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IL PRIMATO DI ROMA PER L’ORIENTE ORTODOSSO NEL PRIMO MILLENNIO

Ultimo Aggiornamento: 03/11/2009 09:45
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IL PRIMATO DI ROMA PER L’ORIENTE ORTODOSSO NEL PRIMO

MILLENNIO

Prof. Enrico Morini1

Ricordiamo tutti il viaggio del papa in Grecia nel maggio 2001 e forse anche

le polemiche che questa iniziativa suscitò all’interno della stessa gerarchia della

Chiesa greco-ortodossa. La decisione, alla fine favorevole, fu preceduta da un

articolo del metropolita Callinico del Pireo, nella quale questo presule, padre

spirituale dell’arcivescovo di Atene, spiegava ai suoi fedeli le ragioni del suo no:

il papa non era un pellegrino qualunque, bensì “un uomo di Chiesa che pretende

un potere universale (
kosmokratoria)”. Kosmokrator, cioè “che tiene in mano il

cosmo”, è una prerogativa di Dio, da Lui demandata temporaneamente al Cristo

(«Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra»: Mt. 28, 18). Che un uomo,

anche se di Chiesa, la rivendichi è un peccato di superbia, il «grande peccato»

del salmo 19 (18), 14. È la negazione dell’essenza stessa del cristianesimo,

fondato sull’umiltà, sulla primazialità come servizio («Chi vuol essere il prima

tra voi sia vostro servo; chi vuol essere grande sia l’ultimo di tutti». Su questi

presupposti ideologici, nei momenti di più accesa polemica con il cattolicesimo

– proprio in quel periodo, XVII-XVIII secolo, che vede il proselitismo cattolico

insinuarsi nel mondo ortodosso, con lo strumento, sino ad allora inusitato delle

unioni parziali con Chiese ortodosse locali o della costituzione di gerarchie di

rito orientale per i fedeli individualmente convertiti (fenomeni entrambi che

vanno sotto il nome di uniatismo) – si arriva, da parte ortodossa, ad attribuire al

papato la funzione dell’Anticristo. Temo proprio che molti dei monaci e delle

monache che hanno sfilato nel 2001 per le vie di Atene e di Kiev, in occasione

delle rispettive visite del papa in quelle città, brandendo crocifissi, icone,

stendardi di parrocchie e monasteri o striscioni da stadio inneggianti

all’Ortodossia, la pensassero ancora così. Ecco allora il dramma delle due

Chiese sorelle che, condannando l’una la superbia del papa romano che aspira

alla
kosmokratoria, l’altra la superbia Graecorum – come si esprimevano i

polemisti latini medioevali – che non piegano la dura cervice a riconoscere le

prerogative di governo episcopale su tutta la Chiesa del successore di Pietro, si

accusano vicendevolmente del peccato luciferino di un orgoglio smodato.

Questa comunque è la percezione che l’Ortodossia ha oggi del papato.

Ovviamente c’è modo e modo di esprimerla: ma anche il patriarca Dimitrios I,

successore di Atenagora sul trono primaziale dell’Ortodossia e solerte

continuatore delle aperture ecumeniche del suo indimenticabile predecessore, si

premurò di precisarlo, nel suo discorso di intronizzazione del luglio 1972,

mentre il mondo cristiano ascoltava con il fiato sospeso, chiedendosi chi fosse

costui: nessun vescovo nella Chiesa – si espresse più o meno - è, per diritto

divino, superiore ad un altro e le gerarchie sapientemente stabilite tra patriarchi,

arcivescovi, metropoliti e vescovi, sono state decise dalla Chiesa, sono di diritto

ecclesiastico.

Ma è sempre stato così? Ecco che anche la storia, oltre alla filosofia, si fa

ancilla theologiae. Un confronto meramente teologico non farebbe che

riproporre all’infinito la contrapposizione delle rispettive argomentazioni,

entrambe supportate dalle classiche – e non probanti per la controparte - autorità

bibliche e patristiche. Nell’ausilio invece dell’indagine storica, la prassi può

illuminare la teoria ed anzi credo che proprio nell’esperienza del passato stia la

chiave per risolvere nel futuro, quando Dio vorrà, i problemi del presente.

Si può pertanto dire che, se la teologia divide, la storia unisce (nonostante

proprio le vicende del passato abbiano messo in luce tanta ostilità, tanta

supponenza, tanti pregiudizi, tante chiusure mentali dall’una e dall’altra parte).

Infatti all’attivo della storia, se così si può dire, c’è l’esperienza di comunione

del primo millennio, quando le specificità teologiche e le peculiarità

ecclesiologiche delle due parti della cristianità si erano già manifestate, senza in

alcun modo compromettere l’unità della Chiesa.

Di storia allora io parlerò questa sera - io che cerco di fare lo storico e non

vanto assolutamente competenze teologiche – nell’intento di ricostruire,

attraverso la testimonianza delle fonti, la concezione che la cristianità ortodossa

ha mostrato di avere, in ordine alla posizione del vescovo di Roma nella Chiesa

universale, nel corso del primo millennio, quando le due Chiese vivevano ancora

in piena comunione canonica e sacramentale. Non tratterò, si badi bene, della

concezione ortodossa del primato di Pietro e della sua trasmissibilità, che è un

tema prettamente teologico, anche se qualche spunto teorico al riguardo sarà

indirettamente evidenziato nelle testimonianze relative alla prassi che verremo

presentando.

1 Docente di Storia e Istituzioni della Chiesa Ortodossa presso l’Università di Bologna e diacono permanente

della Chiesa bolognese

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1. La Pentarchia

Il governo della Chiesa nel primo millennio si fonda su due criteri,

apparentemente alternativi, ma che in realtà non si contraddicono ed anzi si

compongono in una soluzione ad incastro, in virtù della quale la loro

sovrapposizione non implica l’elisione di uno dei due. Questi due criteri sono il

sistema della Pentarchia dei patriarchi e la posizione primaziale di Roma. Il

primo soprattutto richiede oggi, trattandosi di una prassi e di una teoria di

governo della Chiesa da tempo storicamente superata, un’adeguata

presentazione.

Esso consiste, come suggerisce la semantica greca del termine (“governo dei

cinque”) nel riconoscimento alle cinque sedi maggiori della cristianità antica

(Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme), oltre

all’autorità direttamente esercitata sui rispettivi spazi giurisdizionali

(l’occidente, la Tracia e l’Asia minore, l’Egitto e la Cirenaica, l’Asia – cioè la

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Siria e il Libano – e le tre Palestine – Israele e Giordania), di una responsabilità

collettiva in ordine all'ortodossia della fede ed al governo della Chiesa

universale. Poiché tale ordinamento emerge per la prima volta come una realtà

stabilmente istituita nelle
Novelle giustinianee, si può dire che esso compare

all'orizzonte istituzionale della Chiesa già nella pienezza delle sue funzioni.

