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Sviluppo umano integrale per la salvaguardia del creato

Ultimo Aggiornamento: 22/11/2009 10:53
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Il segretario generale della Cei a un convegno dell'Università Cattolica del Sacro Cuore

Sviluppo umano integrale per la salvaguardia del creato


In occasione del convegno "L'ambiente conteso. Ricerca e formazione tra scienza e governance dello sviluppo umano" tenutosi oggi a Brescia presso l'aula magna dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, pubblichiamo stralci dell'intervento svolto dal vescovo segretario generale della Conferenza episcopale italiana (Cei).


di Mariano Crociata

Il tema che mi è stato chiesto di proporre si articola secondo un binomio:  sviluppo umano integrale e salvaguardia del creato. Di fatto la categoria di "sviluppo" ha un riferimento privilegiato, anche se non esclusivo, nella lettera enciclica di Paolo VI Populorum progressio di cui la recente enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate ha voluto celebrare il quarantesimo anniversario. In realtà, per intendere le questioni implicate nell'enunciazione del nostro tema, bisogna almeno succintamente risalire ai presupposti teologici e morali che sorreggono tali contenuti della dottrina sociale della Chiesa.

A tal fine le categorie portanti di riferimento sono quelle di uomo e di creato, perché sulla base della loro comprensione si intende il senso dello sviluppo dell'uno e della salvaguardia dell'altro, nonché della loro correlazione.

Al riguardo, è diventata quasi un luogo comune l'affermazione, riguardo al primo termine, dell'addebito a carico dell'antropologia ebraico-cristiana della colpa di uno sfruttamento incontrollato della terra e delle sue risorse in nome di una superiorità arbitraria sulla natura; dall'altro lato, la preoccupazione della salvaguardia dell'ambiente naturale raggiunge forme di radicalizzazione ideologica che non teme di ridurre l'umanità al livello di una specie vivente tra le altre. L'una e l'altra rappresentano estremizzazioni di un rapporto che, mancando di cogliere adeguatamente i termini in questione, non riesce a trovare il suo equilibrio.

Come devono essere pensati l'uomo e il creato per stare tra loro nel giusto rapporto? Già il termine "creato" orienta una riflessione che, senza essere estranea o inarrivabile per la ragione, attinge alla rivelazione cristiana le condizioni del suo essere posta e svolta. Infatti una categoria come quella di natura, se sradicata da ogni fondamento ontologico, rende inintelligibile la peculiarità dell'antropologico rispetto al cosmologico. Di fatto una teologia cristiana della creazione presenta una compiuta visione antropologica e cosmologica, che non legittima dissociazioni e nemmeno confusioni di sorta. Gli elementi costitutivi di una tale teologia sono riconducibili a un atto di Dio non mediato da altri o da altro (ex nihilo), il cui risultato è il venire all'esistenza di un essere fuori di lui, allo stesso tempo ontologicamente dipendente e distinto, nonché dotato di una differenziata autonomia e della capacità di attività propria. Il carattere singolare della creazione è il suo essere allo stesso tempo tenuta in esistenza, sul piano ontologico, dalla costante attività creatrice di Dio e dotata, sul piano temporale e cosmico, di autonomia e capacità operativa. Una visione teologica non legittima, dunque, alcuna concezione della creazione come opera finita e fissata una volta per tutte.

Ciò che assume il maggior rilievo dal punto di vista della nostra riflessione riguarda la simultaneità tra differenziazione e unitarietà dell'opera creatrice di Dio. La differenziazione si rileva nelle differenti modalità del darsi degli esseri esistenti e viventi, fino all'uomo quale persona pervenuta alla coscienza di sé, all'intelligenza, alla libertà; l'unitarietà sta nel fatto che anche la persona umana vive di una condivisione essenziale di tutte le dimensioni cosmiche e fisiche fino a quella minerale. La creazione di Dio è un tutto al proprio interno collegato armonicamente; di più, ha quasi un carattere personalizzabile, poiché essa tutta parla in qualche modo della sua origine nell'iniziativa personale di Dio e si trova a venire personalizzata nell'essere umano che al creatore può rispondere a partire dalla sua coscienza (cfr. Sapienza, 13, 1-9; Lettera ai Romani, 1, 18-23).

