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Il convegno "Dio oggi. Con lui o senza di lui cambia tutto"

Ultimo Aggiornamento: 15/03/2010 21:05
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[ange6dicembre7.jpg] 

MESSAGGIO DEL PAPA AL CONVEGNO DEL COMITATO PER IL PROGETTO CULTURALE DELLA CEI

Al Venerato Fratello
il Signor Cardinale
Angelo Bagnasco
Arcivescovo Metropolita di Genova
Presidente della Conferenza
Episcopale Italiana


In occasione del Convegno "Dio oggi: con lui o senza di lui cambia tutto", che si svolge a Roma dal 10 al 12 dicembre, desidero manifestare a Lei, venerato Fratello, alla Conferenza Episcopale Italiana e, in particolare, al Comitato per il Progetto Culturale, vivo apprezzamento per tale importante iniziativa, che affronta uno dei grandi temi che da sempre affascinano ed interrogano lo spirito umano.

La questione di Dio è centrale anche per la nostra epoca, nella quale spesso si tende a ridurre l'uomo ad una sola dimensione, quella "orizzontale", ritenendo irrilevante per la sua vita l'apertura al Trascendente. La relazione con Dio, invece, è essenziale per il cammino dell'umanità e, come ho avuto modo di affermare più volte, la Chiesa e ogni cristiano hanno proprio il compito di rendere Dio presente in questo mondo, di cercare di aprire agli uomini l'accesso a Dio.

In questa prospettiva si pone l'evento internazionale di questi giorni. L'ampiezza di approccio alla importante tematica, che caratterizza l'incontro, permetterà di tracciare un quadro ricco e articolato della questione di Dio, ma soprattutto sarà di stimolo per una più profonda riflessione sul posto che occupa Dio nella cultura e nella vita del nostro tempo. Da una parte, infatti, si intende mostrare le varie strade che conducono ad affermare la verità circa l'esistenza di Dio, quel Dio che l'umanità ha da sempre in qualche modo conosciuto, pur nei chiaroscuri della sua storia, e che si è rivelato con lo splendore del suo volto nell'alleanza con il popolo di Israele e, al di là di ogni misura e attesa, in modo pieno e definitivo, in Gesù Cristo.

Questi è il Figlio di Dio, il Vivente che entra nella vita e nella storia dell'uomo per illuminarle con la sua grazia, con la sua presenza. Dall'altra parte, si vuole mettere proprio in luce l'importanza essenziale che Dio ha per noi, per la nostra vita personale e sociale, per la comprensione di noi stessi e del mondo, per la speranza che illumina il nostro cammino, per la salvezza che ci attende oltre la morte.

Verso questi obiettivi sono indirizzati i numerosi interventi, secondo le molteplici prospettive che saranno oggetto di studio e di confronto: dalla riflessione filosofica e teologica alla testimonianza delle grandi religioni; dallo slancio verso Dio, che trova espressione nella musica, nelle lettere, nelle arti figurative, nel cinema e nella televisione agli sviluppi delle scienze, che cercano di leggere in profondità i meccanismi della natura, frutto dell'opera intelligente di Dio Creatore; dall'analisi dell'esperienza personale di Dio alla considerazione delle dinamiche sociali e politiche di un mondo ormai globalizzato.
In una situazione culturale e spirituale come quella che stiamo vivendo, dove cresce la tendenza a relegare Dio nella sfera privata, a considerarlo come irrilevante e superfluo, o a rifiutarlo esplicitamente, auspico di cuore che questo evento possa contribuire almeno a diradare quella penombra che rende precaria e timorosa per l'uomo del nostro tempo l'apertura verso Dio, sebbene Egli non cessi mai di bussare alla nostra porta. Le esperienze del passato, anche non lontano da noi, insegnano che quando Dio sparisce dall'orizzonte dell'uomo, l'umanità perde l'orientamento e rischia di compiere passi verso la distruzione di se stessa. La fede in Dio apre all'uomo l'orizzonte di una speranza certa, che non delude; indica un solido fondamento su cui poter poggiare senza timore la vita; chiede di abbandonarsi con fiducia nelle mani dell'Amore che sostiene il mondo.
A Lei, Signor Cardinale, a quanti hanno contribuito a preparare il Convegno, ai Relatori e a tutti i partecipanti va il mio cordiale saluto con l'augurio di un pieno successo dell'iniziativa. Accompagno i lavori con la preghiera e con la mia Benedizione Apostolica, propiziatrice di quella luce dall'alto, che rende capaci di trovare in Dio il nostro tesoro e la nostra speranza.
Dal Vaticano, 7 Dicembre 2009

BENEDICTUS PP. XVI

© Copyright 2009 - Libreria Editrice Vaticana

(©L'Osservatore Romano - 11 dicembre 2009)
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11/12/2009 19:23

FEDE: SPAEMANN, NOI UOMINI SIAMO ORME DI DIO SULLA TERRA

Salvatore Izzo

(AGI) - CdV, 10 dic.

"La traccia di Dio nel mondo e' l'uomo, siamo noi stessi".
Tuttavia "quando noi, vittime dello scientismo, non crediamo piu' in noi stessi, chi e che cosa siamo, quando ci lasciamo persuadere di essere soltanto macchine per la diffusione dei nostri geni" e "consideriamo la nostra ragione soltanto come prodotto di un adattamento evolutivo, che non ha nulla a che fare con la verita'", allora "non possiamo attendere che qualcosa ci possa convincere dell'esistenza di Dio". Anche se "Dio esiste del tutto indipendentemente dal fatto che noi lo riconosciamo".
Lo ha affermato il filosofo tedesco Robert Spaemann, intervenuto questo pomeriggio alla prima sessione del convegno internazionale "Dio oggi. Con lui o senza di lui cambia tutto", promosso a Roma fino al 12 dicembre dal Comitato per il progetto culturale della Cei. "La creazione non e' un evento nel quale noi c'imbatteremo un giorno studiando la storia del cosmo" ha spiegato il prof. Spaemann: "creazione" definisce "la relazione che sussiste fra l'intero processo cosmico e la sua origine extracosmica, cioe' la volonta' divina".
"Che le cose stiano in questo modo lo dice un'antica diceria, la diceria intorno a Dio - aggiunge (riferendosi implicitamente al titolo del suo ultimo volume, "La diceria immortale", ndr) - contro la quale, "a differenza dello scientismo, fino ad oggi "le scienze non hanno formulato un solo serio argomento". Per il filosofo la scienza moderna "e' ricerca di condizioni, non si domanda che cosa e' qualcosa e perche' e', ma quali sono le condizioni del suo sorgere"; per questo "l'incondizionato, dunque Dio, per definitione non puo' comparire all'interno di una ricerca di condizioni intramondana".
"Somiglianza con Dio", per il filosofo significa invece "capacita' di verita'". "La personalita' dell'uomo - ha osservato - sta e coincide con la sua capacita' di verita'". Verita' che "presuppone Dio". "E il fatto che l'uomo sia completamente natura, un essere naturale uscito fuori dalla vita subumana, puo' non essere letale per l'autocomprensione dell'uomo solo a condizione che la natura, per parte sua, sia stata creata da Dio e la creazione dell'uomo corrisponda ad una intenzione divina".

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11/12/2009 19:24

Angelo Bagnasco e Dio oggi

"Dio non è un fatto privato, ma pervade ogni ambito della sfera pubblica"


di Roberto Paglialonga

“La questione di Dio non è un interrogativo astratto, ma penetra nel profondo le fibre dell’uomo, ed è domanda che si fa pressante proprio in questo nostro tempo”. Inizia con parole forti la
relazione del cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, al convegno internazionale “Dio oggi. Con Lui o senza di Lui tutto cambia”, organizzato dal 10 al 12 dicembre dal Progetto culturale della CEI, guidato dal cardinale Camillo Ruini. E più chiaro di così non si potrebbe.
Parole che richiamano la responsabilità di tutti e di ciascuno davanti all’inevasa e cruciale domanda sul senso della vita. Di ciascuno, perché ogni essere vivente è chiamato a rispondere alla pulsione e al desiderio di Verità; di tutti, perché Dio, e quindi la religione, non possono rimanere solamente un fatto privato, ma impregnano inevitabilmente ogni ambito della sfera pubblica. Anche se “soprattutto nel mondo occidentale la questione di Dio è lasciata fuori dai percorsi abituali della cultura, emarginata e psicologicamente rimossa”, denuncia Bagnasco. Il quale prosegue accusando l’idolatria mistificante che tende a escludere “la radicalità dell’opzione verticale: etsi Dues daretur”, e invocando contro il relativismo moderno la coraggiosa scelta della libertà interiore per la ricerca di Dio, e quindi della Verità. Che è dono, e non conquista da sventolare come uno stendardo o da usare come un’arma contro gli altri. Essa è messaggio d’amore, senza il quale – ricorda il teologo Hans Urs von Balthasar – la Verità neppure sarebbe pensabile.
Tutto facile, ma solo per chi crede, quindi? Nient’affatto. Perché la fede non è un dato che si possiede una volta per sempre, ma un cammino senza fine di scoperta e avvicinamento all’immensità dell’Assoluto, e perché il Vangelo non è un elenco di precetti morali o di buona condotta, tantomeno un settario manuale iniziatico, ma il racconto storico e la testimonianza del Figlio di Dio incarnatosi in un uomo e morto sulla croce per la redenzione e la salvezza dell’umanità.
Ecco perché è necessario, aggiunge il presidente della CEI, “rivendicare la dignità e la rilevanza culturale del Vangelo, capace di interpretare l’esistenza e di orientare l’uomo viandante del nostro tempo, di ogni tempo”. O per citare l’enciclica
Spe Salvi di Papa Benedetto XVI: “il messaggio cristiano non è solo informativo, ma performativo”, ciò significa che “il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita”.
E allora, conclude Bagnasco, “illuminata dalla Verità e animata dalla Carità, l’impresa della ricerca di Dio viene sorpresa dall’incontro”, dall’avvenimento di Cristo sulla terra, ogni giorno. “Se l’uomo ascolta la Sua voce, comincia a ritrovare se stesso”. Altrimenti il pericolo di scivolare nel nichilismo del presente diviene certezza, e il futuro si spegne in una nuvola di buio. Con Lui o senza di Lui tutto cambia, quindi. Eccome.

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11/12/2009 19:26

Il cardinale Bagnasco: il cattolico resti tale dovunque, senza schizofrenie

Sugli obiettivi del Convegno della Cei ascoltiamo il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, al microfono di Luca Collodi:


R. – E’ portare a tema, all’attenzione e alla riflessione di tutti, il più possibile, la grande questione di Dio di cui spesso ha parlato il Santo Padre Benedetto XVI e che i vescovi italiani hanno prontamente ripreso anche perché nell’esperienza proprio pastorale sia dei vescovi, sia di tutti i nostri sacerdoti, noi cogliamo quello che spesso dice il Santo Padre: cioè, come Dio sia il cuore della vita delle persone ma anche della società. Nello stesso tempo questa deve essere una realtà sempre più pensata sia dalla Chiesa nel suo insieme ma anche dall’intelligenza dell’uomo.

D. - Molti dicono: si può credere a Dio … ma c’è qualche insofferenza spesso per i dogmi, per il magistero…

R. – Si rischia a volte di credere in un Dio astratto, muto, lontano che in fondo poi non entra nella vita dell’uomo e quindi non la scomoda più di tanto. Questo è un rischio e certamente non è il Dio di Gesù, il Dio della Rivelazione. Il Dio della Rivelazione è un Dio che si è manifestato in Gesù Cristo appunto, nella sua parola, nella sua vita, nella sua morte e resurrezione e questo entra nella vita delle persone, come della società, per orientare, per illuminare e per salvare. Allora una fede senza Cristo e senza le verità della fede diventa veramente una fede vuota e alla fine poi irrilevante per la vita stessa.

D. – La ragione può favorire delle scorciatoie per arrivare a Dio…

R. - Non parlerei tanto di scorciatoie quanto delle piste, come ricorda Sant’Agostino, perché la fede non è mai in una posizione fideistica e cioè irragionevole. La fede non è razionale di natura sua ma non è neppure irragionevole, è ragionevole: cioè, si poggia anche su delle ragioni, delle tracce, dei riflessi che Dio ha lasciato nella natura, nel cosmo, nella razionalità della natura come nel cuore di ogni uomo, negli aneliti del cuore umano perché attraverso queste vie - potremmo dire naturali, dell’ordine naturale - l’uomo possa accedere al mistero, al mistero santo di Dio. Direi che la ragione, l’intelligenza, è assolutamente un ingrediente della fede, qualcosa che consente di arrivare al mistero, all’infinito, per poi fare il passo decisivo della fede stessa.

D. - Nell’uomo quale rapporto giusto nella ricerca di Dio deve esserci tra anima e ragione?

R. – L’anima è il principio immortale, è il soffio di Dio che vitalizza e che fa la sintesi della persona stessa, è la sorgente ultima della dignità e del valore di ogni persona: “facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”. L’intelligenza è la facoltà del vero che oggi spesso viene contestata purtroppo da una parte della cultura contemporanea in quanto viene sfiduciata nella sua capacità di cogliere il vero. Oggi, infatti, si parla di pensiero debole e il pensiero debole è un pensiero che ha rinunciato a cogliere la verità oggettiva universale, quindi la realtà così com’è, per confinarsi unicamente nel mondo delle opinioni soggettive, personali.

D. - Il rapporto tra Dio e politica oggi quale deve essere?

R. – La politica è una dimensione costitutiva della persona umana in quanto riguarda la sua dimensione relazionale con gli altri e quindi con la società e con tutte le sue forme: lo Stato, la politica, il diritto e via discorrendo. Ora, se Dio entra nella vita di una persona vi entra in modo totalizzante, quindi senza escludere nessuna dimensione e nessun aspetto vitale dell’uomo. Ecco allora che il cristiano, il cattolico, deve essere cattolico non solamente in Chiesa o in sacrestia, ma per la strada, sul lavoro, nel mondo delle responsabilità, delle professioni e quindi anche del servizio della politica: deve entrarci da cattolico, senza dicotomie, senza schizofrenie.

D. – Aumenta l’occultismo oggi in Italia: c’è una preoccupazione in voi, vescovi su questo fronte?

R. – Tutte le forme di occultismo e di esoterismo sono delle forme, delle cifre, dei tentativi distorti attraverso i quali non poche persone cercano delle risposte a quel bisogno di comprendere il mistero della vita, di se stessi, che credono di poter trovare in queste forme veramente distorte e che si rivolgono poi contro l’uomo alla fine dei conti. E quindi sono un segnale che noi consideriamo attentamente sia come indizio di una necessità, di un’esigenza interiore, e sia anche con una certa preoccupazione per le conseguenze che spesso queste forme possono avere per l’umanità stessa.

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12/12/2009 09:01

A Roma il convegno «Dio oggi:  con lui o senza di lui cambia tutto»

Quella strana sordità


di Silvia Guidi

Colline come elefanti bianchi; forse per raccontare la prima giornata del convegno del Progetto culturale della Conferenza episcopale italiana (Cei) in corso a Roma "Dio oggi. Con Lui o senza di Lui tutto cambia" - e in particolare la tavola rotonda su Dio, la vita e la vita umana - conviene iniziare dalla fine, dall'ultimo intervento in programma, quello del cardinale Carlo Caffarra. Al termine della sua relazione, l'arcivescovo di Bologna ha citato il breve e bellissimo racconto di Ernest Hemingway - Colline come elefanti bianchi, appunto - in cui lo scrittore americano riporta con la delicatezza e la forza della grande arte un dialogo tra due fidanzati, seduti al bar di una piccola stazione ferroviaria in un paesino tra Barcellona e Madrid. Parlano del paesaggio, decidono cosa ordinare, aspettano l'arrivo del treno; sembrano chiacchierare di una questione che li riguarda direttamente, ma senza troppa importanza. In realtà, dopo le prime battute, chi legge capisce che stanno decidendo se far nascere o meno il loro bambino; si parla di un'"operazione che non è neanche un'operazione", l'unico modo per far tornare "tutto come prima".

