell'argomento in connessione con una propedeutica attività seminariale, fino alla pubblicazione, attraverso le varie fasi della raccolta ed elaborazione del materiale.

A prima vista un libro, questo di Farina, dal contenuto rigorosamente oggettivo e pratico, tale da non lasciare spazio ad aperture di carattere personale. Eppure, scorrendo di nuovo in questi giorni, dopo uno iato di svariati decenni, molte pagine di questo libro, non ho potuto non fermare la mia attenzione su una serie di notazioni che qualificano, anche se in una prospettiva soltanto didascalica, lo studioso di mestiere e di vaglia. Mi limito a rammentare gli avvertimenti relativi all'enunciato del tema da trattare:  sua divisione negli elementi logici, riflessione su questi elementi nella loro definizione logica e nel rapporto con altri elementi (p. 31); le osservazioni sull'argumentum ex silentio:  condizioni da verificare per la sua delicata applicazione, per cui il suo uso richiede grande circospezione e cautela (p. 54); l'esortazione, rivolta allo studente ma che va estesa a ogni studioso, ad assumere il giusto atteggiamento nei riguardi delle opere antiche sulle quali verte la sua ricerca, atteggiamento critico nel senso di scevro da ogni precomprensione pregiudiziale ma insieme così approfondito da far, per così dire, uscire lo studioso da se stesso, per adattarsi al carattere delle singole fonti fino a farle cosa propria (p. 58); l'avvertenza, mai sufficientemente ribadita, ad affrontare la bibliografia moderna relativa all'argomento trattato soltanto dopo aver letto e riletto le fonti antiche. Regola aurea, ma quanto osservata? In effetti è molto più comodo, molto meno faticoso invertire i due momenti della ricerca, se non addirittura abolire il primo, e penso che molti di noi potrebbero agevolmente fare il nome di studiosi anche ben considerati che sono soliti studiare gli autori antichi leggendo soprattutto le bibliografie moderne. E su questa strada sarebbe facile continuare.

Dove si tratta della delicata incombenza della recensione leggiamo che per fare una recensione si richiedono:  conoscenza completa dell'opera da recensire, competenza nella materia, capacità di giudizio critico, correttezza e urbanità (p. 125):  ma quante delle innumerevoli recensioni che leggiamo oggi nelle riviste scientifiche sia italiane sia straniere rispettano queste norme? Altrove si legge:  "si prenda per norma inderogabile il riprodurre, nelle citazioni, direttamente e indirettamente dal testo originale" (p. 134). Ma quante volte si cita di seconda e anche di terza mano! Insomma, la lettura di questo avviamento metodologico a questo punto corre il rischio di farci constatare l'abisso che intercorre tra il dire e il fare, tra come si dovrebbe lavorare scientificamente e come invece troppe volte si lavora, e di farci addirittura scivolare nell'amarcord. Ma per certo non è questa materia per l'odierna celebrazione, e concludo il mio breve discorso aggiungendo ai rallegramenti per un percorso di vita allietato da più che meritati riconoscimenti, il sottile rimpianto per quella che avrebbe potuto essere una bella carriera di studioso e che il peso delle circostanze esterne non ha permesso che fosse.


(©L'Osservatore Romano - 17 ottobre 2009)
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La novità della pace costantiniana


Per il conferimento del dottorato "honoris causa" il cardinale bibliotecario e archivista di Santa Romana Chiesa ha preparato una lectio magistralis di cui diamo ampi stralci.

di Raffaele Farina

Da un anno circa sono iniziati i preparativi per le celebrazioni dei 1700 anni dalla promulgazione del cosiddetto Editto di Milano del febbraio del 313. Altri due anniversari sono già stati celebrati, per citare gli eventi più significativi:  nel 2006 quello di York per la proclamazione di Costantino imperatore Augusto nel 306, e nel 2007 quello di Treviri per la nomina a Cesare del medesimo. Tali manifestazioni hanno richiamato l'attenzione dei media e delle istituzioni scientifiche e culturali su quella che rimane pur sempre una figura controversa, l'imperatore Costantino il Grande.

Su tale personaggio si possono in genere ritenere acquisiti i punti fondamentali di quella che è stata la sua storia, la vita, l'azione, le scelte politiche e religiose, nel periodo che va dal 306, l'inizio dell'ascesa al potere, fino al 337, la data della sua morte. Tale ristretto spazio di tempo è stato, a giusta ragione, definito "epoca costantiniana", per i cambiamenti verificatisi, la pregnanza di essi e le conseguenze nello spazio e nel tempo in riferimento alla persona dell'imperatore Costantino. Egli viene ritenuto dai contemporanei e dai posteri il primo imperatore cristiano e fu onorato nella storia, a breve distanza dalla sua scomparsa, con il titolo di Grande.

Quanto al titolo di Grande questo gli è stato dato, in qualche maniera, già dai suoi contemporanei. Il panegirista del 313 lo definisce maximus imperator, Constantinus maximus (Panegirici latini, 9, 26, 5; 10, 3, 1). E Prassagora di Atene, storico pagano contemporaneo di Costantino, è stato, a dire di Fozio, il primo a dare questo titolo all'imperatore, in un panegirico tenuto dopo la vittoria su Licinio, nel 324. È da notare come dal 325 in poi l'imperatore viene raffigurato nella monetazione non più con la corona d'alloro, come i suoi figli, ma con il diadema. Eusebio conferma l'uso della porpora e del diadema da parte dell'imperatore nella descrizione della salma esposta dopo la sua morte. La più incisiva epigrafe della grandezza dell'imperatore nella considerazione dei contemporanei fu espressa dal panegirista Nazario nel discorso, tenuto a Roma per il quinquennale dei figli di Costantino, Crispo Cesare e Costantino ii Cesare:  Una demum Constantini oblivio est humani generis occasus.

