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La qualità prima dei numeri

Ultimo Aggiornamento: 31/12/2009 07:06
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Il futuro del clero considerato alla luce dei problemi psicologici, formativi e pastorali posti dai tempi nuovi

La qualità prima dei numeri


di Fabrizio Mastrofini

Un recente studio pubblicato negli Stati Uniti e condotto da Cara, il Centro di ricerche sul sacerdozio della Georgetown University, ha documentato che nei prossimi anni la caratteristica peculiare del sacerdozio - per la vita consacrata - sarà sempre più quella di attirare persone con diverse provenienze etniche e culturali. In questione dunque non soltanto i fattori quantitativi, come il calo numerico o il gap intergenerazionale, bensì una trasformazione di tipo qualitativo sulla composizione futura del clero, dovuta per esempio alle diverse impostazioni teologiche, al diverso background di fede, alle differenze culturali, che certamente rifletteranno le dinamiche presenti nelle società occidentali.

L'Anno sacerdotale è un'opportunità di riflettere sui cambiamenti in atto e sui modelli che ci consentono di affrontarli. Alla base deve esserci un'idea precisa di cosa sia il sacerdote. Un modello è quello rappresentato dal santo Curato d'Ars, con caratteristiche e stile di vita validi in maniera più generale. Un altro aspetto è stato di recente sottolineato dallo psichiatra Vittorino Andreoli, buon conoscitore delle problematiche relative alla vita dei sacerdoti. Riassumendo ciò che ha imparato dalle inchieste condotte e riassunte in un recente libro, ha rilevato che oggi il compito del sacerdote è "completamente nuovo, proprio perché probabilmente si accorge anche lui che c'è un grande bisogno di sacro nei giovani, negli adulti; che c'è un senso di smarrimento, perché non è possibile che tutto il senso dell'uomo venga quantificato in denaro, in un successo che poi scompare nel giro di qualche giorno. Quindi, si sta accorgendo  che  in  questo  mondo  certamente più difficile, più complesso, egli ha un ruolo che credo in parte conosca e che in parte invece deve scoprire".

Con Andreoli siamo sul piano qualitativo, mentre di solito quando si affrontano queste problematiche si mettono al centro dell'interesse i dati numerici, o altri aspetti strutturali quali il super lavoro, le opere da gestire, la scarsa preparazione del clero. Temi che sottendono una preoccupazione comune e tuttavia rischiano di sviare l'attenzione dalle condizioni reali che caratterizzano la tradizione millenaria del sacerdozio. Al punto da non cogliere i segni di speranza che ci sono, non solo nelle giovani Chiese ma anche nei Paesi occidentali.

Per esempio monsignor Francis Bonnici, direttore della Pontificia opera delle vocazioni sacerdotali, incontrando recentemente i direttori della pastorale vocazionale di Inghilterra e Galles, ha reso noto che secondo le statistiche della Santa Sede in venti Paesi europei stiamo assistendo a una ripresa delle vocazioni. E ha annunciato, inoltre, che è allo studio la pubblicazione di un documento sul sacerdozio ministeriale. In quell'incontro è stato sottolineato che in molti Paesi i direttori della pastorale vocazionale svolgono il loro compito part-time, mentre sarebbe necessaria una diversa presa di coscienza da parte delle conferenze episcopali in vista di una ridistribuzione degli incarichi specie in un settore così importante qual è il tema delle vocazioni.

Se togliamo dalla discussione il calo numerico, resta sul tappeto la questione - questa sì veramente importante - dei carichi di lavoro pastorale, la capacità di organizzazione e gestione, la delega, il rapporto con il laicato. In proposito il teologo don Luca Bressan, docente alla facoltà teologica di Milano, ha notato che i preti e i seminaristi rilevano spesso di non aver ricevuto una formazione adeguata per tutto ciò che concerne la gestione concreta (economico-burocratica ma non solo:  anche l'organizzazione della vita pastorale, la gestione dei gruppi, la nomina e la cura dei responsabili, la costruzione dei calendari delle attività, la capacità di condividere la programmazione, l'identificazione di mete comuni) delle istituzioni ecclesiali loro affidate. Una simile carenza non viene compensata nemmeno da una successiva formazione permanente. Questi aspetti - dice don Bressan - sembrano non interessare le figure attuali di prete, che "si caratterizzano per un'idealizzazione della dimensione intellettuale e affettivo/carismatica della figura presbiterale, ignorandone invece in modo quasi totale la dimensione istituzionale e la responsabilità ecclesiale. Detto con un'immagine, il prete appare sempre meno parroco e sempre più professionista, in grado di decidere liberamente in ogni momento i tipi di incarichi, i doveri legati alla sua professione, le azioni che non può permettersi di non svolgere. Un simile indizio potrebbe essere letto come il segno di una figura di prete che si pensa come leader, soprattutto carismatico-verbale (profeta), e meno ruolo di autorità (la figura del parroco - che ha pur tanto influito anche sulle vocazioni in via di maturazione - è destinata a conoscere un ridimensionamento anche forte)".

Di fronte a un ventaglio così ampio di problematiche, l'Anno sacerdotale diventa occasione per riprendere il senso autentico della vocazione sacerdotale alla luce degli insegnamenti e delle esperienze del santo Curato d'Ars. E occasione per affrontare i problemi concreti della vita dei sacerdoti e, perché no, anche i conflitti che possono verificarsi nel quotidiano.