La  sfida  che  l'enciclica  di  Benedetto XVI acutamente ripropone toglie la carità dalla sua presunta marginalità, che la relega nello spazio della coscienza privata, per riconoscerle il rilievo pubblico e politico che le compete. Essa non si riduce alla cura del povero e alla relazione di aiuto al bisognoso, ma piuttosto informa le dimensioni costitutive del vivere sociale e configura l'ethos collettivo. Questo implica il superamento dello schema individualistico della costruzione sociale, secondo cui anzitutto si dà l'individuo, quasi a prescindere dai rapporti sociali e culturali, considerati il frutto di una convenzione, di un contratto tra individui. Si tratta invece di cogliere e affermare che "la stessa identità dell'individuo è mediata dalla relazione sociale:  l'individuo sorge nel rapporto coi genitori, si costruisce nel legame uomo donna e vive attraverso la relazione di fraternità. È attraverso queste relazioni, presenti nel costume e nella cultura (in senso antropologico), che è possibile alla coscienza morale di volere e al rapporto sociale di offrire una grammatica alla convivenza tra gli umani". Il valore politico della carità scaturisce dal fatto che rapporto fraterno e rapporto sociale, tra essere prossimo ed essere socio, sono distinti ma in stretta correlazione. "Non si dà separazione tra singolo e società, tra coscienza e diritto". Come dice ancora il Papa:  "La questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica". Ma in tal modo, anche, essa non ha perduto, anzi ha riscoperto la sua radice teologica, poiché la carità che viene dalla Trinità non solo informa le coscienze ma plasma lo spazio sociale.

Il proprio della carità, come delle dimensioni del dono e della gratuità che concorrono a esprimerla, è il suo carattere di eccedenza. Ma a ben vedere l'eccedenza, il di più, è proprio nella logica della creazione e dell'esistenza.

In questo senso il tema dello sviluppo sta in una relazione intima con la struttura stessa dell'uomo e dell'intera creazione. Esso però, senza perdere quella relazione, va adottato nel significato assunto nella dottrina sociale della Chiesa, da cui emerge la distanza da un concetto di sviluppo a preminente caratterizzazione economica, diffuso fino a non molto tempo fa, o anche da un modello come quello utilizzato da organismi internazionali che, per esempio, individuano l'Indice di sviluppo umano nelle tre dimensioni della longevità, della conoscenza e dello standard decente di vita.

Secondo Paolo VI "lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l'uomo". "Il vero sviluppo è il passaggio per ciascuno e per tutti, da condizioni meno umane a condizioni più umane"; "fare, conoscere, avere di più, per essere di più:  ecco l'aspirazione degli uomini di oggi"; "lo sviluppo integrale dell'uomo non può avere luogo senza lo sviluppo solidale dell'umanità". E Giovanni Paolo II riprenderà il tema sottolineando come gli uomini sono i soggetti e lo scopo del vero sviluppo, che "non è un processo rettilineo, quasi automatico e di per sé illimitato, come se, a certe condizioni, il genere umano debba camminare spedito verso una perfezione indefinita".

Lo sviluppo umano, quindi, esige un'apertura che sola lo rende integrale. "Non v'è dunque umanesimo vero - scriveva Paolo VI - se non aperto verso l'Assoluto, nel riconoscimento d'una vocazione, che offre l'idea vera della vita umana. Lungi dall'essere la norma ultima dei valori, l'uomo non realizza se stesso che trascendendosi". Qui l'essere di più acquista le proporzioni che solo il Vangelo, "elemento fondamentale dello sviluppo" nelle parole di Benedetto XVI, riesce a dare. La Chiesa se ne fa carico con tutto il suo essere e il suo agire, perciò propone lo sviluppo come vocazione e come libertà responsabile, consapevole che esso è integrale se abbraccia tutte le dimensioni dell'umano, materiale, spirituale e morale, avendo "la carità cristiana come principale forza a servizio".

Possiamo considerare acquisito che non c'è sviluppo umano senza salvaguardia del creato, ma anche viceversa che il creato non viene salvaguardato cancellando la specificità antropologica o trascurando la stretta connessione tra ecologia ambientale ed ecologia umana. Tale equilibrio e mutua implicazione tra sviluppo e sostenibilità verrà mantenuto a condizione di ancorare la responsabilità a una visione teologica della natura come creazione e a una prospettiva escatologica di compimento (cfr. Lettera ai Romani, 8, 19-23) nel quale l'intero cosmo entrerà nella pienezza del definitivo.


(©L'Osservatore Romano - 21 novembre 2009)
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Sviluppo umano integrale per la salvaguardia del creato

ROMA, sabato, 21 novembre 2009 (ZENIT.org).-

Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da mons. Mariano Crociata, Segretario generale della Conferenza episcopale italiana, intervenendo a Brescia, il 20 novembre, all’incontro organizzato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore sul tema dello “Sviluppo umano integrale per la salvaguardia del creato".