Gli elefanti bianchi in Thailandia erano un dono regale, simbolo di maestà e bellezza; Jig, la ragazza, li vede nel profilo delle colline sbiancate dal sole nella valle dell'Ebro, mentre il fidanzato, di cui non sappiamo il nome - viene chiamato semplicemente "l'americano" - non riesce a vedere neanche la sagoma del treno che arriva.
Nel testo non ci sono mai giudizi espliciti, ma dalle frasi secche e nervose del dialogo emerge comunque il dramma della miopia ontologica dell'uomo, della sua "mancanza di visione", per usare il celebre verso di Giovanni Paolo II sulla paresi conoscitiva (e affettiva) dell'uomo contemporaneo.

Jig e il fidanzato sono seduti uno di fronte all'altra ma non potrebbero essere più lontani; lui è abituato a coprire di sentimentalismo la sua mancanza di sincerità ("mi basti tu, non ho bisogno di nessun altro"); lei è stufa della superficialità distratta della loro vita ("guardiamo delle cose e assaggiamo nuove bibite") ma ha paura di perderlo. A fine dialogo, il senso di nausea per la generica gentilezza di lui diventa insopportabile:  "Adesso grido".

Ma non è il caso di fare scenate; il treno sta per arrivare e la scelta più facile resta nascondere disagio e dolore dietro la solita frase di circostanza:  "Mi sento bene. Non ho niente. Mi sento bene" sorride Jig.
Il tema centrale della conversazione tra Carlo Caffarra, Aldo Schiavone, Enrico Berti e Giuliano Ferrara all'Auditorium di via della Conciliazione è stato proprio questo:  la strana sordità morale della nostra epoca di fronte al diritto alla vita (l'unico diritto conditio sine qua non per poter accedere a tutti gli altri) ma soprattutto di fronte a se stessi, alla propria umanità, al proprio umanissimo bisogno di significato, di compimento, di amore vero e senza termine ("una felicità a termine non può essere una vera felicità" ha chiosato Caffarra).


Un bisogno reso ancora più acuto dalla crescita vertiginosa del pensiero scientifico contemporaneo e dalle risorse tecniche a disposizione dalla seconda metà dello scorso secolo in poi secondo Aldo Schiavone, direttore dell'Istituto italiano di Scienze umane; a differenza di quello che si pensa di solito, liquidando frettolosamente ogni dialogo virtuale come una pericolosa distrazione dalla vita reale, "il carattere astratto e non materialista della vita tecnologica ci proietta di continuo sull'ignoto" reclamando limiti, paletti concettuali, giudizi chiari e argomentati, punti di riferimento capaci di orientare la navigazione in territori ricchi di potenzialità imprevedibili, ma anche di "enormi abissi di diseguaglianza". A questo proposito, Berti, che pure ammette di essere credente, considera fuorviante parlare di "sacralità" della vita, fatto salvo il valore della vita stessa; il diritto all'esistenza è un valore talmente fondamentale che la sua difesa non può dipendere da una fede religiosa, è più giuridicamente opportuno limitarsi a uno strumento condiviso da tutti come la ragione, utsi Deus non daretur, per parafrasare Ugo Grozio.

Sul tema della vita, Berti, uno dei maggiori studiosi di Aristotele, applica uno dei sillogismi pratici tanto cari allo Stagirita:  "Il mio intervento potrà sembrare ingenuo, ma per me chi ha il Dna di un essere umano è un essere umano". Un'evidenza che non è affatto recepita come tale in un mondo che scambia il Bene con il benessere, il fitness con la felicità, e dove "la vera questione è soltanto con quale menzogna si possa vivere meglio" per citare l'impietosa ironia di Robert Spaemann, che ha concluso la sua relazione al convegno della Cei con una battuta:  "È nota la storiella della scritta sul muro:  "Dio è morto, firmato Nietzsche", sotto la quale qualcuno aveva scritto "Nietzsche è morto, firmato Dio"".


(©L'Osservatore Romano - 12 dicembre 2009)
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12/12/2009 09:04




L'incarnazione, la modernità e la grammatica dell'uomo


È in corso a Roma il convegno "Dio oggi:  con lui o senza di lui cambia tutto" organizzato dal comitato per il Progetto culturale della Conferenza episcopale italiana. Dagli interventi di venerdì 11 pubblichiamo una sintesi della relazione del cardinale patriarca di Venezia e, in basso, stralci di quella pronunciata dall'arcivescovo presidente del Pontificio Consiglio della Cultura.

di Angelo Scola

La fede cristiana sa che l'unica possibilità di narrare Iddio si trova nell'ascolto di quanto Egli ha voluto liberamente comunicarci. E la comunicazione diretta dell'Invisibile ha un nome proprio, è una persona vivente:  Gesù Cristo, l'Interprete di Dio. Il Vangelo di Giovanni dice fin dall'inizio a chiare lettere:  "Dio, nessuno lo ha mai visto:  il Figlio unigenito che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato" (Giovanni, 1, 18).

In Gesù, morto e risorto, Dio ci viene incontro in quanto Dio. Hans Urs von  Balthasar  ricorda  che  "il  Dio che si immanentizza con Gesù Cristo nel mondo non si può, a partire da quest'ultimo, né costruire (Hegel), né postulare (Baio). Viene esperito come pura "grazia" (Giovanni, 1, 14.16.17)". L'umanità singolare del Figlio di Dio ha reso escatologicamente presente Dio stesso nella storia attraverso la testimonianza dello Spirito Santo che apre a ogni uomo, in modo personale, l'accesso al rapporto fra il Figlio e il Padre. È così che, alla luce della vita, passione, morte e risurrezione del Figlio incarnato si possono reperire, anche oggi, i "tratti inconfondibili" della presenza di Dio operante nella storia o almeno gli "indizi" per cui tutti possono avere notitia di Dio.

L'espressione di Balthasar è molto ardita:  "Dio (...) viene esperito". Come è possibile che Dio venga esperito? Il teologo basilese scioglie il nodo in questi termini:  "Il Verbo incarnato "è venuto nella sua proprietà" (1, 11), dunque non va semplicemente in terra straniera (come dice Karl Barth), bensì in un Paese di cui conosce la lingua:  non soltanto l'aramaico galileo, ma più a fondo la lingua della creatura in quanto tale. La logica della creatura non è straniera alla logica di Dio (...) Gesù non è una verità immaginata, ma è la pura verità, perché egli presenta nella forma mondana la spiegazione adeguata di Dio, il Padre". E qui Balthasar aggiunge una notazione importante:  "Gesù non ha avuto bisogno (per questa spiegazione) delle imagines Trinitatis l'essere mondano come tale, la sua realtà quotidiana gliene offriva più che abbastanza".

Dio parla di sé all'uomo "abbreviandosi nel Verbo incarnato" (Verbum abbreviatum, Origene d'Alessandria).
Per dire Dio occorre approfondire la grammatica di questa lingua della creatura assunta dal Verbo incarnato. Grammatica che riesce a narrarci il Divino. Così il fedele sarà in grado di confessarlo come il suo Signore e Dio, e ogni uomo, anche non credente, lo potrà riconoscere nei termini indicati da Paolo nella Lettera ai Romani (Romano Guardini).
La perenne grammatica dell'umano cui abbiamo fatto riferimento attesta anzitutto l'integralità e l'elementarità dell'esperienza umana, cioè la sua indistruttibile semplicità. Come dice Karol Wojtyla in Persona e atto, "questa esperienza nella sua sostanziale semplicità supera qualunque incommensurabilità e qualunque complessità".

In ossequio alla convinzione dogmatica della fede cattolica la creazione, pur ferita dal peccato originale, non si è mai corrotta fino a perdere i suoi tratti essenziali; e mai si potrà corrompere completamente. Dio, dopo il peccato originale, non ha "scaricato" né il mondo né gli uomini.

Perciò l'occhio del credente sarà sempre attento a riconoscere e indagare i tratti tipici dell'esperienza umana che nella sua originaria semplicità costituisce la prima narrazione di Dio al "fratello uomo". Tale esperienza universale identifica la nostra condizione creaturale così come Dio l'ha voluta e conservata pur nel suo indebolimento per il peccato. La sua permanenza è, di per se stessa, "testimonianza epistemologica" a Dio.
Qual è il contenuto sostanziale di questa testimonianza? La ragione stessa, con la sua capacità trascendentale di ospitare il reale intelligibile, in un nesso inscindibile con il dinamismo desiderante e insieme libero della volontà.

Questa è, dunque, l'esperienza umana integrale ed elementare colta nella sua radicalità.
La grammatica della lingua in cui comunicano il Verbo incarnato e la creatura ha però altre articolazioni essenziali. Tra queste bisogna soffermarsi sulle tre polarità costitutive dell'unità duale dell'io. Mi riferisco al dato antropologico essenziale che vede l'uomo uno nella dualità di anima-corpo, di uomo-donna e di individuo-società. Anche attraverso questo dato antropologico Dio narra Se stesso e ancor più si lascia narrare nell'incontro con il "testimone fedele" (cfr. Apocalisse, 1, 5; 3, 14), Gesù Cristo, in cui queste polarità - segnate da un insopprimibile elemento di tensione drammatica perché mettono in gioco la libertà del singolo - trovano adeguata stabilizzazione.

Non si tratta, sia ben chiaro, di un annullamento della tensione propria di tali polarità, né di un suo superamento attraverso una impossibile sintesi superiore. Cristo scioglie l'enigma uomo ma non pre-decide il dramma del singolo (Hans Urs von Balthasar).

Ancora una volta nella manifestazione della corrispondenza, per grazia, tra l'esperienza umana nella sua semplicità originaria e l'avvenimento dell'autocomunicazione salvifica del Dio Trinità in Gesù Cristo, si illumina il percorso di tutti gli uomini. Così, per esempio, nelle strabilianti scoperte della fisica, della biologia e delle neuroscienze a proposito della corporeità e della psichicità umana sarà sempre riconoscibile la dimensione spirituale costitutiva dell'humanum. Il valore educativo della differenza sessuale, a sua volta, permetterà di far luce sull'importanza dell'altro e sulla sua incatturabilità; mentre nella "relazione di riconoscimento" (Francesco Botturi) risulterà più evidente il valore della socialità umana accompagnata dalla comprensione che il vero essere è relazione sostanziale con l'altro e moto di allontanamento da sé (Pavel Florenskij).

All'interno di queste relazioni buone il "linguaggio mondano" in cui si è abbreviato il Verbo incarnato risuona inoltre in modo inconfondibile nel dono dell'unità e della misericordia, tracce storicamente rilevabili della caritas di Dio nei confronti degli uomini. Il peccato, con il suo seguito di morte, sofferenza e dolore, ha l'inconfondibile marchio della divisione fino alla scomposizione. Il male separa e distrugge, rompe, come ha mostrato la storia del XX secolo con le sue tragiche utopie che hanno portato il buio dell'eclissi di Dio al suo grado più tenebroso (Benedetto XVI). È perciò decisivo identificare la sostanza squisitamente divina del perdono e della misericordia, fonte unica dell'unità della persona e dell'unità fra coloro che prima erano divisi.

Analogatum princeps resta sempre il gesto di Gesù Cristo che sulla Croce offre Se stesso al Padre, nell'unità dello Spirito Santo, per riconciliare il mondo con Dio. La nuova Alleanza, nel sangue di Gesù, riconferma la prima Alleanza di Dio con i patriarchi, con Mosè, e la porta a definitivo compimento. Dall'interno di questo infinito gesto di misericordia, di cui il Nuovo Testamento non è che la documentazione e l'annuncio, parlano i segni che la rendono presente:  dal Crocifisso fino all'azione del memoriale eucaristico (e degli altri sacramenti) e ai gesti di testimonianza vissuta nei diversi ambiti dell'umana esistenza. Nel perdono efficace dei peccati degli uomini si può ritrovare l'unità perduta a cui tutti gli uomini in vario modo anelano, come vediamo nelle multiformi espressioni culturali e artistiche di ogni civiltà.


(©L'Osservatore Romano - 12 dicembre 2009)
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«Dio c’è, cercatelo nella grammatica»

Dio è «il grande rammemoratore». L’immagine di Dio che in quanto eterno tiene insieme il filo dei ricordi e delle esistenze, sarebbe piaciuta a Jorge Luis Borges. E Robert Spaemann, filosofo e teologo, porta una prova dell’esistenza di Dio attraverso questa immagine. Spaemann ha parlato ieri pomeriggio a Roma, all’apertura della conferenza «Dio Oggi», che raccoglie gli interventi di alcuni dei più attuali (e anche paradossali) pensatori dell’idea di Dio. Lo abbiamo incontrato poco prima della conferenza. L’ipotesi di Spaemann è la seguente. «Il passato - dice Spaemann - è fatto di ricordi, e anche il nostro futuro, una volta trascorso, sarà fatto di ricordi. I ricordi sono tutto quello che ci resta, si possono diradare ma non distruggere perché, come diceva Shakespeare: “what’s done cannot be undone”, ciò che è stato fatto non può essere annullato». Ma quando l’umanità sarà finita, la storia universale e le storie particolari estinte, quando non ci sarà nessun uomo che possa ricordare il passato, cosa succederà? Non saremo mai esistiti? Ovviamente no. Non possiamo pensare, anche noialtri medi esseri umani, noi che stamattina abbiamo fatto il caffè o che stiamo leggendo il giornale in tram, di non essere mai esistiti. Ecco, Spaemann dimostra che non si può pensare il passato, il futuro, e un presente che scorre, senza mettere in gioco l’idea di Dio, un garante eterno di ciò che è stato o che sarà: «Il pensiero ha bisogno dell’idea di Dio per poter parlare della realtà senza vedercela continuamente sfuggire di mano. Quando parliamo, lo facciamo dal punto di vista di un ricordo che è in noi, e che ha il suo picco nell’idea di Dio, un’idea di eternità che non ha rapporto con il contingente».
L’ipotesi di Spaemann è detta «dell’infinito futuro». E c’è anche un aspetto linguistico e grammaticale. Visto che «la nostra esperienza è immersa nel linguaggio ed è fatta di linguaggio usiamo una grammatica che è fatta teologicamente». La grammatica ha a che fare con il collegamento tra le parole, e il collegamento è un esercizio di memoria che ha come fondamento l’idea di Dio. Per dirla con Nietzsche: «Non possiamo liberarci di Dio finché continuiamo a credere nella grammatica». Insomma, per Spaemann «ogni verità è eterna», e l’eternità ha un’impronta divina. Parliamo e pensiamo come se Dio esistesse.
Ma questo non è il solo aspetto interessante del pensiero di Spaemann. Spaemann, nato nel 1927, da decenni in rapporto intellettuale con Benedetto XVI, è il più originale e raffinato dei filosofi contemporanei cattolici. Ha lavorato sul pensiero antico ma non è un tradizionalista, anzi nei suoi scritti si sente che ha digerito la filosofia contemporanea. Ad esempio: quando Spaemann afferma che la libertà vuol dire prendere la distanza da se stessi e dalla propria natura, si potrebbe pensare a un elogio alla società postumana, a un elogio del transgender, a una tipica idea postmoderna. E invece no, Spaemann vuol dire che bisogna abbandonare l’idea moderna del soddisfare a tutti i costi le passioni e i desideri, che bisogna accettare che ci sia qualcosa di più grande di questo io intelligente, insaziabile, martoriato e psicanalizzato. Per esempio qualcosa come un figlio, una famiglia, una comunità, una tradizione, persino un dovere. Insomma Spaemann è un interprete sorprendente dell’antico, che cita Aristotele e usa la sua razionalità.
Visto che è stato lo stesso Benedetto XVI a lanciare un’alleanza tra arte e religione chiediamo subito a Spaemann come si debba declinare questo rapporto: l’arte spesso si è allontanata dalla bellezza e ha cercato il brutto. «Ultimamente la devozione dei popoli si è legata al kitsch, tuttavia vorrei difendere un tantino il kitsch. C’è un kitsch innocente che non fa nulla di male, come quello di certe rappresentazioni religiose popolari. E poi c’è un kitsch cattivo. Il male del kitsch comincia quando l’artista punta a manifestare il suo sentimento che non è più religioso. “Chi vuol colpire il cuore, deve colpire la mente. Altrimenti va direttamente al cuore sì, ma finisce subito nella pancia” - Spaemann cita George Bernanos -. Ci sono artisti che tendono a presentare la propria idea di Gesù Cristo, ma i credenti molto raramente si sentono legati a queste rappresentazioni. Basterebbe vedere un’opera esposta nella galleria di Stoccarda, un Gesù Cristo dolente, ma che si trova in una campagna e non è riconoscibile. Non è il Cristo, è un uomo sofferente che rappresenta il Cristo. È l’immagine di una immagine. Una grande opera, perché evoca una memoria che è dentro tutti ma non è qualcosa di puramente soggettivo».
Ma la domanda fatale, quella che interviene sempre a chiunque si sia posto il problema Dio è: come fare a conciliare l’idea di un Dio buono con l’esistenza del male? Così Spaemann: «Non c’è altra risposta di quella che ha dato Giobbe. Protesta con Dio, e gli dice che i suoi guai sono ingiusti. Poi vengono gli amici di Giobbe e gli dicono “Dio non è ingiusto, hai fatto qualcosa di male”. Poi arriva Dio e disprezza gli amici di Giobbe, dice “non avete capito niente. Il mio servitore Giobbe è molto meglio di voi”. Il fatto che Giobbe protesta vuol dire che tiene ferma l’idea che Dio è giusto. Il male è un mistero. Ma c’è anche un’altra risposta. È la croce del Cristo, che non ha dato una spiegazione al problema del male, ma l’ha sopportato, nella sua carne. Una volta, in un’intervista allo Spiegel mi hanno chiesto: “Dov’era Dio ad Auschwitz?”. Ho risposto allora, e rispondo ancora così: “Sulla Croce”».

