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La visione di Dio e della persona umana in San Paolo

Ultimo Aggiornamento: 01/11/2009 11:43
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01/11/2009 11:43

 

La visione di Dio e della persona umana in San Paolo

 

Tra Saulo di Tarso e Gesù di Nazaret, vi è ben poco in comune1. Gesù è un ebreo della campagna palestinese, di professione falegname, figlio del popolo ed amico dei peccatori. Saulo è un intellettuale della diaspora, nato a Tarso vicino ad Antiochia. Uomo di città e di cultura. Il suo impegno netto nel movimento farisaico lo ha introdotto nella élite religiosa del giudaismo del tempo. Forse fu allievo del grande rabbì Gamaliele (At 22,3). Ad ogni modo la sua formazione all’esegesi rabbinica fu quella di un allievo brillante, capace di maneggiare la Scrittura secondo le regole dei maestri. La città di Tarso ospitava un’apprezzata scuola stoica: il padre di Paolo si fece un punto di onore di mandarvi il figlio. Attraverso l’apprendimento della retorica passava una cultura raffinata. Ecco, quindi, le due componenti della cultura di Paolo: lo stile figurato, analogico del rabbì e l’argomentazione lineare del retore romano, con introduzione, tesi, dimostrazione e perorazione.

Comunque sia, come capire che questo intellettuale fariseo di alto livello sia stato conquistato dal destino dell’uomo di Nazaret? La risposta va cercata nel folgorante sconvolgimento che è la conversione di Paolo sulla strada di Damasco. La si fa risalire all’incirca all’anno 32, cioè due anni dopo la morte di Gesù. La fede cristiana Paolo non l’ha scoperta al suo tavolo di lavoro. Neppure nella profondità della meditazione.

All’interno della sua pratica, della sua militanza, Paolo è stato fermato da Dio. Bloccato nel suo slancio. Ma che cosa è accaduto sulla via di Damasco perché Paolo ne era stordito, demolito, smarrito? L’uomo si manterrà sempre riservato su questo punto. Quel che è certo è che un giorno le basi su cui aveva costruito la sua vita gli sono improvvisamente venute meno. Ne resta traccia in un passaggio autobiografico della lettera ai Filippesi, in cui Paolo elenca il suo albero genealogico religioso: «Circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla Legge: quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge» (Fil 3,5-6). Tutto questo forte radicamento nella Torà lo aveva condotto a rifiutare qualunque credito alla fede cristiana in un Messia crocifisso. Che il Dio onnipotente avesse qualcosa in comune con il corpo di Gesù appeso al legno della croce non poteva essere che una ridicola superstizione, pericolosa e sovversiva. «L’appeso  è una maledizione di Dio»: questa frase del Deuteronomio (21,23) era citata come un anatema contro questi eretici. Si può confondere la grandezza divina con la fine miserabile di un Galileo, giudicato e condannato come blasfemo? E’ questo il motivo per cui, nella sua logica estremistica (la sua personalità lo porta a questo), Paolo si era ripromesso di difendere l’onore di Dio punendo quelli che iniziavano ad essere chiamati “cristiani” (Gal 1,13).     

Damasco è la scoperta di un fallimento. E’ lo scacco della Legge o, più esattamente, lo scacco della fede nella Legge che si presenta a Paolo come una folgorazione. Ecco dove conduce la Torà: a mettere in croce il Messia. Damasco è questo volgersi dello sguardo di Paolo sulla croce, che lo porta a capire come, al culmine dell’impegno per Dio, al culmine della pietà, l’uomo costruisca una croce per il Figlio. Paolo non determina lo scacco del giudaismo, come se altre credenze potessero meglio cogliere il mistero di Dio. Paolo giunge alla conclusione che l’ebreo come il greco falliscono nel loro tentativo di conoscere Dio e segna lo scacco di ogni religione. Non, una volta di più, attraverso il raziocinio, ma per averlo vissuto nella sua personale esperienza di vita.

