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Assemblea Generale della Cei ad Assisi

Ultimo Aggiornamento: 18/11/2009 07:07
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La prolusione alla sessantesima Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana

I cattolici da sempre parte dell'identità del Paese


Comincia oggi ad Assisi l'assemblea generale della Conferenza episcopale italiana, che si concluderà il 12 novembre. Pubblichiamo ampi stralci della prolusione pronunciata dal cardinale presidente.

di Angelo Bagnasco

Una certa risonanza ha avuto nelle settimane scorse, ma assai di più ne avrebbe meritato, l'annuncio choccante che sette nostri fratelli cristiani sono stati orribilmente uccisi nel Sudan meridionale in una macabra parodia della crocifissione. La notizia ha comprensibilmente impressionato l'assemblea speciale del secondo Sinodo per l'Africa riunitasi in Vaticano dal 4 al 25 ottobre scorso, e ha non poco contribuito a collegare nei nostri pensieri quell'incontro all'epopea apostolica, rafforzando il carattere di profezia che lo stesso incontro è andato svelando agli occhi dell'intera comunità ecclesiale.

Non pochi insegnamenti ci sono pervenuti dalle cronache di quella assise nei termini sia di una innegabile freschezza evangelica sia di intraprendenza di strade nuove, in particolare su quella frontiera della riconciliazione che era uno dei poli tematici del sinodo. Per i cittadini e i Paesi del Nord del mondo, il recente Sinodo sull'Africa doveva essere l'occasione propizia per una disinteressata disamina delle proprie responsabilità. Così ci saremmo potuti scuotere dall'apatia con cui generalmente si guarda a quel grande Continente che a troppi fa comodo mantenere in una indegna subalternità. Chi non sente oggi il desiderio di uscire finalmente dai luoghi comuni infarciti di stucchevole pietismo? Parole forti infatti sono state pronunciate sui "tossici rifiuti spirituali" che le regioni ricche della terra scaricano sulle povere, sui conflitti armati dovuti, più che al tribalismo, all'ingordigia delle multinazionali protese ad uno sfruttamento in esclusiva delle risorse strategiche, e su certo colonialismo "finito sul piano politico" ma "mai del tutto terminato" sul piano culturale ed economico. Parole forti, dicevo, che forse hanno avuto un ascolto debole, anche per il rilancio troppo flebile che i media internazionali hanno riservato a questo appuntamento. 

Il nostro Paese, con la sua esposizione geografica, quasi a ponte tra Nord e Sud del mondo, è chiamato a rinvigorire la propria tradizionale apertura ai popoli africani, aiutandoli anzitutto a promuovere il loro sviluppo interno, e trovando le formule più adeguate per un partenariato in grado di onorare la nostra e altrui dignità. Dal punto di vista etico-culturale desideriamo che i nostri cristiani si sentano cittadini del mondo, corresponsabili della sorte degli altri. In questo senso, ai media che hanno vita dalle nostre comunità è chiesto di continuare a svolgere un importante ruolo di informazione e quando serve di contro-informazione. A livello ecclesiale, il dinamismo ad gentes resterà un dato qualificante l'intera nostra pastorale, una visione di Chiesa che si traguarda sempre con gli altri, e mai senza di loro. Quella che ci attende insomma è una missionarietà realmente più consapevole.

La chiave missionaria mi pare la più indicata anche per comprendere l'iniziativa che nelle ultime settimane ha preso configurazione nei riguardi dei fratelli - chierici e fedeli - anglicani che da tempo chiedevano di entrare nella piena comunione con la Chiesa cattolica. Allorché si era trattato di impostare correttamente la questione del reintegro nella comunione ecclesiale dei vescovi lefebvriani, il Papa precisò:  "Il vero problema, in questo momento della storia, è che Dio sparisce dall'orizzonte degli uomini e con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l'umanità viene colta dalla mancanza di orientamenti, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più" (Benedetto XVI, Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica, 10 marzo 2009). Ebbene, per le modalità in cui è maturata ed è stata anche annunciata l'iniziativa oggi riguardante gli anglicani, e per la sapienza che complessivamente la ispira, non possiamo non vedervi riflessa l'impronta dell'attuale Pontefice, indomito e dolce, coraggioso e illuminato. L'aver disposto, con innovazione anche canonica, che siano istituiti degli appositi Ordinariati personali così che quanti entrano nella piena comunione cattolica, accettando dunque anche il ministero petrino come elemento voluto da Cristo, conservino nel contempo elementi dello specifico patrimonio spirituale e liturgico, appare effettivamente una scelta "ragionevole" per andare incontro "in modo unitario ed equo", cioè equilibrato, alle richieste pervenute. Vediamo qui applicato il principio paolino:  "Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo" (Lettera agli Efesini, 4, 5), chiariva il cardinale William Levada, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede; la nostra comunione, lungi dall'essere minacciata, viene come "rafforzata da simili diversità legittime, e siamo pertanto felici che questi uomini e donne offrano il loro contributo particolare alla nostra comune vita di fede". In questo senso si inquadrano le novità connesse a tale decisione che, è già stato autorevolmente affermato e tutto lascia prevedere, non comprometterà il prosieguo del dialogo interconfessionale. Tutt'altro, dunque, che una decisione scaturita da un indebolimento, ma piuttosto la felice applicazione di quanto Papa Benedetto chiedeva nella citata Lettera ai vescovi cattolici:  perché mai "non dovrebbe la grande Chiesa permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo respiro che possiede?". Non ci resta dunque che ringraziare il Santo Padre per l'iniziativa intrapresa, che - ne siamo certi - non mancherà di produrre frutti positivi.