Proprio le
Novelle infatti, e precisamente nel proemio della VI, dedicato alla

gemmazione dell'unico indiviso potere divino nelle forme storiche della regalità

e del sacerdozio, forniscono alla Pentarchia, anche in questo caso

indirettamente, il quadro istituzionale di riferimento. Se infatti la regalità è, per

definizione, monocratica, il sacerdozio è invece policentrico, ha una struttura

che storicamente si è venuta qualificando a cinque vertici. La Pentarchia nasce

precisamente nel momento in cui l'imperatore, unico detentore della regalità,

scegliendo i titolari di queste cinque sedi come interlocutori per parte del

sacerdozio, ratifica implicitamente un organigramma interno che la Chiesa si è

data attraverso una evoluzione, segnata innanzitutto dalle delibere dei primi

quattro concili, e gli annette valenze indubbiamente nuove di ordine

ecclesiologico e di natura istituzionale.

Per facilitare la comprensione e la memorizzazione di quello verrò

presentando, mi pare opportuno anticipare a questo punto alcuni dati conclusivi,

in ordine all’intersecarsi dei due principi quello pentarchico e quello del primato

romano.

a. Nella teoria e nella prassi relative a questo sistema pentarchico i cinque

vertici del sacerdozio non sono sullo stesso piano: c'è un primo trono, quello di

Roma, «vetta della montagna apostolica», il cui titolare, «capo di tutti i

vescovi», è il vertice nell'ambito del vertice a cinque punte del sacerdozio.

b. Se Pentarchia e primato romano non sono modelli ecclesiologici alternativi,

si riscontra tuttavia una versione "pentarchica" del primato romano non certo

coincidente con quella romana in auge nel tempo che precede, accompagna e

segue la piena operatività di questa forma di governo della Chiesa universale. Il

primato romano è un elemento già presente nella legislazione imperiale ben

prima che compaia il sistema pentarchico, come risulta dal Codice Teodosiano,

(Novella XVII di Valentiniano III dell'8 luglio 445) che sancisce il primato di

questa sede sulla triplice base del meritum dell'apostolo Pietro, della dignitas

della città di Roma nonché dell'auctoritas di una non precisata sinodo che

avrebbe interdetto la «inlicita praesumptio» di «quid adtemptare... praeter

auctoritatem sedis istius». Esso verrà di nuovo a più riprese ratificato dalla

successiva legislazione imperiale pressoché simultaneamente alle disposizioni

che definiscono il ruolo dell'istituzione pentarchica, sino ad esserne riconosciuto

un elemento costitutivo. Senonché, se la Pentarchia presuppone il primato

romano, le diverse accezioni in cui esso è inteso a Roma ed in oriente

autorizzano a parlare di un inespresso equivoco pentarchico persistente per tutto

il tempo in cui la responsabilità collettiva delle cinque sedi patriarcali nel

governo della Chiesa universale fu effettivamente esercitata.

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c. La Pentarchia, come ideale e metodo di governo, corrisponde ad un periodo

preciso, ad una fase limitata nel tempo e ad un certo punto esauritasi nella vita

della Chiesa. Trattandosi della struttura ecclesiastica caratteristica della Chiesa

imperiale, essa presuppone ovviamente l'esistenza dell'impero e, fondandosi

sull'istituzione patriarcale, presuppone altresì che l'organigramma delle cinque

sedi sia completo. Se pertanto, in senso puramente teorico, l'arco di vita della

Pentarchia si estende ad un intero millennio, dal 451 - anno di Calcedonia - al

1453 - anno della caduta dell'impero -, praticamente esso è ben più ristretto. Dal

costituirsi del collegio dei cinque patriarcati, non ancora tecnicamente così

definiti, all'attribuzione ad esso di specifiche competenze, disciplinari e

dogmatiche, nella guida della Chiesa ecumenica, deve passare circa un secolo.

Con la fine dell'unità religiosa tra oriente e occidente, definitivamente

consumatasi, anche nella coscienza ecclesiale, all'inizio del XIII, tale istituzione

aveva già perso non soltanto di attualità, ma anche di senso. Persino tra questi

due estremi già più ravvicinati il periodo di effettivo funzionamento del sistema

pentarchico nella dinamica religiosa della Chiesa imperiale fu in realtà ancora

più ridotto: lo si potrebbe porre, a stretto rigore, dall'età giustinianea

all'estinguersi della dinastia di Eraclio. In tal senso si può dire che il sistema

pentarchico è la forma di governo della Chiesa caratteristica di due secoli

avanzati dell'età tardo-antica, il VI ed il VII.

La storia della Pentarchia è tuttavia più lunga della sua vita reale e si può

pertanto suddividerla, nel corso del primo millennio, in due momenti.

a. Il primo è appunto il periodo della Pentarchia reale, cioè quello

dell'effettivo funzionamento di questa istituzione. È la fase in cui, come è stato

acutamente osservato da Gilbert Dagron, la Pentarchia è una prassi senza teoria,

in quanto alle cinque sedi maggiori del sacerdozio è riconosciuto il ruolo di

interlocutore collettivo della regalità, senza il supporto di particolari

giustificazioni sul piano ecclesiologico.

b. Durante la seconda iconomachia - all'inizio pertanto del IX secolo - si

assiste, soprattutto ad opera del patriarca Niceforo e di Teodoro Studita, ad una

tardiva eleborazione di una vera e propria, anche se non sistematica,

ecclesiologia pentarchica, proprio quando questa forma di governo collegiale

della Chiesa risulta nei fatti difficilmente praticabile per la sopravvenuta

estraneità dei tre patriarcati orientali alla diretta sovranità dell'impero a motivo

dell'invasione islamica. Ciò vale soprattutto per le sedi di Alessandria e di

Antiochia; nella misura in cui Gerusalemme riesce ad interagire con Roma e con

Costantinopoli, tramite i nuclei monastici palestinesi stanziati in occidente e

l'invio di rappresentanti alle autorità ecclesiastiche delle due Rome, si può dire

che la Pentarchia si è ridotta di fatto ad una triarchia. É il momento in cui la

Pentarchia, osserva questa volta il Dagron, è una teoria senza più prassi. Noi

diremmo che è il periodo della Pentarchia virtuale.