* * *

Il tema che mi è stato chiesto di proporre alla vostra riflessione si articola secondo un binomio: sviluppo umano integrale e salvaguardia del creato. L’enunciazione esclude una loro contrapposizione o anche solo l’estraneità tra i due termini, ma attende che sia spiegato se e come essi stiano in relazione reciproca. Prima ancora, però, essa richiede una esplicitazione del contenuto di ciascuno, tenendo conto del ruolo da essi giocato nella dottrina sociale della Chiesa e, più in generale, nell’insegnamento del magistero e nel cammino ecumenico. Di fatto la categoria di ‘sviluppo’ ha un riferimento privilegiato, anche se non esclusivo, nella Lettera enciclica di Paolo VI, Populorum progressio (26 marzo 1967), di cui la recente enciclica di Benedetto XVI, Caritas in veritate (29 giugno 2009), ha voluto celebrare il quarantesimo anniversario, peraltro ricollocandone il messaggio in una più ampia e originale prospettiva. ‘Salvaguardia del creato’, invece, costituisce una formula che contraddistingue la peculiarità dell’approccio ecclesiale al problema ecologico, oggi così acutamente avvertito, e rappresenta un ambito caratteristico dell’impegno ecumenico delle Chiese, oltre che della Chiesa cattolica nel suo insieme e nelle sue varie articolazioni, da quelle continentali a quelle nazionali1.
L’orizzonte teologico della creazione
In realtà per intendere le questioni implicate nell’enunciazione del nostro tema, bisogna almeno succintamente risalire ai presupposti teologici e morali che sorreggono tali contenuti della dottrina sociale della Chiesa. A tal fine le categorie portanti di riferimento sono quelle di uomo e di creato, perché sulla base della loro comprensione si intende il senso dello sviluppo dell’uno e della salvaguardia dell’altro, nonché della loro correlazione.
Al riguardo, è diventata quasi un luogo comune l’affermazione, riguardo al primo termine, dell’addebito a carico dell’antropologia ebraico-cristiana della colpa di uno sfruttamento incontrollato della terra e delle sue risorse in nome di una superiorità arbitraria sulla natura; dall’altro lato, la preoccupazione della salvaguardia dell’ambiente naturale raggiunge forme di radicalizzazione ideologica che non teme di ridurre l’umanità al livello di una specie vivente tra le altre. L’una e l’altra rappresentano estremizzazioni di un rapporto che, mancando di cogliere adeguatamente i termini in questione, non riesce a trovare il suo equilibrio. Come devono essere pensati l’uomo e il creato per stare tra loro nel giusto rapporto?
In realtà già il termine ‘creato’ orienta una riflessione che, senza essere estranea o inarrivabile per la ragione, attinge alla rivelazione cristiana le condizioni del suo essere posta e svolta. Infatti una categoria come quella di natura, se sradicata da ogni fondamento ontologico, rende inintelligibile la peculiarità dell’antropologico rispetto al cosmologico.
Di fatto una teologia cristiana della creazione presenta una compiuta visione antropologica e cosmologica, che non legittima dissociazioni e nemmeno confusioni di sorta. Gli elementi costitutivi di una tale teologia sono riconducibili a un atto di Dio non mediato da altri o da altro (ex nihilo), il cui risultato è il venire all’esistenza di un essere fuori di lui, allo stesso tempo ontologicamente dipendente e distinto, nonché dotato di una differenziata autonomia e della capacità di attività propria2. Il carattere singolare della creazione è il suo essere allo stesso tempo tenuta in esistenza, sul piano ontologico, dalla costante attività creatrice di Dio e dotata, sul piano temporale e cosmico, di autonomia e capacità operativa. Una visione teologica non legittima, dunque, alcuna concezione della creazione come opera finita e fissata una volta per tutte.
Ciò che assume il maggior rilievo dal punto di vista della nostra riflessione riguarda la simultaneità tra differenziazione e unitarietà dell’opera creatrice di Dio. La differenziazione si rileva nelle differenti modalità del darsi degli esseri esistenti e viventi, fino all’uomo quale persona pervenuta alla coscienza di sé, all’intelligenza, alla libertà; l’unitarietà sta nel fatto che anche la persona umana vive di una condivisione essenziale di tutte le dimensioni cosmiche e fisiche fino a quella minerale. La creazione di Dio è un tutto al proprio interno collegato armonicamente; di più, ha quasi un carattere personalizzabile, poiché essa tutta parla in qualche modo della sua origine nell’iniziativa personale di Dio e si trova di fatto a venire personalizzata nell’essere umano che al creatore può rispondere a partire dalla sua coscienza (cf. Sap 13,1-9; Rm 1,18-23).