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Vedi anche:

Chi è Robert Spaemann

Roger Scruton: «L’arte che provoca non è arte, e la Bellezza è nei piccoli gesti»
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Si è concluso il convegno del Progetto culturale della Cei

Dio oggi non è negato ma sconosciuto


Si è chiuso a Roma, all'Auditorium della Conciliazione, il convegno "Dio oggi:  con lui o senza di lui cambia tutto" organizzato dal comitato per il Progetto culturale della Conferenza episcopale italiana. Pubblichiamo stralci dall'intervento conclusivo del presidente della Pontificia Accademia per la Vita e rettore della Pontificia Università Lateranense.

di Rino Fisichella

"Quando uno ha finito, allora comincia" (Siracide, 18, 6). È proprio così. Concludere queste giornate ricche di provocazioni su diversi fronti dalla cultura alla fede, equivale a iniziare a riflettere con maggior intensità sui contenuti che sono stati partecipati. Nella lectio conclusiva del suo insegnamento nel 1993, l'ideatore della "teologia politica", Johann Baptist Metz, diceva:  "La crisi che ha colpito il cristianesimo europeo non è più primariamente o almeno esclusivamente una crisi ecclesiale (...) La crisi è più profonda:  essa non ha affatto le sue radici solo nella situazione della Chiesa stessa:  la crisi è divenuta una crisi di Dio. Schematicamente si potrebbe dire:  religione sì, Dio no; dove questo no a sua volta non è inteso nel senso categorico dei grandi ateismi. Non esistono più grandi ateismi. L'ateismo di oggi può in realtà già di nuovo riprendere a parlare di Dio - distrattamente o tranquillamente - senza intenderlo veramente". In una parola, si ammette che la crisi odierna è determinata dal potere e sapere parlare di Dio; la cosa non può lasciare neutrali soprattutto a oltre 40 anni dal Vaticano ii che aveva tra i suoi scopi quello di parlare di Dio all'uomo di oggi in modo comprensibile. La crisi che viviamo, comunque, si potrebbe riassumere in maniera ancora più sintetica:  Dio oggi non è negato, è sconosciuto. Probabilmente, all'interno di quest'espressione c'è qualcosa di vero circa il modo di porsi del nostro contemporaneo dinanzi alla problematica che ruota intorno al nome di "Dio". Per alcuni versi, si potrebbe dire che si è passati dal "Dio:  un'ipotesi inutile" di venerata memoria, al "Dio:  la possibilità buona per l'uomo" di Gianni Vattimo nell'ultima pubblicazione di alcune settimane fa su questo tematica.
Questi giorni hanno permesso di riflettere, di vedere, di ascoltare e discutere sul tema "Dio" in riferimento ai diversi segmenti in cui la cultura si organizza:  dalla filosofia alla teologia; dalla scienza al cinema, dalla bellezza delle arti alla letteratura; insomma, un tour de force che ha mostrato le metamorfosi della cultura contemporanea e la stabilità dell'opera d'arte che non conosce trascorrere del tempo. In una parola, potremmo affermare che si è gettato un sasso nello stagno su due fronti:  quello dell'indifferenza, che spesso domina il contesto culturale su questa problematica, e quello dell'ovvietà che evidenzia quanta ignoranza domini spesso sovrana sui contenuti religiosi. Indifferenza e ovvietà, purtroppo, rodono alla base quel comune senso religioso che è ancora presente in Italia, rendendo sempre più debole la domanda religiosa e, soprattutto, la sua scelta consapevole e libera. Avere provocato un'ampia riflessione su questo tema è un servizio che si rende alle giovani generazioni più che a quanti vi hanno partecipato. Noi adulti, alla fine, siamo qui convenuti avendo un'idea chiara della fede in Dio o della sua negazione; probabilmente, l'intensità delle giornate ha permesso che qualche conoscenza ulteriore si sia aggiunta a quanto già possedevamo. Il problema, però, resta per le generazioni che seguiranno, a cui dobbiamo trasmettere con responsabilità non solo le certezze che abbiamo conquistato, ma anche il tentativo di dissolvere i dubbi che ci accompagnano per permettere che si fomenti una cultura che sappia ancora domandare, ricercare e giungere a soluzioni originali capaci di rispondere allo spirito del tempo.

Ritorna immediata, per poter compiere una sintesi di quanto è stato detto in questi giorni, la scena familiare di Paolo per le vie di Atene (Atti, 17, 16-34). Non è cambiato molto da allora. Le strade delle nostre città - sempre più monotone per la ripetitività dei modelli offerti dall'appiattimento urbanistico di questi decenni, da dove sembra scomparsa ogni forma di nuova bellezza - sono cariche di nuovi idoli. L'interesse verso un generico senso religioso - venuto meno nei decenni passati - sembra voler riprendersi una sorta di rivincita in un mondo che mostra ancora la via della secolarizzazione, anche se non è più così chiara ed evidente la strada che vuole seguire, come ha mostrato la relazione del cardinale Angelo Scola. Espressioni religiose si moltiplicano, spesso prive di spessore razionale per dare maggior spazio all'emotività, mentre nuovi messia dell'ultima ora appaiono di nuovo all'orizzonte, predicando l'imminente fine del mondo. È necessario chiedersi chi sono i nuovi Paolo di Tarso coscienti di essere portatori di una bella notizia che entra nell'areopago del nostro piccolo mondo con la convinzione e la certezza di voler annunciare lo Theòs àgnostos.

Nel mistero dell'enigmaticità della propria esistenza personale, del cosmo e di quanto ci circonda deve sorgere l'interrogativo che tocca il senso e il significato dell'esistenza. Ricorrere, mitologicamente, al "fato" - come molti oggi sono tentati di fare - potrebbe essere una scappatoia facile e già utilizzata nel passato, ma si verrebbe a compromettere il valore della libertà personale che è quanto di più geloso ognuno dovrebbe conservare. In questo richiamo ultimo e radicale alla libertà nel suo rapporto con la verità si esprime anche l'originalità del cristianesimo. Niente come la fede nel Dio che si fa uomo provoca la libertà ad assumere in prima persona il principio di responsabilità. Il Dio che ama come Gesù è il Dio responsabile del fratello che non rimane nella solitudine della morte. Senza Dio viene meno la possibilità dell'autocomprensione, dell'esercizio della libertà e della responsabilità sociale. Dunque, è proprio vero:  con lui o senza di lui cambia tutto.


(©L'Osservatore Romano - 13 dicembre 2009)
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Quei laici che non vogliono l'applauso


di Silvia Guidi

"Basta applausi, mica siamo ad Anno zero. Applaudiamo troppo, sarebbe meglio applaudire di meno e ascoltare di più"; Ernesto Galli della Loggia, docente di storia contemporanea ed editorialista del "Corriere della Sera" non ama blandire la platea, tanto meno esserne blandito. A un consenso non sufficientemente meditato, o solamente reattivo, preferisce un confronto dialettico che può arrivare alla conflittualità.

E il dibattito, effettivamente, si è notevolmente surriscaldato quando al "Dio oggi" del titolo del convegno del Progetto culturale Cei si sono affiancate parole come "storia" e "politica", durante la giornata dell'11 dicembre, che ha visto dialogare, accanto all'editorialista del più diffuso giornale italiano, il filosofo Salvatore Natoli, l'arcivescovo di Chieti-Vasto Bruno Forte e il filosofo del diritto Francesco D'Agostino. Negli "anni zero", il primo decennio del duemila, si è reso evidente "un preoccupante declino della mentalità storiografica":  gli storici sono abituati a specificare - ha continuato Galli della Loggia - e a uscire dall'indistinto delle categorie generali, mentre adesso i fatti non interessano più a nessuno ("spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate" scriveva Chesterton); per non stemperare ogni dibattito in un pulviscolo di emozioni e reazioni indistinte bisogna invece accettare la fatica della precisione.

"Per lo storico - ha detto con un'espressione volutamente provocatoria - Dio non esiste, esiste Cristo, esiste la Chiesa, esiste il cristianesimo", una realtà sociale che ha plasmato la storia politica dell'Occidente e offre un ampio ventaglio di questioni storiografiche ancora aperte, "come la capacità di misurarsi con l'impero romano, e di ripartire e rifondare le basi di una nuova struttura sociale con il nulla alle spalle quando l'impero si è dissolto". Oltre al confronto-scontro con la modernità:  "La democrazia, basandosi sulle opinioni, non è forse strutturalmente relativista?" chiosa Galli della Loggia. Di democrazia ha parlato anche Natoli, suggerendo di individuarne i presupposti teorici, paradossalmente, proprio nelle guerre di religione fra cristiani, e nel lavoro diplomatico di tessitura della pace post conflitto. Temi più "ontologici" erano stati trattati da Massimo Cacciari, affascinato intellettualmente da un Dio che "fa esodo" da se stesso per comunicare con l'uomo, e dalla tensione profondamente religiosa di Nietzsche, che cerca di "trascendersi da solo" senza trascendenza. Resta il dubbio - emerso durante l'incontro con Rémi Brague e Cacciari - che il nothing but, il "null'altro che" di tanta filosofia contemporanea non sia altro che una raffinata legittimazione della pigrizia intellettuale, l'alibi per poterci fermare a quello che già pensiamo e rinunciare non solo a Dio, ma a qualsiasi
itinerarium mentis in veritatem.


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Dio oggi non è negato, è sconosciuto
Discorso conclusivo di mons. Fisichella al convegno "Dio oggi"
ROMA, sabato, 12 dicembre 2009 (ZENIT.org).-

Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato questo sabato da mons. Rino Fisichella, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita e Rettore della Pontificia Università Lateranense, a conclusione del convegno “Dio oggi: con lui o senza di lui cambia tutto”, organizzato a Roma dal Comitato per il Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana.


 

* * *

Scrive il Libro del Siracide: "Quando uno ha finito, allora comincia" (Sir 18,6). E' proprio così. Concludere queste giornate ricche di provocazioni su diversi fronti dalla cultura alla fede, equivale ad iniziare a riflettere con maggior intensità sui contenuti che sono stati partecipati. Nella lectio conclusiva del suo insegnamento nel 1993, l'ideatore della "teologia politica", J. B. Metz, diceva: "La crisi che ha colpito il cristianesimo europeo non è più primariamente o almeno esclusivamente una crisi ecclesiale… La crisi è più profonda: essa non ha affatto le sue radici solo nella situazione della Chiesa stessa: la crisi è divenuta una crisi di Dio. Schematicamente si potrebbe dire: religione sì, Dio no; dove questo no a sua volta non è inteso nel senso categorico dei grandi ateismi. Non esistono più grandi ateismi. L'ateismo di oggi può in realtà già di nuovo riprendere a parlare di Dio –distrattamente o tranquillamente- senza intenderlo veramente" [1]. In una parola, si ammette che la crisi odierna è determinata dal potere e sapere parlare di Dio; la cosa non può lasciare neutrali soprattutto a oltre quarant'anni dal Vaticano II che aveva tra i suoi scopi quello di parlare di Dio all'uomo di oggi in modo comprensibile. La crisi che viviamo, comunque, si potrebbe riassumere in maniera ancora più sintetica: Dio oggi non è negato, è sconosciuto. Probabilmente, all'interno di quest'espressione c'è qualcosa di vero circa il modo di porsi del nostro contemporaneo dinnanzi alla problematica che ruota intorno al nome di "Dio". Per alcuni versi, si potrebbe dire che si è passati dal "Dio: un'ipotesi inutile" di venerata memoria, al "Dio: la possibilità buona per l'uomo" di G. Vattimo nell'ultima pubblicazione di alcune settimane fa su questo tematica [2].

Questi giorni hanno permesso di riflettere, di vedere, di ascoltare e discutere sul tema "Dio" in riferimento ai diversi segmenti in cui la cultura si organizza: dalla filosofia alla teologia; dalla scienza al cinema, dalla bellezza delle arti alla letteratura; insomma, un tour de force che ha mostrato le metamorfosi della cultura contemporanea e la stabilità dell'opera d'arte che non conosce trascorrere del tempo… In una parola, potremmo affermare che si è gettato un sasso nello stagno su due fronti: quello dell'indifferenza, che spesso domina il contesto culturale su questa problematica, e quello dell'ovvietà che evidenzia quanta ignoranza domini spesso sovrana sui contenuti religiosi. Indifferenza e ovvietà, purtroppo, rodono alla base quel comune senso religioso che è ancora presente nel nostro Paese, rendendo sempre più debole la domanda religiosa e, soprattutto, la sua scelta consapevole e libera. Avere provocato un'ampia riflessione su questo tema è un servizio che si rende alle giovani generazioni più che a quanti vi hanno partecipato. Noi adulti, alla fine, siamo qui convenuti avendo un'idea chiara della fede in Dio o della sua negazione; probabilmente, l'intensità delle giornate ha permesso che qualche conoscenza ulteriore si sia aggiunta a quanto già possedevamo. Il problema, però, resta per le generazioni che seguiranno, a cui dobbiamo trasmettere con responsabilità non solo le certezze che abbiamo conquistato, ma anche il tentativo di dissolvere i dubbi che ci accompagnano per permettere che si fomenti una cultura che sappia ancora domandare, ricercare e giungere a soluzioni originali capaci di rispondere allo spirito del tempo.

