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Prediche d'Avvento dedicate all'Anno Sacerdotale a cura di Padre Raniero Cantalamessa

Ultimo Aggiornamento: 19/12/2009 07:00
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Prima Predica d'Avvento: “Servi e amici di Gesù Cristo”

Del Predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa


CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 4 dicembre 2009 (ZENIT.org).-

Pubblichiamo di seguito il testo della prima meditazione d'Avvento che il Predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., ha tenuto questo venerdì alla presenza di Benedetto XVI nella cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico.

Il tema delle meditazioni di quest'anno è: “Ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio” (1 Corinzi 4, 1),

Le prossime Prediche si terranno l'11 e il 18 dicembre.

 

* * *


1. Alla sorgente di ogni sacerdozio

Nella scelta del tema da proporre in queste prediche alla Casa Pontificia cerco sempre di farmi guidare dalla particolare grazia che la Chiesa sta vivendo. L'anno scorso era la grazia dell’anno paolino, quest’anno è la grazia dell’anno sacerdotale, della cui proclamazione, Santo Padre, le siamo tutti profondamente grati.

Il concilio Vaticano II ha dedicato al tema del sacerdozio un intero documento, il Presbyterorum ordinis; Giovanni Paolo II, nel 1992, ha indirizzato a tutta la Chiesa l’esortazione post-sinodale Pastores dabo vobis, sulla formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali; l’attuale Sommo Pontefice, nell’indire il presente anno sacerdotale, ha tracciato un breve ma intenso profilo del sacerdote alla luce della vita del Santo Curato d’Ars. Non si contano gli interventi di singoli vescovi su questo tema, per non parlare dei libri scritti sulla figura e la missione del sacerdote nel secolo da poco terminato, alcuni dei quali opere letterarie di prima grandezza.

Che cosa si può aggiungere a tutto ciò nel breve tempo di una meditazione? Mi incoraggia il detto con cui, ricordo, un predicatore iniziava il suo corso di esercizi: “Non nova ut sciatis, sed vetera ut faciatis”: l’importante non è conoscere cose nuove, ma mettere in pratica quelle conosciute. Rinuncio dunque a ogni tentativo di sintesi dottrinale, di presentazioni globali o profili ideali sul sacerdote (non ne avrei né il tempo, né la capacità) e cerco, se possibile, di far vibrare il nostro cuore sacerdotale, al contatto con qualche parola di Dio.

La parola della Scrittura che ci servirà da filo conduttore è 1 Corinzi 4,1 che molti di noi ricordano nella traduzione latina della Volgata: “Sic nos existimet homo ut ministros Christi et dispensatores mysteriorum Dei”: “Così ognuno ci consideri: servitori di Cristo e amministratori dei misteri di Dio”. Ad essa possiamo affiancare, per certi aspetti, la definizione della Lettera agli Ebrei: “Ogni sommo sacerdote, preso tra gli uomini, è costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio” (Eb 5,1).

Queste frasi hanno il vantaggio di riportarci alla radice comune di ogni sacerdozio, cioè a quello stadio della rivelazione quando il ministero apostolico non si è ancora diversificato, dando luogo ai tre gradi canonici di vescovi, presbiteri e diaconi, che, almeno per quanto riguarda le rispettive funzioni, diventeranno chiari solo con sant’Ignazio d’Antiochia, all’inizio del II secolo. Questa radice comune è messa in luce dal Catechismo della Chiesa Cattolica che definisce l’Ordine sacro “il sacramento grazie al quale la missione affidata da Cristo ai suoi apostoli continua ad essere esercitata nella Chiesa sino alla fine dei tempi: è dunque il sacramento del ministero apostolico” (n. 1536).

È a questo stadio iniziale che cercheremo di riferirci il più possibile nelle nostre meditazioni, allo scopo di cogliere l’essenza del ministero sacerdotale. In questo Avvento, prenderemo in considerazione solo la prima parte della frase dell’Apostolo: “Servitori di Cristo”. Se Dio vuole, proseguiremo in Quaresima la nostra riflessione, meditando su cosa significa per un sacerdote essere “amministratore dei misteri di Dio” e quali sono i misteri che deve amministrare.“Servi di Cristo!” (con il punto esclamativo a indicare la grandezza, dignità e bellezza di questo titolo): ecco la parola che dovrebbe toccare il nostro cuore nella presente meditazione e farlo vibrare di santo orgoglio. Qui non parliamo dei servizi pratici o ministeriali, come amministrare la parola e i sacramenti (di questo, dicevo, parleremo in Quaresima); non parliamo, in altre parole, del servizio come atto, ma del servizio come stato, come vocazione fondamentale e come identità del sacerdote e ne parliamo nello stesso senso e con lo stesso spirito di Paolo che all’inizio delle sue lettere si presenta sempre così: “Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione”.

Sul passaporto invisibile del sacerdote, quello con cui si presenta ogni giorno al cospetto di Dio e del suo popolo, alla voce “professione”, si dovrebbe poter leggere: “Servo di Gesù Cristo”. Tutti i cristiani sono naturalmente servi di Cristo, ma il sacerdote lo è a un titolo e in un senso tutto particolare, come tutti i battezzati sono sacerdoti, ma il ministro ordinato lo è a un titolo e in un senso diverso e superiore.

2. Continuatori dell’opera di Cristo

Il servizio essenziale che il sacerdote è chiamato a rendere a Cristo è continuare la sua opera nel mondo: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi” (Gv 20,21). Il papa san Clemente, nella sua famosa Lettera ai Corinzi, commenta: “Cristo è mandato da Dio e gli Apostoli da Cristo… Essi, predicando dappertutto in campagna ed in città, nominarono i loro primi successori, essendo stati messi alla prova dallo Spirito, per essere vescovi e diaconi". Cristo è mandato dal Padre, gli apostoli da Cristo, i vescovi dagli apostoli: è la prima enunciazione chiara del principio della successione apostolica.

Ma quella parola di Gesù non ha solo un significato giuridico e formale. Non fonda, in altre parole, solo il diritto dei ministri ordinati di parlare come “mandati” da Cristo; indica anche il motivo e il contenuto di questo mandato che è lo stesso per cui il Padre ha mandato il Figlio nel mondo. E perché Dio ha mandato il Figlio suo nel mondo? Anche qui rinunciamo a risposte globali, esaustive, per le quali bisognerebbe leggere tutto il vangelo; solo qualche dichiarazione programmatica di Gesù.

Davanti a Pilato egli afferma solennemente: “Per questo sono venuto nel mondo: per testimoniare della verità” (Gv 18,37). Continuare l’opera di Cristo comporta dunque per il sacerdote un rendere testimonianza alla verità, far brillare la luce del vero. Solo bisogna tener conto del duplice significato della parola verità, aletheia, in Giovanni. Esso oscilla tra la realtà divina e la conoscenza della realtà divina, tra un significato ontologico o oggettivo e uno gnoseologico o soggettivo. Verità è “la realtà eterna in quanto rivelata agli uomini, riferibile sia alla realtà stessa che alla sua rivelazione”[1].

L’interpretazione tradizionale ha inteso “verità” soprattutto nel senso di rivelazione e conoscenza della verità; in altre parole, come verità dogmatica. Questo è un compito certamente essenziale. La Chiesa, nel suo insieme, lo assolve per mezzo del magistero, dei concili, dei teologi, e il singolo sacerdote predicando al popolo la “sana dottrina”.

Non bisogna però dimenticare l’altro significato giovanneo di verità: quello di realtà conosciuta, più che conoscenza della realtà. In questa luce, il compito della Chiesa e del singolo sacerdote non si limita a proclamare le verità della fede, ma deve aiutare a farne l’esperienza, a entrare in un contatto intimo e personale con la realtà di Dio, mediante lo Spirito Santo.

“La fede, ha scritto san Tommaso d’Aquino, non termina all’enunciato, ma alla cosa” (“Fides non terminatur ad enuntiabile sed ad rem”). Parimenti, i maestri della fede non possono accontentarsi di insegnare le cosiddette verità di fede, devono aiutare le persone ad attingere la “cosa”, a non avere soltanto una idea di Dio, ma a fare l’esperienza di lui, secondo il senso biblico di conoscere, diverso, come è noto, da quello greco e filosofico.

Altra dichiarazione programmatica di intenti è quella che Gesù pronuncia davanti a Nicodemo: “Dio non ha mandato suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3, 16). Questa frase va letta alla luce di quella che la precede immediatamente: “Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna”. Gesù è venuto a rivelare agli uomini la volontà salvifica e l’amore misericordioso del Padre. Tutta la sua predicazione è riassunta nella parola che rivolge ai discepoli nell’ultima cena: “Il Padre vi ama!” (Gv 16, 27).

Essere continuatore nel mondo dell’opera di Cristo significa fare proprio questo atteggiamento di fondo nei confronti della gente, anche dei più lontani. Non giudicare, ma salvare. Non dovrebbe passare inosservato il tratto umano sul quale la Lettera agli Ebrei maggiormente insiste nel delineare la figura di Cristo sommo Sacerdote e di ogni sacerdote: la simpatia, il senso di solidarietà, la compassione nei confronti del popolo.