Ogni religione fallisce nel momento in cui fa nascere nell’uomo l’illusione di poter costruire il proprio valore davanti a Dio. Che si tratti di ammansire Dio attraverso l’osservanza della Torà, per l’ebreo, o che si tratti di avvicinarsi a Dio attraverso la ricerca della sapienza, per il greco, l’errore è lo stesso: in entrambi i casi la pietà diventa un modo di catturare il divino per accattivarselo. Alla sconfitta della religione che tenta di catturare Dio, Paolo oppone la pura gratuità della grazia. In realtà se Paolo nega alla Torà la capacità di essere strumento di salvezza, egli non rifiuta la Legge quando si tratta di segnalare la fedeltà di vita cui sono chiamati i credenti.

Non possiamo comprendere Paolo se non cogliamo a quale punto la sua immagine di Dio si è trovata proiettata: lo scorge all’opera nella sua fragilità. Lo credeva tirannico, lo scopre solidale. Lo pensava lontano, ed eccolo presente in ogni sofferenza. Dio non si lascia scoprire che da parte di coloro che abbandonano l’immagine del Dio tirannico e si lasciano “giustificare”, cioè accogliere, sulla sola base della loro fede in Lui. Per questo egli viene e cammina con noi nell’umiltà del Natale; scrive Paolo: «Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare coloro che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, che grida: Abbà, padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio» (Gal 4,4-7). In pratica il Verbo si è fatto carne ed assunto l’umanità di tutti; allora, non c’è situazione umana, secondo Paolo, in cui Dio non sia solidale con noi e ci rimanga acccanto.

Con Paolo inizia questa scoperta, immensa nella storia dell’umanità, del valore di tutti e di ciascuno. Che ogni uomo riceva da Dio un valore insostituibile, nessuno l’aveva affermato con tanta forza. Che l’essere umano abbia un valore che non dipende né dalla sua età, né dal suo sesso, né dal suo denaro, né dalla sua pietà, né dal suo ruolo nella società. Che ogni essere sia apprezzato da Dio indipendentemente dalla sua morale o dalle sue intenzioni, ecco la convinzione che brucia nel centro della teologia di Paolo. E, nelle categorie farisaiche della retribuzione, Paolo dirà: Dio giustifica ognuno senza badare alla sua osservanza della Legge. Egli concede la vita all’uomo «senza le opere della Legge» (Rm 3,21,28). E’ un Dio di tutti e di ciascuno.

Di questa idea si alimenterà un concetto che segnerà profondamente l’Occidente cristiano: il concetto di individuo. Sotto l’influsso del pensiero paolino, l’umanità accoglie questa idea che l’individuo, sotto qualsiasi latitudine viva, ha lo stesso valore. La Rivoluzione francese aggiungerà: deve godere gli stessi diritti. Possiamo dire che c’è una scoperta dell’ «io» come soggetto personale  e come elemento costitutivo di ogni essere umano, che deriva da un’esperienza personale che è una Rivelazione di Dio. Dio si è rivelato a Paolo come un Dio altro, e questa rivelazione fa nascere una nuova identità dell’essere umano. Il riconoscimento di un altro come di un «io», e quindi come di un «tu», si pone come fondamento per una nuova forma di società, sconosciuta al giudaismo come al mondo greco-romano, caratterizzata contemporaneamente dal suo universalismo e dal suo pluralismo. Un nuova comprensione della persona umana, risultato di una singolare rivelazione di Dio, fonda una nuova società, universalista (elemento tipico del mondo romano ed ellenistico) e pluralista (elemento tipico dell’antichità greca e del giudaismo).