Ritorna immediata, per poter compiere una sintesi di quanto è stato detto in questi giorni, la scena familiare di Paolo per le vie di Atene (At 17,16-34). Non è cambiato molto da allora. Le strade delle nostre città –sempre più monotone per la ripetitività dei modelli offerti dall'appiattimento urbanistico di questi decenni, da dove sembra scomparsa ogni forma di nuova bellezza- sono cariche di nuovi idoli. L'interesse verso un generico senso religioso –venuto meno nei decessi passati- sembra voler riprendersi una sorta di rivincita in un mondo che mostra ancora la via della secolarizzazione, anche se non è più così chiara ed evidente la strada che vuole seguire, come ha mostrato la relazione del card. Angelo Scola. Espressioni religiose si moltiplicano, spesso prive di spessore razionale per dare maggior spazio all'emotività, mentre nuovi messia dell'ultima ora appaiono di nuovo all'orizzonte, predicando l'imminente fine del mondo. E' necessario chiedersi chi sono i nuovi Paolo di Tarso coscienti di essere portatori di una bella notizia che entra nell'areopago del nostro piccolo mondo con la convinzione e la certezza di voler annunciare lo Θεός άγνωστος.

"Dio": il termine è tra i più usati nel linguaggio mondiale e, tuttavia, quanti sensi diversi, differenti e, a volte, contrastanti tra di loro fino ad opporsi. Ci siamo chiesti ripetutamente an sit Deus –se Dio esiste- e quid Deus sit –cosa o chi è Dio. Domande inevitabili che non possono rimanere senza risposta; anzi, diventano ancora più necessarie dopo la provocazione che proviene dalla filosofia del linguaggio di Ludwig Wittgenstein. I credenti non possono permettere né che "Dio" rimanga un termine privo di senso –data l'impossibilità della verifica sperimentale- né che rimanga confinato in un altrettanto aprioristico Sprachspiel comprensibile solo ai pochi addetti che utilizzano la stessa grammatica. Se "Dio" ha un valore allora questo deve essere universale e, pertanto, deve essere reso accessibile per tutti con un linguaggio che nessuno esclude.

Da questa prospettiva, le giornate trascorse portano a comporre un percorso di cui sono rintracciabili alcune tappe. Un primo passaggio necessario da compiere si realizza a livello epistemologico. Si tratta di comprendere, infatti, il valore della conoscenza e di quale conoscenza sia necessaria per giungere a pronunciare con sensatezza il termine "Dio". Il tentativo di ritrovare nuove strade per evidenziare la ragionevolezza del nostro procedere è stato più volte ribadito. Gli interventi del Card. Camillo Ruini e del prof. Robert Spaemann, nella loro complementarità, portano a questa indicazione sostanziale. In qualche modo, cercavano di rispondere in termini moderni a quanto s. Agostino scriveva nel suo La fede nelle cose che non si vedono: "Vi sono alcuni i quali ritengono che la religione cristiana debba essere derisa piuttosto che accettata, perché in essa, anziché mostrare cose che si vedono, si comanda agli uomini la fede in cose che non si vedono. Dunque, per confutare coloro ai quali sembra prudente rifiutarsi di credere ciò che non possono vedere, noi, benché non siamo in grado di mostrare a occhi umani le realtà divine che crediamo, tuttavia dimostriamo alle menti umane che si devono credere anche quelle cose che non si vedono" [3].

Eppure, è necessario che proprio a livello epistemologico si faccia uno sforzo ulteriore per individuare il valore conoscitivo che la rivelazione possiede. La fede che pronuncia il termine "Dio" non è all'origine della problematica –come qualcuno ancora sostiene [4]- ma è istanza seconda, come forma conoscitiva corrispondente per accedere in modo coerente alla conoscenza propria della rivelazione. Il duplex ordo cognitionis, di cui si fece interprete il Vaticano I, possiede ancora oggi una sua valenza epistemologica non secondaria per il nostro discorso. Se si giunge ad ammettere l'esistenza di Dio come realtà personale altro dall'uomo, allora si deve pure ammettere inevitabilmente la sua libertà nell'esprimere se stesso secondo le forme che ritiene utili per la conoscenza della propria esistenza e della propria natura. Questa lettura non rappresenta primariamente una dimensione "teologica" –come potrebbe essere contestata a prima vista- essa possiede una prima giustificazione nell'ordine epistemologico. La filosofia, anzitutto, è chiamata a sviscerare il l'atto stesso della rivelazione (ipsa revelatio) come evento che accade nella storia, prima ancora dei contenuti che vengono rivelati. Il tentativo di Friedrich Schelling, d'altronde, manifesta proprio in questo settore tutta la sua pregnanza; la Philosophie der Offenbarung, infatti, è solo un esempio di quanto la filosofia possa e debba prendere in considerazione nella sua epistemologia la problematica circa la forma conoscitiva peculiare che proviene dalla rivelazione. Nel parlare di Dio, insomma, e nel dover trovare i differenti sentieri che sono utili per approdare a una risposta di senso circa la ragionevolezza del suo an sit et quid sit, non può essere emarginata la categoria di "rivelazione".

Un secondo elemento è stato offerto. Esso si pone nell'orizzonte della nuova cosmologia che costituisce a pieno titolo una sfida nella tematizzazione della problematica intorno a "Dio". Le indicazioni che sono provenute soprattutto da George Coyne, Martin Nowak e Peter van Inwagen provocano a riflettere sulla nuova identità cosmica che si sta venendo a delineare in questi decenni di grandi scoperte scientifiche e che daranno ancora più sorprese nei prossimi anni, quando saranno messe a punto le nuove tecnologie. Basti pensare, oggi, ai tentativi che si stanno svolgendo circa la possibilità di produrre in big ban (prof. Rubbia), oppure i risultati che provengono dal satellite Plunck (prof. Bersanelli) in grado di spingersi fino all'estremo dell'universo per carpirne i segreti, per comprendere quante domande si pongono su questo terreno nel momento in cui si affronta la problematica di "Dio" in riferimento alla cosmologia. Proprio nell'anno dell'astronomia, nel quarto centenario della scoperta del cannocchiale da parte di Galileo è necessario accogliere la sfida che si pone su questo terreno. Non si dimentichi, d'altronde, che le nuove generazioni fin dai primi anni di scuola iniziano a confrontarsi con queste problematiche scientifiche e la mentalità che viene acquisita richiede una risposta corrispondente nell'ambito della fede. Insomma, la "via cosmologica" che sembrava ormai superata da quella antropologica, ritorna con maggior intensità e con provocazioni ancora più forti [5].

Da questa prospettiva, comunque, dovremmo chiederci: quale relazionalità intercorre tra cosmologia e antropologia; la questione di "Dio", infatti, appartiene a questa relazione e crea un tertium con cui è necessario confrontarsi. Il principio geocentrico di un tempo ha ceduto il passo; da un mondo chiuso e confinato si passa ora ad un universo infinito che, progressivamente, non permette più neppure di concepire un centro. L'uomo scopre che il cosmo evolve, procede sempre oltre, ha una sua storia e delle sue leggi proprie che ne determinano il movimento, il divenire e il venir meno. Questa prospettiva condiziona non solo la sua esistenza, ma anche quella del cosmo che lo circonda. Non è questa la sede per inoltrarsi nella selva interpretativa delle differenti teorie sorte a riguardo. Il principio cosmologico o quello antropico rimangono tentativi che nel corso dei decenni manifestano l'interesse per la materia e troveranno nel futuro altre evoluzioni in grado di dare voce all'intelligenza degli scienziati e dei filosofi. Al di là di questo, comunque, rimane pur sempre una questione fondamentale: esiste una reciproca determinazione tra cosmologia, antropologia e teologia? La concezione che l'uomo ha di sé si trasmette inevitabilmente sul cosmo? Ed è possibile che quanto il cosmo esprime determini la visione che l'uomo acquisisce di se stesso? Dio è all'origine o del tutto fuori gioco?

Questi interrogativi non sono facilmente risolvibili rimanendo all'interno di una sola scienza. Mai come in casi simili si sente forte l'esigenza di una azione interdisciplinare che si faccia forte delle diverse competenze per raggiungere una visione d'insieme in grado di giungere a una risposta carica di senso. L'intelligibilità che si scopre nel reale –e che, non si dimentichi, è stato il presupposto esplicito dei primi artefici dell'osservazione della natura- è una proprietà insita e propria della natura oppure è una proiezione mentale del soggetto? Esiste un linguaggio oggettivo nel cosmo che io posso cogliere, perché ne porto in me gli elementi che mi permettono di costruirlo e leggerlo, oppure è tutto semplicemente una creazione arbitraria benché convenzionale a cui ci si adegua? Nella modernità l'uomo pensava che la natura non solo doveva essere rispettata, ma ad essa e alla sue leggi era necessario adeguare l'esistenza personale; oggi, al contrario, non ci si considera più ospiti del grande complesso cosmico, ma suoi architetti. Ora è l'uomo a dettare le regole e a stabilire i parametri entro cui comprendere il reale e darne spiegazione. Poiché diventiamo nuovi demiurghi non possiamo sottostare a leggi e linguaggi che non siano stati prioritariamente formulati e creati da noi. Sembra che non siamo più tenuti neppure a giustificare il nostro comportamento dopo che abbiamo delineato e progettato a tavolino, o in laboratorio, il nostro destino biologico e il resto della natura. Come si nota, la via cosmologica –pur interpretata in maniera moderna- apre certamente nuovi orizzonti per la scoperta di Dio. Benedetto XVI ha dato una sua ultima lettura proprio nei giorni scorsi quando ha scritto: "Anche oggi l'universo continua a suscitare interrogativi a cui la semplice osservazione non riesce a dare una risposta soddisfacente: le sole scienze naturali e fisiche non bastano. L'analisi dei fenomeni, infatti, se rimane rinchiusa in se stessa rischia di far apparire il cosmo come un enigma insolubile: la materia possiede un'intelligibilità in grado di parlare all'intelligenza dell'uomo e indicare una strada che va al di là del semplice fenomeno.

E' proprio la lezione di Galileo che conduce a questa considerazione. Non era, forse, lo scienziato di Pisa a sostenere che Dio ha scritto il libro della natura nella forma del linguaggio matematico? Eppure, la matematica è un'invenzione dello spirito umano per comprendere il creato. Ma, se la natura è realmente strutturata con un linguaggio matematico e la matematica inventata dall'uomo può giungere a comprenderlo ciò significa che qualcosa di straordinario si è verificato: la struttura oggettiva dell'universo e la struttura intellettuale del soggetto umano coincidono, la ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura sono identiche. Alla fine, è "una" ragione che le collega entrambe e che invita a guardare ad un'unica Intelligenza creatrice… Più la conoscenza della complessità del cosmo aumenta, maggiormente richiede una pluralità di strumenti in grado di poterla soddisfare; nessun conflitto all'orizzonte tra le varie conoscenze scientifiche e quelle filosofiche e teologiche; al contrario, solo nella misura in cui riusciranno ad entrare in dialogo e scambiarsi le rispettive competenze saranno in grado di presentare agli uomini di oggi dei risultati veramente efficaci" [6].

Una terza pista di riflessione è stata offerta dalla via pulchritudinis. Emarginare questo tentativo sarebbe ingiusto e pericoloso. Il pulchrum è una costante sfida posta nel sentiero della storia e molti si imbattono con questa categoria. Tutti siamo consapevoli del rapporto tra bellezza e discorso su "Dio". L'arte, la letteratura, la musica… scomparirebbero per i quattro quinti se Dio non esistesse. L'arte sarebbe solo frutto di fantasia senza rapporto con il reale, applicazione di linee senza un "perché" di senso. La letteratura e la musica sarebbero ridotti a versi e note dettate dal sentimento passeggero senza un aggancio con la solidità della persona a cui poterli indirizzare. La via della bellezza si impone perché apre alla conoscenza mediante la contemplazione, che per dirla con s. Tommaso est actus intellectus! Non è una via alternativa per parlare di Dio e per cercare di comprenderlo, al contrario. Come hanno mostrato soprattutto gli interventi di Roger Scruton con il recupero della "via positiva della bellezza" e di S. E. Mons. Gianfranco Ravasi, l'arte permane come la "narrazione visiva dell'esperienza dell'incontro con un volto". Riscoprire il tema del volto è quanto di più fondamentale il cristianesimo possegga. Non è stato facile per noi arrivare a questo punto, ma il mistero di Dio che si fa uomo obbliga a seguire questo percorso. Il mistero dell'incarnazione apre la strada per comprendere un Dio che non permane relegato nella sua trascendenza, ma rinuncia all'onore che gli è dovuto per farsi uomo con gli uomini ed insegnare loro la strada per entrare in comunione di vita con lui.

Qui si rende evidente la differenza tra le religioni e le stesse religioni monoteiste; il Dio di Gesù Cristo, infatti, non indica più il percorso che parte dall'uomo per raggiungere Dio; mostra, invece, che Dio va incontro all'uomo e lo raggiunge fino a condividerne la natura. In questo spazio la bellezza trova altre forme con cui esprimersi, perché al volto che viene rivelato possano essere offerte le condizioni per dare risposta di senso a ciò che l'uomo stesso vive: la sofferenza, la gioia, la gloria, il dolore, il tradimento e perfino gli stadi della vita… tutto viene rappresentato per introdurre a Dio e per spiegare l'uomo all'uomo.

Un quarto elemento per parlare di "Dio" è stato offerto dall'analisi sulle religioni e il monoteismo nei contributi dei proff. Rémi Brague e Massimo Cacciari. Probabilmente, all'interno di questo discorso si dovrebbe aprire un'ulteriore riflessione circa l'azione liturgica a cui, purtroppo, si è dato poco spazio nel nostro riflettere di questi giorni. La storia delle religioni viene in aiuto, perché evidenzia come sia un fatto comune, verificabile fin dai primordi dell'antropologia culturale, la capacità dell'uomo di creare luoghi e tempi dedicati al sacro per permettere di creare una relazione con "Dio". L'azione liturgica, il rito sono forme espressive e linguaggi con cui è necessario confrontarsi nel nostro parlare di "Dio"; illusorio pensare di emarginare questa dimensione.

Equivarrebbe a eliminare tutto il tema del linguaggio dei segni e dell'evocazione per accedere all'interno di un mondo che non trova altra risorsa per esprimersi se non quella del rito. L'analisi di questa componente mostrerebbe che si apre il passaggio per verificare quale relazionalità intercorre tra "Dio" e l'uomo senza cadere in forme di alienazione o psicosi. Il rito conferisce alla conoscenza di "Dio" uno spazio di comunicazione che ingloba l'intera realtà creata e l'uomo in essa. L'azione liturgica consente di verificare che "Dio" non permane come un'illusione creata dalla mente dell'uomo, ma una realtà con cui riferirsi in maniera oggettiva nel susseguirsi dei tempi e degli spazi che assumono valore sacro. Se le religioni hanno fatto del rito un elemento determinante ciò implica che possiede un effetto essenziale e costitutivo nel discorso su "Dio", per cui la cultura contemporanea non può né deve allontanarsi.