Di Cristo è detto: “Non abbiamo un sommo sacerdote che non possa simpatizzare con noi nelle nostre debolezze, poiché egli è stato tentato come noi in ogni cosa, senza commettere peccato”. Del sacerdote umano si afferma che “preso tra gli uomini, è costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati; così può avere compassione verso gli ignoranti e gli erranti, perché anch'egli è soggetto a debolezza; ed è a motivo di questa che egli è obbligato a offrire dei sacrifici per i peccati, tanto per se stesso quanto per il popolo” (Eb 4,15-5,3).

È vero che Gesù, nei vangeli, si mostra anche severo, giudica e condanna, ma con chi lo fa? Non con la gente semplice, che lo seguiva e veniva ad ascoltarlo, ma con gli ipocriti, gli autosufficienti, i maestri e le guide del popolo. Gesù non era davvero, come si dice di certi uomini politici : “forte con i deboli e debole con i forti”. Tutto il contrario!

3. Continuatori, non successori

Ma in che senso possiamo parlare dei sacerdoti come continuatori dell’opera di Cristo? In ogni istituzione umana, come era a quel tempo l’impero romano e come sono oggi gli ordini religiosi e tutte le imprese mondane, i successori continuano l’opera, ma non la persona del fondatore. Questi a volte viene corretto, superato e perfino sconfessato. Non così la Chiesa. Gesù non ha successori perché non è morto, ma vivo; “risorto da morte, la morte non ha più potere su di lui”.

Quale sarà allora il compito dei suoi ministri? Quello di rappresentarlo, cioè di renderlo presente, di dare forma visibile alla sua presenza invisibile. In questo consiste la dimensione profetica del sacerdozio. Prima di Cristo la profezia consisteva essenzialmente nell’annunciare una salvezza futura, “negli ultimi giorni”, dopo di lui consiste nel rivelare al mondo la presenza nascosta di Cristo, nel gridare come Giovanni Battista: “In mezzo a voi c’è uno che voi non conoscete”.

“Un giorno alcuni greci si rivolsero all’apostolo Filippo con la domanda: “Vorremmo vedere Gesù!” (Gv 12, 21); la stessa domanda, più o meno esplicita, ha nel cuore chi si avvicina oggi al sacerdote.

San Gregorio Nisseno ha coniato un’espressione famosa, che viene di solito applicata all’esperienza dei mistici: “Sentimento di presenza" [2] Il sentimento di presenza è più che la semplice fede nella presenza di Cristo; è avere il sentimento vivo, la percezione quasi fisica, della sua presenza di Risorto. Se questo è proprio della mistica, allora vuol dire che ogni sacerdote deve essere un mistico, o almeno un “mistagogo”, uno che introduce le persone al mistero di Dio e di Cristo, come tenendole per mano.

Il compito del sacerdote non è diverso, anche se subordinato, rispetto a quello che il Santo Padre additava come priorità assoluta del Successore di Pietro e della Chiesa intera nella lettera indirizzata ai Vescovi il 10 Marzo scorso:

“Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr Gv 13, 1) – in Gesù Cristo crocifisso e risorto… Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo”.

4. Servi e amici

Ma ora dobbiamo fare un passo avanti nella nostra riflessione. “Servi di Gesù Cristo!”: questo titolo non dovrebbe mai stare da solo; ad esso si deve affiancare sempre, almeno, nel fondo del proprio cuore, un altro titolo: quello di amici!

La radice comune di tutti i ministeri ordinati che si delineeranno in seguito è la scelta che Gesù fece un giorno dei Dodici; questo è ciò che, dell’istituzione sacerdotale, risale al Gesù storico. La liturgia colloca, è vero, l’istituzione del sacerdozio il Giovedì Santo, a causa della parola che Gesù pronunciò dopo l’istituzione dell’Eucaristia: “Fate questo in memoria di me”. Ma anche questa parola presuppone la scelta dei Dodici, senza contare che, presa da sola, giustificherebbe il ruolo di sacrificatore e liturgo del sacerdote, ma non quello, altrettanto fondamentale, di annunciatore del vangelo.

Ora, che cosa disse in quella circostanza Gesù? Perché scelse i Dodici, dopo aver pregato tutta la notte? “Ne costituì dodici per tenerli con sé e per mandarli a predicare” (Mc 3,14-15). Stare con Gesù e andare a predicare: stare e andare, ricevere e dare: c’è in poche parole l’essenziale del compito dei collaboratori di Cristo.

Stare “con” con Gesù non significa evidentemente solo una vicinanza fisica; c’è già, in nuce, tutta la ricchezza che Paolo racchiuderà nella formula pregnante “in Cristo” o “con Cristo”. Significa condividere tutto di Gesù: la sua vita itinerante, certo, ma anche i suoi pensieri, gli scopi, lo spirito. La parola compagno viene dal latino medievale e significa colui che ha in comune (con-) il pane (panis), che mangia lo stesso pane.

Nei discorsi di addio, Gesù fa un passo avanti, completando il titolo di compagni con quello di amici: “Io non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo signore; ma vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto conoscere tutte le cose che ho udite dal Padre mio” (Gv 15.15).

C’è qualcosa di commovente in questa dichiarazione d’amore di Gesù. Ricorderò sempre il momento in cui fu dato anche a me, per un istante, di conoscere qualcosa di questa commozione. In un incontro di preghiera qualcuno aveva aperto la Bibbia e aveva letto quel brano di Giovanni. La parola “amici” mi raggiunse a una profondità mai sperimentata; smosse qualcosa nel profondo di me, tanto che per tutto il resto della giornata andavo ripetendo tra me, pieno di stupore e di incredulità: Mi ha chiamato amico! Gesù di Nazareth, il Signore, il mio Dio! Mi ha chiamato amico! Io sono suo amico! E mi pareva che si potesse volare sui tetti della città e attraversare anche il fuoco, con quella certezza.

Quando parla dell’amore di Gesù Cristo san Paolo appare sempre “commosso”: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?” (Rom 8, 35), “Mi ha amato e ha dato se stesso per me!” (Gal 2, 20). Noi siamo portati a diffidare della commozione e perfino a vergognarcene. Non sappiamo di quale ricchezza ci priviamo. Gesù “si commosse profondamente” e pianse davanti alla vedova di Nain (cf Lc 7, 13) e alle sorelle di Lazzaro (cf Gv 11, 33.35). Un sacerdote capace di commuoversi quando parla dell’amore di Dio e della sofferenza di Cristo o raccoglie la confidenza di un grande dolore, convince meglio che con infiniti ragionamenti. Commuoversi non significa necessariamente mettersi a piangere; è qualcosa che si avverte negli occhi, nella voce. La Bibbia è piena del pathos di Dio.

5. L’anima di ogni sacerdozio

Un rapporto personale, pieno di confidenza e di amicizia con la persona di Gesù è l’anima di ogni sacerdozio. In vista dell’anno sacerdotale mi sono riletto il libro di Dom Chautard “L’anima di ogni apostolato” che fece tanto bene e scosse tante coscienze negli anni anteriori al concilio. In un momento in cui c’era grande entusiasmo per le “opere parrocchiali”: cinema, ricreatori, iniziative sociali, circoli culturali, l’autore riportava bruscamente il discorso al cuore del problema, denunciando il pericolo di un attivismo vuoto. “Dio, scriveva, vuole che Gesù sia la vita delle opere”.

Non riduceva l’importanza delle attività pastorali, tutt’altro, affermava però che senza una vita di unione con Cristo, esse non erano che “stampelle”, o, come le definiva san Bernardo, “maledette occupazioni”. Gesù disse a Pietro: “Simone mi ami? Pasci le mie pecore”. L’azione pastorale di ogni ministro della Chiesa, dal papa all’ultimo sacerdote, non è che l’espressione concreta dell’amore per Cristo. Mi ami? Allora pasci! L’amore per Gesù è quello che fa la differenza tra il sacerdote funzionario e manager e il sacerdote servo di Cristo e dispensatore dei misteri di Dio.

Il libro di Dom Chautard avrebbe potuto benissimo intitolarsi “L’anima di ogni sacerdozio”, perché è di lui che si parla, in pratica, in tutta l’opera, come agente e responsabile in prima linea della pastorale della Chiesa. A quel tempo, il pericolo a cui si intendeva reagire era il cosiddetto “americanismo”. L’Abate si rifà spesso, infatti, alla lettera di Leone XIII “Testem benevolentiae” che aveva condannato tale “eresia”.

Oggi questa eresia, se di eresia si può parlare, non è più solo “americana”, ma una minaccia che, anche a causa del diminuito numero dei sacerdoti, insidia il clero di tutta la Chiesa: si chiama attivismo frenetico. (Molte delle istanze, del resto, che provenivano in quel tempo dai cristiani degli Stati Uniti, e in particolare dal movimento creato dal servo di Dio Isaac Hecker, fondatore dei Paulist Fathers, bollate con il termine “americanismo”, per esempio la libertà di coscienza e la necessità di un dialogo con il mondo moderno, non erano eresie, ma istanze profetiche che il Concilio Vaticano II, in parte, farà proprie!).Il primo passo, per fare di Gesù l’anima del proprio sacerdozio, è passare dal Gesù personaggio al Gesù persona. Il personaggio è uno del quale si può parlare a piacimento, ma al quale e con il quale nessuno si sogna di parlare. Si può parlare di Alessandro Magno, Giulio Cesare, Napoleone finché si vuole, ma se uno dicesse di parlare con qualcuno di essi, lo manderebbero subito da uno psichiatra. La persona, al contrario, è uno con il quale e al quale si può parlare. Finché Gesù rimane un insieme di notizie, di dogmi o di eresie, qualcuno che si colloca istintivamente nel passato, una memoria, non una presenza, è un personaggio. Bisogna convincersi che egli è vivo e presente, e più importante che parlare di lui, è parlare con lui.