Consideriamo ora Costantino e la sua ideologia della pace. So che il termine ideologia è ambiguo. Il mio uso è strumentale al discorso che sto per fare. Intendo con esso l'intuizione di un progetto; progetto, in questo caso, di una pacificazione universale che si va precisando mano a mano che esso viene realizzato e che potrà essere definito nel momento stesso in cui sarà completato e non sarà più un progetto ma una realtà.

L'idea di pace nel IV secolo fa riferimento all'organizzazione generale del mondo in quel tempo. L'organizzazione della pace, allora, anziché essere una sovrastruttura dell'ordinamento internazionale, come possiamo pensarla oggi, era compito e prerogativa dell'impero Romano, al quale, per il suo carattere etico e religioso, si pensava fossero affidate le sorti dell'umanità intera. L'idea di pace si era evoluta fino ad assumere, in quel tempo, il significato vasto e generale di eliminazione di ogni contrasto violento interno ed esterno.

Nella concezione poi dell'investitura divina del potere imperiale (l'imperatore considerato come vicarius Dei), la pace e la concordia che dovevano regnare nel mondo erano frutto di un ordine che proveniva dall'alto, ai sudditi attraverso gli imperatori, agli imperatori dalla divinità. I gruppi di porfido della facciata della basilica di San Marco a Venezia e dei Musei Vaticani, che raffigurano i quattro principi (Diocleziano, Massimiano, Costanzo e Galerio) abbracciati insieme unum in Rempublicam sentientes, rappresentano tangibilmente l'immagine della "concordia" imperiale, sulla quale era fondata l'unità dell'impero e la pace nel mondo, riflesso della concordia fra gli dei, esempio dell'unità dell'impero e suo simbolo. "Pace e concordia - ha scritto Bruno Paradisi - fondatrici dell'unità, erano in tal modo divenute piuttosto la conseguenza di un ordine predeterminato, che non la causa esse stesse di quella unità". Completava questa concezione l'idea che l'unità, l'eternità e l'universalità fossero qualità inseparabili dell'impero.

Dagli scritti e dalla politica di Costantino risultano evidenti alcune caratteristiche che determinano l'ideologia della pace.

La pace ha una data, il 324, e si configura come "assenza di guerra", interna ed esterna, con la conseguenza dell'unificazione dell'impero e la sicurezza dei confini. Idealmente la securitas, che è la parte visibile della pace, garantisce la continuità e come tale viene definita perpetua:  securitas perpetua. Oggettivamente però l'assenza della guerra, altrimenti detta "pace negativa", indica una situazione molto vicina a quella che noi chiameremmo oggi una lunga tregua. Una tale situazione comporta all'interno l'esercizio della tolleranza, ma non oltre un certo limite e lasciando sempre uno spazio al privilegio. La religione cristiana viene coinvolta in tale progetto e talvolta ne occupa lo spazio privilegiato.

L'imperatore, come vicarius Dei e primo responsabile, ne è il protagonista con tutte le sue titolarità di propagator imperii, victor, e via dicendo, e l'elenco delle virtù da praticare:  pietas, iustitia, clementia, providentia, philantropia, megalopsychia, moderatio, indulgentia, che rendono degno l'imperatore del suo incarico e producono come effetto securitas, tranquillitas, hilaritas, pax.

Infine le "opere del regime", il cerimoniale di corte, la propaganda (la panegiristica e la monetazione) sono espressione - almeno erano intese così a quel tempo - della prosperità, segno questo della benevolenza divina ed effetto della pace. Si possono ricordare la costruzione della nuova capitale Costantinopoli, la costruzione di edifici pubblici, le basiliche cristiane, gli archi di trionfo. Una chiesa della Santa Pace fu costruita a Costantinopoli, in corrispondenza (concorrenza?) con l'ara pacis di Augusto a Roma.

Questa pax illa sanctissimae fraternitatis è prima di tutto un dono interiore di Dio - riporto qui dagli scritti di Costantino e da citazioni in Eusebio di Cesarea - e poi è un suo comandamento, un dovere nei riguardi della legge divina, di custodirla, la pace, e di ricomporla non appena si sia in qualche modo incrinata. Essa è il desiderio primo dell'imperatore, è il senso della sua azione nei riguardi della Chiesa (anche, se è il caso, con l'aiuto dell'imposizione delle tasse). La fede, la pace e la concordia (pìstis, eirène, homònoia) sono come l'aria vitale del popolo di Dio. L'impero stesso ne trae sicuro giovamento. È perciò del tutto incomprensibile compromettere un tale incomparabile dono in una lotta per il dogma. Naturalmente, leggendo tante espressioni di preoccupazione per la pace della Chiesa (e dell'impero), ci si domanda quanto di convinzione religiosa e quanto di responsabilità (calcolo?) politica vi fossero nell'imperatore. Un punto di soluzione a questo problema, tipico del nostro tempo, sta nel fatto che, nella mentalità di quel tempo, e specificamente in quella di Costantino, c'era sì una distinzione di piani (religioso e politico), ma non di ambiti in cui si esercitava l'unico potere politico-religioso. E ciò per una ragione più profonda, come fa giustamente notare Dörries. Le parole, le espressioni allèlon filìa, symphonìa, agàpe, eirène e homònoia indicano quella pax fraternitatis, che non è nient'altro che l'amore fraterno cristiano, e che, pur nell'approssimazione di una Soldatenglaube (Josef Vogt), come è quella di Costantino, rimane tuttavia qualcosa di completamente nuovo e diverso.


(©L'Osservatore Romano - 17 ottobre 2009)
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