Secondo la visione cristiana il rapporto dell’essere umano con la terra appare fondato nella stessa costituzione dell’essere umano, che ha bisogno di essa per vivere e che ad essa promette la possibilità di assunzione unitaria nell’ordine della coscienza umana condivisa. La capacità di vita e attività autonoma della creazione conferisce alla terra, e in essa all’uomo, il compito di vivere e crescere. Considerare questa visione della creazione come ancora separata ed estranea alla rivelazione in Cristo è internamente contraddittorio, poiché non accede alla verità della grazia che sarà pienamente manifesta con Cristo. In realtà già la creazione è grazia, è dono, posta come condizione e orizzonte dell’avvento della pienezza della grazia. Come già i Padri della Chiesa avevano chiaramente intuito e insegnato, tutta la creazione è in vista di Cristo, poiché in lui tutta la creazione trova anticipatamente realizzato ciò per cui è stata voluta e a cui è destinata3.
Ma il carattere cristico della creazione appare impresso in modo singolare nella struttura dell’essere umano considerato nella sua costitutiva libertà. Anzi si deve riconoscere nell’uomo una partecipazione all’essere e all’agire di Dio e una vera e propria creatività; in questo senso «esiste una storia della libertà dell’uomo per la quale il cosmo nel suo complesso è un presupposto, uno spazio di esistenza e, a motivo della corporeità umana, anche un momento intrinseco»4 del suo compiersi. In Cristo si rivela il senso e il fine ultimo della realtà: in lui appare pienamente che la creazione tutta ha già in sé il carattere di segno dell’affidabilità e della bontà del fondamento ultimo della realtà. «Ora tale riconoscimento è possibile solo in forza dell’uomo il quale si decide, affidandosi nella fede a Dio quale senso ultimo. L’uomo, infatti, non viene al mondo né da solo, né per primo, ma si trova posto nel mondo: per questo deve lasciarsi istruire sul senso della vita dall’anticipazione promettente del mondo in cui si trova e che pertanto appella alla sua decisione etico-religiosa»5.
Questa decisione è sempre minacciata dal peccato, che si manifesta come pretesa di assoggettare il mondo, «negandogli la sua qualità di dimora, in cui si anticipa il carattere buono del venire all’esistenza non solo per sé, ma tendenzialmente per tutti. [… In una teologia cristiana della creazione, allora,] si può pensare a una salvaguardia dell’ambiente che non si fondi su un rispetto non ulteriormente determinabile, ma che diventi quella “dimora” della libertà per sé e per gli altri, che è anticipo e segno della terra promessa: propriamente la comunione al Padre nello Spirito mediante il Cristo risorto»6.
L’emergere della responsabilità etica
In un tale orizzonte teologico uomo e creato si trovano dunque costitutivamente connessi. Il compito etico vi si inserisce come risposta a una chiamata, come esercizio di quella costitutiva autonomia e libertà creaturale che definisce l’essere umano7. In particolare sono da segnalare due atteggiamenti che scaturiscono dalla visione cristiana della realtà e che attendono di essere tradotti in scelte responsabili coerenti.
Il primo di questi atteggiamenti lo troviamo evocato al n. 48 della Caritas in veritate, secondo la quale l’ambiente naturale « è stato donato da Dio a tutti […]. La natura è espressione di un disegno di amore e di verità. Essa ci precede e ci è donata da Dio come ambiente di vita». Il dato della precedenza e il carattere di dono propri della creazione chiedono una coscienza corrispondente che sola può collocare nella giusta relazione con la realtà tutta, a cominciare da se stessi. Il potere di devastazione ha la sua radice sempre nell’illusione tragica dell’essere umano di non avere nessuno prima di sé e nemmeno dopo di sé, di non dover rispondere a nessuno, di non dovere a nessuno ciò che è e ciò che ha. Il rapporto con l’ambiente si decide in quel primo barlume di coscienza che fa riconoscere di essere figlio e fratello e padre, di non essere padrone assoluto di alcunché, perché chiunque per vivere ha bisogno di aria, di sole, di cibo e frutti della terra, e prima ancora di affetti e legami, di servizi e di cure. La teologia della creazione è da un lato un principio di intelligibilità del reale, dall’altro ci porta alla coscienza del senso della dipendenza e del senso del limite, della propria finitezza, del bisogno che abbiamo di tutto e di tutti. Senza questa coscienza non c’è rapporto di realtà con l’ambiente attorno a sé, ma neanche con se stessi, e non c’è prospettiva etica di sorta, e non solo in rapporto all’ambiente. Poiché l’etica si tiene tutta, sta nell’intero, dalle piccole alle grandi cose. In questo senso può essere intesa l’ecologia umana di cui parla la Caritas in veritate al n. 518, o anche il legame strettissimo posto tra etica della vita ed etica sociale al n. 159.