Uno dei tratti più belli della figura del don Camillo di Guareschi, naturalmente tenendo conto del genere letterario adottato, è il suo parlare ad alta voce con il Crocifisso di tutte le cose che succedono nella parrocchia. Se prendessimo l’abitudine di farlo, così spontaneamente, con parole proprie, quante cose cambierebbe nella nostra vita sacerdotale! Ci accorgeremmo che non parliamo mai a vuoto, ma a qualcuno che è presente, ascolta e risponde, magari non ad alta voce come a Don Camillo.

6. Mettere al sicuro “le grosse pietre”

Come in Dio tutta l’opera esterna della creazione, sgorga dalla sua vita intima, “dall’incessante flusso del suo amore”, e come tutta l’attività di Cristo sgorga dal suo dialogo ininterrotto con il Padre, così tutte le opere del sacerdote devono essere il prolungamento della sua unione con Cristo. “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi”, significa anche questo: “Io sono venuto nel mondo senza separarmi dal Padre, voi andate nel mondo senza separarvi da me”.

Quando questo contatto si interrompe, è come quando in una casa cade la corrente elettrica e tutto si ferma e rimane al buio, o, se si tratta del rifornimento idrico, i rubinetti non danno più acqua. Si sente dire talvolta: come starsene tranquilli a pregare quando tanti bisogni reclamano la nostra presenza? Come non correre, quando la casa brucia? E' vero, ma immaginiamo cosa succederebbe a una squadra di pompieri che accorresse, a sirene spiegate, per spegnere un incendio e poi, giunta sul posto, si accorgesse di non avere con sé, nei serbatoi, neppure una goccia d'acqua. Così siamo noi, quando corriamo a predicare o ad altro ministero vuoti di preghiera e di Spirito Santo.

Ho letto da qualche parte una storia che mi sembra si applichi in modo esemplare ai sacerdoti. Un giorno, un vecchio professore fu chiamato come esperto a parlare sulla pianificazione più efficace del proprio tempo ai quadri superiori di alcune grosse compagnie nordamericane. Decise allora di tentare un esperimento. In piedi, tirò fuori da sotto il tavolo un grosso vaso di vetro vuoto. Insieme prese anche una dozzina di pietre grosse quanto palle da tennis che depose delicatamente una a una nel vaso fino a riempirlo. Quando non si poteva aggiungere più altri sassi, chiese agli allievi: «Vi sembra che il vaso sia pieno?» e tutti risposero «Si!».

Si chinò di nuovo e tirò fuori da sotto il tavolo una scatola piena di breccia che versò sopra le grosse pietre, movendo il vaso perché la breccia potesse infiltrarsi tra le pietre grosse fino al fondo. «È pieno questa volta il vaso?» chiese. Divenuti più prudenti, gli allievi cominciarono a capire e risposero: «Forse non ancora». Il vecchio professore si chinò di nuovo e tirò fuori questa volta un sacchetto di sabbia che versò nel vaso. La sabbia riempì gli spazi tra i sassi e la breccia. Quindi chiese di nuo­vo: «È pieno ora il vaso?». E tutti, senza esitare, risposero: «No!». Infatti il vecchio prese la caraffa che era sul tavolo e versò l’acqua nel vaso fino all’orlo.

A questo punto domanda: «Quale grande verità ci mo­stra questo esperimento?». Il più audace rispose: «Questo dimostra che anche quando la nostra agenda è completamente piena, con un po’ di buona volontà, si può sempre aggiungervi qualche impegno in più, qualche altra cosa da fare». «No» rispose il professore. «Quello che l’esperimento dimostra è che se non si mettono per primo le grosse pietre nel vaso, non si riuscirà mai a farvele entrare in seguito.» «Quali sono le grosse pietre, le priorità, nella vostra vita? La cosa importante è mettere queste grosse pietre per prime nella vostra agenda». San Pietro ha indicato, una volta per tutte, quali sono le grosse pietre, le priorità assolute, degli apostoli e dei loro successori, vescovi e sacerdoti: “Quanto a noi, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della Parola” (At 6,4).

Noi sacerdoti, più che chiunque altro, siamo esposti al pericolo di sacrificare l’importante all’urgente. La preghiera, la preparazione dell’omelia o alla Messa, lo studio e la formazione, sono tutte cose importanti, ma non urgenti; se si rimandano, apparentemente, non casca il mondo, mentre ci sono tante piccole cose - un incontro, una telefonata, un lavoretto materiale – che sono urgenti. Così si finisce per rimandare sistematicamente le cose importanti a un “dopo” che non arriva mai.

Per un sacerdote, mettere per prime nel vaso le pietre grosse, può significare molto concretamente, iniziare la giornata con un tempo di preghiera e di dialogo con Dio, in modo che le attività e gli impegni vari non finiscano per occupare tutto lo spazio.

Termino con una preghiera dell’abate Chautard che si trova stampata nel programma di queste meditazioni: “O Dio, date alla Chiesa tanti apostoli, ma ravvivate nel loro cuore una sete ardente di intimità con Voi e insieme un desiderio di lavorare per il bene del prossimo. Date a tutti un’attività contemplativa e una contemplazione operosa”. Così sia!



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1) H. Dodd, L’interpretazione del Quarto Vangelo, Paideia, Brescia 1974, p. 227.
2) Gregorio Nisseno, Sul Cantico, XI, 5, 2 (PG 44, 1001) (aisthesis parousias).
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11/12/2009 13:16

Il sacerdote sia "il buon profumo di Cristo nel mondo!": così padre Cantalamessa nella seconda predica d'Avvento

“Questo dovrebbe essere il sacerdote: il buon profumo di Cristo nel mondo!”: è quanto ha detto stamani padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, nella sua seconda predica dell’Avvento dedicata all’Anno sacerdotale, tenuta nella Cappella Redemptoris Mater, alla presenza del Papa e della Famiglia pontificia. Il religioso ha ricordato quindi l’avvertimento di San Paolo: ‘Abbiamo questo tesoro in vasi di terra’ (2 Cor 4,7). “Sappiamo fin troppo bene, dalla dolorosa e umiliante esperienza recente – ha aggiunto - cosa tutto questo significa. Gesù diceva agli apostoli: ‘Voi siete il sale della terra; ma, se il sale diventa insipido, con che lo si salerà? Non è più buono a nulla se non a essere gettato via e calpestato dagli uomini’ (Mt 5,13). La verità di questa parola di Cristo è dolorosamente sotto i nostri occhi. Anche l’unguento se perde l’odore e si guasta, si trasforma nel suo contrario, in lezzo, e anziché attirare a Cristo, allontana da lui”. Ecco il testo integrale della predica di padre Cantalamessa:


Ministri della nuova alleanza dello Spirito


* * *

 1. Il servizio dello Spirito

La volta scorsa abbiamo commentato la definizione che Paolo dà dei sacerdoti come “servitori di Cristo”. Nella Seconda Lettera ai Corinzi troviamo un’affermazione apparentemente diversa: Scrive: “Egli ci ha anche resi idonei a essere ministri di un nuovo patto, non di lettera, ma di Spirito; perché la lettera uccide, ma lo Spirito vivifica. Or se il ministero della morte, scolpito in lettere su pietre, fu glorioso, al punto che i figli d'Israele non potevano fissare lo sguardo sul volto di Mosè a motivo della gloria, che pur svaniva, del volto di lui, quanto più sarà glorioso il ministero dello Spirito?” (2 Cor 6-8).

Paolo definisce se stesso e i suoi collaboratori “ministri dello Spirito” e il ministero apostolico un “servizio dello Spirito”. Il confronto con Mosè e il culto dell’antica alleanza, non lascia dubbio infatti che in questo passo, come in molti altri della stessa Lettera, egli parli del ruolo delle guide nella comunità cristiana, cioè degli apostoli e dei loro collaboratori.

Chi conosce il rapporto che c’è per Paolo tra Cristo e lo Spirito sa che non c’è contraddizione tra l’essere servitori di Cristo e l’essere ministri dello Spirito, ma continuità perfetta. Lo Spirito di cui si parla qui è infatti lo Spirito di Cristo. Gesù stesso spiega il ruolo del Paraclito nei suoi confronti, quando dice agli apostoli: egli prenderà del mio e ve lo annunzierà, egli vi farà ricordare ciò che vi ho detto, egli mi darà testimonianza…

La definizione completa del ministero apostolico e sacerdotale è: servitori di Cristo nello Spirito Santo. Lo Spirito indica la qualità o la natura del nostro servizio che è un servizio “spirituale” nel senso forte del termine; non solo cioè nel senso che ha per oggetto lo spirito dell’uomo, la sua anima, ma anche nel senso che ha per soggetto, o per “agente principale”, come diceva Paolo VI, lo Spirito Santo. Sant’Ireneo dice che lo Spirito Santo è “la nostra stessa comunione con Cristo” [1].