Una quinta pista di riflessione la vogliamo mediare dall'assioma anselmiano: rationabiliter comprehendis incomprehensibile esse. In una parola, è necessario pronunciare l'ultimo il termine che sta sempre all'inizio del pensare, non solo teologico, e che tutto determina: mistero. Si comprehendis non est Deus diceva giustamente Agostino; su questa lunghezza d'onda si è mossa sempre, anche se con accentuazioni diverse, la tradizione cristiana dell'oriente e dell'occidente. Se Novaziano poteva scrivere nel suo De Trinitate: "A riguardo di Dio, di ciò che gli appartiene e abita in lui, lo spirito dell'uomo non può pensare convenientemente ciò che è; quale grandezza hanno le sue perfezioni e qual è la loro natura, né l'eloquenza del discorso umano può sviluppare una potenza di parola corrispondente alla sua maestà… Dio è colui a cui appartiene di non poter essere confrontato con nulla" [7]. Secoli più tardi nel suo Proslogion Anselmo, pur con altre parole, riproponeva lo stesso concetto: "Signore mio Dio, insegna al mio cuore dove e come cercarti, dove e come trovarti… Che cosa farà, o altissimo Signore, questo esule che è così distante da te, ma che a te appartiene?... Anela a vederti e il tuo volto gli è troppo discosto. Desidera avvicinarti e la tua abitazione è inaccessibile. Brama trovarti e non conosce la tua dimora. Si impegna a cercarti e non conosce il tuo volto" [8]. La visione dei Padri è sempre segnata dall'idea dell'incomprensibità di Dio. Il Crisostomo poteva perfino affermare che colui che conosce l'incomprensibilità di Dio comprende anche chi non la conosce. Lo stesso pensiero si ripropone con Abelardo, Tommaso, Maestro Eckhart, il Cusano… fino ai nostri giorni, soprattutto nella teologia di von Balthasar.

In questo, se si vuole, si raccoglie tutta la differenza tra lo Θεός άγνωστος e lo θεός ακαταλήπτος; tra il mondo che non conosce "Dio" e quello che ne vede l'incomprensibilità. Il mysterion non è la conclusione del nostro discorso per l'impossibilità di trovare razionalmente una risposta alla questio de Deo; è piuttosto l'origine da cui la ragione parte, provocata dallo stupore e dalla meraviglia che esso produce. La ragione è chiamata a compiere per intero, oltre ogni suo sforzo, il percorso che le si pone dinanzi; alla fine, però, deve comprendere che Dio è incomprensibile. Questo non la umilia né indebolisce, ma la rafforza nel continuare ininterrottamente a domandare fino al momento in cui troverà le ragioni per abbandonarsi pienamente in lui come ultima e definitiva risposta alla domanda di senso.

Nel mistero dell'enigmaticità della propria esistenza personale, del cosmo e di quanto ci circonda deve sorgere l'interrogativo che tocca il senso e il significato dell'esistenza. Ricorrere, mitologicamente, al "fato" –come molti oggi sono tentati di fare- potrebbe essere una scappatoia facile e già utilizzata nel passato, ma si verrebbe a compromettere il valore della libertà personale che è quanto di più geloso ognuno dovrebbe conservare. In questo richiamo ultimo e radicale alla libertà nel suo rapporto con la verità si esprime anche l'originalità del cristianesimo. Niente come la fede nel Dio che si fa uomo provoca la libertà ad assumere in prima persona il principio di responsabilità. Il Dio che ama come Gesù è il Dio responsabile del fratello che non rimane nella solitudine della morte. Senza Dio viene meno la possibilità dell'autocomprensione, dell'esercizio della libertà e della responsabilità sociale. Dunque, è proprio vero: con lui o senza di lui cambia tutto.

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1) In R. Fisichella (ed.), Il Concilio Vaticano II, Cinisello B. 2000, 67.

2) G. Giorgio (ed.), Dio: la possibilità buona, Rubettino 2009, 20.

3) Agostino, De fide rerum quae non videntur, I,1.

4) E', di fatto, l'obiezione mossa spesso da E. Severino ai cattolici.

5) E' sufficiente riprendere tra le mani il testo di H. U. von Balthasar, Die Gottesfrage des heutigen Menschen, Wien 1957, per verificare il passaggio su questa problematica.

6) Messaggio del Santo Padre Benedetto XVI all'Arcivescovo Rino Fisichella, Rettore della Pontificia Università Lateranense, in occasione del Convegno sul tema: "Dal telescopio di Galileo alla cosmologia evolutiva. Scienza, filosofia e teologia in dialogo", 26 novembre 2009.

7) De Trinitate liber, PL III, 889.890.

8) Anselmo, Proslogion, I.

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20/12/2009 10:02

Dio, la storia, la politica

ROMA, sabato, 19 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato l'11 dicembre da mons. Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, in occasione del convegno “Dio oggi: con lui o senza di lui cambia tutto”, organizzato a Roma dal Comitato per il Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana.




* * *

1. Il Dio della fede biblica e l’“invenzione” della storia

Il Dio della Bibbia è il Dio della storia: interviene in essa, è riconosciuto ed amato a partire dalle meraviglie che vi compie e dalle parole che vi fa risuonare, esercita la sua signoria sulle vicende umane. “Dove altri percepirono solo un infinito silenzio, Israele udì una voce. Israele poté scoprire che il Dio unico è udibile e interpellabile, che va tra gli uomini dicendo Io e facendosi Tu per loro: un Tu che parla e a cui si può parlare”[1]. Il protagonista umano della storia è il suo interlocutore privilegiato: al vertice dell’opera dei sei giorni Dio crea l’uomo a sua immagine e somiglianza. La storia intera, nel suo sviluppo, non sarà altro che un dialogo - accolto o rifiutato dall’uomo - fra il Signore dell’universo e gli abitatori del tempo. L’iniziativa sarà sempre di Dio: “La Bibbia non è la teologia dell’uomo, ma l’antropologia di Dio che si occupa dell’uomo e di ciò che egli chiede” [2]. Più che dirci ciò che gli uomini pensano del divino, ci testimonia ciò che Dio pensa degli uomini e della loro storia. All’uomo la dignità e l’onere della risposta: nella visione biblica la storia è desiderio e attesa, domanda e ascolto, ma anche bestemmia e scandalo della creatura davanti al suo Creatore e Signore.

Una gustosa leggenda rabbinica ci aiuta a comprendere quest’idea della storia come interrogazione e corrispondenza: essa narra che all’atto di creare il mondo l’Eterno convocò alla sua presenza le lettere dell’alfabeto, chiedendo chi di loro volesse essere la prima lettera del creato. Tutte fecero a gara proporsi, non diverse dagli umani. Sola restò in silenzio l’“aleph”, la più eterea e volatile fra le lettere dell’alfabeto ebraico, la più modesta. L’Eterno fece allora la sua scelta e chiamò la “beth” a iniziare l’opera del mondo, perché è la lettera con cui comincia ogni benedizione del Santo (“berakah”): perciò la prima parola della Torah è “berešit”, “in principio” (Genesi 1,1). La “beth” - inizio del creato - non è, però, che un quadrato aperto sul lato sinistro, nella direzione in cui in ebraico prosegue la scrittura, quasi a dire che l’inizio non è compimento, ma domanda e attesa. Il racconto prosegue, perciò, mostrando come l’Eterno abbia voluto ricompensare la “aleph” per la sua umiltà, dandole il primo posto nel Decalogo: “Io sono il Signore Dio tuo”. La parola dell’eterno fondamento invisibile che viene ad affacciarsi nel tempo con la rivelazione comincia infatti con “io”, “anochì”, la cui iniziale è “aleph”[3]. Se dunque la storia dell’uomo e del mondo inizia con la “beth” ed è perciò sempre aperta in direzione del suo sviluppo, la verità di Dio ci viene offerta solo a partire dall’“aleph”, con cui inizia l’“Io” della Sua sovrana auto-comunicazione. La storia è domanda aperta, a cui l’Eterno offre la misteriosa risposta dell’“aleph”, dell’umiltà della Sua rivelazione, della Sua chiamata e della Sua operosa presenza fra gli uomini[4].

Proprio così, è alla fede biblica che si deve l’“invenzione” della storia: dove altri colsero “l’eterno ritorno” dell’identico[5], i credenti del patto riconobbero un destino, l’appello a una patria intravista, anche se non posseduta. La storia non è l’infinita ripetizione del ciclo dei giorni e delle stagioni, portato a coscienza per esorcizzare il dolore e farne una semplice tappa dell’eterno ritorno, ma la risposta a una chiamata, l’andare verso una meta. L’uomo biblico sa che questo viaggio è suscitato e accompagnato dall’Altro, che non lascia mai solo il Suo interlocutore umano né è indifferente alla sua risposta. Come la sposa del Cantico, Dio è in cerca dell’uomo, lo chiama, percorre le notti per trovarlo e abbracciarlo. Il Dio della storia è un Dio che fa storia: la storia degli uomini è l’altra faccia della storia di Dio. Dio ha bisogno degli uomini e crede in essi, più di quanto essi credano in Lui. Dalla “preistoria della salvezza”, che è l’opera della creazione, all’alleanza con Noè e poi con Abramo, fino all’alleanza del Sinai e alla venuta del Messia, il tempo storico è anche tempo di Dio, spazio del Suo avvento, luogo della Sua promessa e delle Sue sorprese.

Fra queste, la più indeducibile e alta per la fede cristiana è l’incarnazione del Figlio, con la quale il Verbo viene a mettere le sue tende fra gli uomini e a farsi egli stesso protagonista di una storia pienamente umana. Nella vicenda di Gesù di Nazaret si compie così la rivelazione dell’uomo e della storia: “In realtà - afferma la Costituzione Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II - solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo... Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione… Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato”[6]. Nel suo culmine - la Pasqua - la storia del Figlio incarnato si offre come la “storia della storia”, denso compendio del destino di morte e resurrezione di ogni uomo e del mondo. Dio fa Sua la morte per dare a noi la vita: la storia è agli occhi della fede questa unità di morte e di vita a favore della vita.

Anche nella tradizione ebraica l’idea della “shekhinah” divina - il misterioso attendarsi di Dio in mezzo al Suo popolo - mostra come la storia possa essere fatta propria dall’Eterno per amore degli uomini: si tratta di una presenza così profonda e vicina da divenire condivisione del dolore e della gioia. Dice un commovente “midrash” della fine del IV secolo: “In qualunque luogo furono esiliati gli ebrei la Shekhinah andò con loro. Andarono in esilio in Egitto e là andò la Shekhinah… andarono esuli in Babilonia, ed essa andò con loro… furono in Edom ed essa era con loro… ma quando torneranno, la Shekhinah farà ritorno insieme a loro”[7]. Il Dio e Padre d’Israele è, dunque, tutt’altro che il Dio lontano che schiaccia l’uomo: è anzi il Dio di compassione e di tenerezza, che entra nella storia e la fa sua per operarvi le Sue meraviglie a favore degli uomini. Ecco perché l’incontro con questo Dio non si realizzerà mai fuggendo dalla storia, ma impegnandosi in essa: non l’eternizzazione del presente, ma lo storicizzarsi dell’Eterno è per la tradizione ebraico-cristiana la via della salvezza del mondo. Il Dio-con-noi, l’eterno Emanuele, Signore del tempo e della storia, è tale perché aiuta con la Sua grazia l’uomo a far lievitare il tempo verso l’eternità e a trasfigurare dall’interno la storia con l’anticipo della bellezza futura.

2. La “polis” greca e l’“invenzione” della politica

Nello scenario descritto, trova poco spazio l’agire politico: la mediazione - che di esso è l’anima - non è arte dei Profeti. Essi scelgono piuttosto la denuncia, la critica che scaturisce dalla “riserva escatologica” legata alla fede. L’“invenzione” della politica appartiene ad Atene, non a Gerusalemme: l’idea di una “teologia politica” appare estranea e paradossale a orecchie educate all’ascolto della Parola rivelata. Carl Schmitt, che introdusse questo concetto nel dibattito teologico-filosofico del Novecento, lo fece per veicolare la tesi della corrispondenza strumentale fra il potere politico e le rappresentazioni teologiche nella storia segnata dal credo cristiano[8]. La fede favorirebbe la gestione del potere mondano, perché proietterebbe in avanti, verso il futuro di Dio, la soddisfazione delle inevase esigenze di giustizia e di pace. Fede e potere si dividerebbero le sfide della storia: al potere l’esperienza, alla fede l’attesa. Contro le posizioni di Schmitt, Erik Peterson volle sostenere che ciò può essere vero del monoteismo, non della fede trinitaria[9]. Mentre il monotesimo aveva potuto servire come legittimazione teologica dell’unità dell’impero, la dottrina ortodossa della Trinità avrebbe invece minacciato seriamente quest’ultima. È quanto avrebbe spinto gli imperatori dalla parte degli ariani, teologi della corte bizantina. Solo la fede trinitaria avrebbe garantito la libertà critica rispetto al potere politico, fondando quella capacità di “critica sociale”, che sarebbe il vero apporto del cristianesimo alla ricerca del bene comune.

Pur riconoscendo il valore che questa tesi aveva in relazione all’ora in cui fu espressa, dominata dalla barbarie totalitaria, è innegabile che le cose siano più complesse: non è certo la critica dirompente che manca al monoteismo dei profeti, quanto piuttosto la fatica della mediazione, il senso della politica! La semplice deduzione di un atteggiamento politico dal monoteismo o dalla fede trinitaria non regge. Quel che bisogna riconoscere è che la politica come mediazione fra i diversi appetiti e le possibilità in gioco non nasce a Gerusalemme, ma ad Atene: il termine stesso ci riporta alla Grecia classica, e precisamente a quella città unica dove, per la prima volta, apparve la “democrazia”, il governo popolare della “polis”. È Eschilo a registrare questa genesi nella forma altissima della tragedia: “Il ‘nemico’ è promosso nella scena tragica al rango di protagonista e finge di parlare greco, ma proclama valori opposti a quelli su cui la Grecia sta definendo, per differenza appunto, il proprio profilo politico e culturale. Il numero e l’oro contrapposti alla povertà di risorse riscattata dalla virtù individuale e dalla responsabilità collettiva; l’atteggiamento di subordinazione dei sudditi di fronte a un sovrano assoluto che non deve rispondere a nessuno contrapposto al valore individuale e corale di un popolo che tale si riconosce in quanto è un popolo libero, composto di soggetti tenuti tutti, fino ai più alti ruoli del potere, a dare conto delle proprie scelte, a risponderne alla città e, nel caso, a pagarne il prezzo”[10].

Sta qui la forza di Atene contro i Persiani: è la “pólis”, segnata dai due grandi slarghi dell’“agorá” e del “teatro”, quella che si contrappone al monolitico palazzo del potere persiano. L’“agorá” è il luogo dei dialoghi, dei commerci e delle manifestazioni della volontà popolare; il “teatro” è lo spazio dove si può dare voce al controcanto dell’anima, a tutto ciò che suona come coscienza critica della prassi politica e dell’esercizio del potere. La “pólis” nasce dalla combinazione feconda della pubblica piazza e del teatro, perché quest’ultimo “non risolve, ma contiene e rappresenta i conflitti e le contraddizioni della polis. Nella città il teatro è il luogo in cui viene proiettata l’alta sfida del gioco politico e la tenace professione di fede nella necessità della rappresentazione sulla quale si fonda la greca e occidentale, fin dalle origini secolarizzata, téchne politiké”[11]. Nasce così la “politica”: il suffisso “ikòs” aggiunto a “politéia” - “polítes”, alle figure, cioè, del “cittadino” e della “cittadinanza”, sta a dire che non si fa politica senza il riferimento alla “città” e all’interesse di quanti la costituiscono. Dalle necessità della “pólis” è generata e misurata la mediazione politica; al servizio di essa deve porsi in un continuo, dialettico interscambio con la ricerca del “bene comune”.