Accanto all’atteggiamento che si configura come senso della creaturalità, dell’essere preceduti e accompagnati, l’altro atteggiamento ancora più centralmente indicato dall’enciclica è quello della carità, che fa passare dal ricevere in dono al farsi dono e agire nella logica del dono. In una prospettiva che giustamente può essere ricondotta alla «”ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa»10, l’enciclica Caritas in veritate rappresenta, rispetto all’insegnamento sociale della Chiesa, un esempio particolarmente significativo di «ermeneutica della continuità creativa»11, poiché, collegando la dottrina sociale al centro del mistero trinitario, ne fornisce una interpretazione forte cogliendo nella carità il suo «principio istitutivo». L’enciclica smaschera la riduzione sentimentale e terapeutica della carità, che la rende marginale, e la pone, invece, al centro dei rapporti sociali, anzi della stessa azione sociale e politica.
Tale riposizionamento centrale, che esprime la verità della carità, viene ottenuto mediante il riallineamento del rapporto tra giustizia e carità, analogamente a quanto detto circa il rapporto tra ragione e fede12. Il Papa infatti precisa, «da un lato, che la logica del dono non esclude la giustizia e non si giustappone ad essa in un secondo momento e dall’esterno e, dall’altro, che lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità»13. Qui troviamo un punto nevralgico dell’insegnamento dell’enciclica che contrasta frontalmente una dissociazione tipica, e quasi scontata, nella concezione della giustizia separata dalla coscienza; «la giustizia può regolare i rapporti civili e si prefigge il consenso sociale, mentre la carità farebbe leva solo sulle convinzioni personali e non può essere che richiamata alla coscienza di ciascuno»14.
La sfida che l’enciclica acutamente ripropone, invece, toglie la carità dalla sua presunta marginalità, che la relega nello spazio della coscienza privata, per riconoscerle il rilievo pubblico e politico che le compete. Essa non si riduce alla cura del povero e alla relazione di aiuto al bisognoso, ma piuttosto informa le dimensioni costitutive del vivere sociale e configura l’ethos collettivo. Questo implica il superamento dello schema individualistico della costruzione sociale, secondo cui anzitutto si dà l’individuo, quasi a prescindere dai rapporti sociali e culturali, considerati il frutto di una convenzione, di un contratto tra individui. Si tratta invece di cogliere e affermare che «la stessa identità dell’individuo è mediata dalla relazione sociale: l’individuo sorge nel rapporto coi genitori, si costruisce nel legame uomo donna e vive attraverso la relazione di fraternità. È attraverso queste relazioni, presenti nel costume e nella cultura (in senso antropologico), che è possibile alla coscienza morale di volere e al rapporto sociale di offrire una grammatica alla convivenza tra gli umani»15. Il valore politico della carità scaturisce dal fatto che rapporto fraterno e rapporto sociale, tra essere prossimo ed essere socio, sono distinti ma in stretta correlazione. «Non si dà separazione tra singolo e società, tra coscienza e diritto»16. Come dice ancora il Papa: «la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica»17. Ma in tal modo, anche, essa non ha perduto, anzi ha riscoperto la sua radice teologica, poiché la carità che discende dalla Trinità non solo informa le coscienze ma plasma pure lo spazio sociale, e la dimensione del dono e della gratuità18 entra a pieno titolo nell’ambito della giustizia e del perseguimento del bene comune.
Sviluppo come apertura all’eccedenza e all’essere di più
Il proprio della carità, come delle dimensioni del dono e della gratuità che concorrono ad esprimerla, è il suo carattere di eccedenza19. Ma a ben vedere l’eccedenza, il di più, è proprio nella logica della creazione e dell’esistenza20. Un tratto ineliminabile della creazione è la sua contingenza: il solo esserci dovrebbe comunque e sempre suscitare sorpresa, meraviglia. Ma la dinamica dell’esserci, e potremmo dire anche della giustizia, appartiene all’ordine dell’eccedenza, del di più, poiché la creazione è come il lancio verso un’ulteriorità non precostituita ma possibile. Di tutto ciò rimane manifestazione insuperabile lo spazio della libertà umana, finita ma reale, proiettata verso un oltre che è affidato alle mani dell’uomo senza essere in suo potere.
In questo senso il tema dello sviluppo sta in una relazione intima con la struttura stessa dell’uomo e dell’intera creazione. Esso però, senza perdere quella relazione, va adottato nel significato assunto nella Dottrina sociale della Chiesa, da cui emerge la distanza da un concetto di sviluppo a preminente caratterizzazione economica, diffuso fino a non molto tempo fa, o anche da un modello come quello utilizzato da organismi internazionali che, per esempio, individuano l’Indice di Sviluppo Umano secondo le tre dimensioni basilari della longevità, della conoscenza e dello standard decente di vita21.