Poco sopra, nella stessa Seconda Lettera ai Corinzi, l’Apostolo aveva illustrato l’azione dello Spirito Santo nei ministri della nuova alleanza con il simbolo dell’unzione: “Or colui che con voi ci fortifica in Cristo e che ci ha unti, è Dio; egli ci ha pure segnati con il proprio sigillo e ha messo la caparra dello Spirito nei nostri cuori” (2 Cor 1, 21 s.).

Sant’Atanasio commenta così questo testo: “Lo Spirito è chiamato ed è unzione e sigillo...L’unzione è il soffio del Figlio, di modo che colui che possiede lo Spirito possa dire: ‘Noi siamo il profumo di Cristo’. Il sigillo rappresenta il Cristo, cosicché colui che è segnato dal sigillo possa avere la forma di Cristo” [2]. In quanto unzione, lo Spirito Santo ci trasmette il profumo di Cristo; in quanto sigillo, la sua forma, o immagine. Nessuna dicotomia perciò tra servizio di Cristo e servizio dello Spirito, ma unità profonda.

Tutti i cristiani sono “unti”; il loro stesso nome non significa altro che questo: “unti”, a somiglianza di Cristo, che è l’Unto per eccellenza (cf. 1 Gv 2, 20.27). Paolo però sta parlando qui dell’ opera sua e di Timoteo (“noi”) nei confronti della comunità (“voi”); è evidente perciò che si riferisce in particolare all’unzione e al sigillo dello Spirito ricevuti al momento di essere consacrati al ministero apostolico, per Timoteo mediante l’imposizione delle mani dell’Apostolo (cf. 2 Tim 1,6).

Dobbiamo assolutamente riscoprire l’importanza dell’unzione dello Spirito perché in essa, sono convinto, è racchiuso il segreto dell’efficacia del ministero episcopale e presbiterale. I sacerdoti sono essenzialmente dei consacrati, cioè degli unti. “Nostro Signore Gesù -si legge nella Presbyterorum ordinis - che il Padre santificò e inviò nel mondo (Gv 10,36), ha reso partecipe tutto il suo corpo mistico di quella unzione dello Spirito che egli ha ricevuto”. Lo stesso decreto conciliare si premura però di mettere subito in luce la specificità dell’unzione conferita dal sacramento dell’Ordine. Per esso, dice, “ i sacerdoti, in virtù dell’unzione dello Spirito Santo, sono marcati da una speciale carattere che li configura a Cristo Sacerdote, in modo da poter agire in nome di Cristo Capo”[3].

2. L’unzione: figura, evento e sacramento

L’unzione, come l’Eucaristia e la Pasqua, è una di quelle realtà che sono presenti in tutte e tre le fasi della storia della salvezza. È presente infatti nell’Antico Testamento come figura, nel Nuovo Testamento come evento e nel tempo della Chiesa come sacramento. Nel nostro caso, la figura è data dalle varie unzioni praticate nell’Antico Testamento; l’evento è costituito dall’unzione di Cristo, il Messia, l’Unto, a cui tutte le figure tendevano come al loro compimento; il sacramento, è rappresentato da quell’insieme di segni sacramentali che prevedono un’unzione come rito principale o complementare.

Nell’Antico Testamento si parla di tre tipi di unzione: l’unzione regale, sacerdotale e profetica e cioè unzione dei re, dei sacerdoti e dei profeti, anche se nel caso dei profeti si tratta in genere di un’unzione spirituale e metaforica, senza cioè un olio materiale. In ognuna di queste tre unzioni, si delinea un orizzonte messianico, cioè l’attesa di un re, di un sacerdote e di un profeta che sarà l’Unto per antonomasia, il Messia.

Insieme con l’investitura ufficiale e giuridica, per cui il re diventa l’Unto del Signore, l’unzione conferisce anche, secondo la Bibbia, un reale potere interiore, comporta una trasformazione che viene da Dio e questo potere, questa realtà vengono sempre più chiaramente identificati con lo Spirito Santo. Nell’ungere Saul come re Samuele dice: “Ecco: il Signore ti ha unto capo sopra Israele suo popolo. Tu avrai potere sul popolo...Lo Spirito del Signore investirà anche te e ti metterai a fare il profeta e sarai trasformato in un altro uomo” (1 Sam 10, 1.6). Il legame tra l’unzione e lo Spirito è soprattutto messo in luce nel noto testo di Isaia: “Lo Spirito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione” (Is. 61, 1).

Il Nuovo Testamento non ha esitazioni nel presentare Gesù come l’Unto di Dio, nel quale tutte le unzioni antiche hanno trovato il loro compimento. Il titolo di Messia, o Cristo, che significa, appunto, Unto, è la prova più chiara di ciò.

Il momento o l’evento storico a cui si fa risalire questo compimento è il battesimo di Gesù nel Giordano. L’effetto di questa unzione è lo Spirito Santo: “Dio ha unto di Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth” (At 10, 38); Gesù stesso, subito il suo battesimo, nella sinagoga di Nazareth dichiarerà: “Lo Spirito del Signore è su di me; mi ha consacrato con l’unzione” (Lc 4, 18). Gesù era certamente pieno di Spirito Santo fin dal momento dell’incarnazione, ma si trattava di una grazia personale, legata all’unione ipostatica, e perciò incomunicabile. Ora, nell’unzione, riceve quella pienezza di Spirito Santo che, come capo, potrà trasmettere al suo corpo. La Chiesa vive di questa grazia capitale (gratia capitis).

Gli effetti della triplice unzione – regale, profetica e sacerdotale – sono grandiosi e immediati nel ministero di Gesù. In forza dell’unzione regale, egli abbatte il regno di satana e instaura il regno di Dio: “Se è con l'aiuto dello Spirito di Dio che io scaccio i demòni, è dunque giunto fino a voi il regno di Dio” (Mt 12.28); in forza dell’unzione profetica, egli “annuncia la buona novella ai poveri”; in forza dell’unzione sacerdotale, offre preghiere e lacrime durante la sua vita terrena e alla fine offre se stresso sulla croce.

Dopo essere stata presente nell’Antico Testamento come figura e nel Nuovo Testamento come evento, l’unzione è presente ora nella Chiesa come sacramento. Il sacramento prende dalla figura il segno e dall’evento il significato; prende dalle unzioni dell’Antico Testamento l’elemento - l’olio, il crisma o unguento profumato- e da Cristo l’efficacia salvifica. Cristo non è stato mai unto con olio fisico (a parte l’unzione di Betania), né mai ha unto alcuno con olio fisico. In lui il simbolo è stato sostituito dalla realtà, dall’”olio di letizia” che lo Spirito Santo.Più che un sacramento unico, l’unzione è presente nella Chiesa come un insieme di riti sacramentali. Come sacramenti a se stanti, abbiamo la cresima (che attraverso tutte le trasformazioni subite, risale, come attesta il nome, all’antico rito dell’unzione con il crisma) e l’unzione degli infermi; come parte di altri sacramenti abbiamo: l’unzione battesimale e l’unzione nel sacramento dell’ordine. Nell’unzione crismale che segue il battesimo, si fa riferimento esplicito alla triplice unzione di Cristo: “Egli stesso vi consacra con il crisma di salvezza; inseriti in Cristo sacerdote, re e profeta, siate sempre membra del suo corpo per la vita eterna”.

Di tutte queste unzioni, a noi interessa in questo momento quella che accompagna il conferimento dell’Ordine sacro. Nel momento in cui unge con il sacro crisma le palme di ciascuno ordinato inginocchiato davanti a lui, il vescovo pronuncia queste parole: "Il Signore Gesù Cristo che il Padre ha consacrato in Spirito Santo e potenza, ti custodisca per la santificazione del suo popolo e per l'offerta del sacrificio".

Ancora più esplicito il riferimento all’unzione di Cristo nella consacrazione episcopale. Ungendo di olio profumato il capo del nuovo vescovo il vescovo ordinante dice: “Dio, che ti ha fatto partecipe del sommo sacerdozio di Cristo, effonda su di te la sua mistica unzione e con l’abbondanza della sua benedizione dia fecondità al tuo ministero”.

3. L’unzione spirituale

C’è un rischio, che è comune a tutti i sacramenti: quello di fermarsi all’aspetto rituale e canonico dell’ordinazione, alla sua validità e liceità, e non dare abbastanza importanza alla “res sacramenti”, all’effetto spirituale, alla grazia propria del sacramento, in questo caso al frutto dell’unzione nella vita del sacerdote. L’unzione sacramentale ci abilita a compiere certe azioni sacre, come governare, predicare, istruire; ci dà, per così dire, l’autorizzazione a fare certe cose, non necessariamente l’autorità nel farle; assicura la successione apostolica, non necessariamente il successo apostolico!