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2. La Pentarchia reale

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Nel primo momento, quello della Pentarchia in atto, un tentativo di delineare

il ruolo di Roma nell'ambito di questa istituzione dovrà pertanto fondarsi,

nell'assenza di elaborazioni teoriche, sull'esame del rituale istituzionale della

Pentarchia, cioè sulle forme ordinarie e straordinarie degli strumenti di

comunione tra le cinque sedi patriarcali e soprattutto sui titoli ufficiali e gli

epiteti ideologici attribuiti in questo periodo dalle altre sedi a quella romana.

a. Roma nel rituale istituzionale della Pentarchia

Gli strumenti ordinari di comunione del vertice a cinque punte del sacerdozio

al suo interno e con la regalità sono quattro: due, l'istituzione dell'apocrisiario

romano ed il provvedimento di conferma dell'elezione patriarcale da parte

dell'imperatore, riguardano il rapporto della sede romana con il sovrano e due, le

lettere sinodali, con la professione di fede del neopatriarca, e i dittici, leggendo i

quali ogni patriarca esprime liturgicamente la comunione con gli altri,

riguardano invece il mutuo rapporto dei titolari delle cinque sedi ecumeniche. Le

forme straordinarie di comunione sono a loro volta due, precisamente la

presenza dei topotereti romani ai concili - rappresentanti temporanei del papa,

mentre l'apocrisiario lo è in forma permanente - ai quali viene attribuito un ruolo

primaziale, nonché i viaggi dei papi a Costantinopoli.

Quello di apocrisiario è un ufficio che presuppone la lontananza e la stabilità

nelle rispettive residenze delle due autorità, ecclesiastica e civile, necessitate a

mantenersi in continuo contatto. Espressione caratteristica dell'afferenza della

Chiesa romana al sistema ideologico-culturale dell'impero romano cristiano,

esso rappresenta l'istituzione propria della chiesa imperiale e si inquadra

perfettamente nella forma di governo pentarchico della Chiesa: non è un caso

che essa sia espressamente contemplata per la prima volta nella legislazione

giustinianea. L'apocrisiario romano è normalmente un diacono romano residente

a Costantinopoli, che ha la dimora ufficiale nel palazzo di Placidia, già alloggio

nella capitale dell'arcivescovo Teofilo d'Alessandria e dove prendono dimora

anche i topotereti romani ai concili che si svolgono a Costantinopoli. Egli è

rappresentante del suo patriarca presso il sovrano e non presso la sede

costantinopolitana, anche se di fatto funge pure da canale normale per le

relazioni tra il papa ed il patriarca.

La lettera di conferma imperiale all'elezione papale è lo strumento che forse

più di ogni altro mette in evidenza l'inquadramento della sede romana nel

sistema ideologico-religioso dell'impero. Se il rescritto imperiale di Costantino

IV del 684-85 al clero, al popolo ed all'esercito di Roma abolì formalmente

l'obbligo della ratifica imperiale alla nomina papale, in realtà confermò

l'essenzialità di questa misura, demandandola all'esarco ravennate, suo

rappresentante in Italia, unicamente perché la consacrazione del nuovo papa

avvenga «absque tarditate». Peraltro già una prima conferma dell'elezione

doveva venire dall'esarco, mentre il prefetto di Roma provvedeva ad inviare

nella capitale la documentazione canonica del neoeletto per la ratifica imperiale.

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Il neoeletto doveva anche pagare una tassa di elezione, soppressa nel 681, su

richiesta di papa Agatone, da Costantino IV, che nel rescritto conferma l'obbligo

per il nuovo papa, sancito da una «antica consuetudine», di attendere la

conferma imperiale per ricevere la consacrazione.

Con il termine sinodiche intendiamo sia le lettere sinodiche vere e proprie -

ma dette anche sistatiche o intronistiche -, così chiamate in quanto inviate

dall'organismo collegiale che aveva eletto il nuovo patriarca e dal neoeletto, che

vi univa la propria professione di fede, ai titolari delle altre sedi, sia le risposte

di questi ultimi, chiamate propriamente antisinodiche, che, riconoscendo

l'ortodossia del neoeletto, lo accoglievano nella piena comunione di fede. Questo

scambio epistolare, momento fondante la comunione ecclesiastica in regime

pentarchico, era assolutamente previo a qualsiasi relazione ufficiale con il nuovo

titolare di una sede patriarcale precedentemente vacante. Esso suggellava la

legittimità della successione episcopale, coinvolgendo direttamente le altre sedi

apostoliche, garanti dell'unità dei vertici del sacerdozio nella professione della

fede ortodossa, soprattutto cristologica.

I dittici, contenenti l'elenco del patriarchi vivi e defunti che i colleghi della

Pentarchia si impegnavano a commemorare liturgicamente. , rappresentano

l'epifania liturgico-sacramenatale dell'unanimità nella fede e della piena

comunione ecclesiale tra le cinque sedi ecumeniche la cui concordia garantisce

l'indefettibilità della dottrina.

Per quanto riguarda il ruolo primaziale della sede romana come viene

testimoniato da quella forma straordinaria di partecipazione al governo

pentarchico della Chiesa che fu l'istituzione dei topotereti, cioè i luogotenenti

delle sedi patriarcali ai concili ecumenici, basterà, in quanto campione

particolarmente significativo per la cronologia della Pentarchia reale,

considerare l'accurata descrizione che il
Liber pontificalis romano ci ha lasciato

dell'accoglienza a Costantinopoli dei topotereti romani al concilio del 680-681,

il sesto ecumenico. Ricevuti dal sovrano nella chiesa palatina di S. Pietro,, essi

vengono alloggiati, a spese di quest'ultimo, nel palazzo di Placidia e, nella

processione alla chiesa delle Blacherne, siedono su cavalli bardati (« Nelle

sedute conciliari hanno il primo posto nell'ordine di precedenza e, di

conseguenza, firmano per primi il
logos prosfonetico all'imperatore e il decretodogmatico, come risulta negli Atti conciliari dagli elenchi dei partecipanti e

dall'ordine delle firme in calce ai documenti. A suggello liturgico dell'onore

riconosciuto alla sede di Roma nell'ambito della Chiesa imperiale, anche in

presenza di altri membri del collegio pentarchico, il 21 aprile 681, ottava di

Pasqua, al vescovo Giovanni di Porto, membro della delegazione romana, fu

chiesto di celebrare in latino la divina Mistagogia nella Grande Chiesa di S.

Sofia, davanti a due patriarchi, Giorgio di Costantinopoli e Macario di

Antiochia, ed all'imperatore.

