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Il sacerdote nel cinema contemporaneo

Ultimo Aggiornamento: 15/12/2009 07:45
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Il sacerdote nel cinema contemporaneo:  «Roma città aperta» (1945) di Roberto Rossellini

Le piccole grandi tribolazioni degli umili che fanno la storia


di Emilio Ranzato

Un imponente abito nero impalla la cinepresa per un istante, salvo poi lasciare sgombra la scena alla partita di calcio che coinvolge i bambini sul campo polveroso dell'oratorio. Così entra in scena il don Pietro di Roma città aperta, capolavoro di Roberto Rossellini e capostipite riconosciuto fin da subito del neorealismo; con questo espediente sintattico da cinema americano, quasi spettacolare, che contravviene alla regola di un film portatore per il resto di un linguaggio completamente nuovo:  depositario di valori astorici per eccellenza, il personaggio interpretato da Aldo Fabrizi decide, anche metaforicamente, di gettarsi nella mischia, ossia di rinunciare all'alterità connessa con il suo ufficio per calarsi nelle maglie della Storia, che reclama con forza un intervento stavolta non solo spirituale. E lo fa rischiando l'integrità morale, oltreché fisica:  in fondo si tratta di partecipare a una guerra; ma nel caos determinato dall'agire degli uomini egli individua comunque la strada tortuosa, eppure necessaria, del male minore, e sa che in modi contorti essa porterà comunque alla giustizia.

È lui il protagonista assoluto di questa vicenda pure così corale, e non solo perché il progetto iniziale del film prevedeva una biografia di don Giuseppe Morosini, sacerdote impegnato nella Resistenza. Ma piuttosto perché a differenza dei suoi alleati comunisti, comunque prodighi e leali, si carica dolorosamente sulle spalle la dimensione dello scontro ideologico, che non gli appartiene, e tuttavia, nel quadro febbrile del contingente, appare irrinunciabile.

A conferma di come la resa documentaria del neorealismo sarà sempre il risultato di mille accorgimenti tecnici, espressivi e narrativi che non lasciano nulla al caso, e spesso recano in sé una dissimulata dimensione romanzesca, con questa prima scena dell'oratorio Rossellini delinea già in maniera tanto sottile quanto cristallina quello che sarà l'intero percorso di un personaggio che invece sembra prendere vita di scena in scena:  don Pietro dirige il gioco col suo fischietto in bocca, senza rinunciare a dare qualche calcio al pallone; quando di lì a poco verrà chiamato in causa dagli affari clandestini dei partigiani, aderirà senza battere ciglio, ma non prima di aver individuato un ragazzino che per indole riflessiva gli sembra il più adatto a sostituirlo, e a controllare che tutto proceda come si deve. Uno scambio di battute che si cala perfettamente negli schemi della drammaturgia neorealista, così piena di episodi risolti in chiave antidrammatica e quotidiana, ma che invece troverà un contrappunto struggente nella scena finale della fucilazione, in cui don Pietro verrà ucciso dai nazisti subito dopo aver ricevuto la conferma che i bambini del quartiere, persino quelli che non si presentavano più all'oratorio, guerrieri loro malgrado come lui, hanno accolto dalle sue mani un lascito di speranza in un futuro migliore.

Col senno di poi, non è difficile intravedere nella dicotomia fra questo prete di periferia e i suoi alleati partigiani - nonché nel punto mediano rappresentato dall'indimenticabile Pina di Anna Magnani, credente ma non certo osservante - una possibile proiezione dello stesso Rossellini, cattolico tormentato e intellettuale progressista dal recente passato filomussoliniano. Una figura sfaccettata che troverà il suo unico punto fermo proprio in una ricerca estetica sempre coerentissima, e destinata in futuro ad asciugarsi sempre di più fino a raggiungere una ieraticità dai riflessi quasi dreyeriani. Ma la figura del prete è altresì congeniale alla caratteristica del film che per prima colpisce lo sguardo dello spettatore dell'epoca per la sua portata innovativa, e che, meglio di altre, contribuirà a delineare i contorni di un corpus ancor oggi difficile da definire come quello sotto cui si raggruppano le opere neorealiste. Si tratta dell'assoluta mancanza di un tono che sia anche solo lontanamente celebrativo, retorico, eroistico, tutte parole di cui si era nutrita la bolsa propaganda fascista fino a poche stagioni prima.

Emblematicamente, l'unica volta che il film farà riferimento, nei dialoghi, all'eroismo, sarà per bocca di una bambina dalla disarmante e goffa innocenza, mentre la cinepresa indugerà su un poppante seduto sul suo vasetto da notte:  quella di Roma città aperta è una storia fatta di palazzi sventrati, di fucilazioni, di coprifuoco, di negozi assediati, ma anche e soprattutto di panni stesi, di litigi per l'affitto, di zuppe di cavoli maleodoranti. Piccole grandi tribolazioni di quella gente semplice che don Pietro, senza un accenno di compiacimento, traghetterà oltre i flutti del quotidiano cercando di non fargli avvertire troppe scosse.


(©L'Osservatore Romano - 14-15 dicembre 2009)
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