E grazie vogliamo dirgli per la visita che proprio ieri ha compiuto a Brescia, terra natale di Paolo VI, e in particolare per la visione di Chiesa, "povera e libera" che ha voluto offrirci.
La stessa ermeneutica della missione ci aiuta a collocare nella prospettiva più consona l'Anno Sacerdotale che ormai ferve nelle nostre Chiese. Il sacerdote di questo inizio del terzo millennio cristiano è, nella sua identità più profonda, uguale al sacerdote di sempre, quello scaturito dal Cenacolo, ossia la ripresentazione sacramentale di Gesù sacerdote, il segno visibile che Cristo ha lasciato di se stesso come capo e come buon pastore, che dà la vita per le sue pecore (cfr. Giovanni, 10, 11). La meditazione sulla figura del Santo Curato d'Ars ci fornisce gli elementi per capire che essa è intagliata nella sostanza viva del sacerdozio cattolico, quella che non passa mai di moda, non deperisce né sbiadisce, non invecchia perché previene i tempi, appartenendo a tutti i tempi. Ogni vero prete non si tira indietro rispetto alla missione, e questo - a ben guardare - è tipico della figura sacerdotale che nei secoli ha preso forma nel nostro Paese. Sia che stiano nel tempio, sia che visitino le famiglie - specialmente nella benedizione annuale - sia che animino le attività pastorali, i nostri sono sacerdoti che si sentono mandati a tutti, destinati a tutti, anche ai non frequentanti, anche a coloro che sono tiepidi o freddi rispetto all'appartenenza religiosa, e per questo loro slancio devono sapere di essere da noi vescovi ringraziati, sostenuti, ammirati. Essere prete è la vocazione di chi sta accanto alla propria gente come testimone di misericordia. Senza la percezione della divina misericordia, infatti, gli uomini di oggi non sopportano la verità. Per questo Cristo vuole la Chiesa maestra e madre!

Una delle situazioni nelle quali un sacerdote in cura d'anime maggiormente vive l'afflato missionario è quella che riguarda la morte di qualche componente la comunità cristiana, evento ricorrente nella dinamica di una vita parrocchiale. Non a caso noi vescovi stiamo sottolineando la circostanza della nuova edizione italiana del Rito delle Esequie con l'intendimento di volerne esplicitare le virtualità di annuncio rispetto alla novità portata da Cristo Gesù dinanzi al mistero della morte (cfr. Giovanni, 11, 23-26). Mi pare infatti che oggi sia diffusa la consapevolezza dell'urgenza di aiutare i nostri fratelli a pensare in maniera meno evasiva alla prospettiva dell'appuntamento con la morte come di una tappa non estirpabile dall'orizzonte concreto, comunque incombente sulla vita di ciascuno. E come la frequentazione di ambienti ospedalieri potrebbe talora rivelarsi quanto di più educativo per interiorizzare la fragilità connessa alla vita, così la capacità di vivere l'appuntamento con "sorella morte", allorché essa si materializza di fianco a noi, è un segno di intelligenza e un modo prezioso per imparare a vivere davvero. Capita sovente di trovarci a riflettere sulla tendenza a considerare privatisticamente anche l'esperienza della morte. L'individualismo, che è cifra marcata di questa post-modernità, raggiunge ai limiti della vita una delle sue esasperazioni più impressionanti. Anche quando la maschera della morte scende sul volto dei propri cari, dunque si fa più prossima e meno facilmente evitabile, anche allora non di rado si tende a rimuovere l'evento, a scantonarlo, a scongiurare ogni coinvolgimento. Il fenomeno determina la pratica sparizione dell'esperienza della morte e di ogni suo simulacro dalla scena della vita. Va da sé che la comunità cristiana non possa avallare una tale cultura così irreale:  nascondere la morte e dimenticare l'anima non rende più allegra la vita, in genere la rende solo più superficiale. Contribuire, per la nostra parte, a mimetizzare la morte, affinché il suo pensiero non turbi, significa favorire anche pastoralmente un approccio scandito per lo più dalla fretta e dal formalismo. Invece, una perdita drammatica può essere l'occasione per lasciar emergere interrogativi, per costringere i protagonisti ad addentrarsi nei meandri scomodi del mistero, a sperimentare la crisi delle proprie certezze e delle proprie esuberanze, a meditare sulla possibilità di dare un'impronta diversa al resto della propria esistenza. Certo, occorre la prontezza e l'abilità di saper porre rimedio alle immagini imprecise con cui talora viene immaginato Dio, di raddrizzare le imputazioni di cui lo si carica a spiegazione dell'imponderabile. Sono i momenti nei quali ci si rende conto di una certa insufficienza catechistica, e anche dell'influenza di talune visioni spurie o paganeggianti. L'annuncio del Dio vero, amante della vita, che non fa scherzi macabri, il richiamo che con la morte la vita non è tolta ma trasformata, e che chi è vocato all'altra sponda non ci viene sottratto ma resta a noi più vicino di prima e ci attende:  ecco ciò di cui c'è bisogno, in una cultura che progressivamente sembra slittare verso forme post-cristiane. Ma per questo ci vogliono pastori pronti e non evasivi, comunità cristiane vive, reattive, affettivamente coinvolgenti, che non tacciono sull'interezza del disegno che Dio va dispiegando. Morte, giudizio, inferno e paradiso sono termini non ignoti, non silenziati, non spiegati secondo categorie falsamente buoniste o erroneamente crudeli. Dobbiamo includere anche il camposanto tra i luoghi cari alla famiglia e alla comunità. Saper visitare il cimitero - il luogo dei "dormienti" in attesa della resurrezione finale - e lì pregare, è un modo per bandire il macabro e per esorcizzare il troppo demonismo della nostra cultura. Le nostre parrocchie abbiano sempre il cimitero nel perimetro della loro pastorale ordinaria, in modo che questo non sia un'area separata e ghettizzata, cui rivolgersi una volta l'anno, ma spazio della vita così concretamente trascendente da non affievolirsi mai, santuario della memoria che ci fa vivamente umani, ponte che unisce la comunità cristiana con la comunione dei suoi santi già presso Dio.