Tutto questo non potrà realizzarsi se l’agire politico non saprà fare i conti con le altrui ragioni, e soprattutto con il riferimento al valore ultimo del bene comune e delle esigenze etiche che lo garantiscono. In democrazia la politica ha bisogno dell’etica, che ne misuri costantemente il potere umanizzante al servizio del bene di tutti e l’aiuti ad individuare le priorità e le vie giuste per realizzarle. È qui che la tradizione cristiana ha potuto inserirsi per portare il suo contributo alla politica: e lo ha fatto nella maniera più alta elaborando il concetto di “persona”. Nata nell’ambito del dibattito cristologico e trinitario dei primi secoli, in particolare all’interno del cosiddetto “episodio dogmatico” che sta fra il Concilio di Nicea (325) e quello di Costantinopoli (381), per giungere a maturità col Concilio di Calcedonia (451)[12], l’idea di persona diventa la chiave di volta della concezione teologica della politica, perché assomma in sé due campi in tensione reciproca, quello della singolarità e quello della relazione. Nella dialettica fra l’uno e l’altro, la persona viene a situarsi come soggetto assolutamente unico (esse in se), che può liberamente destinarsi all’altro, stabilendo rapporti di reciprocità solidale (esse ad). È nell’unità di queste relazioni, nella loro reciproca interazione, che la persona si offre come il soggetto libero e consapevole della propria storia, posto sulla frontiera fra esistenza storica e valore morale, in grado di saldare i due campi in un’unità sempre ricca di tensione.

3. Dio, la storia e la politica: l’“invenzione”cristiana della persona

Quanto l’“invenzione” cristiana della persona sia stata gravida di conseguenze per pensare e realizzare correttamente la mediazione politica, vorrei mostrarlo riferendomi ad un caso esemplare: quello della Costituzione della Repubblica Italiana, elaborata sotto la decisiva influenza del pensiero personalista d’ispirazione cristiana, soprattutto a partire dal cosiddetto Codice di Camaldoli, messo a punto durante una settimana di studio tenutasi nel luglio 1943 nel monastero di Camaldoli, presso Arezzo, cui avevano partecipato una cinquantina di giovani dell’Azione Cattolica e della FUCI. Una rapida verifica dei principi personalistici fatti propri dal dettato costituzionale consentirà di percepire come, nell’orizzonte del rapporto fra Dio e la storia proposto dalla rivelazione biblica, il cristianesimo abbia saputo maturare un’idea della mediazione politica tutt’altro che astratta, capace di sviluppare e arricchire il guadagno offerto da Atene al mondo con l’idea di democrazia e di politica, assumendo al contempo l’orizzonte profetico - escatologico offerto da Gerusalemme.

L’idea dell’essere in sé della persona (“esse in”) è alla base del principio della sua singolarità e della sua infinita dignità: “La persona non è un oggetto: essa anzi è proprio ciò che in ogni uomo non può essere trattato come un oggetto...” [13]. Il riconoscimento dell’assoluta originalità dell’essere personale è baluardo contro ogni possibile manipolazione degli esseri umani, garanzia del rispetto incondizionato dovuto a ciascuno. La Costituzione recepisce questo principio quando afferma che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo” (art. 2). L’uso del verbo “riconoscere” mostra come questi diritti siano considerati preesistenti rispetto alla loro configurazione giuridica, non creati dallo Stato, obbliganti anzi di fronte ad esso. Da una simile impostazione, frutto anche della reazione ai soprusi del totalitarismo, derivò l’esplicitazione del principio di uguaglianza, secondo cui tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni sociali e personali, sono uguali davanti alla legge (uguaglianza formale: art. 3, comma 1) e devono essere in grado di sviluppare pienamente la loro personalità sul piano economico, sociale e culturale (uguaglianza sostanziale: comma 2). L’importanza e l’attualità di queste conseguenze sono facilmente intuibili nel campo della tutela delle minoranze, dei lavoratori, delle donne, dei diversamente abili, ed oggi in modo speciale nel rispetto dovuto alla persona degli immigrati, quale che sia il loro stato giuridico di cittadinanza. Riconoscere e tutelare la dignità di ogni essere personale è il primo impegno cui chiama la nostra Costituzione, in questo eco fedele dell’idea che il cristianesimo offre alla mediazione politica riguardo all’assolutezza, singolarità e pari dignità di ogni uomo o donna davanti a Dio e alla storia.

L’idea dell’essere per sé e per altri della persona (“esse ad”) esprime il movimento di auto-determinazione e di finalizzazione che la caratterizza, e perciò il ruolo determinante che hanno la consapevolezza e la libertà nei suoi atti. Nel conoscere e nel decidersi la persona è responsabile verso se stessa, come verso gli altri. Sta qui il fondamento del principio di responsabilità, formulato da Kant come imperativo pratico in questi termini: “Agisci in modo da trattare l’umanità, così nella tua come nella persona di ogni altro, sempre insieme come fine, mai semplicemente come mezzo”[14]. La Costituzione recepisce questo principio anzitutto affermando il valore del pluralismo: pur se la Repubblica è dichiarata una ed indivisibile, è riconosciuto e tutelato il pluralismo delle formazioni sociali (art. 2), degli enti politici territoriali (art. 5), delle minoranze linguistiche (art. 6), delle confessioni religiose (art. 8), delle idee (art. 21), ecc. Il concetto di responsabilità è parimenti alla base del cosiddetto principio di laicità e di tolleranza, in forza del quale lo Stato e le comunità religiose sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani (art. 7) e tutte le confessioni sono egualmente libere davanti alla legge (art. 8). Il sapersi responsabili verso se stessi e verso altri fonda insomma l’esigenza del rispetto del diverso e del farsi carico - se occorre - del suo bisogno e della tutela dei suoi diritti. Nessun uomo è un isola e a nessuno è lecito disinteressarsi del bene comune. Nella comunione solidale dell’essere personale ciascuno si scopre responsabile di tutti ed insieme si avverte sostenuto dalla corresponsabilità altrui. Questo costitutivo essere relazionale della persona si esprime nel principio di solidarietà, accolto chiaramente nel dettato costituzionale: “La Repubblica… richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2, comma 2). Il valore della solidarietà si estende dalle persone ai gruppi, in primo luogo alla famiglia, fino alla grande comunità dei popoli e alla mondialità. In questa linea il principio di solidarietà esige un impegno prioritario a favore della pace: come viene sancito all’art. 11, la Repubblica ripudia la guerra e promuove gli organismi internazionali atti ad assicurare il mantenimento della pace e della giustizia fra le Nazioni.

I dinamismi della persona e della comunità delle persone, richiamati nella espressione che ad essi ha dato la Costituzione Italiana, si intersecano continuamente fra loro. Nell’unità dell’azione personale il soggetto al tempo stesso modifica la realtà esteriore, si forma, si avvicina agli altri ed arricchisce il proprio universo di valori. Agendo così, la persona si manifesta come l’essere della trascendenza, interiorità continuamente sfidata ed arricchita dall’incontro con gli altri, responsabile verso di sé e verso l’infinita dignità altrui. Tenere insieme questi aspetti è l’esigente dinamismo e il difficile equilibrio, cui deve tendere l’esistenza personale nella visione personalista e al cui servizio deve porsi la mediazione politica. Riappropriarsi continuamente di questi principi, promuoverne la piena realizzazione, è una sfida e un compito, perfino una vocazione, cui dedicarsi con l’impegno di tutta la vita: “Nel raccogliersi per ritrovarsi, nel dispiegarsi per arricchirsi e ancora ritrovarsi, nel raccogliersi di nuovo attraverso la liberazione dal possesso, la vita della persona - sistole e diastole - è la ricerca fino alla morte di una unità presentita, agognata e che mai si realizza... È necessario scoprire in sé, fra il cumulo delle distrazioni, anche il desiderio di cercare quest’unità vivente; ascoltare a lungo le suggestioni ch’essa ci sussurra, avvertirla nella fatica e nell’oscurità senza mai essere certi di possederla. Tutto ciò assomiglia piuttosto a un richiamo silenzioso, in una lingua che richiederebbe tutta la nostra vita per essere tradotta: per questo il termine di vocazione gli conviene meglio di qualunque altro” [15]. Corrispondere a una tale vocazione rende la mediazione politica tanto esigente, quanto necessaria e preziosa: una sfida verso cui tenersi sempre pronti, una forma di carità alta, in cui si prepara l’avvenire di tutti. Sta qui l’accoglienza autentica del grande apporto delle radici cristiane alla convivenza civile, in forza del quale Dio, storia e politica non sono estranei l’uno all’altro, ma si relazionano nella costruzione di un’umanità più vera, buona e felice per tutti. Un apporto che ha dato frutti straordinari nella ricostruzione post-bellica del Paese e di cui mi sembra ci sia urgente bisogno anche di fronte alla crisi in atto del gioco delle maschere di molto attuale agire politico. La storia e la politica nell’orizzonte dell’accoglienza di Dio non sono meno, ma più umane, non meno, ma più giuste e realizzanti per tutti.

Anche così Dio è vivo nell’oggi, e con Lui o senza di Lui cambia tutto!


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1 H. Küng, Essere cristiani, Mondadori, Milano 1976, 338.

2 A.J. Heschel, L’uomo non è solo, Rusconi, Milano 1970, 135.

3 Cf. L. Ginzberg, Le leggende degli Ebrei - I: Dalla creazione al diluvio, a cura di E. Loewenthal, Adelphi, Milano 1995, 27s.

4 Cf. C. Vigée, Dans le silence de l’Aleph. Ecriture et Rèvèlation, Éditions Albin Michel, Paris 1992 (tr. it. Alle porte del silenzio. Scrittura e Rivelazione nella tradizione ebraica, Paoline, Milano 2003).

5 Cf. M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Borla, Roma 1968.

6 Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes, n. 22.

7 Mekilta de-rabbi Yishma’e’l, Pisha 14.99-107, citato in G. Busi, Simboli del pensiero ebraico, Einaudi, Torino1999, 345

8 Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna 1972, 27-86 (la prima edizione tedesca è del 1922).

9 Il monoteismo come problema politico, Queriniana, Brescia 1983 (la prima edizione tedesca è del 1935).

10 M. Centanni, Introduzione all’edizione delle opere di Eschilo da lei curata per i Meridiani Mondatori, Milano 2003, XIII.

11 Ib., XXX.

12 Sulla storia del concetto di persona cf. A. Milano, Persona in teologia. Alle origini del significato di persona nel cristianesimo antico, Dehoniane, Napoli 1984.

13 E. Mounier, Il personalismo, AVE, Roma 1964,11s (l’originale francese è del 1949).

14 E. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Laterza, Roma-Bari 2002, 91.

15 E. Mounier, Il personalismo, o.c., 68.

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20/12/2009 10:19

Nessuna figura vedevate...solo una voce

ROMA, sabato, 19 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato l'11 dicembre da mons. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, in occasione del convegno “Dio oggi: con lui o senza di lui cambia tutto”, organizzato a Roma dal Comitato per il Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana.




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«Il Signore vi parlò dal fuoco. Voce di parole voi ascoltavate. Nessuna figura voi vedevate: era solo una voce» (Deuteronomio 4,12). «Se un pagano viene e ti dice: Mostrami la tua fede!..., tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei sacri quadri» (Giovanni Damasceno, Patrologia Graeca XCV, 325). Sono questi i due estremi antitetici di uno spettro cromatico ideale. Esso si apre col gelido precetto aniconico del Decalogo che, sia pure per evidente apologetica anti-idolatrica, aveva intimato l’arresto all’arte sacra d’Israele: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra né di quanto è nelle acque sotto la terra» (Esodo 20,4). Ma si è alla fine giunti all’immenso patrimonio artistico cristiano, a cui faceva cenno il cantore delle icone, san Giovanni Damasceno (VIII sec.).

«Io sono colui che sono!»

La rappresentazione figurativa – fatta qualche esile e secondaria eccezione come, ad esempio, i cherubini (esseri alati di matrice mesopotamica) o i dodici buoi del grande bacino idrico rituale del tempio di Sion (1 Re 7,25) – nell’Antico Testamento è stata rubricata sotto la sua degenerazione che la relegava alla sfera proibita dell’idolo, anche quando di per sé ambiva a presentare lo stesso Jhwh a un popolo incline al realismo a livello gnoseologico. Il celebre toro d’oro (spregiativamente poi ridotto a vitello) eretto nel deserto voleva incarnare la potenza creatrice e fecondatrice non di Baal, la divinità cananea della quale il toro era un segno iconografico, bensì dello stesso Dio d’Israele (Esodo 32, 1-6), come accadrà anche per le analoghe due statue erette dal re Geroboamo I (1 Re 12, 28) che si attireranno l’anatema del profeta Osea («il vitello di Samaria è opera di artigiano, non è un dio e sarà ridotto in frantumi» 8,6).

La stessa riserva accompagnerà ogni altro emblema iconologico, come il serpente di bronzo (2 Re 18,4) o «la statua di metallo fuso» del santuario di Mica, trasferita poi nel tempio tribale di Dan (Giudici 17, 3-4; 18, 11-26), inesorabilmente votati alla deriva idolatrica, che era affiorata in Israele già durante il crepuscolo del regno di Salomone (1 Re 11, 4-8) e con la regina-madre Maacà nell’arco del lungo regno di Asa (1 Re 15,13). Certo è che l’incubo idolatrico, pendente come una costante spada di Damocle sulla religiosità popolare di Israele, genererà non solo un altrettanto continuo divieto di produzione artistica, ma anche un’inesorabile denuncia profetica – che non esiterà a ricorrere alla risorsa dell’ironia e fin del sarcasmo (si leggano Isaia 44, 9-20 o Geremia 10, 1-16) – e provocherà pure una sistematica e sferzante critica sapienziale, come è dimostrato nel settenario di idolatrie diverse condannate dal trattatello dei cc. 13-15 del Libro della Sapienza. Per non parlare poi del costante monito legislativo, a partire appunto dal primo comandamento decalogico e dal comma d’apertura del Codice sinaitico dell’Alleanza, sul quale si modelleranno tanti articoli dei vari codici biblici: «Non farete dèi d’argento e dèi d’oro accanto a me: non ne farete per voi!» (Esodo 20, 23).

Effettivamente ogni rappresentazione figurativa materiale del Dio d’Israele collide con un dato teologico di base, la sua realtà personale. Il suo stesso nome – come è noto, nella cultura dell’antico Vicino Oriente l’onomastica coincide con la definizione della realtà stessa a cui si assegna – non è espresso attraverso un sostantivo statico, ma con un verbo di sua natura dinamico, l’hyh della celebre formula teofanica del roveto ardente: «Io sono colui che sono!», sintetizzato nel semplice «Io-Sono» (Esodo 3,14), che sarà assunto anche dal Cristo giovanneo (ad esempio, 8, 24). In opposizione all’idolo inerte e silente, statua artigianale, «opera delle mani dell’uomo, che ha la bocca ma non parla, ha occhi ma non vede, ha orecchi ma non ode, ha narici ma non odora, ha mani che non palpano, ha piedi che non camminano, ha gola che non emette suoni» (Salmo 115, 4-7), l’Io-Sono parla e agisce, interviene giudicando e salvando e tutta la Rivelazione ne è l’attestazione.

A questo punto, allora, scatta una domanda: questo Dio-persona non riducibile a una statua, non raffigurabile in un’immagine, rimane inesorabilmente aniconico, irrappresentabile se non a livello concettuale? La risposta evidente è: no. Ed è la stessa Bibbia a indicarci almeno tre percorsi iconologici che salvaguardano la trascendenza senza per questo costringerci all’iconoclasmo. Il Dio «splendido e magnifico», come si canta nel Salmo 76,5, ha una vera e propria via “analogica” attraverso la quale è possibile non solo dirlo, ma anche raffigurarlo. La formulazione più limpida, a livello teorico e tematico di questo percorso, è reperibile nel già citato Libro della Sapienza che riflette anche il contributo del pensiero greco, essendo stata quest’opera probabilmente elaborata ad Alessandria d’Egitto, nella Diaspora giudaica. Si legge in 13,5: «Dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia (analogôs) si contempla (theoréitai) il loro Autore», un’idea ripresa anche da san Paolo, sia pure con altra finalità, nella Lettera ai Romani (1, 20: «Le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute»).

