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Due testimonianze in memoria di Alda Merini morta il primo novembre

Ultimo Aggiornamento: 05/11/2009 15:25
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Due testimonianze in memoria di Alda Merini morta il primo novembre

Se il capitale del poeta si chiama follia


di Claudio Toscani

"Il poeta non è mai solo. È sempre accompagnato dalla meraviglia del suo pensiero". Oggi, al momento della sua scomparsa, Alda Merini non ci lascia soli, ma accompagnati dalla meraviglia della sua poesia. Nata a Milano nel 1931 esordisce a soli sedici anni, sotto l'attenta guida di Angelo Romanò e Giacinto Spagnoletti, ma pubblica la sua prima raccolta nel 1953 (La presenza di Orfeo), cui seguono Paura di Dio e Nozze romane (del 1955) e Tu sei Pietro (del 1961).

Ricordo di essere entrato una sola volta nella sua casa, anni fa, come in un alveare assopito nel vigile e umoroso brusìo del caseggiato, lungo superstiti Navigli medievali, dove toni e suoni della città giungevano filtrati, fluidi, spenti. Dentro un'orgia d'oggetti nascosti come per un agguato, la sua voce "affumicata" ("c'è chi sa fare ordine e chi sa fare poesie") mi puntualizzava una consapevole e risoluta presenza nella poesia italiana del Novecento.
Moderna sibilla metropolitana, Alda Merini già dai suoi primi libri attesta vita e poesia in una sensibile trama di temi religiosi. I suoi versi stupiscono molti, da Betocchi a Pasolini, da padre Turoldo a Maria Corti, da Luciano Erba a Giovanni Raboni. Oggi il coro è unanime, ma negli anni bui degli esordi - la guerra, il lavoro nello studio di un commercialista, lo sfollamento da Milano e le stagioni da mondina a Vercelli - l'esistenza è a dir poco dura.

Ciò nonostante studia e legge e fa tesoro di "maestri" che ancora non sa quanto fertili per lei:  Rilke, Hölderlin, Valéry, Lorca, Whitman, Quasimodo e Saffo (che definì un giorno "povera disgraziata!"). Ma quando scriverà, la sua poesia si baserà sulla volontà, sulla pazienza, sull'umiltà, sul sogno e sul dolore.
La bibliografia della Merini ha un vuoto di vent'anni (dal 1961 al 1980) spazi-tempi e luoghi - quelli universalmente noti delle case di cura per una altalenante, invasiva, ma forse mai rettamente interpretata malattia mentale - in cui più o meno consapevolmente matura quelle che saranno sue proprie categorie emotive e creative:  selvaggio timore del corpo e ugualcontrario magnetismo sensuale, ilare alacrità giovanile e oscura aspettativa di sofferenza, frequenti illuminazioni ricevute da testi sacri o da evangelici rinVII, ma anche striscianti fascinazioni di peccato, nitida leggerezza dell'essere pur dentro plumbee sperimentazioni psichiche e finali incombenze d'angoscia, dolore, confusione.
Dramma, anzi tragedia. Clausura e sanzione. Infermità. Vent'anni di lotte tra abissi e risurrezioni (quattro figli avrà la Merini in questi due decenni) tra andirivieni al "Paolo-Pini", un noto indirizzo e un non-luogo insieme. Quando riemerge alla superficie della vita normale - ma saranno sempre presenti in lei il fuoco della "metastasi" psichica e l'uncinante visitazione della nevrosi - i libri fioccano come da una tempesta creativa:  da Destinati a morire del 1980, a Rime petrose del 1983; da La Terra Santa del 1984 a Testamento del 1988; da Vuoto d'amore del 1991 a Reato di vita del 1994.

Anche stilisticamente la Merini esce allo scoperto:  se dopo il silenzio, l'oblio, il sequestro, l'esilio, tenebra e luce - il più delle volte religiosamente intesi e mai esentati da carnale immanenza - sono i dialettici poli argomentanti delle sue raccolte, il linguaggio tesse anch'esso le sue personalissime figure, filando ossimori tra mistici e passionali, combinando immaginifiche metafore tra cristianità e paganesimo. Ciò che non smentisce il fatto di una poesia a grande vocazione sacrale, di continua gratitudine a Dio per il dono creativo e la felicità di poeta ("Poesia, splendida frase musicale piovuta da mani divine"), per le sue ardenti rappresentazioni e le folgoranti fragranze lessicali ("Il delirio dà alla luce figure e visioni, realtà sommerse, e la follia è un capitale enorme, estremamente prolifico, ma da nessun altro se non da un poeta può essere amministrato, e con fatica, con dolore").

"Terra Santa" sarà per lei un sinonimo di manicomio:  là dove Alda Merini permuterà l'innaturale buio della follia nella luminosa naturalità dell'essere poeta. Che attraverso deliri, nenie ossessive, sfocate epifanie, sopportazioni e abbandoni e "tradimenti", ricaverà un eccezionale sistema metaforico, un unicum nell'universo dei versi.