Altro argomento di cui ci interesseremo nel corso dei nostri lavori assembleari è l'immagine della Chiesa nella sua proiezione mediatica, su cui naturalmente io non intendo ora fare anticipazioni, salvo che per segnalare che questo tema, se vogliamo, entra nello spettro della estroversione missionaria propria della comunità cristiana. Ed è il motivo per cui la Chiesa, sulla rotta indicata dal Concilio, sceglie di entrare in dialogo con i media e di dotarsi essa stessa di strumenti che la coadiuvino nella sua missione. Ma qui si annidano anche alcuni motivi di sofferenza, ed è proprio la chiave della missione a rilevarli nella loro potenziale consistenza. Non di rado infatti c'è - da una parte - una sottovalutazione del concreto-essenziale nella vita della Chiesa, di ciò che le consente di essere nonostante tutte le resistenze e le avversità, e - dall'altra - la tendenza a far figurare preponderante ciò che non lo è. Quando si trascura o si ignora il quadro delle priorità nel quale si collocano i singoli eventi o pronunciamenti - vuoi del Pontefice, vuoi dell'Episcopato - diventa difficile evitare rappresentazioni parziali o fuorvianti, critiche ideologiche e finanche preconcette, letture volte ad attribuire intenzioni o parole che non hanno motivo di esserci in quei termini. In ogni singola circostanza, alla Chiesa preme, in nome del Vangelo, partecipare alla vita del Paese, e portare il proprio contributo nel libero dibattito culturale e sociale (cfr. Benedetto XVI, Discorso al nuovo Ambasciatore dei Paesi Bassi, 2 ottobre 2009), lieta e grata di essere raccontata dai media per gli argomenti che ella attinge dalla fede come dalla ragione.

Nel prossimo mese di dicembre, e precisamente nei giorni dal 10 al 12, si svolgerà, sotto l'egida della nostra Conferenza episcopale, un convegno internazionale su "Dio oggi", che fin d'ora si presenta come un evento di prima grandezza. Non si parlerà di Dio in modo generico o convenzionale ma, storicizzando la riflessione maturata a partire dalla seconda metà del secolo scorso, si tratterà del Dio personale che in Gesù Cristo è venuto incontro agli uomini, interpellandoli nella loro intelligenza e libertà. Non tuttavia un appuntamento soltanto teologico, bensì interdisciplinare, e che oltre alla filosofia interpellerà la problematica cosmologica e quella antropologica, per lambire il linguaggio dell'arte, della musica, della poesia fino al cinema e alla televisione, ossia le varie espressioni in cui è concretamente rilevabile per l'uomo d'oggi l'accoglienza di Dio, per ciò che significa nella sua vita e nella sua visione del mondo. Si spiega così il sottotitolo assai prezioso:  "Con lui o senza di lui, tutto cambia". Siamo grati al Comitato per il Progetto culturale, e al suo presidente, per questa iniziativa che fin d'ora, ne siamo certi, arricchirà tutti, immettendo input nuovi nei circuiti del pensare colto non solo italiano. Se a questo si collega il rapporto-proposta che su "La sfida educativa" è stato di recente pubblicato, e che è ora in via di presentazione nelle singole regioni, si ha un quadro decisamente confortante del lavoro in corso su un crinale decisivo della nostra missione nel Paese.

