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Il mistero trinitario nell'arte

Ultimo Aggiornamento: 06/11/2009 20:55
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Il mistero trinitario nell'arte

La «sorgente» delle nostre pupille


di Alessandro Scafi

Gabriele D'Annunzio un giorno giocava distrattamente con la sabbia, sulla riva del mare, come un bambino. Mentre i granelli scivolavano pigramente nel cavo della sua mano, improvvisamente il poeta sentì che quello scorrere poteva significare l'abbreviarsi del giorno. Lui, il grande estroverso che interiorizzava tutto, non ci pensò due volte e scrisse una poesia:  La sabbia del tempo. L'equinozio di settembre stava per portare le piogge autunnali, e così l'oro delle spiagge si stava velando. Le ombre si allungavano all'inclinarsi dei raggi del sole, e D'Annunzio pensava malinconico al quadrante silenzioso della meridiana, mentre la sabbia del Tempo scorreva nel cavo della sua mano come in un'urna ed era il suo cuore la clessidra che ne scandiva il fluire. Tutte le estati, anche quelle più belle, vogliono il loro autunno e corrono verso la sfioritura, e tanti poeti ne hanno interrogato il mistero. Alle soglie del Duemila, Giovanni Paolo II aveva scritto una lettera apostolica, la Tertio millennio adveniente, dove ricordava la risposta della tradizione cristiana allo struggimento dei poeti e alla fatica di tutti gli uomini che vogliono vivere per sempre, anche se continuano a dover morire:  "In Gesù Cristo, Verbo incarnato, il tempo diventa una dimensione di Dio, che in sé stesso è eterno".

Giovanni Paolo II riproponeva cioè in termini molto chiari la promessa del cristianesimo:  l'eternità è entrata nel tempo attraverso l'Incarnazione del Figlio di Dio. Dietro la soluzione dell'enigma del tempo, ci sarebbe dunque, secondo il documento pontificio, e del resto secondo tutto il magistero della Chiesa, un altro mistero:  quello della Trinità. Ma quanti cristiani sono veramente consapevoli che è un Dio tripersonale a fondare la loro salvezza? I teologi ricordano che al concetto di un Dio trino non si è arrivati seguendo i sentieri umani della speculazione filosofica o cosmologica.

Il problema è che noi uomini, a cui basta una tazzina di caffè per alterare la nostra lucidità cerebrale, possiamo conoscere Dio solo indirettamente, perché Dio si manifesta all'uomo soltanto attraverso le parole e le azioni umane; guardiamo Dio sempre come in uno specchio, mai faccia a faccia (I Corinzi, 13, 12). D'altro canto tutta la cattedrale spirituale del cristianesimo si fonda sull'idea che è Dio che si rivela all'uomo, e che noi non possiamo misurare o manipolare un Dio vivente.

Come penetrare allora il grande mistero delle tre persone della Trinità? Probabilmente Gesù sorriderebbe, dicendo che non è necessario essere super-intelligenti o pluri-laureati.

Quando san Paolo ad Atene si mise a parlare di risurrezione dei morti, i professori dell'Aeropago reagirono prendendolo in giro, ma forse mancavano soltanto di semplicità. Come raccontano gli evangelisti, il figlio del falegname di Nazaret indicava i bambini come modello di chi veramente riesce a entrare nei segreti del regno di Dio. Per entrare in una dimensione più alta, occorrono allora ginocchia scorticate e scarabocchi di pennarello? I bambini certo sono incompleti e vulnerabili, ma hanno voglia di imparare e di crescere, e sono pronti a esplorare. Da loro impariamo che il linguaggio dell'arte è forse il modo più istintivo e più concreto che ha l'uomo per esprimersi. È sicuramente molto difficile spiegare come sia concepibile che un Dio assolutamente unico, immutabile ed eterno, sia realmente distinto in tre persone, ed entri nel divenire della storia.

Ma possiamo in ogni caso esplorare questo mistero proprio attraverso i sentieri delle arti visive, e "vedere" come l'arte cristiana ha interpretato nei secoli le tre persone divine.

Del resto gli artisti, per tradurre la Bibbia in immagini, "guardavano" la Scrittura, non la ascoltavano soltanto. E tutti siamo chiamati a "guardare" la Parola con la nostra immaginazione. Tra noi comunichiamo non solo a parole, ma anche con gesti, sguardi e atteggiamenti:  con tutta la nostra presenza. E certo Dio si è fatto carne, in un modo di comunicazione con noi che va al di là delle parole. L'arte forse ci aiuta un po' a oltrepassare le parole, visto che l'immagine rende la parola presenza. Guardare significa penetrare gradualmente ed entrare in comunione con il mistero, senza necessariamente voler capire tutto prima, perché l'immagine si fa accogliere in silenzio. In ebraico e in arabo una sola parola - ani in ebraico e ain in arabo - significa allo stesso tempo "occhio" e "sorgente", una affascinante coincidenza. Quale fiume sgorga dalle nostre pupille? Forse quello dello stupore, espresso da tutta la persona, quando è esposta a qualcosa di bello e di vero. Come ripetevano i Padri della Chiesa, se le idee creano gli idoli, è lo stupore che ci fa capire, perché ci rende disponibili ad accettare l'incomprensibile, a vedere la coincidenza degli opposti. Grazie a questa capacità di stupirci, forse potremmo un giorno condividere l'entusiasmo del Faust di Goethe, che riesce, attraverso un simbolo visivo, a intuire l'essenza dell'universo.