Si sviluppa, quindi, una visione di Dio e della persona, diversa da quelle del giudaismo e dell’ellenismo, e si comincia a metterla in pratica nelle comunità che Paolo stesso ha creato. Per lui, la giustizia di Dio consiste nel riconoscere ogni persona per se stessa, indipendentemente dalle sue qualità e dalle sue appartenenze, e a suscitare in essa la consapevolezza di esistere come soggetto. Nella storia dell’occidente, ancor prima di Sant’Agostino, Paolo inventa il concetto moderno dell’io, riflettendo su se stesso come individuo e soggetto responsabile della propria storia personale. Non si conosce alcun movimento missionario, nella storia della Chiesa antica, che abbia messo al lavoro così tanti collaboratori di così diversi orizzonti come la missione paolina. Paolo non lavora mai solo, ma sempre in collaborazione con partners autonomi. Egli è proprio l’inventore di quella che K. Popper ha chiamato la “società aperta”. La sua visione di Dio e della persona lo induce a fondare comunità nelle quali non ci sono più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina (Gal 3,28). Ciò significa dichiarare finite le diverse forme di segregazione di cui si servono i gruppi sociali per sottolineare la loro identità; denunciare il residuo di segregazione su cui si fonda l’ideologia universalista dell’impero romano; prendere le distanze dalle scuole filosofiche e dalle società locali, che ammettono solo maschi. Questo non vuole dire che non vi siano differenze, ma tutti sono riconosciuti come persone uniche.

La vocazione di Paolo, elemento fondante, è portatrice della verità del Vangelo di Dio, che si basa su un progresso nella conoscenza e nell’acquisizione di un nuovo stato di coscienza, inaugurato dalla comprensione di Gesù: «Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3,7-8).      

E’ Dio stesso che a Paolo rivela il Figlio e si manifesta Padre del Crocifisso. Tutto ciò che segue deriva da questo fondamentale incontro.

Parlando della rivelazione del Figlio, Paolo adopera un costrutto grammaticale inaspettato: non dice «Dio si compiacque di rivelare a me suo Figlio» (Gal 1,15-16), come sarebbe naturale, ma dice «rivelare in me suo Figlio». L’espressione significa un’azione interiore. L’azione divina di rivelazione è interiore, anche se l’evento ha ugualmente un aspetto esterno2.

Questo incontro che è rivelazione, costituisce un capovolgimento completo del suo modo di essere e di vivere, che nasce non dall’adottare un nuovo sistema di valori, ma nell’aderire a una persona, che è Cristo Gesù. Allora i valori più eminenti vengono considerati come spazzatura, sporcizia, perché a Lui interessa soprattutto conoscere Gesù. Il verbo “conoscere” nel vocabolario biblico, vuole indicare non solo un’operazione mentale, intellettuale, ma esprime una relazione personale: Paolo è stato affascinato da Cristo e per lui non c’è che un solo tesoro che è Cristo stesso e dice che lo vuole “guadagnare”. Così lascia le cose più stimate per seguire la persona amata.

 In questo senso, allora, possiamo comprendere quanto San Paolo dice in 2 Cor 5,17: «Se uno è in Cristo è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove». E’ il “nuovo” affermato in rapporto a un concetto molto impegnativo di creazione, di creatura nuova: è la condizione umana segnata ormai da Cristo in un’opera di nuova creazione compiuta da Dio, che ha fatto da linea di demarcazione tra passato e presente, vecchio e nuovo, che non può non avere un impatto a livello antropologico, perché nell’uomo nuovo lavora la Grazia di Dio. Di conseguenza, Paolo vuole evidenziare le ricchezze nuove di questa interiorità personale di ognuno, segnate dalla presenza operante dello Spirito Santo nei cuori. Allora il “nuovo” è anticipo di un’esistenza gloriosa e celeste e dal modo in cui Paolo prospetta il futuro celeste, ci fa cogliere la ricchezza del presente rivelato dalla speranza.

Prima di tutto, però, egli ci illustra come si passa dallo stato di peccato a quello di giustizia: attraverso la fede. Con essa, poi, l’uomo viene introdotto, per puro dono di Grazia, in un rapporto di pace con Dio, che da solo mai avrebbe potuto ottenere. La giustizia che deriva dalla legge, ha come base un’istituzione giuridica, mentre quella derivante dalla fede si basa su una relazione personale, l’adesione alla persona di Cristo. In pratica la legge mi dice cosa devo fare, io lo faccio, e sono in regola: non sono uscito da me, sono rimasto nella mia limitatezza umana e fondo il mio valore sui miei sforzi. Questo sistema Paolo l’ha riconosciuto difettoso, perché non fa uscire la persona da se stessa ma la lascia nel suo egocentrismo e nella sua superbia. Tutti i suoi sforzi, anche i più belli, servono in fin dei conti a nutrire il suo orgoglio, la sua superbia più o meno consapevole. Invece, la vera giustizia viene da Dio mediante la fede: in tal caso la persona esce da se stessa, riconosce di non potere andare avanti con le proprie forze, di non essere una persona per bene grazie alle proprie capacità, di avere bisogno di una relazione con un’altra persona che la salverà. Quest’altra persona le è presentata da Dio: è Cristo. Questo è il punto essenziale della conversione cristiana: prendere l’adesione a Cristo come base di tutta la propria esistenza; non volere altro se non la relazione con Cristo, sempre più profonda, sempre più completa.