Sono vent'anni che l'Europa, in seguito alla caduta del muro di Berlino, ha ripreso a respirare con entrambi i suoi polmoni, per usare l'immagine cara a Giovanni Paolo II, e a percorrere con nuova parresia tutte le strade dell'Europa ormai libera. Cambiamenti vorticosi si sono succeduti, e difficoltà inedite sono affiorate ad Ovest come ad Est, dove l'elemento della secolarizzazione ha finito con l'imporsi quale denominatore comune più rapidamente di quanto si sia radicato il costume democratico. Sappiamo che alla base del cammino europeo non vi possono essere solo strategie politiche o strutture burocratiche, perché le une e le altre - pur necessarie - non sono sufficienti per scaldare i cuori dei singoli e dei popoli in ordine a quel senso di cordiale appartenenza che è indispensabile per sentirsi comunità. L'idea di un'Europa unita si è fatta largo nella mente e nel cuore dei Padri fondatori congiuntamente alla constatazione di quanto il Vangelo aveva lungo i secoli inciso e scavato nella civiltà del vecchio continente. Al punto che di recente il Papa poteva affermare che:  "l'Unione Europea non si è dotata di questi valori ma sono stati piuttosto questi valori condivisi a farla nascere e ad essere forza di gravità che ha attirato verso il nucleo di Paesi fondatori le diverse nazioni che hanno successivamente aderito a essa, nel corso del tempo" (Benedetto XVI, Discorso al nuovo Capo Delegazione della Commissione Comunità Europea, 19 ottobre 2009). Questa annotazione non mira certo a riconoscimenti o condizioni di privilegio. Lo diciamo anche a fronte della sentenza alquanto surreale emessa dalla Corte di Strasburgo, a proposito della presenza dei crocifissi nelle aule scolastiche italiane, nei confronti della quale bene ha fatto il Governo ad annunciare ricorso. Lungi infatti dal minacciare le responsabilità educative della famiglia e quelle laiche di ogni Stato moderno, il crocifisso nella molteplicità dei suoi significati può suggerire solo valori positivi di inclusione, di comprensione reciproca, in ultima istanza di amore vicendevole. Ora, a parte ogni altra valutazione circa il fermo e inalienabile diritto di ciascun popolo alla propria identità culturale (cfr. Benedetto XVI, Discorso al nuovo Ambasciatore di Bulgaria, 31 ottobre 2009), e dunque al vincolante rispetto del principio di sussidiarietà che deve sovrintendere alla dinamica europea, il sorprendente pronunciamento deve fare riflettere su una certa ideologia che non rinuncia a fare capolino nelle circostanze più delicate della vita continentale, quella di un laicismo per cui la neutralità coinciderebbe con l'assenza di valori, mentre la religione sarebbe necessariamente di parte. Ma una simile posizione, oltre ad essere un'impostura, non è mai stata espressa dalla storia e neppure dalla volontà politica degli europei. C'è piuttosto l'obbligo di registrare qui il tentativo di rivalsa che esigue minoranze culturali, servendosi del volto apparentemente impersonale della burocrazia comunitaria, perseguono sulle libere determinazioni dei popoli. Ma per questa strada si mette fuori gioco se stessi e l'Europa - necessaria a se stessa e al mondo - si allontana sempre di più dalla gente.

Quando si parla di valori noi comprendiamo la preoccupazione di chi scorge il rischio sempre insorgente di una certa unilateralità. Rispetto alla quale tuttavia, l'unico antidoto efficace è riconoscere la visione trascendente della persona e la pari dignità di tutti gli esseri umani. Se questo avviene, se cioè tale principio si rivela realmente come il criterio fecondante ogni risorsa e ogni progetto, ecco che si perverrà ad un "giusto e delicato equilibrio fra l'efficienza economica e le esigenze sociali, della salvaguardia dell'ambiente, e soprattutto dell'indispensabile e necessario sostegno alla vita umana dal concepimento fino alla morte naturale, e alla famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna" (Benedetto XVI, Discorso al nuovo Capo Delegazione cit.). È questo un modo con cui il Papa ribadisce quelli che sono i valori profondamente radicati nella struttura dell'essere umano e che già prima dell'elezione al soglio pontificio aveva chiamato "i principi etici che per la loro natura e il loro ruolo di fondamento della vita sociale non sono "negoziabili"" (Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota Dottrinale circa alcune questioni riguardanti l'impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, ii.3). Osserviamo ad esempio che i cosiddetti "principi non negoziabili" sono non l'opposto della flessibilità, ma la condizione di essa. Si può essere flessibili su tutto ciò che chiede una mediazione, da perseguirsi all'occorrenza fino allo spasimo, solo se si sa tenere integro quello che più conta, ciò che è condizione perché il resto avvenga. Forse ogni società non riconosce degli "a priori" che le consentono di affermare se stessa lungo il tempo, di avere un passato, un presente e un futuro?

In questa prospettiva, sia consentito esprimere qualche riserva su due problemi. Il primo riguarda il via libera concesso dall'Aifa, infine e nonostante tutto, alla pillola Ru486. Per nessuno la nostra radicale riserva vuol suonare come una mancanza di rispetto o di stima, e tuttavia non possiamo non dire che l'intera operazione volta a rendere fruibile la controversa pillola non ci ha convinto né come cittadini né come pastori. A questo punto, ciascuno naturalmente si fa carico delle proprie responsabilità circa gli effetti concreti sulla salute delle persone che vi ricorreranno ed il rispetto delle condizioni minime che sono state a fatica riconosciute come indispensabili per la sua assunzione. Nello stesso tempo non si potrà non riconoscere, come già fa la legge 194, la possibilità dell'obiezione di coscienza agli operatori sanitari, compresi i farmacisti e i farmacisti ospedalieri, che non intendono collaborare direttamente o indirettamente ad un atto grave. In queste nostre osservazioni non c'è alcuna sottovalutazione del dramma in cui può trovarsi la donna, in particolare quando il pensiero di interrompere la gravidanza dovesse presentarsi per motivi legati alla condizione economica. Chiediamo anzi a ciascuno, uomo o donna, di accettare di farsi carico responsabilmente dei propri atti, specie quando questi coinvolgono esseri innocenti. La seconda questione riguarda la ventilata ipotesi dell'ora di religione islamica. Non è in discussione, come pure si è detto da qualche parte, la libertà religiosa di chicchessia, ma la peculiarità della scuola e le sue specifiche finalità che - in uno Stato positivamente laico - sono di ordine culturale ed educativo. Infatti, l'insegnamento di religione cattolica, com'è noto, non è un'ora di catechismo, bensì un'occasione di conoscenza che si vuole "assicurare" circa quei "principi del cattolicesimo" che "fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano" (Accordo di revisione del Concordato Lateranense, art. 9). Conoscenza che è indispensabile in ordine ad una convivenza più consapevole e matura.