Del resto che tra il titolare della regalità ed il primo referente del sacerdozio

sia effettivamente presupposto un legame spirituale, evidente riflesso delle

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rispettive posizioni istituzionale, lo mostrerà anche il cerimoniale di corte,

registrato nel X secolo da Costantino VII Porfirogrenito, che attribuisce al papa

di Roma - nelle parole rivolte ai suoi legati sia dal sovrano stesso sia dal logoteta

che li interroga - il titolo di padre spirituale dell'imperatore. Le formule riservate

ai patriarchi di Alessandria di Antiochia e di Gerusalemme, mostrano infatti che

questi altri membri del collegio pentarchico non godevano di tale prerogativa.

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b. Scenari da Pentarchia

La più straordinaria tra le forme non ordinarie di esercizio del governo

pentarchico della Chiesa è indubbiamente rappresentata dai viaggi dei papi a

Costantinopoli, anche se, a dire il vero, nel secondo quarto del VI secolo -

proprio all'inizio pertanto della Pentarchia in atto - essi avevano assunto una

cadenza decennale, divenendo quasi eventi periodici nell'ordinaria dinamica

ecclesiale. L'unità delle due Rome, mai compromessa sul piano ideale, si

esprime visibilmente, in questi eventi, nell'incontro del referente della regalità

con il più alto referente del sacerdozio e questo incontro si sostanzia di gesti

ideologicamente significativi, di celebrazioni liturgiche emblematiche, in cui i

presupposti ideologici e le concezione ecclesiologiche occasionalmente si

materializzano, dando vita a fugaci "scene da Pentarchia". Tutto in questi viaggi

sembra calibrato in base alla
taxis che sovrintende ai rapporti interni ai due

ordini giuridici (regalità e sacerdozio) e agli organigrammi ecclesiastici: è questa

la chiave di lettura più corretta dell'evento, al fine di evitare

strumentalizzazioni, o almeno fraintendimenti, dai quali non sembra immune

neppure la fonte romana più vicina ai fatti, il
Liber Pontificalis, così sollecita

nell'informarci sui particolari dell'accoglienza che la capitale riserva all'illustre

ospite.

L'accoglienza che «tutta la città» riserva a papa Giovanni I nel 526,

andandogli incontro al quindicesimo miglio con ceri e croce, è ascrivibile, più

che all'onore per gli apostoli Pietro e Paolo - come si premura di sottolineare il

Liber Pontificalis - al ruolo specifico del papa romano come «capo delsacerdozio». Si tratta di un vero e proprio adventus sacerdotale, parallelo, nella

valenza ideologica e nelle modalità esteriori, a quello imperiale, come fa

intendere anche la notazione della stessa fonte che la folla accorsa all'arrivo di

papa Vigilio nella capitale nel 546, lo accompagna a S. Sofia al canto

dell'acclamazione «Ecce advenit dominator Dominus».

Precisamente a questa sua qualifica, che lo pone al vertice della Pentarchia, si

deve che il sovrano gratifichi il papa della
proskynesis strettamente riservata allasua stessa persona. Così leggiamo - sempre nel Liber Pontificalis - che Giustino

nel 526 «adoravit beatissimum Iohannem papam» e Giustiniano II nel 711 «cum

segno in capite prostravit» davanti a papa Costantino I. In entrambi i casi non si

tratta di una professione d'umiltà, come interpretano i redattori romani -

«humiliavit se prorsus», si legge a proposito di Giustino e si parla di «tanta

humilitas boni principis» a proposito dell'analogo gesto del Rinotmeto - ma di

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un rituale attentamente calibrato nel quadro dei rapporti tra i due ordini giuridici

della regalità e del sacerdozio. In tale prospettiva si spiega anche la decisione di

Giustino di farsi incoronare «cum gloria» da papa Giovanni: pur avendo il

sovrano già ricevuto la corona dalle mani del patriarca ecumenico nel luglio

518, l'incoronazione da parte del «vertice del sacerdozio» rappresentava

logicamente l'
optimum normativo in ordine alla piena legittimazione del vertice

dell'impero.

Non meno indicative, in ordine, questa volta, alla scala gerarchica interna alla

Pentarchia, risultano le grandi celebrazioni liturgiche presiedute dal papa nella

sede stessa - o almeno nell'area di pertinenza - della giurisdizione patriarcale

della Nuova Roma, dalla liturgia pasquale celebrata da papa Giovanni I in S.

Sofia «plena voce romanis precibus» a quella officiata da papa Costantino I a

Nicomedia. Nel corso di essa il
princeps, Giustiniano II, si comunica «ab eius

manibus», a suggello di un quadro prettamente "sinfonico" in cui il titolare

dell'
imperium riceve il pane consacrato, in quanto primo dei fedeli, direttamente

dalle mani del primo dei sacerdoti, al quale peraltro ha ingiunto, in virtù delle

proprie prerogative, di raggiungerlo in Oriente.

Con l'arrivo del vescovo dell'Antica Roma nella Nuova, dove risiede un altro

« patriarca dell'ecumene » - papa Costantino I viene accolto al settimo miglio

dalla città, oltre che dal coimperatore Tiberio, anche dal patriarca Cirro -, si

verifica la compresenza, sia pure temporanea ed eccezionale, dei due più alti

referenti del sacerdozio. Alcuni eventi sino ad allora inusitati, verificatisi in

quelle occasioni e registrati dalle fonti coeve, anche costantinopolitane, ci

documentano un puntuale rispetto per l'organigramma interno alla Pentarchia.

Appena giunto nella capitale, papa Agapeto ottiene da Giustiniano la rimozione

del patriarca costantinopolitano Antimo, di orientamento teologico

anticalcedoniano, col pretesto della sua anticanonica traslazione dalla sede

metropolitana di Trebisonda. Quando a succedergli sarà eletto il prete e

xenodoco Mena, sarà il papa, come suo unico superiore nel sacerdozio, a

consacrarlo vescovo ed a intronizzarlo, al posto del metropolita di Eraclea, sulla

cattedra patriarcale della Grande Chiesa. Nella lettera di Agapeto al patriarca

Pietro di Gerusalemme il papa stesso non manca di sottolineare l'eccezionalità

dell'evento, richiamando le leggendarie consacrazioni di vescovi orientali

compiute dall'apostolo Pietro - dopo le quali l'Oriente cristiano non avrebbe più

avuto vescovi «consacrati dalla cattedra» petrina - ed enfatizzando la duplice

valenza del gesto, illustrante ad un tempo sia la dignità della sede del

consacrante sia le qualità personali del consacrato. È significativo che il termine

con cui, in questa stessa lettera, il papa definisce la natura del suo intervento

contro Antimo - «abbiamo rimesso in riga la tracotanza della cattedra che è in

Costantinopoli» -, sia stato ripreso letteralmente, proprio in ambito

costantinopolitano, nella
Vita breve del patriarca Mena, donde è passato in una

nota di Sinassario italo-greca dedicata a questo santo.