L’unzione sacramentale, con il carattere indelebile (il “sigillo”!) che imprime nel sacerdote, è una risorsa dalla quale possiamo attingere ogni volta che ne sentiamo il bisogno, che possiamo, per così dire, attivare in ogni momento del nostro ministero. Si attua anche qui quella che in teologia si chiama la “reviviscenza” del sacramento. Il sacramento, ricevuto in passato, “reviviscit”, torna a rivivere e a sprigionare la sua grazia: nei casi estremi perché viene tolto l’ostacolo del peccato (l’obex), in altri casi perché viene rimossa la patina dell’abitudine e si intensifica la fede nel sacramento. Succede come con un flacone di profumo. Noi possiamo tenerlo in tasca o stringerlo nella mano finché vogliamo, ma se non lo apriamo il profumo non si effonde, è come se non ci fosse.

Come è nata questa idea di una unzione attuale? Una tappa importante è costituita, ancora una volta, da Agostino. Egli interpreta il testo della prima lettera di Giovanni: “Voi avete ricevuto l’unzione…” (1 Gv 2, 27), nel senso di un’unzione continua, grazie alla quale lo Spirito Santo, maestro interiore, ci permette di comprendere dentro ciò che ascoltiamo all’esterno. A lui risale l’espressione “unzione spirituale”, spiritalis unctio, accolta nell’inno Veni creator[4]. San Gregorio Magno, come in molte altre cose, contribuì a rendere popolare, per tutto il medio evo, questa intuizione agostiniana [5].

Una nuova fase nello sviluppo del tema dell’unzione si apre con san Bernardo e san Bonaventura. Con essi si afferma la nuova accezione, spirituale e moderna di unzione, non legata tanto al tema della conoscenza della verità, quanto a quello dell’esperienza della realtà divina. Iniziando a commentare il Cantico dei cantici, san Bernardo dice: “Un siffatto cantico, solo l’unzione lo insegna, solo l‘esperienza lo fa comprendere” [6]. San Bonaventura identifica l’unzione con la devozione, concepita da lui come “un sentimento soave d’amore verso Dio suscitato dal ricordo dei benefici di Cristo”[7]. Essa non dipende dalla natura, né dalla scienza, né dalle parole o dai libri, ma “dal dono di Dio che è lo Spirito Santo”[8].

Ai nostri giorni, si usano sempre più spesso i termini unto e unzione (anointed, anointing) per descrivere l’agire di una persona, la qualità di un discorso, di una predica, ma con una differenza di accento. Nel linguaggio tradizionale, l’unzione suggerisce, come si è visto, soprattutto l’idea di soavità e dolcezza, tanto da dar luogo, nell’uso profano, all’accezione negativa di “eloquio o atteggiamento mellifluo e insinuante, spesso ipocrita”, e all’aggettivo “untuoso”, nel senso di “persona o atteggiamento sgradevolmente cerimonioso e servile”.

Nell’uso moderno, più vicino a quello biblico, essa suggerisce piuttosto l’idea di potere e forza di persuasione. Una predica piena di unzione è una predica in cui si percepisce, per così dire, il fremito dello Spirito; un annuncio che scuote, che convince di peccato, che arriva al cuore della gente. Si tratta di una componente squisitamente biblica del termine, presente per esempio nel testo degli Atti, in cui si dice che Gesù “fu unto in Spirito e potenza” (At 10, 38).

L’unzione, in questa accezione, appare più un atto che uno stato. È qualcosa che la persona non possiede stabilmente, ma che sopraggiunge su di essa, la “investe” sul momento, nell’esercizio di un certo ministero o nella preghiera.

Se l’unzione è data dalla presenza dello Spirito ed è dono suo, che possiamo fare noi per averla? Anzitutto pregare. C’è una promessa esplicita di Gesù: “Il Padre celeste donerà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!” (Lc 11,13). Poi rompere anche noi il vaso di alabastro come la peccatrice in casa di Simone. Il vaso è il nostro io, talvolta il nostro arido intellettualismo. Romperlo, significa rinnegare se stessi, cedere a Dio, con un atto esplicito, le redini della nostra vita. Dio non può consegnare il suo Spirito a chi non si consegna interamente a lui.

4. Come ottenere l’unzione dello Spirito

Applichiamo alla vita del sacerdote questo ricchissimo contenuto biblico e teologico legato al tema dell’unzione. San Basilio dice che lo Spirito Santo “fu sempre presente nella vita del Signore, divenendone l’unzione e il compagno inseparabile”, così che “tutta l’attività di Cristo si svolse nello Spirito”[9]. Avere l’unzione significa, dunque, avere lo Spirito Santo come “compagno inseparabile” nella vita, fare tutto “nello Spirito”, alla sua presenza, con la sua guida. Essa comporta una certa passività, un essere agiti, mossi, o, come dice Paolo, un “lasciarsi guidare dallo Spirito” (cf. Gal 5,18).

Tutto questo si traduce, all’esterno, ora in soavità, calma, pace, dolcezza, devozione, commozione, ora in autorità, forza, potere, autorevolezza, a seconda delle circostanze, del carattere di ognuno e anche dell’ufficio che ricopre. L’esempio vivente è Gesù che, mosso dallo Spirito, si manifesta come dolce e umile di cuore, ma anche, all’occorrenza, pieno di soprannaturale autorità. È una condizione caratterizzata da una certa luminosità interiore che dà facilità e padronanza nel fare le cose. Un po’ come è la “forma” per l’atleta e l’ispirazione per il poeta: uno stato in cui si riesce a dare il meglio di sé.

Noi sacerdoti dovremmo abituarci a chiedere l’unzione dello Spirito prima di accingerci a un’azione importante a servizio del regno: una decisione da prendere, una nomina da fare, un documento da scrivere, una commissione da presiedere, una predica da preparare. Io l’ho appreso a mie spese. Mi sono trovato a volte a dover parlare a un vasto uditorio, in una lingua straniera, magari appena arrivato da un lungo viaggio. Buio totale. La lingua in cui dovevo parlare mi sembrava di non averla mai conosciuta, incapacità di concentrarmi su uno schema, un tema. E il canto iniziale stava per finire…Allora mi sono ricordato dell’unzione e in fretta ho fatto una breve preghiera: “Padre, nel nome di Cristo, ti chiedo l’unzione dello Spirito!”

A volte, l’effetto è immediato. Si sperimenta quasi fisicamente la venuta su di sé dell’unzione. Una certa commozione attraversa il corpo, chiarezza nella mente, serenità nell’anima; scompare la stanchezza, il nervosismo, ogni paura e ogni timidezza; si sperimenta qualcosa della calma e dell’autorità stessa di Dio.

Molte mie preghiere, come, penso, quelle di ogni cristiano, sono rimaste inascoltate, quasi mai però questa per l’unzione. Pare che davanti a Dio abbiamo una specie di diritto di reclamarla. In seguito ho speculato anche un po’ su questa possibilità. Per esempio, se devo parlare di Gesù Cristo faccio un’alleanza segreta con Dio Padre, senza farlo sapere a Gesù, e dico: “Padre, devo parlare del tuo Figlio Gesù che ami tanto: dammi l’unzione del tuo Spirito per arrivare al cuore della gente”. Se devo parlare di Dio Padre, il contrario: faccio un’intesa segreta con Gesù…La dottrina della Trinità è meravigliosa anche per questo.

5. Unti per diffondere nel mondo il buon odore di Cristo

Nello stesso contesto della 2 Corinzi, l’Apostolo, sempre riferendosi al ministero apostolico, sviluppa la metafora dell’unzione con quella del profumo che ne è l’effetto; scrive: “Siano rese grazie a Dio che sempre ci fa trionfare in Cristo e che per mezzo nostro spande dappertutto il profumo della sua conoscenza. Noi siamo infatti davanti a Dio il profumo di Cristo” ( 2 Cor 2, 14-15).

Questo dovrebbe essere il sacerdote: il buon profumo di Cristo nel mondo! Ma l’Apostolo ci mette sull’avviso, aggiungendo subito dopo: “Abbiamo questo tesoro in vasi di terra” (2 Cor 4,7). Sappiamo fin troppo bene, dalla dolorosa e umiliante esperienza recente, cosa tutto questo significa. Gesù diceva agli apostoli: “Voi siete il sale della terra; ma, se il sale diventa insipido, con che lo si salerà? Non è più buono a nulla se non a essere gettato via e calpestato dagli uomini” (Mt 5,13). La verità di questa parola di Cristo è dolorosamente sotto i nostri occhi. Anche l’unguento se perde l’odore e si guasta, si trasforma nel suo contrario, in lezzo, e anziché attirare a Cristo, allontana da lui. Anche per rispondere a questa situazione il Santo Padre ha indetto il presente anno sacerdotale. Lo dice apertamente nella lettera di indizione: “ Ci sono purtroppo anche situazioni, mai abbastanza deplorate, in cui è la Chiesa stessa a soffrire per l’infedeltà dei alcuni suoi ministri. È il mondo a trarre allora motivo di scandalo e di rifiuto”. La lettera del papa non si ferma a questa costatazione; aggiunge infatti: “Ciò che massimamente può giovare in tali casi alla Chiesa non è tanto la puntigliosa rilevazione delle debolezze dei suoi ministri, quanto una rinnovata e lieta coscienza della grandezza del dono di Dio, concretizzato in splendide figure di generosi pastori, di Religiosi, ardenti di amore per Dio e per le anime” . La rilevazione delle debolezze va fatta anch’essa, per rendere giustizia alle vittime e la Chiesa ora lo riconosce e la attua come meglio può, ma va fatta in altra sede e, in ogni caso, non è da essa che verrà lo slancio per un rinnovamento del ministero sacerdotale. Io ho pensato a questo ciclo di meditazioni sul sacerdozio proprio come un piccolo contributo nel senso auspicato dal Santo Padre. Vorrei, al posto mio, far parlare il mio Serafico Padre san Francesco. In un tempo in cui la situazione morale del clero era senza confronto più triste di quella di oggi, egli, nel suo Testamento, scrive: “Il Signore mi dette e mi dà tanta fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa Romana, a causa del loro ordine, che se mi dovessero perseguitare voglio ricorrere ad essi. E se io avessi tanta sapienza, quanta ne ebbe Salomone, e mi incontrassi in sacerdoti poverelli di questo mondo, nelle parrocchie dove abitano, non voglio predicare contro la loro volontà. E questi e tutti gli altri voglio temere, amare e onorare come miei signori, e non voglio in loro considerare il peccato, poiché in essi io vedo il Figlio di Dio e sono miei signori. E faccio questo perché, dell’altissimo Figlio di Dio nient’altro io vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il sangue suo che essi soli consacrano ed essi soli amministrano agli altri”.