Un auspicio sia consentito esprimere per quanto riguarda i fondi destinati al sistema dell'istruzione non statale, cioè alla scuola libera:  ci si augura infatti che le cifre inizialmente previste con decurtazioni consistenti, possano essere prontamente reintegrate in modo da consentire agli enti erogatori dei servizi di mantenere gli impegni già assunti.
Un'ultima parola vorrei riservarla al clima politico e mediatico in cui si trova, per la verità non da oggi, il nostro Paese. Si registra infatti un'aria di sistematica e pregiudiziale contrapposizione, che talora induce a ipotizzare quasi degli atteggiamenti di odio:  se così fosse, sarebbe oltremodo ingiusto in sé e pericoloso per la nazione. In ogni caso, si impone una decisa e radicale svolta tanto nelle parole quanto nei comportamenti, diversamente verrebbe prima o poi ad inquinarsi il sentire comune, con conseguenze inevitabili in termini di sfiducia e disaffezione verso la cosa pubblica, e un progressivo ritiro dei cittadini nel proprio particolare. La gente, con i suoi problemi, ha il diritto di cogliersi al primo posto rispetto alle preoccupazioni rimbalzanti dal dibattito sia pubblico che privato. È necessario e urgente svelenire il clima generale, perché da una conflittualità sistematica, perseguita con ogni mezzo e a qualunque costo, si passi subito ad un confronto leale per il bene dei cittadini e del Paese intero. Davvero ci piacerebbe che, nel riconoscimento di una sana - per quanto vivace - dialettica, inseparabile dal costume democratico, si arrivasse ad una sorta di disarmo rispetto alla prassi più bellicosa, che è anche la più inconcludente. Ci rendiamo conto che il compito esige sì da parte di ciascuno un supplemento di buona volontà come di onestà intellettuale, ma anche il superamento di matrici ideologiche che sembrano talora rigurgitare da un passato che non vuole realmente passare.

La Chiesa è presente con la parola del Vangelo che da un capo all'altro del Paese risuona come un continuo richiamo e un lieto annuncio. Una creatività operosa, una collaudata professionalità, una generosità solidale qualificano solitamente l'apporto italiano ovunque si esplichi nel mondo, ben oltre gli stereotipi ingenerosi. Questo patrimonio, senza il quale non esiste popolo ma solo un incrocio di destini individuali talora anche confliggenti, non può essere sciupato né progressivamente eroso per ragioni solo apparenti e magari speciose. La nostra Chiesa non si riconosce in una "religione civile" a servizio di qualche potere, ma si identifica nella missione che le è stata affidata, quella di annunciare a tutti il mistero di Cristo con le implicazioni che ne conseguono sul piano antropologico, etico, cosmologico e sociale. A questo titolo partecipa alla costruzione della città terrena, testimoniando la fede che salva ed eleva l'umano in tutte le sue potenzialità.


(©L'Osservatore Romano - 9-10 novembre 2009)
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Assemblea Generale della Cei ad Assisi: prolusione del card. Bagnasco

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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE AL PRESIDENTE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, 10.11.2009

Pubblichiamo di seguito il Messaggio che il Santo Padre Benedetto XVI ha inviato al Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, Em.mo Card. Angelo Bagnasco, in occasione dei lavori della 60a Assemblea Generale della CEI (Assisi, 9-12 novembre 2009):


MESSAGGIO DEL SANTO PADRE

Al Venerato Fratello
Il Signor Card. Angelo Bagnasco
Presidente della Conferenza Episcopale Italiana