«Dio creò l’uomo a sua immagine»

Eccoci, allora, di fronte alla prima via analogica “figurativa”, quella delle creature in sé assunte come modello estetico. La “gloria” – kabôd in ebraico denota la stessa essenza intima divina nel suo svelarsi epifanico – è intuibile nel riflesso creaturale, come si canta nel Salmo 19: «I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento…, senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce» (vv. 2.4). Non è, quindi, una narrazione verbale, bensì un racconto figurato cosmico, che si dispiega come una pergamena miniata tra cielo e terra, per usare una suggestiva metafora presente in un inno sinagogale di Shavu‘ôt– Pentecoste.

Ma c’è una creatura che espleta in modo capitale l’analogia figurativa divina ed è la coppia umana. È ciò che è illustrato in modo efficace in un versetto della Genesi (1,27). Tra parentesi, ricordiamo che la qualità estetica del creato, espressa attraverso il reiterato uso dell’aggettivo tôb che indica il “bello-buono”, ha nella creatura umana il suo apice: essa, infatti, non è solo tôb, ma tôb me’ôd, è «molto bella» (1,31). Ma ritorniamo al nostro versetto che, già nella sua configurazione stilistica fondata sul tipico parallelismo esplicativo semantico, delinea la funzione iconologica teologica dell’essere umano nella sua realtà bipolare sessuale:

«Dio creò l’uomo a sua immagine,

a immagine di Dio lo creò

maschio e femmina li creò».

È evidente, anche graficamente, che l’“immagine” divina, in ebraico celem, nella versione greca eikôn, ha il suo sorprendente parallelo esplicativo in «maschio e femmina». Dio è, allora, da rappresentare come sessuato e accanto a lui si deve far assidere una dea paredra, come l’Astarte o l’Asherah idolatrica dei popoli circostanti a Israele? La risposta è ovviamente negativa, sulla base della polemica anti-idolatrica che pervade la Bibbia e a cui sopra abbiamo già fatto riferimento. L’“immagine” divina, d’altronde, non è neppure da cercare – stando al testo sacro – affidandoci alla tradizionale linea spiritualista, attestata ad esempio dalla Genesi alla lettera di sant’Agostino che non aveva dubbi al riguardo: «Che l’uomo sia fatto a immagine di Dio viene detto a causa della parte intima dell’uomo, ove ha sede la ragione e l’intelletto. L’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio soprattutto per quanto riguarda l’anima». L’“immagine” divina stampata nell’uomo e nella donna è nella loro capacità generativa: essa è la rappresentazione più “somigliante” (1,26) del Dio Creatore: non per nulla la storia della salvezza successiva sarà delineata dalla “Tradizione Sacerdotale” della Genesi sulla base delle genealogie (1,28; 2,4; 9,1.7; 10; 17, 2.6.16; 25,11; 28,3; 35,9.11; 47,27; 48,3-4).

Interessante è, però, notare la calibratura che viene effettuata dall’autore sacro su questa rappresentabilità iconica divina nella creatura umana. Nel precedente versetto si legge: «Facciamo l’uomo a nostra immagine (celem), a nostra somiglianza (d emût)» (1,26). Ora, il primo termine adottato dall’autore è celem, già presentato in 1,27: esso denota una vicinanza reale rispetto al soggetto rappresentato, una “verità” figurativa, una sorta di divina “immanenza” epifanica nella creatura umana. L’altro vocabolo, invece, d emût, suggerisce una certa distanza nel rapporto di similitudine, una specie di astrazione che è insita anche nella desinenza –ût propria dei vocaboli ebraici astratti; si vuole, perciò, ribadire la permanenza di una distanza, dovuta alla trascendenza del soggetto rappresentabile. La figura umana, quindi, è un’efficace e reale icona di Dio, ma non ne esaurisce la realtà piena. Si abbozza, così, in modo semplificato ma genuino il concetto di simbolo che l’arte dovrà sempre custodire. È possibile dipingere o scolpire Dio sulla scia del modello che egli ci ha offerto, la creatura umana. Si esclude, allora, una radicale ineffabilità e invisibilità divina e, dunque, ogni iconoclasmo. Ma al tempo stesso si proclama l’irriducibilità della divinità a un modello rappresentativo totalizzante, lasciando sempre aperta la distanza dell’infinito e dell’eterno.

«Quando verrò e vedrò il volto di Dio?»

C’è, però, una seconda via che la Bibbia privilegia nella sua raffigurazione divina ed è quella della Parola. È significativo che l’entrata in scena di Dio in entrambi i Testamenti sia appunto affidata al dabar-logos divino: «In principio Dio disse: Sia la luce!... In principio era il Verbo» (Genesi 1,3; Giovanni 1,1). Ora, la Parola di Dio che si cristallizza nel testo sacro rivela, a sua volta, due modalità iconologiche per dire Dio. Entrambe si sviluppano nella linea della precedente tipologia analogica creaturale. Iniziamo col primo modello che è definibile col termine “antropomorfismo”. Nelle pagine bibliche è tratteggiata l’intera figura divina analogicamente modulata sulla corporeità umana. I vari lineamenti occupano un rilievo enorme nella tessitura simbolica della teologia biblica e in quella giudaica successiva che introdurrà anche stravaganti riflessioni sul “corpo” di Dio in ambito cabbalistico. Proviamo solo ad evocarne i tratti principali che si accompagnano a una serie di metafore di indole più esistenziale e psicologica e che, in ultima analisi, si riconducono al concetto di Dio persona.

Così, il Signore ha un volto che il fedele ansiosamente spera di contemplare: «Quando verrò e vedrò il volto di Dio?» (Salmo 42,3). «Gli uomini retti contempleranno il suo volto… Il tuo volto, Signore, io cerco» (11,7; 27,8). È, però, interessante notare che proprio attorno a questa componente capitale della figuratività di Dio scatta la stessa dialettica registrata per l’“immagine” e la “somiglianza” a cui sopra accennavamo. Infatti, da un lato, c’è il desiderio e la possibilità di “vedere il volto di Dio”, ma d’altra parte si introduce la sua inattingibilità di fondo (e non solo perché egli «nasconde il suo volto», come spesso si dice nel Salterio per indicare il suo sdegno e il suo giudizio). Suggestiva è la scena che ha per protagonista la grande guida dell’Esodo, Mosè, il quale aspira a contemplare la gloria del volto di Dio e che riceve una risposta a prima vista sorprendente: «Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo». Alla fine vedrà Dio ma solo di spalle, mentre s’allontana (33, 18-23). Eppure il Signore stesso ribadisce che «con Mosè egli parla bocca a bocca, in visione e non per enigmi e costui contempla l’immagine (temûnah) del Signore» (Numeri 12,8). Si ha qui la logica della trascendenza-immanenza, della veridicità della rappresentazione divina, ma anche della sua radicale “insufficienza”.

Il “vedere il volto di Dio” trascina, dunque, con sé sempre un’ambiguità che è, però, necessaria, come diceva anche Isaia nel racconto della sua vocazione, quando egli si era sentito “perduto” perché «i suoi occhi avevano visto il re, il Signore degli eserciti». Eppure il profeta non è annientato, ma è purificato per avere una visione mistica del Dio invisibile (6,5-7), un po’ come accadrà a Giobbe che, attraverso la catarsi della sofferenza, approderà alla visione: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono» (42,5). Sta di fatto, comunque, che non solo il volto ma anche il profilo del Signore è integralmente disegnato nella Bibbia. Si ha la sua bocca, dalla quale «escono scienza e prudenza» (Proverbi 2,6) e soprattutto la sua parola vivificante (Deuteronomio 8,3; Matteo 4,4). C’è persino il suo naso che sbuffa nell’ira (l’ebraico ’af che onomatopeicamente incarna questo soffiare sdegnato). Ben noto è il suo braccio liberatore e la sua mano che salva: «con mano potente e braccio teso» è uno stereotipo frequente per designare l’azione divina nell’evento esodico (ad esempio, Deuteronomio 4, 34), allorché «gli ha dato vittoria la sua destra e il suo braccio santo» (Salmo 98,1).

Dio ha un cuore quando proclama: «Ho trovato Davide, figlio di Iesse, uomo secondo il mio cuore» (Atti 13,22). Un cuore che batte d’amore: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione; perciò non darò sfogo alla mia ira» (Osea 11, 8-9). Il cuore – che per la Bibbia è sinonimo di coscienza, di interiorità – dà quindi il via all’iridescenza dei sentimenti. Essi vanno dall’affetto all’ira, come si è visto nel testo oseano; comprendono lo sdegno («Signore, non punirmi nella tua collera, non castigarmi nel tuo furore», Salmo 38,2), ma anche la gelosia, come spesso si ripete a partire dal Decalogo: «Io sono un Dio geloso» (Esodo 20,5). Passano dal “pentimento” (Genesi 6,6; Esodo 32,14) e giungono fino all’apice della fedeltà, della grazia (Esodo 34,6-7) e dell’amore che diventa la definizione stessa di Dio (1 Giovanni 4,8.16). A tutto questo poi si dovrebbe allegare anche l’apparato di simboli “psicologici” o esistenziali che sono ampiamente sviluppati nelle Scritture: il Dio padre, madre, sposo, amico, re, Emmanuele…

C’è, però, come si diceva, un’altra tipologia rappresentativa che si collega alla qualità basilare della Rivelazione biblica. Essa, infatti, è storica e quindi le teofanie hanno come loro sede privilegiata, più ancora dello spazio sacro del tempio, la sequenza degli eventi che scandiscono il tempo. Si ha, così, “la storia della salvezza” che è una trama di fatti fenomenici al cui interno, però, è in azione anche Dio che ad essi assegna una qualità ulteriore, trascendente. Proprio per questa caratteristica, la Bibbia, sulla quale incombe pur sempre il divieto decalogico iconico, si trasforma nel più vasto repertorio iconografico religioso, ben superiore a quello di altre religioni di forte contenuto immanentistico. Non per nulla la locuzione “grande codice dell’arte”, attribuita alla Sacra Scrittura dal famoso omonimo saggio di Northrop Frye, sulla scia di una frase del poeta William Blake, conferma l’indispensabilità del testo biblico, con la sua simbologia, le sue narrazioni, le sue figure, per l’arte occidentale. Come diceva Chagall, i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato iconografico che è la Bibbia, proprio attraverso i suoi personaggi e i suoi racconti, le sue storie e vicende umane e divine. Tutto questo raggiunge il suo acme nel Nuovo Testamento che introduce la terza via, la più alta e definitiva, per rappresentare Dio.

«Il Verbo carne divenne»

Alla base c’è la logica dell’Incarnazione che riassume in sé ed esalta tutti i precedenti discorsi che finora abbiamo abbozzato. Il testo che è da considerare come la sigla o la dichiarazione sorgiva è il celebre asserto del prologo di Giovanni (1,14): ho Lógos sàrx eghéneto, «il Verbo carne divenne», ove spicca l’accostamento paradossale della cultura greca tra Lógos e sárx. Come scriveva Borges nella sua poesia, intitolata appunto Giovanni 1,14: «Io che sono l’È, il Fu e il Sarà, / accondiscendo al linguaggio / che è tempo successivo e simbolo». In Gesù Cristo, Figlio di Dio e uomo vero, si condensano e si elevano tutte le forme di rappresentazione finora considerate. Il punto di partenza è appunto la sua umanità reale e piena, che conosce l’arco intero dell’essere e dell’esistere umano, dalla nascita alla morte, inserendosi così pienamente nel tempo e nel limite della creatura per redimerla e trasfigurarla.

Come ricordava Giovanni Paolo II nella sua Lettera agli artisti del 1999, il Secondo Concilio di Nicea del 787, celebrato dopo la bufera dell’iconoclasmo, appellò – considerandolo l’argomento decisivo per ricollocare le immagini nella fede e nella cultura cristiana – al mistero dell’Incarnazione: «Se il figlio di Dio è entrato nel mondo delle realtà visibili, gettando un ponte mediante la sua umanità tra il visibile e l’invisibile, analogamente si può pensare che una rappresentazione del mistero possa essere usata, nella logica del segno, come evocazione sensibile del mistero. L’icona non è venerata per se stessa, ma rinvia al soggetto che rappresenta». Ritorna anche qui il tema dell’“analogia” già prospettato dal citato passo della Sapienza riguardo al creato come riflesso del Creatore (13,5) con una nuova e ben più alta applicazione. Se, dunque, Gesù Cristo è vero uomo, proprio nella sua visibile umanità diventa “immagine-icona” del Dio vivente.

È ciò che è esplicitamente dichiarato dall’inno di apertura della Lettera ai Colossesi ove si presenta Cristo come «immagine (eikôn) del Dio invisibile» (1,15). È ciò che è formulato anche nell’incipit della Lettera agli Ebrei ove – ricorrendo a due metafore (l’irraggiamento e l’incisione o impressione di un sigillo) che la teologia giudaica alessandrina applicava alla Sapienza e al Logos divino (si veda, ad esempio, Sapienza 7, 25-26) – si proclama che Cristo è «irradiazione della gloria di Dio e impronta della sua sostanza» (1,3). L’umanità di Gesù Cristo è, perciò, la via principale per affermare la possibilità di raffigurare Dio. È suggestiva la celebrazione di questo tema che viene fatta nella liturgia cristiana orientale: Cristo è cantato come «il Bellissimo, di bellezza superiore a quella di tutti i mortali», perché è la gloria rivelata del Padre (così nell’Enkomía dell’Orthós del «Santo e Grande Sabato» pasquale).

Oltre che nell’uomo “immagine” divina, è nella Parola che si esprimeva il volto del Dio biblico. Anche questa tipologia è applicabile a Cristo la cui missione è quella di “narrare” il Padre: «Dio nessuno mai l’ha visto: il Figlio unigenito che è Dio e che è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Giovanni 1,18). Quel “rivelare” è in greco exêghéomai, un descrivere, uno spiegare, un mostrare in pienezza. È ciò che Gesù fa attraverso la sua predicazione del Regno di Dio, un concetto dinamico che suppone l’azione regale divina nella storia, un concetto “teologico” che egli rappresenta col ricorso all’analogia simbolica (e quindi figurativa) delle 35 parabole (72 se si allegano anche le metafore espanse e le comparazioni allargate). Esse diventano appunto lo svelamento della mente e dell’agire di Dio, del suo progetto efficace, delle sue attese e dei suoi giudizi, della salvezza offerta e della meta ultima a cui egli orienta la storia. Non per nulla, in sintesi, il quarto evangelista ha adottato la categoria Lógos, “parola, discorso”, per definire Gesù Cristo.

Infine, la rappresentabilità del Dio biblico si era affidata – com’è stato indicato – all’antropomorfismo e in quel processo simbolico aveva espletato una funzione significativa il “volto” divino inaccessibile eppur rivelato. Ora quella fisionomia ha una sua figurazione diretta ed esplicita nel viso di Cristo. È lui stesso a ricordarci che, fissando lo sguardo in lui, è possibile rintracciare i lineamenti del Padre, come accade in ogni figlio: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Giovanni 14,9); «chi vede me, vede Colui che mi ha mandato» (12,45). È per questo che ormai possiamo dire di conoscere Dio, attraverso la mediazione del Figlio, il «Verbo della vita» che «abbiamo veduto coi nostri occhi, abbiamo contemplato e fin toccato con le nostre mani» (1 Giovanni 1,1). Anzi, sulla scia di questa esperienza diretta è possibile ormai superare il limite imposto a Mosè e varcare la dialettica del visibile e invisibile Dio dell’Antico Testamento. La meta ultima della nostra visione del volto divino è, infatti, il «vedere Dio faccia a faccia… così come Egli è» (1 Corinzi 13,12; 1 Giovanni 3,2).

Dio è brutto o è bello?