Nel testo citato all’inizio Paolo parla della “gloria” dei ministri della Nuova Alleanza dello Spirito, immensamente più alta di quella antica. Questa gloria non viene dagli uomini e non può essere distrutta dagli uomini. Il Santo Curato diffondeva certamente intorno a sé il buon odore di Cristo ed era per questo che le folle accorrevano ad Ars; più vicino a noi, Padre Pio da Petrelcina diffondeva il profumo di Cristo, a volte anche un profumo fisico, come è attestato da innumerevoli persone degne di fede. Tanti sacerdoti, ignorati dal mondo, sono nel loro ambiente il buon odore di Cristo e del vangelo. Il “Curato di campagna” di Bernanos ha innumerevoli compagni diffusi per il mondo, in città non meno che in campagna.

Il Padre Lacordaire ha tracciato un profilo del sacerdote cattolico, che può apparire oggi un po’ troppo ottimistico e idealizzato, ma ritrovare l’ideale e l’entusiasmo per ministero sacerdotale è proprio la cosa che ci occorre in questo momento e perciò lo riascoltiamo a conclusione della presente meditazione:

“Vivere in mezzo al mondo senza alcun desiderio per i suoi piaceri; essere membro di ogni famiglia, senza appartenere ad alcuna di esse; condividere ogni sofferenza, essere messo a parte di ogni segreto, guarire ogni ferita; andare ogni giorno dagli uomini a Dio per offrirgli la loro devozione e le loro preghiere, e tornare da Dio agli uomini per portare a essi il suo perdono e la sua speranza; avere un cuore di acciaio per la castità e un cuore di carne per la carità; insegnare e perdonare, consolare e benedire ed essere benedetto per sempre. O Dio, che genere di vita è mai questo? È la tua vita, o sacerdote di Gesù Cristo!”[10].


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1) S. Ireneo, Adv. Haer. III, 24, 1.
2) S. Atanasio, Lettere a Serapione, III, 3 (PG 26, 628 s.).

3) PO, 1,2.

4) S. Agostino, Sulla prima lettera di Giovanni, 3,5 (PL 35, 2000); cf. 3, 12 (PL 35, 2004).

5) Cf. S. Agostino, Sulla prima lettera di Giovanni, 3,13 (PL 35, 2004 s.); cf. S. Gregorio Magno, Omelie sui Vangeli 30, 3 (PL 76, 1222).

6) S. Bernardo, Sul Cantico, I, 6, 11 (ed. Cistercense, I, Roma 1957, p.7).

7) S. Bonaventura, IV, d.23,a.1,q.1 (ed. Quaracchi, IV, p.589); Sermone III su S. Maria Maddalena (ed. Quaracchi, IX, p. 561).

8) Ibidem, VII, 5.

9) S. Basilio, Sullo Spirito Santo, XVI, 39 (PG 32, 140C).

10) H. Lacordaire, cit. da D.Rice, Shattered Vows, The Blackstaff Press, Belfast 1990, p.137.



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[Modificato da S_Daniele 13/12/2009 12:03]
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Terza Predica d'Avvento: "Maria, madre e modello del sacerdote"
Del Predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa
CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 18 dicembre 2009 (ZENIT.org).-

Pubblichiamo di seguito il testo della terza meditazione d'Avvento che il Predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., ha tenuto questo venerdì alla presenza di Benedetto XVI e della Famiglia pontificia nella cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico.

Il tema delle meditazioni di quest'anno è: “Ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio” (1 Corinzi 4, 1),


* * *

Nella lettera a tutti i sacerdoti in occasione del Giovedì Santo del 1979, la prima della serie del suo pontificato, Giovanni Paolo II scriveva: “C’è, nel nostro sacerdozio, ministeriale la dimensione stupenda e penetrante della vicinanza della madre di Cristo”. In quest’ultima meditazione di Avvento, vorremmo riflettere proprio su questa vicinanza tra Maria e il sacerdote.

Di Maria non si parla molto spesso nel Nuovo Testamento. Tuttavia, se ci facciamo caso, notiamo che ella non è assente in nessuno dei tre momenti costitutivi del mistero cristiano che sono: l'Incarnazione, il Mistero pasquale, e la Pentecoste. Maria fu presente nell'Incarnazione perché essa è avvenuta in lei; fu presente nel Mistero pasquale, perché è scritto che: “ presso la croce di Gesù stava Maria sua madre” (cf Gv 19, 25); fu presente nella Pentecoste, perché è scritto che gli apostoli erano “ assidui e concordi nella preghiera con Maria, la madre di Gesù “ (cf At 1, 14).

Ognuna di queste tre presenze ci rivela qualcosa della misteriosa vicinanza tra Maria e il sacerdote, ma trovandoci nell’imminenza del Natale, vorrei limitarmi alla prima di esse, a quello che Maria dice del sacerdote e al sacerdote nel mistero dell’incarnazione.

1. Quale rapporto tra Maria e il sacerdote?

Vorrei anzitutto accennare alla questione del titolo di sacerdote attribuito alla Vergine nella tradizione. Uno scrittore della fine del V secolo chiama Maria “Vergine e allo stesso tempo sacerdote e altare che ci ha dato Cristo pane del cielo per la remissione dei peccati”[1]. Dopo di lui sono frequenti i riferimenti al tema di Maria sacerdote che però divenne oggetto di sviluppi teologici solo nel secolo XVII, nella scuola francese di San Sulpizio. In essa il sacerdozio di Maria non viene messo tanto in rapporto con il sacerdozio ministeriale quanto con quello di Cristo.

Alla fine del secolo XIX si diffuse una vera e propria devozione alla Vergine - sacerdote e san Pio X accordò anche una indulgenza alla relativa pratica. Quando però si intravide il pericolo di confondere il sacerdozio di Maria con quello ministeriale, il magistero della Chiesa divenne reticente e due interventi del Santo Ufficio posero praticamente fine a tale devozione[2].

Dopo il concilio si continua a parlare del sacerdozio di Maria, collegandolo però non al sacerdozio ministeriale, e neppure a quello supremo di Cristo, ma al sacerdozio universale dei fedeli: ella possederebbe a titolo personale, come figura e primizia della Chiesa, quel “sacerdozio regale” (1 Pt 2,9) che tutti i battezzati posseggono a titolo collettivo.

Che possiamo ritenere di questa lunga tradizione che associa Maria al sacerdote e che senso dare alla “vicinanza” tra essi di cui parlava Giovanni Paolo II? Resta, a me pare, la analogia o la corrispondenza dei piani, all’interno del mistero della salvezza. Quello che Maria è stata sul piano della realtà storica, una volta per tutte, il sacerdote lo è ogni volta di nuovo sul piano della realtà sacramentale.

In questo senso si possono intendere le parole di Paolo VI: “Quali relazioni e quali distinzioni vi sono fra la maternità di Maria, resa universale dalla dignità e dalla carità della posizione assegnatale da Dio nel piano della Redenzione, e il sacerdozio apostolico, costituito dal Signore per essere strumento di comunicazione salvifica fra Dio e gli uomini? Maria dà Cristo all’umanità; e anche il Sacerdozio dà Cristo all’umanità, ma in modo diverso, com’è chiaro; Maria mediante l’Incarnazione e mediante l’effusione della grazia, di cui Dio l’ha riempita; il Sacerdozio mediante i poteri dell’ordine sacro[3].

L’analogia tra Maria e il sacerdote si può esprimere così. Maria, per opera dello Spirito Santo, ha concepito Cristo e, dopo averlo nutrito e portato nel suo seno, lo ha dato alla luce a Betlemme; il sacerdote, unto e consacrato di Spirito Santo nell’ordinazione, è chiamato anche lui a riempirsi di Cristo per poi darlo alla luce e farlo nascere nelle anime mediante l’annuncio della parola, l’amministrazione dei sacramenti.