In occasione dei lavori della 60a Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, mi è particolarmente gradito inviare il mio affettuoso saluto a Lei, al Segretario della CEI e a tutti i Pastori della Chiesa che è in Italia, riuniti in Assisi, città simbolo di quella vita cristiana condotta "secondo la forma" del Vangelo, incarnata nell’esistenza di san Francesco e santa Chiara, che continuano ad esercitare in Italia e nel mondo un irresistibile fascino spirituale.
Idealmente presente esprimo a tutti la mia vicinanza spirituale, ben conoscendo lo zelo con cui voi, venerati e cari Fratelli, operate quotidianamente al servizio delle comunità affidate alle vostre cure pastorali. Nei viaggi apostolici che vado compiendo nelle diocesi italiane, come pure in altre occasioni che mi portano a contatto con l’amata Chiesa che è in Italia, incontro comunità vive, salde nel loro legame col Successore di Pietro e nella comunione reciproca. Per questo, "continuamente rendo grazie per voi ricordandovi nelle mie preghiere" (Ef 1,16), insieme ai presbiteri, vostri primi collaboratori nelle fatiche apostoliche, insieme ai diaconi, ai religiosi e alle religiose e ai fedeli laici che condividono la vostra gioia e la vostra responsabilità di testimoni di Cristo in ogni ambito della società italiana. Questi periodici incontri - ne sono certo - alimentano la vostra reciproca cooperazione indispensabile per realizzare il mandato, che contraddistingue la vostra azione apostolica, di incrementare nel popolo cristiano la fede, la speranza e la carità, di alimentare i rapporti con le altre comunità religiose e le autorità civili, di operare per la presenza del lievito del Vangelo nella cultura e nel tessuto della società italiana, per la tutela della vita umana, per la promozione della pace e della giustizia e per la difesa del creato. Lo scambio e la fraternità che caratterizzano i vostri lavori assembleari danno forza e vivacità all’impegno comune per l’unica Chiesa di Cristo e per la crescita del tessuto umano della società.
Sono trascorsi pochi mesi dal nostro incontro in occasione dell’Assemblea Generale svoltasi a maggio, nel corso della quale è stata individuata nell’educazione la prospettiva di fondo degli orientamenti pastorali per il prossimo decennio. L’emergere dell’istanza educativa è un segno dei tempi che provoca l’Italia intera a porre la formazione delle nuove generazioni al centro dell’attenzione e dell’impegno di ciascuno, secondo le rispettive responsabilità e nel quadro di un’ampia convergenza di intenti.
Come ricordavo nel mio intervento del 28 maggio scorso, l’educazione è "una esigenza costitutiva e permanente della vita della Chiesa" e si colloca nel cuore della sua missione, volta a far sì che ogni persona possa incontrare e seguire il Signore Gesù, Via che conduce all’autenticità dell’amore, Verità che ci viene incontro e Vita del mondo.
La sfida educativa attraversa tutti i settori della Chiesa ed esige che siano affrontate con decisione le grandi questioni del tempo contemporaneo: quella relativa alla natura dell’uomo e alla sua dignità - elemento decisivo per una formazione completa della persona - e la "questione di Dio", che sembra quanto mai urgente nella nostra epoca.
Vorrei richiamare, in proposito, ciò che ebbi a dire, il 24 luglio scorso,
durante la celebrazione dei Vespri nella Cattedrale di Aosta: "Se la relazione fondamentale - la relazione con Dio - non è viva, non è vissuta, anche tutte le altre relazioni non possono trovare la loro forma giusta. Ma questo vale anche per la società, per l’umanità come tale. Anche qui, se Dio manca, se si prescinde da Dio, se Dio è assente, manca la bussola per mostrare l’insieme di tutte le relazioni per trovare la strada, l’orientamento dove andare. Dio! Dobbiamo di nuovo portare in questo nostro mondo la realtà di Dio, farlo conoscere e farlo presente" (L’Osservatore Romano, 26 luglio 2009, p. 8)
Perché ciò si realizzi occorre che noi per primi, cari Fratelli Vescovi, con tutto il nostro essere, diventiamo adorazione vivente, dono che trasforma il mondo e lo restituisce a Dio. È questo il messaggio profondo
dell’Anno Sacerdotale, che costituisce una straordinaria occasione per andare al cuore del ministero ordinato, riconducendo a unità, in ciascun sacerdote, l’identità e la missione. Sono contento di vedere come, nelle vostre Diocesi, questa speciale proposta stia generando non poche iniziative soprattutto di carattere spirituale e vocazionale, e contribuisca a mettere in luce il cammino di santità tracciato nel tempo da tanti Vescovi e presbiteri italiani. La storia d’Italia, infatti, è anche la storia di un’innumerevole schiera di sacerdoti che si sono chinati sulle ferite di un’umanità smarrita e sofferente, facendo di se stessi un’offerta di salvezza. Mi auguro che possiate raccogliere abbondanti frutti da questa corale preghiera e meditazione sul dono del sacerdozio, scaturito dal cuore di Cristo per la salvezza del mondo.
Un altro tema al quale sarà dedicato ampio spazio nei lavori della vostra Assemblea, è la "questione meridionale". A vent’anni dalla pubblicazione del documento "Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno", avvertite il bisogno di farvi voce e carico delle esigenze di un Paese che non crescerà se non insieme. Nelle terre del Sud la presenza della Chiesa è germe di rinnovamento, personale e sociale, e di sviluppo integrale. Possa il Signore benedire gli sforzi di coloro che operano, con la tenace forza del bene, per la trasformazione delle coscienze e la difesa della verità dell’uomo e della società.
Nel corso della vostra Assemblea, inoltre, verrà esaminata la nuova edizione italiana del Rito delle esequie. Essa risponde alla necessità di coniugare la fedeltà all’originale latino con gli opportuni adattamenti alla situazione nazionale, facendo tesoro dell’esperienza maturata dopo il Concilio Vaticano II, con sguardo attento al mutato contesto socio-culturale e alle esigenze della nuova evangelizzazione. Il momento delle esequie costituisce un’importante occasione per annunciare il Vangelo della speranza e manifestare la maternità della Chiesa. Il Dio che "verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti", è Colui che "asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno" (Ap 21,4). In una cultura che tende a rimuovere il pensiero della morte, quando addirittura non cerca di esorcizzarla riducendola a spettacolo o trasformandola in un diritto, è compito dei credenti gettare su tale mistero la luce della rivelazione cristiana, certi "che l’amore possa giungere fin nell’aldilà, che sia possibile un vicendevole dare e ricevere, nel quale rimaniamo legati gli uni agli altri con vincoli di affetto" (Spe salvi, 48).
Signor Cardinale e venerati Fratelli nell’Episcopato, cinquant’anni fa, al termine del XVI Congresso Eucaristico Nazionale e dopo una straordinaria Peregrinatio Mariae, i Vescovi italiani vollero consacrare l’Italia al Cuore Immacolato di Maria. Di tale atto così significativo e fecondo, voi rinnoverete la memoria, confermando il particolarissimo legame di affetto e devozione che unisce il popolo italiano alla celeste Madre del Signore. Volentieri mi unisco a questo ricordo, affidando i lavori della vostra Assemblea, la Chiesa che è in Italia e l’intera Nazione alla materna protezione della Vergine Maria, Regina degli Angeli e immagine purissima della Chiesa. Invoco la sua intercessione, con quella dei santi Francesco e Chiara d’Assisi e di tutti i santi e le sante della terra italiana. Con tali sentimenti imparto di cuore a Lei, ai Vescovi, ai loro collaboratori e a tutti i presenti la Benedizione Apostolica.