Secondo Paolo VI, per il quale esso è «il cuore del messaggio sociale cristiano»22, «lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo»23. «Il vero sviluppo è il passaggio per ciascuno e per tutti, da condizioni meno umane a condizioni più umane»24; «fare, conoscere, avere di più, per essere di più: ecco l’aspirazione degli uomini di oggi»25. «Lo sviluppo integrale dell’uomo non può avere luogo senza lo sviluppo solidale dell’umanità»26. E Giovanni Paolo II riprenderà il tema sottolineando come gli uomini sono i soggetti e lo scopo del vero sviluppo, che «non è un processo rettilineo, quasi automatico e di per sé illimitato, come se, a certe condizioni, il genere umano debba camminare spedito verso una specie di perfezione indefinita»27.
Lo sviluppo umano esige un’apertura che sola lo rende integrale. «Non v’è dunque umanesimo vero – scriveva Paolo VI – se non aperto verso l’Assoluto, nel riconoscimento d’una vocazione, che offre l’idea vera della vita umana. Lungi dall’essere la norma ultima dei valori, l’uomo non realizza se stesso che trascendendosi»28. Qui l’essere di più acquista le proporzioni che solo il Vangelo, «elemento fondamentale dello sviluppo»29 nelle parole di Benedetto XVI, riesce a dare. La Chiesa se ne fa carico con tutto il suo essere e il suo agire30, perciò propone lo sviluppo come vocazione e come libertà responsabile31, consapevole che esso è integrale se abbraccia tutte le dimensioni dell’umano, materiale, spirituale e morale32, avendo «la carità cristiana come principale forza a servizio»33.
Spunti di riflessione sulla dimensione ecologica dello sviluppo
Il carattere integrale dello sviluppo umano proposto dall’insegnamento sociale della Chiesa postula l’attenzione a tutte le dimensioni dell’umano e alla totalità dell’umanità, ma, proprio a tal fine, anche alla varietà delle scienze umane e sociali che corrispondono a quella molteplicità dei punti di vista e delle dimensioni dello sviluppo, che perciò richiede un approccio interdisciplinare. Qui possiamo limitarci ad alcune considerazioni, senza pretesa di sistematicità.
Ormai appare chiara l’inadeguatezza di una concezione economicistica dello sviluppo basata sul presupposto di una crescita illimitata che ignora il carattere finito del mondo e confonde crescita economica e benessere, che ne è invece il fine. Privilegiare l’aspetto quantitativo della crescita ha un effetto controproducente non solo sulla crescita qualitativa, ma sulla stessa economia, se il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite poteva rilevare, già qualche anno fa, che tale approccio può produrre una crescita senza occupazione, con esclusione sociale, con sradicamento e senza futuro34. È Ralf Dahrendorf a segnalare, tra altri effetti sociali devastanti, che «l’esclusione è economicamente dannosa, socialmente corrosiva, politicamente esplosiva»35. Sul lungo periodo infatti diventa inevitabile la ricaduta negativa delle povertà e delle malattie dei paesi poveri sui paesi ricchi, che peraltro conoscono le nuove povertà dell’opulenza e sperimentano che il contrasto tra nord e sud del mondo si è ormai trasferito all’interno degli stessi paesi del benessere economico.
Il bisogno di un nuovo modello di sviluppo deve muovere dalla constatazione che la pretesa di una soluzione meramente tecnocratica36 per i nuovi problemi ha un effetto negativo sul rapporto tra l’uomo e il suo ambiente naturale, poiché si basa sull’esclusione del giudizio etico e in generale del problema del senso nel rapporto dell’uomo con gli altri, con l’ambiente, con il futuro. Un nuovo modello di sviluppo richiede la «consapevolezza che la crescita ha bisogno di sviluppare un senso, o meglio il senso del limite; nello stesso concetto di limite infatti è insito il concetto di valore, laddove il limite non venga considerato come barriera ma come “soglia per”, come base di lancio. È dall’emergere dei limiti che sorge l’effettiva possibilità di un mutamento di paradigma. Diviene quindi indispensabile prendere coscienza dei limiti ecologici e di quelli sociali. Nel primo caso ciò che deve prevalere è la coscienza di responsabilità; se il raggio di azione della nostra potenza si allarga deve ampliarsi anche il raggio di azione della nostra responsabilità. Per quanto riguarda il limite sociale è invece la coscienza di solidarietà a doversi imporre»; ciò che si richiede è «lo sviluppo della coscienza»37.