La conversione di Paolo, però, è stata un dono di Dio ed egli stesso dice di essere stato «afferrato da Cristo» (Fil 3,12).    

L’uomo nuovo non è altro che colui che partecipa a Cristo e vive per Dio, capace di camminare in novità di vita; e quando Dio crea, Egli crea a  sua immagine; ma l’immagine di Dio è Cristo.

Anche noi, se vogliamo rinascere a nuove creature, dobbiamo chiederci se abbiamo rinunciato a fondare il nostro valore personale sulle nostre opere, sui nostri sforzi, su un sistema di valori; se abbiamo rinunciato alle nostre pretese individuali, o se ci siamo lasciati conquistare dalla ricerca del successo, delle lodi, da ciò che non è essenziale e decisivo, perché estraneo alla nostra relazione con il Signore. Infatti, chi vuole fondare il suo valore personale sui propri meriti, sulle proprie attività e sulle proprie decisioni, rimane solo nella sua superbia più o meno consapevole; con tutti i suoi sforzi egli nutre il proprio orgoglio, anche con atti in apparenza generosi. Invece, chi accoglie in tutto la fede in Cristo, chi aspetta da Cristo tutta la forza per andare avanti, vive continuamente nell’amore; questa è la conversione essenziale.

Paolo esprime benissimo la sua posizione, che propone a noi tutti: «Sono stato crocifisso con Cristo e vivo non più io, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20).

Paolo non contrappone fede e opere, ma Gesù Cristo e la Legge, perché giustificato attraverso le opere della Legge, significa riconosciuto ed apprezzato da Dio. Ma giustificato attraverso la fede in Gesù Cristo  significa riconosciuto e amato da Dio in quanto persona, indipendentemente dalle appartenenze e dalle qualità. Si ama una persona per le sue qualità, o indipendentemente dalle sue qualità? Domanderà B. Plascal. Tale è la domanda suscitata dall’evento nella vita dell’apostolo.

In questo incontro personale di Paolo con Gesù di Nazaret, c’è un elemento fondamentale: la Croce. Essa lo autorizza e lo invita a prendere coscienza del sé e della sua identità individuale. Essa riconosce e crea la persona indipendentemente dalle sue qualità ed appartenenze. Attraverso questa trasformazione, le distinzioni che essa opera, l’essere nuovo cui la Croce dà vita, la persona  diviene un «io» libero di cercare e di ricevere il senso della sua esistenza, capace di decidere, di scegliere il proprio Dio e di scegliere se stesso, in quanto soggetto responsabile.

Cristo è l’uomo nuovo e nostra liberazione.     

Se Dio, come Paolo ne ha fatto esperienza, non è il Dio della Legge, ma il Dio del Crocifisso, trasgressore della Legge, che mangiava con i pubblicani e i peccatori, allora la buona notizia della giustizia di Dio non è legata all’elezione e alla Legge, ma è destinata ad ogni persona che sia pronta ad intenderla e a metterla in pratica.  