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Il quadro dei rapporti fra i titolari delle due Rome, in questo VI secolo ritmato

da così frequenti visite papali nella capitale, non appare più così idilliaco,

soprattutto nelle seriori fonti cronachistiche costantinopolitane che, con sguardo

retrospettivo, riferiscono i medesimi eventi. A proposito dell'arrivo di Giovanni

I a Costantinopoli, Teofane registra un contrasto con il patriarca Epifanio

proprio sull'ordine di precedenza: il papa rifiuta di assidersi su di un trono di

pari dignità con il presule costantinopolitano e pretende un posto che manifesti

la sua posizione primaziale. Il cronista dipende per questa notizia da uno scritto

costantinopolitano dell'inizio del secolo – siamo nel IX -, il cui autore, che si

presenta come un prete di nome Procopio, presente a Costantinopoli all'arrivo di

Giovanni I, avrebbe compilato questo testo proprio per dimostrare al papa che,

nonostante egli pretendesse la precedenza liturgica su Epifanio di

Costantinopoli, in realtà la Nuova Roma era ecclesiasticamente anteriore

all'Antica, in quanto Andrea aveva istituito Stachis protovescovo di Bisanzio

prima del protoepiscopato petrino a Roma. Secondo questa fonte

costantinopolitana il papa non avrebbe negato la priorità cronologica

dell'episcopato bizantino su quello romano, ma avrebbe però dichiarato che a

fondamento del primato romano non c'era la preesistenza come sede episcopale,

bensì la sua corrispondenza al ruolo primaziale del primo fra i primi degli

apostoli.

A loro volta le drammatiche vicende che contrassegnarono la permanenza di

Vigilio a Costantinopoli e che videro nel 551 il papa strappato a viva forza dalle

colonne dell'altare della chiesa di S. Pietro in Ormisda (dimora dell'apocrisiario)

e trascinato con la corda al collo, fino a sera, per le vie della capitale, sono

attribuite, in ambito costantinopolitano al risentimento di diverse controparti, a

seconda della sensibilità ecclesiologica del momento. L'antiocheno Giovanni

Malala, testimone degli eventi, pone l'episodio correttamente, anche se

vagamente, in relazione a contrasti con Giustiniano, che noi sappiamo relativi

alla condanna dei Tre Capitoli. Si sofferma poi a descrivere, a tinte assai vivaci,

come il messo imperiale abbia afferrato il papa per la barba e come questi, nella

sua resistenza, abbia divelto le colonne e trascinato l'altare nella sua caduta;

dopo il ritiro del papa a Calcedonia, sarà sempre l'imperatore, ad accogliere di

nuovo Vigilio nella capitale. Fonti costantinopolitane dell’inizio del IX secolo,

come il cronista Teofane, attribuiscono invece l'incidente, in modo

ecclesiologicamente significativo, ad un contrasto tra i due patriarchi, con una

motivazione che potrebbe apparire singolare se non corrispondesse ad un topos

scritturistico. Papa Vigilio a Costantinopoli si sarebbe infatti insuperbito,

proprio per gli onori tributatigli da Giustiniano, e si sarebbe spinto a

scomunicare il patriarca Mena, imponendogli una penitenza di quattro mesi,

mentre il presule costantinopolitano, come ritorsione, avrebbe imposto al papa

analoghe sanzioni.

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c. Roma vista dagli altri: i titoli ufficiali

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Per quanto riguarda i titoli istituzionali che vediamo riservati alla sede romana

in questo primo periodo di effettivo governo pentarchico della Chiesa imperiale,

essi mi sono sembrati esemplarmente compendiati in due espressioni. La prima è

la
presidenza apostolica (apostolikè proedria), che il patriarca Giovanni VI

riconosce nel 713 a papa Costantino. Essa non allude necessariamente alle

origini petrine: anzi, a fronte della frequenza con cui Roma viene definita, nella

corrispondenza ufficiale dall’oriente,
trono apostolico, il richiamo all’apostolo

fondatore della Chiesa romana è decisamente infrequente, almeno fino al

concilio del 680-81. Proprio in questa sede - dopo che nel 642-43 Sergio di

Cipro aveva applicato direttamente al papa il
loghion mattaico sulla promessa

del primato - il passaggio delle prerogative dell' apostolo ai suoi successori sulla

sede romana viene affermato con un procedimento prolettico, trasferendo

all' apostolo lati tolatura di cui gode la Chiesa di Roma nel concerto delle Chiese:

vediamo così l' imperatore Costantino IV professare nella lettera al papa di avere

visto in lui «con la vista intelletuale nientemeno che Pietro, l' esarco del coro

degli apostoli e titolare della prima sede, che teologizzava il mistero

dell' economia». Al titolo petrino per eccellenza,
esarco del coro degli apostoli,

equivalente qui a primo dei due capicoro (protokoryphaios), si aggiunge quelloecclesiastico-giurisdizionale, proprio del vescovo di Roma (

titolare della primasede): sembra quasi che Pietro stesso, anziché essere lui a determinare, come

apostolo fondatore, la posizione primaziale della sede romana, goda di riflesso

del primato ecclesiasticamente riconosciuto alla Chiesa da lui fondata. Il termine

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d. Roma vista dagli altri: le metafore

Ancor più significativi, in ordine al ruolo specifico della sede romana in tutta

l'ecumene cristiana e, di riflesso, nella Pentarchia, sono i titoli, non più relativi

alla dimensione istituzionale, bensì di carattere metaforico. Sono essenzialmente

due, quello di
kephalè, testa, e quello di koruphè, vetta. La metafora del capo, di

evidente matrice neotestamentaria, viene applicata alla sede romana già dal

canone di Sardica, che prevede che i vescovi facciano riferimento «ad Petri

apostoli sedem» come «ad caput»; essa sarà poi ampiamente divulgata da

Giustiniano, che definisce Roma «caput... omnium ecclesiarum» e il suo

vescovo «caput omnium sanctissimorum Dei sacerdotum». Il famoso editto di

Foca del 607, che definirà anch’esso Roma «caput omnium ecclesiarum» e che

così larga eco ebbe in occidente, come ci testimonia la notizia che ne diedero il