Un altro aspetto del nuovo modello di sviluppo è suggerito dalla “teoria delle capacità” di Amartya Sen. Essa ritiene superata la teoria utilitaristica perché rileva la superiorità sugli stessi risultati della libertà di raggiungerli e quindi mira alla valorizzazione delle differenze tra gli esseri umani puntando sulla capacità di trasformare beni primari in libertà di perseguire i loro obiettivi, nella convinzione che «l’idea della reciproca dipendenza non può che condurre a quella di reciproca responsabilità»38. Secondo questa teoria, «lo sviluppo dovrebbe essere inteso come un processo di espansione delle libertà umane reali»39. Si tratterebbe, allora, di costruire un elenco delle capacità di convertire i beni primari nelle abilità delle persone a promuovere i propri fini e, a tale scopo, di rimuovere i vari tipi di vincoli all’espressione delle libertà in vista dei tipi di vita da condurre40. Anche dal punto di vista politico un ruolo importante gioca «la libertà del benessere dei cittadini rispetto al conseguimento dello stesso benessere»41; di qui la necessità di un processo di formazione attraverso la partecipazione attiva alla società civile. L’espansione delle libertà, in altri termini, assume il valore di strumento e di fine principali dello sviluppo. Alla base di questo approccio sta «la persona come attivo agente dei cambiamenti piuttosto che come “ricevitore” passivo dei benefici dispensati»42.
In continuità con questo tema si può considerare quello dei diritti umani, che della capacità di libertà presentano un risvolto oggettivo di riconoscimento e garanzia. La dialettica tra individuo e comunità, più sopra segnalata, si riscontra nella progressiva scoperta e definizione dei primi due tipi di diritti, quelli civili e politici, da un lato, e quelli economici e sociali, dall’altro. Non c’è dubbio che tra i due gruppi sussiste una forte interdipendenza e indivisibilità, nondimeno la loro integrazione è lontana dall’essere compiuta, in ragione del predominante orizzonte individualistico all’interno del quale si collocano. Essi hanno bisogno di trovare una sintesi in un’assunzione di responsabilità comune, alla quale pervenire attraverso un processo di presa di coscienza e di formazione. Anche in questo, non si tratta di godere di tali diritti, ma della capacità del loro esercizio.
Questa responsabilità appare ancora più necessaria laddove entrano in gioco i cosiddetti diritti di terza generazione, ovvero alla pace, allo sviluppo e all’ambiente. Se, per i primi due gruppi, a caratterizzarne la comprensione e la promozione erano la libertà e l’uguaglianza, questi postulano una responsabilità collettiva, che non ha solo una estensione intra-generazionale, ma anche inter-generazionale. Qui entrano in gioco i principi della solidarietà e della sussidiarietà, e soprattutto il diritto fondamentale alla partecipazione43. Tra questi di terza generazione, «il diritto all’ambiente “limita” il diritto allo sviluppo, o meglio, indica le vie che quest’ultimo deve intraprendere per attuare uno sviluppo umano che sia ecologicamente, socialmente ed economicamente sostenibile in grado di promuovere il […] livello minimo di capacità primarie»44.
Riprendere, a questo punto, alcuni temi del capitolo quarto dell’enciclica Caritas in veritate diventa la maniera più idonea per assumere il compito su cui sfocia la nostra riflessione, ovvero una trasformazione corrispondente della mentalità, un cambiamento degli stili di vita45, un coerente impegno educativo. E ciò perché «il rapporto con la natura […] non è indipendente da quello che intratteniamo con noi stessi, con la forma complessiva che diamo alla nostra esistenza»46. La soddisfazione dei bisogni umani ha un suo spazio di legittimità nell’equilibrio dei rapporti tra uomo e ambiente e un uso responsabile del mondo che abitiamo mai dimentico, però, dei poveri, delle generazioni future, dell’umanità intera47. Due aspetti di ponderoso momento sono segnalati là dove il Papa richiama le problematiche energetiche48 e la connessa urgente necessità di una rinnovata solidarietà tra paesi ricchi e paesi poveri49, che si colloca nell’orizzonte di un governo responsabile della natura secondo lo stile di una vera e propria alleanza tra essere umano e ambiente50. In tutto ciò la Chiesa è ben consapevole della propria missione e del contributo che essa fornisce allo sviluppo dell’uomo e alla salvaguardia del creato. Il suo impegno in particolare si sostanzia dei contenuti che la fede cristiana offre alla comprensione dei problemi in gioco e alla loro soluzione, e si sente vivamente stimolato dalla consapevolezza che «il problema decisivo è la complessiva tenuta morale della società»51.
Abbiamo riflettuto su sviluppo umano integrale e salvaguardia del creato, muovendo dall’orizzonte teologico della creazione e svolgendone le implicazioni etiche, per aprire appena il discorso sulle ricadute specifiche in ambito ecologico. Possiamo considerare acquisito che non c’è sviluppo umano senza salvaguardia del creato, ma anche viceversa che il creato non viene salvaguardato cancellando la specificità antropologica o trascurando la stretta connessione tra ecologia ambientale ed ecologia umana. Tale equilibrio e mutua implicazione tra sviluppo e sostenibilità verrà mantenuto a condizione di ancorare la responsabilità a una visione teologica della natura come creazione e a una prospettiva escatologica di compimento (cf. Rm 8,19-23) nel quale l’intero cosmo entrerà nella pienezza del definitivo.
