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«Partes» senza sostegno popolare

Ultimo Aggiornamento: 11/12/2009 07:14
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11/12/2009 07:14

Le divisioni nella comunità del IV secolo non riflettevano il comune sentire dei cristiani di Roma che approvarono per acclamazione l'elezione del loro vescovo

«Partes» senza sostegno popolare


di Giuseppe Zecchini
Università Cattolica del Sacro Cuore

L'età d'oro dei "partiti" come espressione fondamentale della politica coincide con la modernità, tra XIX e XX secolo:  "partito" diviene sinonimo di tesseramento, organizzazione, statuto e programma basato su una ideologia, almeno in Europa. Crisi (o fine) della modernità e crisi dei "partiti" sono andate di pari passo e oggi ci si interroga se i partiti sono ancora necessari, come devono evolversi o se si deve pensare a una politica senza di essi.

Il mondo antico, che non ha conosciuto forme partitiche uguali a quelle della modernità, ma che resta un paradigma della politica, così come la intendiamo in Occidente, può essere uno stimolante termine di paragone per ridisegnare i futuri contenitori della competizione politica. Non è dunque estranea alle esigenze della scienza politica attuale l'indagine sui "partiti" nell'età greca e romana coordinata negli ultimi due anni da Cinzia Bearzot, da Franca Landucci e da chi scrive presso l'Università cattolica. Nel volume dedicato a Roma ("Partiti" e fazioni nell'esperienza politica romana, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pagine x-239, euro 20) si delinea l'evoluzione delle forme di aggregazione politica dalle fazioni gentilizie di età arcaica attraverso la media età repubblicana, quando anche crescenti interessi economici di nuovi protagonisti determinano gli orientamenti politici, sino alla crisi della Repubblica nel I secolo prima dell'era cristiana; in questa età popolari e ottimati provano a darsi programmi ideologicamente differenziati, che ruotano intorno alla centralità dei comizi per i primi, alla centralità del senato per i secondi. Cesare superò questa dicotomia:  egli pose al centro del dibattito non le istituzioni repubblicane, ma i diritti prepolitici dei cittadini (l'amicitia, la dignitas, la fides) e trovò nell'esercito di estrazione italica la cassa di risonanza dell'opinione pubblica d'Italia, sul cui consenso costruì il proprio potere dittatoriale. Durante l'impero la lotta politica si trasferì dagli spazi pubblici del foro e dei comizi a quelli privati della corte, in cui le donne, com'era tradizione di una società per quei tempi "femminista" come quella romana, svolsero un ruolo rilevante in quanto detentrici della legittimazione per via di sangue. Nella tarda antichità fazioni e "partiti" nobiliari e fazioni popolari come quelle dei Blu e dei Verdi nel circo (studiate in un bel contributo da Umberto Roberto) si videro inevitabilmente affiancate da nuove fazioni e "partiti" all'interno di una nuova e crescente realtà, quella della Chiesa di Roma, a cui è rivolto il saggio di Milena Raimondi, i cui esiti meritano di essere qui riportati.

In effetti si è soliti leggere l'elezione di Papa Damaso (366-384), contrastata dall'antipapa Ursino e turbata da una sollevazione popolare, come il miglior paradigma delle elezioni episcopali tardoantiche, in cui si contrapponevano "partiti" ecclesiastici abili nel manipolare gruppi popolari violenti con l'aiuto o per iniziativa di potenti senatori. La documentazione ufficiale dell'amministrazione imperiale proveniente dalle fonti ambrosiane e dalle relazioni della prefettura urbana rivela però che l'elezione di Damaso fu regolare e la sua acclamazione avvenne secondo la tradizione ecclesiastica che richiedeva l'intervento popolare quale atto di approvazione delle qualità del prescelto prima della sua consacrazione.

Le acclamazioni popolari riguardavano diversi ambiti della vita politica dell'impero ed erano giuridicamente regolate dalla legislazione romana che, a partire da Costantino, ne stabilì l'ufficializzazione e l'autenticazione anche nel caso esse fossero negative. Una missiva imperiale testimonia che il successore e collaboratore di Damaso, Siricio, fu eletto con quella modalità certificata dal prefetto romano, ma un passo di Ambrogio, finora molto trascurato, relativo al fallimento di Ursino indica che l'acclamazione fu utilizzata anche nel 366.