"Molti mi considerano la poetessa della pazzia. Ma chi se ne è accorto, sa che sono la poetessa della vita". E nella vita, della fede. Come proiezione della propria sofferenza in quella di Cristo ("Mi hai fatta soffrire, / talmente soffrire / che non potevo fare a meno di Te"). Come liberazione dal male, allo stesso modo che la preghiera lo è dal peccato.

Quando ormai sa che, accada quel che accada, lei è una fenice comprovatamente risorta dalle ceneri, la Merini replica stagioni di fitta sequenza editoriale (a cui corrispondono premi autorevoli e avvaloranti, tra cui il "Montale" e il "Viareggio", il "Morante" e quello della Presidenza della Repubblica):  da La pazza della porta accanto del 1995, a La vita facile del 1996; Favole, orazioni, salmi del 1998 a Superba è la notte del 2000; da Corpo d'amore, un incontro con Gesù del 2001, a Magnificat, un incontro con Maria del 2002.
Qui la Merini inquadra la Vergine evocandone l'aspetto umano e femminile; qui la Madre di Dio ci viene incontro come una giovane, fragile ragazza. Mistero della cristianità, la Madonna è qui rivisitata non nella sua storia e nella sua vita ma nella sua interiorità, nel suo smarrimento, nel suo materno stupore; icona d'accettazione, amore e fede, Maria è a un tempo simbolo di umiltà e maestà ma come corpo, sangue e dolore, Essa è una cosmica entità solcata da commosse vibrazioni umane sul senso della vita nella sua glorificante prospezione d'eternità.

Ed è con Poema della croce, del 2004, che la Merini corona una bibliografia per altro densa e propositiva sino ai suoi ultimi giorni (da non dimenticare, fra l'altro, La carne degli angeli del 2003 e un Francesco, del 2007, che attinge la mistica coniugando il martirio al trasporto d'Amore).
Poema della Croce, dunque, raccolta di composizioni a totale tema religioso, ripresa della Passione di Cristo in compagnia del trascendentale modello di Maria e delle altre indispensabili figure  evangeliche,  dal  Battista  a  Giuda, a Pilato. Ma la Madre, soprattutto, "... quella che si legò ai piedi del figlio / per essere trascinata con lui sulla croce / e ne venne sciolta / perché continuasse a vivere nel suo dolore".

Evocato con mistica visionarietà, non meno che con impetuoso coinvolgimento di carne e corpo di donna tanto intellettualmente indomita quanto concretamente battagliera, il momento più tragico della vita del Cristo e di sua madre, Alda Merini ne fa un momento poetico di sublime tensione spirituale e di rara potenza espressiva:  "Maria (...) aveva paura / di quell'orrenda scorciatoia / che Cristo aveva preso / per salire al Padre". Giocata su istanze e istanti di vita terrena e terrenamente normale, le esistenze di una madre e di un figlio (l'Immacolata e il Salvatore), si trasformano via via, da decreto e destino di due singoli protagonisti, nella cosmica vicissitudine di una millenaria umanità.



(©L'Osservatore Romano - 2- novembre 2009)
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Dal "Magnificat"


Se Tu sei la mia mano,
il mio dito,
la mia voce,
se Tu sei il vento
che mi scompiglia i capelli,
se Tu sei la mia adolescenza
io ho il diritto di servirti
e il dovere,
perché l'adolescenza
non ha mai chiesto nulla
alle sue stagioni.
Tu mi hai presa
perché io non ero una donna
ma solo una bambina.
E le bambine si accolgono
e si avvolgono di mistero.
Tu mi hai resa donna, Signore,
e la donna è soltanto
un pugno di dolore.
Ma questo pugno
io non lo batterò
verso il mio petto,
lo allargherò verso di Te
come una mano
che chiede misericordia.
Tu sei la mia mano, Signore,
Tu sei la vita,
e quando una donna partorisce un figlio
la disgrazia e l'amore
abitano in lei
come il dubbio della sua esistenza.
Tu mi hai redenta
nella mia carne
e sarò eternamente giovane
e sarò eternamente madre.
E poiché mi hai redenta
posi vicino a Te
la pietra della Tua resurrezione.
E poiché mi hai redenta
fammi carne di spirito
e spirito di carne.
E poiché mi hai redenta
Dammi un figlio
atrocemente mio.


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Due testimonianze in memoria di Alda Merini morta il primo novembre

Lettere imprecise spedite all'amato


di Gianfranco Ravasi

"Se tu conosci / l'ala dell'Angelo / se tu lasci la madre terra / che ti ha così devastato (...) / ora che vedi Dio / riconosci in te stesso / il fiore della sua lingua". Scelgo questi versi emblematici tra i suoi tanti per salutare Alda Merini:  sono tratti dalla raccolta poetica Clinica dell'abbandono che mi aveva dedicato nel 2003. La poetessa milanese, infatti, si era profondamente affezionata a me, attendeva le mie telefonate per dirmi spesso poesie che - come accadeva agli antichi rapsodi - affidava solo alla parola detta, lasciando che si cristallizzassero soltanto sulla pagina viva dell'anima di chi l'ascoltava. Sempre in quella raccolta aveva scritto:  "Ogni poeta / laverà nella notte / il suo pensiero / ne farà tante  lettere / imprecise / che spedirà all'amato / senza un nome".