Liber Pontificalis romano, l'opera cronachistica di Beda e quella storica di Paolo

Diacono, va letto in stretta continuità con la terminologia giustinianea, perdendo

così molta della sua asserita problematicità. Dalla metà del VII secolo tale

12

metafora sarebbe divenuta topica nella fraseologia ufficiale in transito dalla

Nuova all'Antica Roma. Quando la metafora ecclesiologica del capo viene

applicata non già al corpo della Chiesa (la cui
testa è, per autorità

neotestamentaria, il Cristo stesso) bensì al sacerdozio, come già nella Novella

131, del 545, essa attribuisce a Roma una primazialità proprio nell'ambito di

quel collegio pentarchico che, nel suo complesso, rappresenta, a fronte della

regalità, la funzione del sacerdozio. Nell’epistola apologetica del patriarca

Giovanni VI a papa Costantino, del 713, la prerogativa di Roma di essere la

«testa del sacerdozio cristiano» viene giustificata con il ricorso all'espressione «a

termini di normativa canonica»: ciò implica la sua dipendenza da un determinato

organigramma che la Chiesa si era già autonomamente attribuito, prescindendo

apparentemente dall'apostolicità petrina, sulla base di un sostanziale adattamento

delle sue strutture alle categorie storico-culturali dell'impero.

Valore analogo hanno le metafore della vetta, o della cima, e della sorgente,

applicate sempre a Roma, nel riordino legislativo giustinianeo, e sempre in

relazione non già alla Chiesa, ma al sacerdozio. Il duplice attributo papale di

«scaturigine e culmine del sacerdozio» verrà compendiato, nel secolo

successivo, in un titolo che esprime, con tutta l'intesità del genitivo accrescitivo,

il grado di eccellenza assoluta nel sacerdozio riconosciuto al patriarca

dell'Antica Roma: egli viene infatti salutato, nel libello presentato dagli igumeni

greci di Roma alla sinodo lateranense del 649, come
sacerdote dei sacerdoti. Ci

pare significativo che nei titoli cristologici in uso nel cristianesimo ortodosso,

quello relativo alla regalità del Cristo corrisponda al genitivo intensivo,
re dei

re, mentre quello relativo alla sua sovraeminente dignità sacerdotale sia non già

sacerdote dei sacerdoti, ma sempre grande sommo sacerdote, in un senso cioè

che pone in evidenza non solo la sua eccellenza nei confronti del sacerdozio

ebraico, ma anche e soprattutto il suo carattere di fonte primaria del sacerdozio

cristiano.

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3. La Pentarchia virtuale

La Pentarchia, già messa alla prova nel suo effettivo funzionamento

dall'invasione islamica dell'oriente cristiano a partire dalla seconda metà del VII

secolo, venne anche ideologicamente messa in crisi, nel secolo successivo, dagli

imperatori iconomachi, la cui prospettiva ecclesiologica si rivela, da vari indizi,

totalmente estranea a questa antica istituzione della Chiesa tardo-antica. Lo

schema ideologico-politico di questi sovrani pare orientato a rompere la

consonanza tra impero e sacerdozio: essi riprendono infatti, enfatizzando le

proprie prerogative religiose, il modello inaugurato dagli imperatori monoteliti

del VII secolo di un sovrano assimilato al genesiaco Melchisedec nel riunire in

sé la regalità ed un sacerdozio. Le loro misure legislative promuovono inoltre la

perfetta coincidenza tra i confini effettivi dell'impero e l'ambito giurisdizionale

del patriarcato di Costantinopoli, quasi assimilando a quest’ultimo l’intera

Chiesa imperiale. Si comprende allora come l'ecumenicità della sinodo

13

iconomaca di Hieria del 753 sia rivendicata sulla pretesa continuità dottrinale di

questa assemblea con i sei precedenti concili ecumenici, lasciando cadere il

requisito della presenza dei rappresentanti di tutte e cinque le giurisdizioni

patriarcali. Sarà precisamente l'esigenza di negare l'ecumencità di Hieria, per

affermare quella della sinodo nicena del 787, a determinare la rivendicazione

della perenne validità della struttura pentarchica della Chiesa ed anzi a produrre

- da parte dei polemisti iconofili, principalmente Niceforo di Costantinopoli e

Teodoro Studita - l'elaborazione organica di una teoria pentarchica, proprio

quando tale realtà è ormai un fenomeno puramente virtuale.

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a. Roma nella Pentarchia secondo Niceforo il Confessore

Anche se il ruolo di Roma appare in Niceforo indubbiamente ridimensionato,

la Pentarchia presuppone comunque un primato di Roma. La sua ecclesiologia

tradisce però una concezione sostanzialmente egualitaria della Pentarchia,

implicita nella sottolineatura che nella Chiesa non si dà priorità di sedi e che i

cinque patriarcati hanno tutti, nella dinamica conciliare, un ruolo di presidenza.

La loro
symphonia, espressione dell'unità di tutta la Chiesa, e la loro comune

deliberazione, vera regola della fede, rappresentano il criterio essenziale per la

legittimità canonica di un concilio, entro un quadro normativo fatto globalmente

risalire a tutte le fonti del diritto ecclesiastico. Niceforo contempla la possibilità

che su uno dei cinque troni possa insediarsi un titolare eterodosso. In tal caso

egli ritiene sufficiente il consenso degli altri quattro patriarchi per

anatematizzarlo e quindi privarlo di legittimità. Quando poi non si registra tra le

sedi patriarcali l'unanimità di consenso in ambito dottrinale, valido di per sé a

definire la retta fede anche al di fuori del contesto conciliare, è la fede romana a

costituire il parametro dell'ortodossia e a diventare normativa, in quanto

garanzia sufficiente di comunione con il
pleroma ecclesiale. A complemento

della posizione primaziale riconosciuta a Roma in ambito dottrinale, Niceforo

riprende il concetto tradizionale del papa romano come
primo nel sacerdozio:scrive infatti che questi ne è l’esarco, ha cioè il primo rango nel sacerdozio. La

novità consiste semmai nel fatto che egli fonda tale prerogativa sulla dignità di

cui gode l'apostolo Pietro all'interno del collegio apostolico. È così stretta

l'analogia tra la relazione Pietro-apostoli e quella papa-
sacerdotes, cioè vescovi,

che anche Niceforo indulge alla "prolessi dei titoli": il rapporto di Pietro con gli

altri apostoli viene infatti anche da lui espresso con termini propri del lessico

ecclesiastico. Pietro è il primate (cioè presidente nel senso di presedente,

proedros) dei discepoli, colui che fruisce, nei loro confronti, del primo rango.