Benché si sia spesso accettata la presentazione della fonte più ampia - una cronaca anonima filoursiniana - che non parla delle acclamazioni e sostiene che Damaso si sarebbe procurato il favore popolare con metodi spregiudicati, alimentando un tumulto urbano che portò all'espulsione del rivale, preferito dall'intera popolazione e consacrato vescovo prima di lui, Ambrogio, rivolgendosi all'imperatore nel 381, attesta la disapprovazione popolare di cui era stato oggetto Ursino e la sua ufficializzazione. Il vescovo di Milano dice che l'imperatore poteva tranquillamente verificare "le disonorevoli ingiurie" (turpi convicio) riservate dai cittadini di Roma all'antipapa, che aveva aspirato all'episcopato illegalmente e che era stato bandito dalla città come fomentatore di disordini.
In questa prospettiva, anche gli antefatti dello scisma narrati nella cronaca ursiniana vanno riletti alla luce di alcuni epigrammi di Damaso per i Papi Eusebio e Marcello, il cui valore attualizzante è già stato da tempo riconosciuto, ma che sono stati poco utilizzati nelle ricostruzioni recenti dell'elezione episcopale del 366.

La cronaca favorevole a Ursino fa di quest'ultimo il legittimo successore di Papa Liberio e il difensore nella comunità romana dell'ortodossia minacciata qualche anno prima dall'offensiva filoariana dell'imperatore Costanzo II. Il diacono Damaso vi appare come il capobanda di un clero "traditore" che non si era mantenuto fedele all'ortodossia perché aveva accettato di sostituire con il diacono Felice il Papa Liberio, quando questi fu esiliato dall'imperatore per non aver approvato le sue posizioni filoariane. La cronaca tace però che cosa fece Damaso al momento del ritorno di Liberio a Roma richiesto a gran voce dal popolo e dall'aristocrazia, né tanto meno ci dice chi fosse realmente il diacono Ursino. Qui intervengono gli epigrammi di Damaso che suggeriscono la linea privilegiata da Damaso al rientro di Liberio, avvenuto in circostanze non del tutto chiare, forse a seguito di un suo cedimento alle pretese imperiali.

Rievocando le persecuzioni anticristane dell'inizio del IV secolo, l'epigramma per Papa Eusebio richiama l'esistenza di "partiti" (partes) nella Chiesa di quel tempo, facendo vedere come da essi fosse derivata una deplorevole impennata di violenza. L'epitaffio per Eusebio e l'analogo epigramma per Marcello aggiungono però che le violenze erano scoppiate a causa delle difficoltà per una riconciliazione reciproca all'interno della comunità cristiana. Le pressioni filoariane dell'imperatore Costanzo ii avevano riproposto una situazione analoga.

Fautori di uno spirito di ammissione degli errori reciproci, Eusebio e Marcello sono i modelli di Damaso e del suo comportamento, quando Liberio ritornò e Damaso lo sostenne. Proprio per l'azione in favore dell'unità della Chiesa operata prima del 366 da Damaso, a lui derivò la maggioranza di consensi popolari che gli assicurarono il riconoscimento e il sostegno imperiale. La riappacificazione damasiana fu invece contrastata da una minoranza che, in nome di una presunta coerenza nella difesa dell'ortodossia, appoggiò Ursino (anni dopo, peraltro, collaboratore degli ariani dell'Italia settentrionale). Nel 366 la divisione in "partiti" non era di per sé né nel popolo né forse nel clero romano, che erano rimasti ortodossi ed elessero Damaso, ma solo nel collegio dei sette diaconi, che in assenza del Papa aveva dovuto rispondere all'offensiva filoariana del decennio precedente e che in quell'anno si divise tra due suoi membri, Damaso e appunto Ursino:  una divisione di vertice, non corrispondente al comune sentire dei cristiani di Roma, laici ed ecclesiastici, che acclamarono Damaso.



(©L'Osservatore Romano - 11 dicembre 2009)
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