In questo senso il rapporto tra Maria e il sacerdote ha una lunga tradizione dietro di sé, molto più autorevole di quella di Maria – sacerdote. Riprendendo un pensiero di Agostino[4] il Con­cilio Vaticano II scrive: “ La Chiesa... diventa essa pure madre, poiché con la predicazione e il battesimo genera a una vita nuova e immortale i figlioli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio“ [5].

Il battistero, dicevano i Padri, è il seno in cui la Chiesa dà alla luce i suoi figli e la parola di Dio è il latte puro con cui li nutre: “O prodigio mistico! Uno è il Padre di tutti, uno anche il Verbo di tutti, uno e identico dappertutto è anche lo Spirito Santo e una sola è la Vergine Madre: così io amo chiamare la Chiesa. Pura come vergine, amabile come madre, chiamando a raccolta i suoi figli, li nutre con quel sacro latte che è la parola destinata ai bambini appena nati (cf 1 Pt 2, 2)”[6].

Il beato Isacco della Stella, in una pagina che abbiamo letto nell’ufficio delle letture di sabato scorso, ha fatto una sintesi di questa tradizione: “ Maria e la Chiesa, scrive, sono una madre e più madri; una vergine e più vergini. L'una e l'altra madre, l'una e l'altra vergine. L'una e l'al­tra concepisce senza concupiscenza dallo stesso Spirito; l'una e l'altra dà a Dio Padre una prole senza peccato. Quella, senza al­cun peccato, partorì al corpo il Capo; questa, nella remissione di tutti i peccati, partorisce il corpo al Capo”[7].

Quello che in questi testi si dice della Chiesa nel suo insieme, come sacramento di salvezza, va applicato in modo speciale ai sacerdoti, perché, ministerialmente, sono essi che, in concreto, generano Cristo nelle anime mediante la parola e i sacramenti.

2. Maria credette

Fin qui l’analogia tra Maria e il sacerdote sul piano, per così dire, oggettivo o della grazia. Esiste però un’analogia anche sul piano soggettivo, cioè tra il contributo personale che la Vergine ha dato alla grazia dell’elezione e il contributo che il sacerdote è chiamato a dare alla grazia dell’ordinazione. Nessuno dei due è un puro canale che lascia passare la grazia senza nulla apportarvi di proprio.

Tertulliano parla di una versione del docetismo gnostico, secondo cui Gesù era nato, sì, da Maria, ma non concepito in lei e da lei; il corpo di Cristo, venuto dal cielo, sarebbe passato attraverso la Vergine, ma non generato in lei e da lei; Maria sarebbe stata per Gesù una via, non una madre, e Gesù per Maria un ospite, non un figlio[8]. Per non ripetere questa forma di docetismo nella sua vita, il sacerdote non può limitarsi a trasmette agli altri un Cristo imparato dai libri che non è diventato prima carne della sua carne e sangue del suo sangue. Come Maria (l’immagine è di San Bernardo) egli deve essere un serbatoio che fa traboccare al di fuori ciò di cui è pieno dentro, non un canale che si limita a far passare l’acqua senza nulla trattenerne.

L’apporto personale, comune a Maria e al sacerdote, si riassume nella fede. Maria, scrive Agostino, “per fede concepì e per fede partorì” (fide concepit, fide peperit)[9]; anche il sacerdote per fede porta Cristo nel suo cuore e mediante la fede lo comunica agli altri. Sarà il centro della meditazione di oggi: cosa il sacerdote può imparare dalla fede di Maria.

Quando Maria giunse da Elisabetta, questa l'accolse con grande gioia e, “piena di Spirito Santo “, esclamò: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore” (Lc l, 45). Non c'è dubbio che questo aver creduto si riferi­sce alla risposta di Maria all'angelo: “Eccomi, sono la serva del Si­gnore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1, 38).

A prima vista, quello di Maria fu un atto di fede facile e per­fino scontato. Diventare madre di un re che avrebbe regnato in eterno sulla casa di Giacobbe, madre del Messia! Non era quel­lo che ogni fanciulla ebrea sognava di essere? Ma questo è un modo di ragionare assai umano e carnale. Maria viene a tro­varsi in una totale solitudine. A chi può spiegare ciò che è av­venuto in lei? Chi la crederà quando dirà che il bimbo che por­ta nel grembo è “opera dello Spirito Santo “? Questa cosa non è avvenuta mai prima di lei e non avverrà mai dopo di lei.

Maria conosceva certamente ciò che era scritto nel libro della legge e cioè che se la fanciulla, al momento delle nozze, non fosse stata trovata in stato di verginità, doveva essere fatta uscire all'ingres­so della casa del padre e lapidata dalla gente del villaggio (cf Dt 22, 20 s). Noi parliamo volentieri oggigiorno del rischio della fede, intendendo, in genere, con ciò, il rischio intellettuale; ma per Maria si trattò di un rischio reale!

Carlo Carretto, nel suo li­bretto sulla Madonna, narra come giunse a scoprire la fede di Maria. Quando viveva nel deserto, aveva saputo da alcuni suoi amici Tuareg che una ragazza dell'accampamento era stata promessa sposa a un giovane, ma che non era andata ad abitare con lui, essendo troppo giovane. Aveva collegato questo fatto con quello che Luca dice di Maria. Perciò ripassando, dopo due anni, in quello stesso accampamento, chiese notizie della ragaz­za. Notò un certo imbarazzo tra i suoi interlocutori e più tardi uno di loro, avvicinandosi con grande segretezza, fece un segno: passò una mano sulla gola con il gesto caratteristico degli arabi quando vogliono dire: “E stata sgozzata “. Si era scoperta incin­ta prima del matrimonio e l'onore della famiglia esigeva quella fine. Allora ripensò a Maria, agli sguardi impietosi della gente di Nazareth, agli ammiccamenti, capì la solitudine di Maria, e quella notte stessa la scelse come compagna di viaggio e maestra della sua fede [10].

Dio non strappa mai alle creature dei consensi, nascondendo loro le conseguenze, ciò cui andranno incontro. Lo vediamo in tutte le grandi chia­mate di Dio. A Geremia preannuncia: “Ti muoveranno guerra” (Ger l, 19) e di Saulo, dice ad Anania: “Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome2 (At 9, 16). Solo con Maria, per una missione come la sua, avrebbe agito diversamente? Nella luce dello Spirito Santo, che accompagna la chiamata di Dio, el­la ha certamente intravisto che anche il suo cammino non sa­rebbe stato diverso da quello di tutti gli altri chiamati. Del resto, Simeone, ben presto, darà espressione a questo presentimento, quando le dirà che una spada le avrebbe trapassato l'anima.

Uno scrittore moderno, Erri De Luca, ha descritto in modo poetico questo presentimento di Maria al momento della nascita di Gesù. Ella è sola nella grotta, Giuseppe veglia all’esterno (per legge nessun uomo può assistere al parto); ha appena dato alla luce il figlio, quando delle strane associazioni le balenano nella mente: “Perché, figlio mio, nasci proprio qui a Bet-Lehem, Casa del Pane? E perché dobbiamo chiamarti Ieshu?... Fa’ che questo brivido salito sulla mia schiena, questo freddo venuto dal futuro sia lontano da lui”. La madre presagisce che quel figlio le sarà tolto, allora ripete tra sé: “Fino alla prima luce Ieshu è solamente mio. Voglio cantare una canzone con queste tre parole e basta. Stanotte qui a Bet Lehem è solamente mio”. E, così dicendo, se lo porta al seno per allattarlo[11].

Maria è l'unica ad aver creduto “in situazione di contemporaneità”, cioè mentre la cosa accadeva, prima di ogni conferma e di ogni convalida da parte degli eventi e della storia [8]. Gesù disse a Tommaso: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!” (Gv 20, 29): Maria è la prima di coloro che hanno creduto senza aver ancora visto.

San Paolo dice che Dio ama chi dona con gioia (2 Cor 9, 7) e Maria ha detto a Dio il suo “sì “ con gioia. Il verbo con cui Maria esprime il suo consenso, e che è tradotto con “fiat “ o con “si faccia “, nell'originale, è all'ottativo (génoito), un modo verbale che in greco si usa per esprimere desiderio e perfino gioiosa impazienza che una certa cosa avvenga. Come se la Vergine dicesse: “Desidero anch'io, con tutto il mio essere, quello che Dio desidera; si compia presto ciò che egli vuole “. Davvero, come diceva sant'Agostino, prima ancora che nel suo corpo ella concepì Cristo nel suo cuore.

Ma Maria non disse “fiat” perché non parlava latino e non disse neppure “génoito “ che è parola greca. Che cosa disse allora? Qual è la parola che, nella lingua parlata da Maria, corrisponde più ' da vicino a questa espressione? Quando voleva dire a Dio “sì, così sia “, un ebreo diceva “amen! “ Se è lecito cer­care di risalire, con pia riflessione, all'ipsissima vox, alla parola esatta uscita dalla bocca di Maria - o almeno alla parola che c'era, a questo punto, nella fonte giudaica usata da Luca -, que­sta deve essere stata proprio la parola “amen “.

Ricordiamo i salmi che nella Volgata latina terminavano con l’espressione: “fiat, fiat”?; nel testo greco dei LXX, a quel punto, c’è “genoito, genoito” e nell’originale ebraico conosciuto da Maria c’è “amen, amen”.