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b. Roma nella Pentarchia secondo Teodoro Studita

L’aspetto qualificante il pensiero dello Studita è l’enfasi su Roma come

interim dell’ortodossia”, cui «è rimesso il potere del concilio», com'egli scrive

al sakellarios Leone. Questo potere comporterebbe, a parere di Jean Gouillard,

in circostanze straordinarie, la duplice facoltà sia di sanzionare l'ecumenicità di

14

un concilio, inizialmente privo di qualcuno dei requisiti necessari, sia di

dispensare dal ricorso al concilio per la definizione della fede ortodossa.

Teodoro è portato dall'emergenza nella Chiesa, a sottolineare la prerogativa

straordinaria del papato di essere succedaneo del concilio. L’affermazione, nella

stessa lettera, che da Roma viene la certezza della fede sembra da intendersi nel

senso che il papa in questi suoi pronunciamenti dottrinali esprime in realtà la

fede dei cinque patriarcati, che è la fede della Chiesa, indipendentemente dal

fatto che uno di essi sia occupato da un titolare eterodosso. In quest'ultima

eventualità Teodoro prevede esplicitamente che egli venga corretto dai suoi pari

e non da Roma soltanto. L'arbitrato di Roma non è pertanto isolabile dal

contesto pentarchico, che è poi quello della Chiesa universale. La vigorosa

accentuazione in senso petrino dell'apostolicità romana non può considerarsi

separatamente dal quadro ecclesiologico delineato da Teodoro con l'intreccio dei

titoli e delle metafore, nel gioco delle graduazioni e delle sovrapposizioni. Nella

Chiesa, corpo del Cristo, di cui Egli è il capo, ogni figura che ha autorità è una

testa (kephalè) e una vetta (koryphè). Per i patriarchi l'attributo generico di

koryphai richiede una specificazione, quella di vertici della gerarchia, e il corpo

della Chiesa viene perciò detto a cinque vertici ed anche il suo potere è a cinquevertici

, in quanto queste cinque sedi apostoliche hanno collettivamente ereditato

il potere conferito dal Cristo al collegio apostolico di legare e di sciogliere. In

virtù di questo stesso mandato conferito personalmente a Pietro, il vescovo di

Roma è, tra questi
pastori, «l’arcipastore di tutta la Chiesa sotto il cielo», come

il Cristo evidentemente lo è dell'intera Chiesa terrestre e celeste.

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c. Roma nella Pentarchia per l’ecclesiologia dei concili del IX secolo

La "crisi foziana" ci testimonia l'iniziale coesistenza di posizioni minimaliste

e massimaliste in ordine al ruolo di Roma nella Pentarchia. Nelle due sinodi

costantinopolitane dell'869-70 e del 879-80, esse continuano ad integrarsi

vicendevolmente in una dinamica che non segue necessariamente i "partiti"

ecclesiastici, ma divide trasversalmente gli schieramenti. Si potrebbe anzi

aggiungere che al concilio dell'879-80 - come hanno intravvisto sia il cattolico

Peri sia l’ortodosso Pheidas - le due sensibilità ecclesiologiche furono in grado

di raggiungere un precario equilibrio, anche se la ratifica conciliare di una

sostanziale diarchia tra le sedi delle due Rome avrebbe segnato inesorabilmente

la fine della Pentarchia anche nella sua dimensione virtuale.

Nell'assise dell'869-70 il
patrikios Baanes, rappresentante imperiale al

concilio, ripropone fedelmente la dottrina sull'origine divina della Pentarchia ed

applica a tutti e cinque i patriarchi la qualifica di "capo della Chiesa" (altrimenti

riservata al papa), nonché la promessa di indefettibilità della Chiesa contenuta

nel
loghion mattaico, interpretandola nel senso che alcuni resteranno comunque

fedeli alla fede ortodossa (tre o almeno due su cinque). Ravvisa anche la

possibilità che la retta fede sopravviva in uno soltanto, ma evita

significativamente di precisare che questo sarebbe comunque quello romano,

15

"città di rifugio" dell'ortodossia perseguitata, come avevano teorizzato i teologi

iconofili. Per converso il patriarca Ignazio - nella sua lettera scritta al papa

Nicola I nell'868 e letta alla terza sessione del concilio - enfatizzava proprio

quest'ultimo aspetto, coniando per il papa di Roma una nuova metafora, quella

di medico («unum et singularem praecellentem atque catholicissimum

medicum») per il corpo divino-umano di Cristo, che è la Chiesa, in preda alla

febbre dell'eresia ed al disordine canonico-disciplinare.

Al concilio, riunitosi esattamente dieci anni dopo, si trovano a confronto non

già due ecclesiologie costantinopolitane, rispettivamente minimalista e

massimalista per quanto riguarda il primato romano, bensì quella più gelosa

delle prerogative patriarcali, ora propria dell'ambiente foziano, e l'ecclesiologia

romana, esposta però dai legati papali in termini comparativamente misurati. Il

successo di questo concilio d'unione è probabilmente dovuto all'incontro di due

diverse forme di moderatismo. L'approccio moderato di Fozio al problema del

primato romano è stato individuato da Frantisek Dvornik attraverso l'analisi

delle modifiche apportate - o meglio, non apportate - dalla cancelleria patriarcale

alle lettere papali arrivate in oriente, al momento della loro traduzione in greco.

Tale indagine, anche se condotta per via indiretta - in quanto considera non già

ciò che il patriarca dice, bensì ciò che lascia dire al papa - consente di pervenire

a conclusioni significative. Mentre infatti vengono puntualmente espunte le

censure papali nei confronti di Fozio, non altrettanto avviene per l'enfasi posta

dal papa, nella lettera all'imperatore, sulle prerogative della propria sede. Quella

di essere "a capo di tutte le Chiese" viene sì trasferita, nell'adattamento foziano,

dal papa a Pietro, ma nondimeno è conservata la rivendicazione, per il trono

apostolico romano, del potere petrino di legare e sciogliere, nonché l'universalità

dell'estensione del suo diritto d'intervento, «fin dove può senza incorrere nel

biasimo e nella condanna», in tutte le Chiese.