Dal Vaticano, 4 novembre 2009

BENEDICTUS PP. XVI

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12/11/2009 07:06

Il documento della Conferenza episcopale italiana sul Mezzogiorno

L'impegno di tutti per sconfiggere le mafie


Assisi, 11. Difficoltà, ma anche notevoli potenzialità di carattere materiale, economico, culturale e morale. Tutte qualità che, in particolare nel Mezzogiorno, devono essere utilizzate anche per sconfiggere la criminalità organizzata e per realizzare "una cultura della legalità". L'Italia descritta dai vescovi, riuniti ad Assisi per la loro sessantesima assemblea generale, ha bisogno di discutere in maniera costruttiva dei problemi e delle prospettive che riguardano la gente, piuttosto che di un "clima continuamente polemico", ha bisogno, partendo da istituzioni educative come la famiglia e la scuola, di un impegno comune "per valorizzare le potenzialità presenti nel Paese evitando giudizi unilaterali".
L'intervento, alla conferenza stampa di ieri, del vescovo Mariano Crociata, segretario generale della Conferenza episcopale italiana (Cei), ha spaziato su numerosi argomenti, dalla situazione complessiva del Paese alla questione immigrati, ai documenti sul nuovo rito delle esequie e sul Mezzogiorno. Un documento, quest'ultimo, che sta particolarmente a cuore all'episcopato italiano. Rispondendo a una domanda sul testo (che sarà approvato domani, giorno conclusivo dell'assemblea) e sulle recenti inchieste riguardanti rapporti tra politica e criminalità organizzata, monsignor Crociata ha richiamato le parole, il "grido" di Giovanni Paolo II nella valle dei Templi ad Agrigento, il 9 maggio 1993, quando evocò il giudizio di Dio sulla mafia. "È evidente - ha spiegato il vescovo emerito di Noto - che il tema della criminalità organizzata è ben presente nel documento; una realtà drammatica ma non insuperabile, non invincibile". Per sconfiggere questo fenomeno che soffoca "l'Italia intera e non solo il Sud", occorre veramente l'impegno di tutti, a partire dalle istituzioni, e non può certo bastare la "pur meritevole" esclusione dei criminali dalla comunità ecclesiale. Al riguardo, il segretario della Cei ha detto che "per coloro che aderiscono a queste organizzazioni non servono scomuniche, perché di fatto chi ne fa parte è già fuori dalla comunione ecclesiale, anche se si ammanta di comportamenti religiosi".
Il vescovo, parlando delle istituzioni impegnate sul fronte antimafia, ha citato l'azione della magistratura e degli organi di sicurezza. Ma "dobbiamo fare di più", perché la soluzione "non è solo la pur necessaria repressione ma riguarda la mentalità, la crescita della coscienza civile, culturale e umana, a partire dai giovani". La Chiesa vuole fare la sua parte e invita a muoversi con decisione anche perché "nel Meridione si sono conosciute espressioni di reazione positiva da parte di settori della società civile, giovani, imprenditori, associazioni", che vanno sostenute. Impegno "che sta crescendo e che sarebbe auspicabile divenisse corale", ha detto Crociata. Un quadro della situazione che può essere esteso al Paese intero:  nessun "declino", nessun "catastrofismo", semplicemente il bisogno di una guida responsabile che sia al servizio della nazione.
Sul tema delle migrazioni e dell'attenzione che occorre dare a questo rilevante fenomeno, non c'è da parte della Conferenza episcopale italiana una proposta definitiva. Il segretario generale ha spiegato che "si raccolgono segnalazioni da parte delle realtà del volontariato che ci confermano come sia necessario procedere secondo i due concetti di fondo già enunciati:  accoglienza da un lato e garanzia della sicurezza dall'altro". Monsignor Crociata ha poi definito "un'esigenza legittima", considerato anche il numero di musulmani in Italia, l'eventuale destinazione di porzioni dei cimiteri ai defunti di religione islamica.
Riguardo al nuovo rito delle esequie (approvato oggi), i vescovi non sono contrari alla possibilità di cremare i cari estinti, pratica ammessa dal Codice di diritto canonico:  "La cremazione sarà una modalità possibile - ha detto Crociata - ma con la sottolineatura che rimane immutato l'annuncio della risurrezione dei corpi", in quanto non bisogna "assecondare quella mentalità che lascia pensare che, cremandosi, un corpo va nel nulla". Più in generale, secondo la Cei, "sarebbe opportuno che le persone imparassero a rapportarsi in maniera consapevole con l'unica cosa certa della vita:  la propria morte". Invece, oggi, "o c'è la sua rimozione pressoché totale, oppure si assiste, al contrario, alla sua spettacolarizzazione".



(©L'Osservatore Romano - 12 novembre 2009)
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12/11/2009 08:11