Molti filosofi sono stati convinti dell'efficacia dell'immagine visiva, capace di esprimere i più profondi misteri, altrimenti inaccessibili al pensiero discorsivo. L'archeologo svizzero Jakob Bachofen scriveva che "il simbolo suscita rivelazioni, il linguaggio può solo spiegare. Il simbolo tocca tutte insieme le corde del cuore umano, il linguaggio è sempre costretto a tenersi a un solo pensiero per volta... Il linguaggio mette insieme parti isolate e può commuovere lo spirito solo per gradi. Se però qualcosa deve prevalere sulla consapevolezza, l'anima deve necessariamente coglierlo in un lampo... I simboli sono segni dell'ineffabile, dell'inesauribile, tanto misteriosi quanto necessari". Forse pensava a qualcosa del genere Giacomo Leopardi, quando scriveva in un pensiero del suo Zibaldone del 26 agosto 1823:  "Il poeta lirico nell'ispirazione, il filosofo nella sublimità della speculazione, l'uomo d'immaginativa e di sentimento nel tempo del suo entusiasmo, l'uomo qualunque nel punto di una forte passione, nell'entusiasmo del pianto; ardisco anche soggiungere, mezzanamente riscaldato dal vino, vede e guarda le cose come da un luogo alto e superiore a quello in che la mente degli uomini suole ordinariamente consistere. Quindi è che scoprendo in un sol tratto molte più cose ch'egli non è usato di scorgere a un tempo, e d'un sol colpo d'occhio discernendo e mirando una moltitudine di oggetti, ben da lui veduti più volte ciascuno, ma non mai tutti insieme, egli è in grado di scorger con essi i loro rapporti scambievoli...".

Leopardi credeva dunque nella superiorità dello sguardo lirico o artistico sulle scartoffie e i ragionamenti "a freddo", che pure lui stesso non smetteva mai di leggere e di scrivere. Ma anche un pensatore più recente, Claude Lévi-Strauss, ipotizzava l'esistenza di una forma di conoscenza più semplice, profonda ed essenziale delle nostre parole e delle nostre teorie, quella che poeti, pittori, musicisti, popoli primitivi condividono con la sapienza della natura.

Tra il 1427 e il 1428 Masaccio affrescava una solenne e originale composizione nella chiesa di Santa Maria Novella a Firenze per descrivere la Trinità. Le figure del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo sono inserite in una grandiosa finta architettura ispirata agli archi di trionfo romani. Come ha notato lo storico dell'arte Giulio Carlo Argan, esse appaiono come figure reali e storiche che occupano uno spazio ben preciso. La loro disposizione segue infatti le leggi di una rigorosissima prospettiva lineare. Il mistero trinitario ci si offre qui in tutto il suo paradosso, storico ed eterno allo stesso tempo. Dio Padre offre all'umanità il Figlio crocifisso, mentre tra i due è posta la candida colomba dello Spirito Santo. Ai piedi della croce si trovano Maria e Giovanni, e più in basso i committenti inginocchiati, le cui proporzioni sono uguali e coordinate dalla prospettiva a quelle delle persone divine. Tutta la composizione suggerisce il mistero del rapporto del Dio trinitario con l'umanità di tutti i secoli. Dipingendo un altare in basso, sotto il quale si trova uno scheletro con una scritta allegorica, Masaccio ci ricorda poi con grande immediatezza che la Trinità non è un dogma astratto, ma il mistero che si rivela all'uomo attraverso la sofferenza di Cristo, il sacrificio che riscatta l'umanità anche dalla morte.

È possibile allora visitare pinacoteche e monumenti, con lo stesso spirito dei Magi e dei pastori, o con la tenacia di uno Zaccheo, magari immaginando che il quadrato o il rettangolo delle tele sia come un altare, il luogo di una presenza. Del resto le opere d'arte del passato costituiscono segni preziosi da custodire, se è vero che credere è ricordare. A ben pensarci, poi, potrebbe essere appropriato esplorare il mistero della Trinità, cioè quello della relazione eterna e temporale tra Padre, Figlio e Spirito Santo, semplicemente ripercorrendo un altro rapporto portatore di felicità, quello della comunicazione reciproca tra l'opera d'arte e chi la osserva. Le immagini potrebbero per esempio suggerirci che ogni discorso non è una semplice somma di parole, ma  una miniera misteriosa di relazioni.


(©L'Osservatore Romano - 7 novembre 2009)
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