La lettura sostanzialmente minimalista del primato romano, affermatasi nella

pars Orientis dopo la vittoria di Fozio, emerge piuttosto dalla reazione negativa

dei primi metropoliti del trono ecumenico all’affermazione dei legati che la

Chiesa della Nuova Roma era stata pacificata dall’intervento dell'Antica. Anche

in questo contraddittorio si percepisce tuttavia come i legati romani,

rivendicando il primato della propria sede in termini inaspettatamente

"pentarchici", abbiano ripreso, in questo scorcio finale della fase da me definita

della "pentarchia virtuale", la prospettiva ecclesiologica tipicamente orientale al

tempo della "pentarchia reale". Questo
revival pentarchico comporta una ripresa,

anche da parte dei legati romani, di un linguaggio arcaico, testimoniato

dall’espressione
papa ecumenico, già caratteristico del sentire pentarchico

dell'oriente pre-iconoclastico e del tutto inconsueto su labbra occidentali.

La "restaurazione pentarchica" formalmente promossa da questo concilio è

tuttavia espressione di un modello di Chiesa sostanzialmente incompatibile con i

presupposti teorici e le modalità pratiche di questa istituzione. La pentarchia

delineata dal concilio dell'879-80 si regge infatti sul principio dell'isotimia, cioè

16

della parità nelle prerogative, tra la due Rome, almeno come linea di tendenza in

via teorica e come dato di fatto nel concreto della dinamica ecclesiale. Fozio non

esita a definire il papa, nell'accogliere i legati romani, suo "padre spirituale",

secondo una terminologia ancora una volta pentarchica e riservata

protocollarmente al rapporto tra il rappresentante della
regalità (l'imperatore) edil vertice del sacerdozio (il papa), ma nondimeno viene acclamato dai suoi

vescovi, con l'esplicito assenso dei legati romani, «sorvegliante del mondo

intero, a immagine del Cristo,
arcipastore», con la sorprendente appropriazione

di attributi imperiali.

Questa tendenza all'
isotimia tra Roma e Costantinopoli ha la sua più

autorevole ratifica nel primo canone promulgato da questo concilio che

prescrive il reciproco riconoscimento, da parte dei titolari delle due Rome, delle

misure canonico-disciplinari da essi deliberate nei confronti di chierici e laici

della propria giurisdizione, dovunque si trovino. I legati di Roma, in una

dichiarazione fatta nel corso della quinta sessione dal cardinale Pietro,

affermano che il papa Giovanni VIII ha conferito il potere di legare e di

sciogliere, ereditato dall'apostolo Pietro, al patriarca Fozio.

Proprio uno dei principali convincimenti a cui siamo pervenuti nella nostra

analisi è che, sia nella prassi sia nella teoria pentarchica, le prerogative anche

più esclusive della sede romana prendono le mosse da un potere condiviso. Ciò

viene esemplarmente espresso, quasi ai limiti del paradosso, nella già ricordata

locuzione dell'imperatore Costantino IV, contenuta nella sua lettera al papa del

dicembre 681, dove la posizione rispetto a Roma dei restanti patriarchi è

definita, con un'unica formula, come quella di consedenti
insieme alla maestà

papale e, nel contempo, di sedenti dopo di essa. La compresenza delle dueparticelle,

insieme e dopo, oggettivamente in contraddizione, fornisce a questa

relazione una coloritura per così dire "antinomica", precisabile con difficoltà già

in via teorica e pertanto ancora di più nel concreto della dinamica dei rapporti

ecclesiali.

Nel contempo, nella Chiesa "imperiale" si registra una prolungata continuità,

dagli imperatori Giustiniano e Foca, a Costante II ed a Giustiniano II, nel

riconoscimento alla sede romana della prerogativa di "capo di tutte le Chiese".

La valenza "filo-romana" di questa definizione, costantemente ribadita, viene

oggettivamente ridimensionata non solo dalla sua stretta correlazione con la

qualifica papale - assai più pentarchica - di "capo del sacerdozio", ma soprattutto

dal fatto che la fondazione petrina della Chiesa di Roma non è che uno dei

fattori determinanti la sua posizione particolare nell'ambito della Pentarchia.

Tale prerogativa pare infatti in sinergia, quando non apertamente sostituita, con

altri fattori, come la normativa canonica, nonché la motivazione, tipicamente

giustinianea, che, come Roma è
patria legum, allo stesso titolo essa è anche fonssacerdotii. A sua volta il carattere normativo della fede di Roma - scoperto nel

pieno della crisi iconoclastica - non è mai isolabile dalla struttura pentarchica

della Chiesa: come ogni patriarca non è isolabile dal corpo episcopale della sua

17

giurisdizione - e ne esprime il punto di vista collettivo normalmente in sede

conciliare - così Roma non è isolabile dagli altri quattro patriarchi, ed anche in

questo caso dà voce all'intero collegio pentarchico.

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4. Conclusione

Avrei finito, senonché si impone qualche parola conclusiva. Forse il mio

intervento è risultato troppo tecnico e può avere deluso le vostre aspettative.

Credo però che abbiate tutti compreso la complessità del problema, afflitto

peraltro da molteplici semplificazioni. Avete avuto la prova che non è vero che

la tradizione ortodossa non riconosca al vescovo di Roma alcun primato, oppure,

come spesso si sente dire, che gli riservi solo un primato d’onore. D’altra parte

sarebbe troppo facile ridurre tutto al problema dell’esercizio di questo primato,

all’esigenza di trovare modalità nuove per il suo esercizio, compatibili con

l’ecclesiologia orientale. Si tratta infatti di un problema di prassi e le difficoltà

pratiche si possono felicemente risolvere soltanto dopo un previo chiarimento

teorico. A monte di tutto c’è la questione, prima ancora che dell’estensione, dei

limiti di questo primato, se sia di origine divina oppure di matrice ecclesiastica,

e su questo punto le prospettive già divergevano nel primo millennio di

comunione tra le due Chiese. Nel secondo millennio poi, quello della

separazione, le due posizioni si sono venute radicalizzando e divaricando. La

mia impressione personale è che, dal medioevo ad oggi, la radicalizzazione del

rifiuto ha portato la Chiesa ortodossa a sottovalutare le ammissioni implicite, su

questo punto, nella sua stessa tradizione e nell’insegnamento dei suoi Padri,

mentre l’enfasi cattolica sul primato romano ha comportato in parallelo una

sopravvalutazione delle prerogative inequivocabilmente riconosciute, nella

teoria e nella prassi, al vescovo di Roma. Al terzo millennio incombe il compito

arduo di un riequilibrio bilaterale e di una sintesi, nell’ambito del legittimo

pluralismo teologico, in un approccio multidisciplinare, nel quale, accanto

all’esegesi biblica ed alla teologia dogmatica, ci sia posto anche per la storia.

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