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Joseph Ratzinger: La fede e la teologia dei nostri giorni

Ultimo Aggiornamento: 23/10/2009 12:33
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23/10/2009 12:30

Ortodossia e ortoprassi

Per ricercare questa sapienza, che si trova nella stoltezza della fede, possiamo tentare di chiarire, almeno per sommi capi, a che cosa serva la teoria relativista della religione, sostenuta da Hick e quali strade essa indichi all'uomo. In ultima analisi, per Hick la religione significa che l'uomo passa dalla self-tredness, che caratterizza l'esistenza del vecchio Adamo, alla reality-centredness che contraddistingue l'esistenza dell'uomo nuovo, e quindi si proietta al di fuori del proprio Io verso il Tu del prossimo (6).

Questo è bello a parole, ma a ben guardare nel suo contenuto è insignificante e vuoto, come già l'appello di Bultmann all'autenticità, che egli aveva tratto da Heidegger. Per questo non c'è bisogno della religione. P. Knitter, ex sacerdote cattolico, avvertendo questa difficoltà, ha cercato di superare il vuoto di una teoria della religione, che si riduce in sostanza all'imperativo categorico, con una nuova e più concreta sintesi tra Asia ed Europa, più ricca nel suo contenuto (7).

La sua proposta è quella di dare una nuova concretezza alla religione collegando la teologia pluralista della religione con le teologie della liberazione. In tal modo il dialogo interreligioso viene semplificato radicalmente e nello stesso tempo viene reso efficace sul piano pratico, in quanto resta fondato su di un'unica premessa: «il primato dell'ortoprassi sull'ortodossia» (8).

Questa preminenza accordata alla prassi rispetto alla conoscenza è anch'essa un'eredità marxista, ma il marxismo da parte sua concretizza soltanto ciò che si presenta come una conseguenza logica, una volta che si è rinunciato alla metafisica: se la conoscenza diventa impossibile rimane solo l'agire. Per Knitter, l'assoluto non lo si può pensare, ma solo fare. La questione però è: è vera questa affermazione? Da dove mi può venir suggerito il retto agire, se non so che cosa è giusto? Il fallimento dei regimi comunisti è dovuto proprio al fatto che si è cambiato il mondo senza sapere ciò che è buono per il mondo e ciò che non lo è, senza sapere in quale direzione esso deve essere mutato, per diventare migliore. La semplice prassi non è una luce.

E’ allora opportuno chiarire criticamente il concetto di ortoprassi. La storia delle religioni tradizionale aveva sostenuto che le religioni dell'India non conoscono in genere un'ortodossia, ma solo un'ortoprassi; di qui probabilmente questo concetto è passato alla teologia moderna. Ma in riferimento alle religioni dell'India esso aveva un senso ben preciso: si voleva dire per suo tramite che queste religioni non conoscono una concezione della fede che sia fondamentalmente vincolante e che l'aderirvi non è condizionato dall'accettazione di un Credo particolare.

Queste religioni conoscono però senza dubbio un sistema di pratiche rituali, che viene considerato necessario per la salvezza e distingue i «fedeli» dagli infedeli. Esso non è caratterizzato da particolari contenuti dottrinali, ma dall'adesione scrupolosa ad un rituale che interessa tutta quanta la vita. Ciò che l'ortoprassi significa, ciò che è dunque un «retto agire», viene definito in modo molto preciso: si tratta di un codice di riti.

Del resto il termine ortodossia nella Chiesa primitiva e nelle Chiese orientali aveva più o meno lo stesso significato. In questa parola infatti l'elemento -dossia si riferisce a doxa, che non veniva certo inteso nel senso di «opinione» (la giusta opinione): per i Greci le opinioni sono sempre relative. Doxa era inteso invece nel senso di «gloria», «glorificazione». Essere ortodosso significa perciò conoscere e praticare il modo esatto in cui Dio deve essere glorificato. Si riferisce al culto e dal culto viene proiettato nella vita. In questo senso si getterebbe certo un ponte solido per un dialogo fruttuoso tra l'Oriente e l'Occidente.

Ma torniamo all'adozione del termine ortoprassi nella teologia moderna. Qui non si è più pensato al fatto di seguire un rituale. La parola ha assunto un significato del tutto nuovo, che non ha nulla a che fare con le concezioni autentiche dell'India. Resta però una cosa: se l'esigenza di un'ortoprassi deve avere un suo significato e non serve solo a mascherare l'arbitrio, vi deve essere allora anche un'ortoprassi comune, riconosciuta da tutti, che va al di là di un semplice parlare dell'incentrarsi sull'Io e del relazionarsi ad un Tu. Se si esclude il significato rituale, come lo si intendeva in Asia, il termine «prassi» può essere adottato in senso etico o politico.

L'ortoprassi richiederebbe, nel primo caso, un'etica chiaramente definita nel suo contenuto. Questo però viene espressamente escluso nella discussione sull'etica di impronta relativista: non esisterebbe ciò che è bene in sè e ciò che è male in sè. Se si intende ortoprassi in senso politisociale, sorge analogamente il problema di ciò che debba essere un retto agire politico. Le teologie della liberazione, le quali erano convinte che il marxismo ci dicesse chiaramente qual era la retta prassi politica, potevano usare il termine ortoprassi in modo corretto.

In quest'ambito non esisteva ciò che non era vincolante, ma una forma di prassi corretta, valida per tutti, ossia una vera ortoprassi che si estendeva a tutta la società e ne escludeva coloro che rifiutavano il retto agire. In questo senso le teologie della liberazione di ispirazione marxista erano a loro modo logiche e coerenti. Come si può constatare, questa ortoprassi si fonda certamente su una qualche ortodossia (in senso moderno), ossia su un complesso di teorie vincolanti che definiscono la via che conduce alla libertà. Knitter resta vicino a questo assunto quando afferma che il criterio che permette di distinguere l'ortoprassi dalla pseudoprassi è la libertà (9).

Ma egli deve ancora spiegarci in maniera persuasiva e pratica che cosa sia la libertà e che cosa porti alla reale liberazione dell'uomo: certo non è l'ortoprassi marxista, come abbiamo constatato. Una cosa però è chiara: le teorie relativiste sfociano necessariamente nell'arbitrio e si rendono perciò superflue, oppure emanano norme assolute che hanno valore nella pratica e creano degli assolutismi proprio là dove in realtà non possono avere alcuna consistenza. Certo comunque che oggi anche in Asia vengono divulgate palesemente delle idee fondate su una teologia della liberazione, le quali vengono presentate come forme di cristianesimo che si ritengono più aderenti allo spirito dell'Asia e che traspongono sul piano politico gli elementi essenziali dell'agire religioso. Quando il mistero viene a perdere di valore, è la politica che diventa religione. Ma proprio questo è profondamente contrario alla concezione della religione che è tipica dell'Asia.
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