Non so quando e come avvenne la nostra conoscenza:  certamente fu da quel momento in cui quella vena mistica, che era da sempre in lei, si irrobustì  fino ad assumere una forma nettamente cristologica. Fu così che nel 2001 mi chiese di scrivere la prefazione del suo Corpo d'amore. Un incontro con Gesù. La carnalità, che in lei era spesso intrecciata all'eros, qui si trasfigurava e diventata la sarx giovannea, la "carne" del Verbo, e la Divinità diveniva Umanità gloriosa e dolente. Aveva, così, voluto che fossi ancora io ad accompagnare una delle sue opere più alte, quel Poema della Croce (2004), non di rado approdato nelle chiese o in spazi religiosi come una moderna rappresentazione sacra.

La poetessa poneva il suo Cristo al centro dello spazio e del tempo in una epifania tragica eppur luminosa. Attorno allo sperone roccioso del Calvario s'addensava non solo l'odio del mondo, ma si delineava anche "il teatro della derisione", cioè la brutale stupidità e la volgarità dell'umanità che la Merini tanto detestava. Eppure su quell'asse della derisione e della crudeltà si inaugurava il giudizio definitivo sul male e si apriva il cielo della redenzione. La croce, ove si raggrumava il dolore di Dio, diventava segno  d'amore:  "Dio ha espresso il suo amore per l'uomo col pianto". Cristo è "la lacrima di Dio", una lacrima che "coprì tutta la carne del Figlio".

La colpa e la grazia, l'inferno e la gloria, la tenebra e la luce sono stati i poli della ricerca spirituale di Alda, una ricerca attraversata non di rado dai fulmini della follia che lei non temeva di rappresentare, consapevole - come era accaduto nella grande tradizione mistica e letteraria (si pensi solo all'Idiota di Dostoevskij) - che esiste una possibilità di conoscenza metarazionale che non è sempre e necessariamente irrazionale. È per questo che nel 2007 aveva voluto che io preparassi un'altra introduzione per il poema consacrato al santo "folle" Francesco d'Assisi, "il liuto di Dio". Libero e nudo, egli entra agli occhi degli uomini "logici" e calcolatori in quella  pazzia che è suprema saggezza, "folle come te, Signore, folle d'amore".

Alda Merini non mi aveva mai perdonato di avere lasciato Milano, la comune città, per Roma. Le sue sterminate telefonate avevano negli ultimi tempi sempre questa stimmata d'amarezza. Quando l'avevo visitata anni fa per la prima volta nella sua casa ai Navigli, aveva voluto rivestirne il terribile abbandono e la povertà con una valanga di fiori, secondo quella generosità che la spogliava persino del necessario pur di donare qualcosa a un altro. Aveva persino convocato un violinista che l'accompagnasse al pianoforte che lei sapeva suonare, mentre il cantore delle sue poesie, Giovanni Nuti, mi avrebbe offerto alcuni versi musicati. Anche due settimane fa, prima che io partissi per un viaggio in America, chiamandola all'ospedale milanese ove era ricoverata mi aveva strappato la promessa che l'avrei visitata a Natale, quando sarei ritornato lassù, anche perché - mi diceva - "non riuscirò a venire a Roma per l'incontro del Papa con gli artisti del 21 novembre", incontro a cui l'avevo invitata. Ci ritroveremo, invece, su altre strade. Per me sarà la via della memoria spirituale e del ricordo a Dio, ma anche quella dei molti doni che mi aveva destinato, come il crocifisso di un artista noto che aveva voluto darmi alla vigilia della mia ordinazione episcopale e che ora è nella mia casa romana.

Nata nel primo giorno di primavera, Alda Merini è morta nella solennità di Tutti i Santi. Vorrei, allora, dedicare a lei quei versi finali d'una poesia inedita che mi aveva inviato proprio nel giorno - due anni fa - del funerale di mio padre:  "Non scongiurare la morte / di lasciarlo qui sulla Terra:  / ha già sentito il profumo di Dio, / lascialo andare nei suoi giardini".


(©L'Osservatore Romano - 2- novembre 2009)
05/11/2009 15:25

Dolcissima Alda te ne sei andata nello stesso giorno che Natuzza chiudeva gli occhi sulla Terra per aprirli in Cielo...Chissa' se il Signore vi ha concesso il dono di incontrarvi.Grazie Alda ,poetessa della vita.
[Modificato da Gabbianella1. 05/11/2009 15:25]
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