L’arte è, allora, la narrazione visiva dell’esperienza dell’incontro con un volto, una parola, un’immagine veramente visibile perché incarnata. San Paolo andrà anche oltre, completando cristologicamente e cristianamente la dottrina dell’“immagine-icona” di Dio sviluppata dal passo di Genesi 1,27. Infatti, egli afferma che i cristiani, come figli adottivi di Dio, sono «predestinati ad essere conformi all’immagine (eikôn) del Figlio suo, primogenito tra molti fratelli» (Romani 8,29). Il cristiano è, di conseguenza, immagine dell’immagine di Dio e l’arte è l’icona dell’immagine dell’immagine, perché attraverso i vari volti umani essa ricompone il volto di Cristo che è impronta del volto divino. Alla fine, come affermava Macario il Grande nella sua I Omelia, «l’anima che è stata pienamente illuminata dalla bellezza indicibile della gloria luminosa del volto di Cristo, è ricolma dello Spirito Santo…, è tutta occhio, tutta luce, tutta volto» (Patrologia Graeca XXXIV, 451).

In conclusione vorremmo riservare solo un cenno a una domanda forse ingenua ma affascinante: è possibile dire qualcosa di più sul volto di Dio, attraverso l’Incarnazione, così che l’arte abbia qualche canone figurativo? Il paradosso è nel fatto che i Vangeli non ci hanno lasciato neppure un rigo sul profilo fisico di Gesù di Nazaret, neppure il “pittore” (stando alla tradizione) Luca. Le principali strade imboccate dalla cultura cristiana sono state due e antitetiche. Eppure entrambe hanno una loro verità. Da un lato, a partire dal III secolo i Padri della Chiesa hanno infranto quel silenzio visivo e hanno immaginato un viso sgraziato di Cristo fondandosi sulla sua sofferenza redentrice, sulla sua passione e morte e sulla rilettura cristologica del celebre passo isaiano del quarto canto del Servo del Signore: «Non ha apparenza né bellezza per attrarre il nostro sguardo, non splendore per poterne godere» (53,1). Lapidario era stato Origene: Gesù era piccolo, sgraziato, simile a un uomo da nulla».

È un po’ sorprendente, ma a questo punto dovremmo dire che anche la bruttezza (non la bruttura) può salvare il mondo, capovolgendo il celebre e citatissimo asserto di Dostoevskij. La logica dell’Incarnazione comprende anche la sofferenza di Dio, il corpo martoriato, i posteriora Dei, come Lutero osava definire il profilo del Cristo crocifisso. Un volto, quindi, che riflette i visi rigati di lacrime dei fratelli e delle sorelle del «primogenito tra molti fratelli». In questo senso c’è un “brutto” nobile che parla di Dio e che impedisce ogni kitsch devozionale, ogni estetismo trionfalistico, ogni ottimismo di maniera. Tuttavia, bisogna riconoscere che l’approdo ultimo della vita di Cristo non ha come data il Venerdì Santo, bensì «la domenica della vita», per usare liberamente una locuzione hegeliana, ossia l’alba di Pasqua che è per eccellenza il definitivo «giorno del Signore» (Apocalisse 1,10). Non per nulla la Prima Lettera di Giovanni definisce Dio come Luce (1,5).

Si è, così, aperta un’altra strada figurativa che i Padri della Chiesa, a partire dal IV secolo, hanno esaltato fino a farla prevalere nella tradizione artistica successiva. Sulla base dell’estetismo greco-romano classico, attingendo spesso alla stessa tipologia figurativa delle divinità pagane o dei filosofi dell’antichità, si è proposto un Dio bello e radioso, un Cristo apollineo, irraggiante luce come il sole, incarnazione di un altro passo sottoposto a rilettura allegorico-messianica, il Salmo 45,3: «Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo». E nonostante sant’Agostino ripetesse che «noi ignoriamo totalmente quale fosse il volto» reale di Cristo, fu questa l’immagine divina vincente, ribadita in mille e mille ritratti stupendi dei tanti secoli dell’arte cristiana, ma anche nella pletora delle stucchevoli oleografie.

In realtà, entrambi questi itinerari iconografici hanno un loro valore per raffigurare il Dio biblico che è, sì, trascendente e luce, ma è anche Emmanuele, pronto a incamminarsi sui percorsi della storia e a giungere nel cuore dell’umanità col Figlio suo fatto uomo. In questa prospettiva diventa emblematica la sintesi operata dai vari Pantokrator posti nelle absidi delle grandi basiliche antiche: il Cristo trionfante e glorioso appare in tutto lo splendore della sua bellezza, ma reca ben visibili in sé ancora tutte le stimmate sanguinanti della sua passione. Dio invisibile e visibile, trascendente e vicino, glorioso e sofferente. Ecco, l’arte, che non ha come compito solo di presentare il fenomenico ma il mistero sotteso (l’Inconnu, come diceva il poeta francese Laforgue), quando si fa religiosa, deve sempre cercare di unire in un modo armonico l’Infinito e la carne, l’Eterno e la storia, il Figlio di Dio che è Gesù di Nazaret.

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15/03/2010 21:05

La nuova cosmologia e la ricerca di una struttura matematica ideale

Dio non può essere solo una spiegazione


Pubblichiamo ampi stralci del capitolo scritto dal gesuita presidente del Vatican Observatory Foundation contenuto nel volume Dio oggi. Con Lui o senza di Lui cambia tutto (Siena, Cantagalli, 2010, pagine 236, euro 15,50) che raccoglie le relazioni del convegno organizzato dal Comitato per il progetto culturale della Conferenza episcopale italiana tenuto lo scorso dicembre.

di George V. Coyne

 L'evoluzione è una caratteristica intrinseca all'universo dalla quale non si può prescindere quando si voglia dare una spiegazione sia del suo insieme, sia delle sue parti. Tenendo conto dell'età dell'universo, la comparsa della vita è un fatto relativamente recente. Non c'è dubbio che in questi ultimi tempi sia molto cresciuto l'interesse per la vita extraterrestre. Tuttavia ciò che veramente deve sorprenderci non è tanto scoprire che la vita si trovi nell'universo anche fuori della Terra, ma piuttosto che semplicemente nell'universo esista la vita. Il fatto è che ci vollero dodici miliardi di anni prima che, con l'evoluzione dell'universo in espansione, si realizzassero le condizioni necessarie affinché la vita potesse iniziare a esistere; condizioni che, in questa lunga evoluzione, non poterono attuarsi senza il continuo concorso di circostanze fisiche particolari ritenute indispensabili per l'esistenza stessa della vita. Davanti a questo fatto si può ragionare in due modi:  la vita non ha altro significato che quello di essere lo stadio finale del lungo processo di evoluzione dell'universo; oppure, è il culmine dello svolgersi estremamente lungo e delicato di un programma rappresentato dalle leggi fisiche insite nell'universo.

Oggi si ritiene che la vita sia comparsa, nelle sue prime forme microscopiche, poco più di tre miliardi di anni fa; cioè circa tredici miliardi di anni dopo il Big Bang Perché essa ha impiegato tanto tempo ad apparire? Si ritiene che per produrre le quantità di elementi chimici indispensabili alla vita siano state necessarie tre generazioni di stelle. Infatti gli elementi pesanti si creano per nucleosintesi solo all'interno delle stelle e solo quando le stelle muoiono essi vengono diffusi nello spazio per dare origine a una nuova generazione di stelle. La durata della vita di una stella dipende dalla sua massa e può variare da parecchi milioni di anni per stelle di grande massa, a diversi miliardi di anni per stelle di piccola massa. È comunque certo che sono stati necessari circa dieci miliardi di anni di evoluzione stellare per produrre idrogeno, azoto, ossigeno, carbonio, e così via. Ripeto che l'universo è per sua natura evolutivo e dovette evolversi fino a diventare grande e vecchio prima che potessimo esistere noi. Sono stato tentato di dire "perché potessimo esistere noi", ma così avrei introdotto il concetto filosofico di finalità che, come tale, esula dal campo della scienza. Al mio parere ci porterebbe anche a una immagine di Dio creatore non coerente con la nostra conoscenza dell'universo creato.

La comparsa della vita nell'universo pone naturalmente una serie di problemi scientifici ai quali, a mio parere, non è stata ancora data una soluzione adeguata. Tenendo conto che per l'emergenza della vita era necessaria una particolarissima sintonia (fine-tuning) delle costanti e delle leggi fisiche della natura, potremmo chiederci come mai essa sia potuta semplicemente apparire. La vita, infatti, sarebbe stata impossibile anche se una sola di queste costanti avesse avuto un valore differente. Di nuovo per trovare una spiegazione siamo sempre tentati di ricorrere a un'immagine, al mio parere sbagliata, di Dio creatore che per sua libera volontà ha accordato le costanti della natura.

Ma noi ci siamo e la nostra esistenza è intimamente legata alla materia e all'energia dell'universo di cui siamo parte. I nostri atomi si scambiano continuamente con quelli dell'universo, al punto che ogni anno il 98 per cento del nostro corpo si rinnova. Ogni nostro respiro mette in circolo miliardi e miliardi di atomi già riciclati nelle ultime settimane dal respiro di altri viventi. Nulla di ciò che ora forma i miei geni vi esisteva un anno fa. Tutto viene rinnovato, rigenerato ogni momento attingendo a quella fonte di materia e di energia che è l'universo. La mia pelle si rinnova ogni mese e il mio fegato ogni sei settimane. Possiamo dire che, tra tutti gli esseri dell'universo, noi siamo i più riciclati! Qualsiasi immagine di Dio, sorgente universale della vita, deve rispondere a tali fatti scientifici.

Riflettendo ora su quanto è avvenuto nell'universo a partire dal suo inizio, possiamo dire che c'è stata una continua trasformazione di energia in forme sempre più complesse di materia. All'inizio c'era solo energia; poi, in base alla famosa equazione di Einstein, l'energia si è trasformata in materia dando origine a quark, atomi, molecole, galassie, stelle, pianeti, organismi prebiotici, e finalmente l'uomo. Noi siamo il risultato di un processo continuo di trasformazione dell'energia dell'universo in forme sempre più complesse di materia. Da poco abbiamo cominciato a renderci conto che questo processo non avvenne sempre in modo deterministico e ordinato, ma che in ogni fase del suo sviluppo evolutivo ebbero parte anche il caso e l'imprevedibilità.

Quanto detto riporta a una domanda:  la vita, a livello dell'intelligenza e dell'autocoscienza rappresenta un fattore importante per l'evoluzione futura dell'universo? È una domanda che forse porterebbe fuori del campo delle scienze della natura. Preferisco tuttavia correre il rischio ricapitolando le domande fatte in un'ultima domanda tendenziosa:  esistiamo solo per riciclare l'energia nella forma in cui ci viene fornita dall'universo, oppure siamo esseri speciali, in cui l'universo trova la possibilità di passare dalla materia allo spirito?

È in questo quadro generale dell'universo in evoluzione in cui si colloca la vita, e noi con essa, che vorrei presentare, in corrispondenza di una nuova cosmologia, la proposta di una nuova immagine di Dio creatore. La novità della nuova cosmologia di cui intendo parlare non può essere ben compresa senza fare riferimento alla storia di come essa ha avuto origine. Nei secoli XVI e XVIi era diffusa e persistente l'idea, già condivisa dai pitagorici, che il compito dei fisici fosse di scoprire qualcosa come un grande progetto trascendentale incarnato nell'universo. Si ritiene, infatti, che uno dei fattori essenziali che contribuirono alla nascita della scienza moderna fu la teologia cristiana della creazione e dell'incarnazione. A proposito dell'incarnazione, il concetto del Lògos incarnato di cui parla il prologo del vangelo di Giovanni, si rivelò particolarmente appropriato; esso richiamava in qualche modo i concetti platonici e pitagorici del mondo delle idee eterne e del carattere trascendentale della matematica.

Però, la comparsa, all'inizio di questo secolo, della meccanica quantistica e della teoria della relatività e più recentemente della dinamica dei sistemi non lineari contribuì subito a introdurre concetti scientifici meno trascendentali. Per esempio, gli studi della dinamica dei sistemi non lineari hanno dato origine a due nuovi campi di studio:  la teoria del caos e la complessità. L'immensa varietà di forme e strutture esistenti sia nel mondo inorganico che in quello organico mette alla prova qualunque teoria che ponga a fondamento della fisica una serie di leggi deterministiche.

Tuttavia, applicando alle leggi della fisica l'analisi matematica dei sistemi non lineari, si ottengono modelli matematici che permettono una conoscenza delle strutture dei cambiamenti:  cambiamenti però di cui non è possibile predire il risultato finale, in quanto non si è in grado di prevedere l'effetto prodotto da piccole perturbazioni che si accumulano con leggi non lineari. In definitiva il mondo sensibile ha una ricchezza tale da mettere in crisi l'analisi matematica più sofisticata.

Davanti alla constatazione del fatto che nell'universo esiste la vita, possiamo porci delle domande. Se avessimo conosciuto le condizioni fisiche dell'universo in espansione in un istante molto vicino al Big Bang avremmo potuto predire l'apparizione della vita? Ritengo che chi fa una ricerca onesta risponderebbe che saremmo stati in grado di predire l'emergere e l'esatta natura e l'intensità delle quattro forze fondamentali e la fisica che conosciamo. Ma è vero o no che siamo costretti a dire che la vita è il risultato di tante biforcazioni avvenute in obbedienza a una termodinamica non lineare, tale che noi non saremmo mai stati in grado di prevederla, anche nel caso che avessimo posseduto la conoscenza di tutte le leggi della fisica macroscopica e microscopica? E in tale contesto come dobbiamo immaginare Dio, sorgente universale di tale vita?

Benché l'affermazione possa apparire molto sintetica, penso tuttavia sia corretto dire che, da Platone a Newton, la disputa circa la parte avuta dalla matematica nella comprensione scientifica dell'universo si è svolta tutta in una cornice religiosa. Ancora oggi sentiamo ripetere dagli scienziati il ritornello della scoperta della "mente di Dio". A noi spetta il compito di fare un serio tentativo, sia di valutare questa lunga storia, sia di dare senso alla sua eco che ancora risuona al giorno d'oggi. Ritengo che nella maggior parte dei casi, con questo termine, si voglia significare la struttura matematica ideale alla quale corrisponde, secondo Platone, il mondo delle ombre nel quale viviamo. La "mente di Dio" sarebbe una teoria unificata che ci permetterebbe di comprendere tutte le leggi fisiche e le condizioni iniziali dell'universo. Si può dire che nel caso di una cosiffatta teoria, avremmo anche una comprensione adeguata della vita?

A mio giudizio il concetto di "mente di Dio" nella nuova cosmologia non implica alcun carattere di intenzionalità. Ma può la vita essere spiegata senza far ricorso alla intenzionalità? Riconosco il carattere piuttosto pretenzioso di queste domande; esse vanno al di là del campo di competenza proprio dello scienziato. Penso però che dobbiamo anche guardarci da una seria tentazione presentata dalla nuova cosmologia. Come già detto, nella cultura della nuova cosmologia Dio viene visto essenzialmente, se non esclusivamente, come una spiegazione e non come una persona. Dio rappresenta la struttura matematica ideale, la teoria del tutto. Secondo questa cultura Dio è Spiegazione. Ma lo studioso teologo sa bene, come sanno tutti i credenti, che Dio è molto più di questo e che la rivelazione nella quale Dio ha rivelato se stesso nel tempo è più che una comunicazione di un'informazione. Anche se scopriremo la "mente di Dio", non per questo avremo necessariamente trovato Dio. Però, il Dio che si rivelò a noi tramite i nostri antenati, ci sta ancora svelando il grande mistero della sua realtà tramite la nostra conoscenza dell'universo da Lui creato.



(©L'Osservatore Romano - 15-16 marzo 2010)
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