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1 Cf. l’iniziativa della Cei che dal 2006 celebra annualmente, il 1° settembre, la Giornata per la salvaguardia del creato. Sull’attenzione ecumenica al tema, cf. S. Morandini, Teologia ed ecologia, Morcelliana, Brescia 2005, 43-57.
2 Cf. M. Kehl, «E Dio vide che era cosa buona». Una teologia della creazione, Queriniana, Brescia 2009, 288-309.
3 Cf., in particolare sulla teologia di Ireneo di Lione, ib., 171-191.
4 J. Schmitz, La rivelazione, Queriniana, Brescia 1991, 101.
5 F.G. Brambilla, La creazione tra istanze culturali e riflessione teologica, in ATI, La creazione. Oltre l’antropocentrismo?, a cura di P. Giannoni, Messaggero, Padova 1993, 141.
6 Ib., 142.
7 Cf. M. Kehl, «E Dio vide che era cosa buona». Una teologia della creazione, 399-415.
8 Cf. anche Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Centesimus annus (1° maggio 1991), n. 38.
9 Su questo punto va rilevata l’originale rilettura del magistero di Paolo VI che collega l’enciclica Populorum progressio con la Lettera enciclica Humanae vitae (25 luglio 1968) e con la Lettera apostolica Octogesima adveniens (14 maggio 1971).
10 Benedetto XVI, Discorso alla curia romana in occasione degli auguri natalizi, 22 dicembre 2005.
11 F.G. Brambilla, Lo sviluppo integrale dei popoli come questione antropologica, in AA. VV., Carità globale. Commento alla Caritas in veritate, LEV-AVE, Roma 2009, 42.
12 Cf. Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, n. 5. «La verità è ciò che consente di tenere insieme l’eccedenza della carità rispetto alla necessità della giustizia: la carità eccede la giustizia solo se la include e la supera; la giustizia, però, può essere se stessa solo se si alimenta alla forma buona del rapporto sociale che deriva dall’eccedenza del dono e del perdono» (F.G. Brambilla, Lo sviluppo integrale dei popoli come questione antropologica, 44).
13 Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, n. 34.
14 F.G. Brambilla, Lo sviluppo integrale dei popoli come questione antropologica, 49.
15 Ib., 50-51.
16 Ib., 51.
17 Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, n. 34.
18 Cf. ib., n. 34; anche nn. 36-39.
19 «Il dono per sua natura oltrepassa il merito, la sua regola è l’eccedenza» (ib.).
20 Secondo Benedetto XVI, «l’uomo è costitutivamente proteso verso l’“essere di più”» (ib., n. 14; cf. anche n. 18). «Dio è il garante del vero sviluppo dell’uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad “essere di più”» (ib., n. 29; cf. anche n. 77).
21 Cf. P. Conversi, La “capacità” della società civile di promuovere uno sviluppo umano sostenibile. Estratto della Dissertazione per il Dottorato nella Facoltà di Scienze Sociali della Pontificia Università Gregoriana, Roma 2005, 11.
22 Così Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, n. 13.
23 Paolo VI, Lettera enciclica Populorum progressio, n. 14.
24 Ib., n. 20.
25 Ib., n. 6.
26 Ib., n. 43.
27 Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987), n. 10; cf. anche nn. 23. 33. 46.
28 Paolo VI, Lettera enciclica Populorum progressio, n. 42.
29 Lettera enciclica Caritas in veritate, n. 18.
30 Cf. ib., n. 10.
31 Cf. ib., nn. 16-17.
32 Cf. ib., n. 76.
33 Ib., n. 13.
34 Cf. P. Conversi, La “capacità” della società civile di promuovere uno sviluppo umano sostenibile, 12-14.
35 Cf. ib., 15.
36 Sul rapporto tra sviluppo e tecnologia cf. Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, nn. 68-72.
37 P. Conversi, La “capacità” della società civile di promuovere uno sviluppo umano sostenibile, 17.
38 Cit. ib., 23.
39 Ib.
40 Cf. ib., 24-25.
41 Ib., 28.
42 Ib,, 31.
43 Cf. ib., 40-43.
44 Ib., 43.
45 Cf. Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, n. 51.
46 S. Morandini, “Esercitare un governo responsabile sulla natura per custodirla” (Caritas in veritate 50). Relazione al convegno dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro, 20.10.2009, dattiloscritto.
47 Cf. Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, n. 48.
48 Cf., al riguardo, S. Pareglio, Le energie rinnovabili, motore per la crescita, in «Vita e Pensiero» 6 (2007) 65-74.
49 Cf. ib., n. 49.
50 Cf. ib., n. 50. Giustamente bisogna parlare a questo riguardo di «beni relazionali» (cf. M. Toso, La speranza dei popoli. Lo sviluppo nella carità e nella verità, LAS, Roma 2009, 60-66).
51 Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, n. 51.
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