La doppia cultura di Paolo gli permette sintesi folgoranti, di cui la cristianità si alimenterà per crescere. La sconfitta della religione è la prima sintesi. L’approccio paolino al problema della libertà ne è un’altra. Gli stoici, come Epitteto e Seneca, ponevano con insistenza la questione della libertà umana. L’uomo è libero nelle sue scelte? Governa la propria vita? Alla constatazione negativa, gli stoici aggiungevano una risposta: dominare le passioni permette all’uomo di avvicinarsi alla libertà.  Paolo riprende la questione ma la sua constatazione è più radicale: non solo l’uomo non è libero, ma non è in grado di riconquistare la sua libertà attraverso un progetto di autocontrollo. Il peccato – nessuno nel Nuovo Testamento penserà il peccato con maggiore profondità di Paolo – aliena l’uomo e lo scaglia contro Dio. La sola via d’uscita per l’essere umano è di essere liberato dal di fuori, dal momento che non può farlo da solo. Il cap. 8 della Lettera ai Romani descrive questo lavorio dello Spirito nel credente, che, liberandolo dalla costrizione di costruire la sua propria salvezza, lo libera dalla preoccupazione di sé e lo apre alla cura di un altro.  

Nella Lettera ai Galati Paolo conduce una lotta a favore della libertà cristiana. Il tema principale di questa lettera è infatti la difesa della libertà. Sin dall’inizio fa una dimostrazione contro la legge di Mosè che opprime, e a favore della libertà. Ma quando giunge al tema dell’amore, Paolo sembra contraddirsi (Gal 5,13): «Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà, purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne; ma mediante l’amore, fatevi schiavi gli uni degli altri». Dunque, la libertà è una cosa secondaria, nei confronti dell’amore. In realtà, nell’amore si trova la vera libertà. L’espressione di Paolo, che sembra contenere una contraddizione, manifesta proprio questa importanza suprema dell’amore generoso, e questa specie molto particolare di schiavitù in realtà è allo stesso tempo il supremo grado di libertà: uno che vive soltanto per amore, che per amore si mette al servizio delle altre persone, si sente unito a Dio e nella libertà spirituale più completa.    

Di conseguenza, essendo un’adesione a una persona, la fede è strettamente legata all’amore. La conversione è simultaneamente conversione alla fede e all’amore. La fede in Cristo ci porta a ricevere con amore riconoscente il dono gratuito di Dio.

Per quanto ci riguarda, quale nuovo atteggiamento assumere, allora, davanti a Dio, alla luce di quanto abbiamo visto e considerato finora?

L’atteggiamento filiale fondamentale è quello dell’amore riconoscente: gustare la bontà di Dio e ringraziarlo in ogni circostanza, per i suoi doni, la sua Grazia, il suo amore3 . Per Paolo dare gloria a Dio e rendergli grazie sono due espressioni equivalenti. Effettivamente, non possiamo dare gloria a Dio se non rendendogli grazie. Viceversa, la mancanza di gratitudine porta alla perversione dell’intelligenza, all’idolatria della materia, alle ideologie che sostituiscono la relazione personale e filiale con Dio.

Il secondo atteggiamento è quello della carità fraterna, dell’amore generoso verso le altre persone, perché l’amore gratuito di Dio spinge anche noi a vivere nell’amore generoso, perché Cristo ci rende capaci di amare e ci spinge ad amare, ci comunica il suo dinamismo di amore.

Paolo ci dà anche indicazioni sulla scala di valori da tenere presenti nella nostra vita di creature rinate dall’incontro con Cristo, o meglio che si sono fatte incontrare da Cristo Gesù. Che cosa dobbiamo stimare? Dobbiamo stimare l’amore. Egli afferma: «La conoscenza gonfia, l’amore costruisce» (1 Cor 8,2). Possiamo fare studi straordinari, produrre opere impressionanti, ma tutto ciò non conta. Ciò che conta è l’amore, l’amore paziente, disinteressato, che non tiene conto del male, mite e umile. E di questo amore allora Paolo mostra che è la cosa che dura, che rimane: «L’amore non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà, la conoscenza svanirà» (1 Cor 13,8). 


1  Cf Il mondo della bibbia, n. 3, maggio-giugno 2000, Ed. Elledici, Torino 2000, 6-17. 

2 Cf A. Vanhoye, Pietro e Paolo, Ed. Paoline, Milano 2008, 45.

3 Cf A. Vanhoye, Pietro e Paolo, Ed. Paoline, Milano 2008, 67-76.

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