Amen è parola ebraica, la cui radice significa solidità, certezza; era usata nella liturgia come risposta di fede alla parola di Dio. Con l'“amen “ si riconosce quel che è stato detto come paro­la ferma, stabile, valida e vincolante. La sua traduzione esatta, quando è risposta alla parola di Dio, è questa: “Così è e così sia “. Indica fede e obbedienza insieme; riconosce che quel che Dio dice è vero e vi si sottomette. E dire “sì “ a Dio. In questo senso lo troviamo sulla bocca stessa di Gesù: “Sì, amen, Padre, perché così è piaciuto a te... “ (cf Mt 11, 26). Egli anzi è l'Amen personificato: Così parla l’Amen... (Ap 3, 14) ed è per mezzo di lui che ogni altro “amen “ di fede pronunciato sulla terra sale ormai a Dio (cf 2 Cor l, 20). Anche Maria, dopo il Figlio, è l’ amen a Dio fatto persona.

La fede di Maria è dunque un atto d'amore e di docilità, libe­ro anche se suscitato da Dio, misterioso come misterioso è ogni volta l'incontro tra la grazia e la libertà. E questa la vera gran­dezza personale di Maria, la sua beatitudine confermata da Cri­sto stesso. “Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte” (Lc 11, 27), dice una donna nel Vangelo. La donna proclama Maria beata perché ha portato Gesù; Eli­sabetta la proclama beata perché ha creduto; la donna proclama beato il portare Gesù nel grembo, Gesù proclama beato il portarlo nel cuore: “Beati piuttosto - risponde Gesù - coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano”. Egli aiuta, in tal modo, quella donna e tutti noi, a capire dove risiede la grandezza personale di sua Madre. Chi è infatti che “custodiva“ le parole di Dio più di Maria, della quale è detto due volte, dalla stessa Scrittura, che “custodiva tutte le parole nel suo cuore “? (cf Lc 2, 19.51).

Non dovremmo concludere il nostro sguardo alla fede di Maria con l'impressione che Maria abbia creduto una volta e poi basta nella sua vita; che ci sia stato un solo grande atto di fede nella vita della Madonna. Quante volte, in seguito all'Annunciazione, Maria sarà stata martirizzata dall'apparente contrasto della sua situazione con tutto ciò che era scritto e conosciuto, circa la volontà di Dio, nell'Antico Testamento e circa la figura stessa del Messia! Il Concilio Vaticano II ci ha fatto un grande dono, afferman­do che anche Maria ha camminato nella fede, anzi che ha “progredito” nella fede, cioè è cresciuta e si è perfezionata in essa [12].

3. Crediamo anche noi!

Passiamo ora da Maria al sacerdote. Sant'Agostino ha scritto: “Maria credette e in lei quel che credette si avverò. Crediamo anche noi, perché quel che si avverò in lei possa giovare anche a noi”[13]. Crediamo anche noi! La contemplazione della fede di Maria ci spinge a rinnovare anzitutto il nostro personale atto di fede e di abbandono a Dio.

Tutti devono e possono imitare Maria nella sua fede, ma in modo tutto speciale deve farlo il sacerdote. “Il mio giusto - dice Dio - vivrà di fede “ (cf Abacuc 2, 4; Rm 1, 17): questo vale, a un titolo speciale, per il sacerdote. Egli è l'uomo della fede. La fede è ciò che determina, per così dire, il suo “peso specifico” e l’efficacia del suo ministero.

Ciò che i fedeli colgono immedia­tamente in un sacerdote e in un pastore, è se “ ci crede “, se crede in ciò che dice e in ciò che celebra. Chi dal sacerdote cer­ca anzitutto Dio, se ne accorge subito; chi non cerca da lui Dio, può essere facilmente tratto in inganno e indurre in inganno lo stesso sacerdote, facendolo sentire importante, brillante, al pas­so coi tempi, mentre, in realtà, è un “bronzo che tintinna e un cembalo squillante”.

Perfino il non credente che si accosta al sacerdote in uno spirito di ricerca, capisce subi­to la differenza. Quello che lo provocherà e che potrà metterlo salutarmente in crisi, non sono in genere le più dotte discussioni della fede, ma trovarsi davanti a uno che crede veramente con tutto se stesso. La fede è contagiosa. Come non si contrae contagio, sentendo solo parlare di un virus o studiandolo, ma venendone a contatto, così è con la fede.

A volte si soffre e magari ci si lamenta in preghiera con Dio, perché la gente abbandona la Chiesa, non lascia il peccato, perché parliamo parliamo, e non succede niente. Un giorno gli apostoli tentarono di cacciare il demonio da un pove­ro ragazzo, ma senza riuscirvi. Dopo che Gesù ebbe cacciato, lui, lo spirito cattivo dal ragazzo, si accostarono a Gesù in di­sparte e gli chiesero: “Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?” E Gesù rispose: “Per la vostra poca fede” (Mi 17, 19-20).

San Bonaventura racconta co­me un giorno, mentre era sul monte della Verna, gli tornò in mente ciò che dicono i santi Padri e cioè che l'anima devota, per grazia dello Spirito Santo e la potenza dell'Al­tissimo, può spiritualmente concepire per fede il benedetto Verbo del Padre, partorirlo, dargli il nome, cercarlo e adorarlo con i Magi e infine presentarlo felicemente a Dio Pa­dre nel suo tempio. Scrisse allora un opuscolo intitolato “Le cinque feste di Gesù bambino”, per mostrare come il cristiano può rivivere in sé ognuno di questi cinque momenti della vita di Gesù. Mi limito a ciò che san Bonaventura dice delle due prime feste, la concezione e la nascita, applicandolo in particolare al sacerdote.

Il sacerdote conce­pisce Gesù quando, scontento della vita che conduce, stimolato da sante ispirazioni e accendendosi di santo ardore, infine stac­candosi risolutamente dalle sue vecchie abitudini e difetti, è come fecondato spiritualmente dalla grazia dello Spirito Santo e concepisce il proposito di una vita nuova.

Una volta concepito, il benedetto Figlio di Dio nasce nel cuore del sacerdote, allorché, dopo aver fatto un sano discernimen­to, chiesto opportuno consiglio, invocato l'aiuto di Dio, mette immediatamente in opera il suo santo proposito, comin­ciando a realizzare quello che da tempo andava maturando, ma che aveva sempre rimandato per paura di non esserne capace.

Questo proposito di vi­ta nuova deve, però, tradursi subito, senza rinvii, in qualcosa di concreto, in un cambiamento, possibilmente anche esterno e visibile, nella nostra vita e nelle nostre abitudini. Se il proposito non è messo in atto, Gesù è concepito, ma non è partorito. Sarà uno dei tanti aborti spirituali di cui è pieno purtroppo il mondo delle anime.

Ci sono due brevissime parole che Maria pronunciò al momento dell’Annunciazione e il sacerdote pronuncia nel momento della sua ordinazione: “Eccomi!” e “Amen”, o “Sì”. Ricordo il momento in cui ero davanti all’altare per l’ordinazione con una decina di miei compagni. A un certo punto venne pronunciato il mio nome e io risposi emozionatissimo: “Eccomi!”

Nel corso del rito, ci furono rivolte alcune domande: “Vuoi esercitare il ministero sacerdotale per tutta la vita?”, “Vuoi adempiere degnamente e fedelmente il ministero della parola nella predicazione?”, “Vuoi celebrare con devozione e fedeltà i misteri di Cristo?”. Ad ogni domanda rispondemmo: “Sì, lo voglio!”

Il rinnovamento spirituale del sacerdozio cattolico, auspicato dal Santo Padre, sarà proporzionato allo slancio con cui ognuno di noi, sacerdoti o vescovi della Chiesa, saremo capaci di pronunciare di nuovo un gioioso: “Eccomi!” e “Sì, lo voglio!”, facendo rivivere l’unzione ricevuta nell’ordinazione. Gesù entrò nel mondo dicendo: “Ecco, io vengo, per fare, o Dio, la tua volontà!” (Eb 10,7). Noi lo accogliamo, in questo Natale, con le stesse parole: “Ecco, io vengo, Signore Gesù, a fare la tua volontà!”.




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1) Ps. Epifanio, Omelia in lode della Vergine (PG 43, 497)

2) Cf. su tutta la questione, R. Laurentin, Maria – ecclesia – sacerdotium, Parigini 1952; art. “Sacerdoti” in Nuovo Dizionario di Mariologia, Ed. Paoline 1985, 1231-1242.

3) Paolo VI, Udienza generale del 7, Ott. 1964.

4) S. Agostino, Discorsi 72 A, 8 (Misc. Agost. I, p.164).

5) Lumen gentium, 64.

6) Clemente Alessandrino, Pedagogo, I, 6.

7) B. Isacco della Stella, Discorsi 51 (PL 194, 1863).

8) Tertulliano, De carne Christi, 20-21 (CCL 2, 910 ss.).

9) S. Agostino, Discorsi 215, 4 (PL 38,1074).

10) C. Carretto, Beata te che hai creduto, Ed. Paoline 1986, pp. 9 ss.

11) E. De Luca, In nome della madre, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 66 ss.

12) Lumen gentium, 58.

13) S. Agostino, Discorsi, 215,4 (PL 38, 1074).

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