Funerali, stop ai ricordi degli amici a parlare sarà soltanto il sacerdote

di Andrea Tornielli

nostro inviato ad Assisi

Basta panegirici e commemorazioni del «caro estinto» che rischiano talvolta di beatificarlo prima del tempo. Basta discorsi e testimonianze di amici e parenti che ricordano il defunto prolungando la celebrazione.
In chiesa si farà solo il funerale con l’omelia del prete: tutto il resto, se si vuole, si potrà fare, ma fuori dal tempio oppure al momento della tumulazione e dunque non avrà più nulla a che vedere con la liturgia funebre.
È quanto hanno stabilito i vescovi italiani nel nuovo «Rito delle esequie» sul quale hanno lungamente discusso durante l’assemblea generale in corso ad Assisi.
Confermato invece il sì alla cremazione e ai funerali in chiesa per chi si è fatto cremare, purché risulti evidente che tale scelta non sia motivata dal disprezzo della fede cristiana nella resurrezione dei corpi.
Le ceneri non si potranno conservare in casa, andranno tumulate in cimitero o in altro luogo sacro, e per quanto riguarda la loro «dispersione», questa potrà avvenire solo in apposite aree benedette.
Il giro di vite sui panegirici contenuto nel documento, che prima di entrare in vigore dovrà ottenere il placet della Santa Sede, è destinato a mutare una prassi in molti casi consolidata. Del defunto, al momento delle esequie, non si può dire che bene. Accade spesso che al termine della messa, qualcuno dei presenti, legato alla persona scomparsa, la ricordi con una testimonianza personale. Accenni, racconti, aneddoti che possono aiutare a fissare nella memoria dei presenti alcuni dei tratti salienti della personalità del «caro estinto», ma che rischiano anche di sfociare in eccessi, esaltazioni fuori luogo che poco si addicono alla celebrazione.
Bisogna riconoscere che non di rado sono proprio le parole dell’amico o del collega a mettere in luce aspetti positivi – magari meno noti – riguardanti il defunto, a fronte di omelie che rischiano a volte di suonare un po’ anonime. Ma se i vescovi hanno voluto codificare il divieto nel nuovo documento, significa che la prassi che si sta diffondendo è considerata inopportuna e rischia di provocare falsa compassione, eccessi emotivi o esaltazioni fuori luogo. Con questa decisione la Cei non intende rendere impersonale il rito funebre, ma piuttosto richiamare alla sobrietà, a ciò che è essenziale.
«Sono i momenti nei quali – ha detto lunedì scorso il cardinale Angelo Bagnasco aprendo i lavori – ci si rende conto dell’influenza di talune visioni spurie o paganeggianti. L’annuncio del Dio vero, amante della vita, che non fa scherzi macabri, il richiamo che con la morte la vita non è tolta ma trasformata, e che chi è vocato all’altra sponda non ci viene sottratto ma resta a noi più vicino di prima e ci attende: ecco ciò di cui c’è bisogno, in una cultura che progressivamente sembra slittare verso forme post-cristiane».
Sarà interessante vedere come le disposizioni saranno applicate soprattutto nei casi di esequie di personaggi famosi.

© Copyright Il Giornale, 12 novembre 2009 consultabile online anche
qui .
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Il comunicato finale dell'assemblea della Cei


Roma, 17. La Conferenza episcopale italiana (Cei) ha reso noto il comunicato finale della sessantesima assemblea generale che si è svolta ad Assisi-Santa Maria degli Angeli dal 9 al 12 novembre, con la partecipazione di duecentodue membri e otto vescovi emeriti. Tra gli invitati, docenti ed esperti in ragione dei diversi punti all'ordine del giorno. "È stato molto apprezzato - si legge nella nota - il clima di condivisione, favorito dal carattere residenziale dell'incontro, che si è manifestato, oltre che nei lavori e nei momenti conviviali, nella preghiera liturgica. Particolarmente toccante è stata la celebrazione eucaristica, presieduta dal cardinale presidente, nel cinquantesimo anniversario della consacrazione dell'Italia al Cuore immacolato di Maria".
Nel corso dell'assemblea generale, i vescovi hanno approvato la nuova edizione del Rito delle esequie, libro che sarà pubblicato una volta ottenuta la prescritta autorizzazione (recognitio) della Sede apostolica. È stata inoltre approvata la bozza della nota su Chiesa e Mezzogiorno, stabilendo che il documento sarà reso pubblico dopo l'ultima lettura rimessa al Consiglio episcopale permanente, che si riunirà nel mese di gennaio.
Durante i lavori - prosegue il comunicato finale - si è proceduto all'elezione di un vice presidente della Cei per l'area centro, nella persona di monsignor Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia - Città della Pieve. Sono state poi presentate "le iniziative indette a livello nazionale e diocesano in occasione dell'Anno sacerdotale ed è stata illustrata l'indagine per la rilevazione delle opere sanitarie e sociali di ispirazione ecclesiale in Italia. Sono state fornite informazioni puntuali in merito a due eventi di rilevante importanza previsti nei prossimi mesi, cioè l'ostensione della Sindone (Torino, 10 aprile-23 maggio 2010) e il convegno Testimoni digitali (Roma, 22-24 aprile 2010)". Unanime apprezzamento è stato infine espresso "per gli spunti di approfondimento e di riflessione contenuti nelle due relazioni accademiche concernenti la questione antropologica, alla luce del nesso fra etica della vita ed etica sociale, e l'immagine della Chiesa in rapporto alla comunicazione mediatica".
La presidenza della Cei ha approvato il nuovo statuto del Centro studi per la scuola cattolica e ha provveduto alle nomine di don Daniel Balditarra (Compagnia di San Paolo), don Giorgio Begni (Milano) e don Ambrogio Pisoni (Milano) ad assistenti ecclesiastici dell'Università cattolica del Sacro Cuore (sede di Milano), e di don Mauro Bianchi (Piacenza-Bobbio) ad assistente ecclesiastico dell'Università cattolica del Sacro Cuore (sede di Piacenza). Il Consiglio episcopale permanente ha invece provveduto alle nomine del vescovo Mariano Crociata, segretario generale della Cei, a rappresentante nel consiglio di amministrazione dell'Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, di monsignor Giancarlo Perego (Cremona) a direttore generale della fondazione Migrantes, e di monsignor Giovanni Giudici, vescovo di Pavia, a presidente del consiglio nazionale dell'associazione Pax Christi.



(©L'Osservatore Romano - 18 novembre 2009)
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