Davanti ai cambiamenti il modello del Curato d'Ars presenta un sacerdote assiduo frequentatore della Parola, dello spezzare del Pane, delle ore di preghiera vissute in solitudine con Dio. Tutto ciò, più che spendersi in mille attività e iniziative, lo portava ad assumere su di sé il peccato dei suoi parrocchiani, a espiarlo lui per loro, ed era questo il suo modo, l'unico davvero vincente di amarlo con tutto se stesso fino a dare la vita. Da qui la convinzione che è indispensabile avere dedizione e amorevolezza per l'uomo, prendersi cura e premura del suo essere persona, imparare proprio dal Curato d'Ars la difficile arte dell'ascolto e del saper orientare le persone a Dio. Certo senza dimenticare la pressione e la valenza dei problemi quotidiani.


(©L'Osservatore Romano - 31 dicembre 2009)
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L'aggiornamento e la formazione i rimedi anticrisi


di Giuseppe Crea
Comboniano, psicologo e psicoterapeuta

L'identità della persona è alla base della sua crescita personale e del suo progetto di vita. In psicologia, l'identità riguarda il senso del proprio essere che si rafforza e si distingue con le caratteristiche d'ognuno. L'identità è anche una costruzione della memoria  psichica  che  ognuno  ha, che cresce e si rafforza con il procedere del tempo.

C'è un'identità che riguarda anche la missione sacerdotale, alla quale ogni presbitero si richiama nel lavoro pastorale che svolge. Un'identità che certamente non è una proprietà privata, ma è frutto d'una relazionalità profonda ispirata al modello trinitario ed espressa in una fraternità concretamente vissuta nella propria Chiesa locale di appartenenza. È un'identità essenzialmente relazionale, che - lo ricorda l'esortazione apostolica Pastores dabo vobis, n. 12 - risponde al bisogno di consistenza psicologica ed esistenziale di ogni chiamato.

Se il prete si sente privato di questa chiarezza interiore, egli rischia di smarrire il significato del proprio coinvolgimento vocazionale ed entra in una spirale di disorientamento che compromette la sua identità sacerdotale. Senza un orientamento di senso egli può restare profondamente deluso, soprattutto se si trincera dietro tutte quelle "tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie" (Novo millennio ineunte, n. 43).

In un incontro di formazione alla leadership tenutosi al Claretianum di Roma, così raccontava un anziano direttore spirituale:  "Ho incontrato sacerdoti che, a differenza dei tempi passati, non riescono a reggere il confronto con il vuoto interiore che sentono dentro. Certe volte vanno in crisi ma non sanno dare una spiegazione specifica al loro malessere, e si ritirano dicendo semplicemente... che non se la sentono più di andare avanti".

Se viene a mancare il motivo per cui hanno realizzato tante cose nella loro esperienza sacerdotale, o se portano avanti il loro ruolo come se fossero dei funzionari di una religiosità che sentono estranea, possono anche prendere decisioni radicali... senza sapere bene il perché. A questo punto non bastano degli aggiustamenti più o meno spiritualizzanti per ridare senso alla loro esistenza e al loro ministero. Occorre, invece, prendere sul serio il disagio e la confusione che avvertono e, a partire da ciò, riproporre un chiaro  itinerario  di  formazione umana e spirituale che, in fondo, non è mai del tutto compiuto, ma che è sempre da rinnovare nella vita di ogni sacerdote come in ogni operatore pastorale.

Varie indagini effettuate ultimamente sulla condizione del clero fanno emergere il profondo bisogno di comunione ecclesiale, fondata non tanto sul quieto vivere e sull'evitare le condizioni problematiche, ma sulla natura relazionale del ministero sacerdotale. La mancanza di questo senso d'appartenenza e di spiritualità di comunione viene percepita come crisi d'identità che si rivela come isolamento, ma anche come incapacità a lasciarsi plasmare e modellare.

"A volte non so più chi e che cosa guida realmente la mia vita, le mie azioni, i miei desideri", diceva un sacerdote stanco e demotivato nel suo ministero. Immerso nelle tante cose da fare, il prete rischia di non percepire il pericolo dell'aridità e della superficialità che a volte avvolge la routine quotidiana del suo prodigarsi per gli altri. Inoltre, la mancanza di docilità a farsi condurre dallo Spirito che lo motiva ad andare avanti, si rivela nelle diverse patologie di comunione che s'insidiano nei vissuti interpersonali:  l'individualismo che frammenta e disperde, e l'egocentrismo che tende ad assorbire e a fagocitare l'altro per renderlo simile a sé.

Tali difficoltà si fanno ancor più evidenti quando arriva l'ora di una comunione concretamente vissuta con il vescovo e con gli altri presbiteri. Le crisi che emergono possono essere molto laceranti dal punto di vista psicologico, proprio perché s'insidiano nel carattere specificamente relazionale dell'identità sacerdotale. Ma diventano anche una grande occasione di crescita, perché allo stesso tempo nascondono una domanda di accompagnamento, lungo il percorso di trasformazione spirituale. Spesso sottendono una sottile richiesta di leadership e di guida, da riconoscere e da promuovere con autorevolezza e amorevolezza nelle diverse circostanze di formazione umana e spirituale che si vivono insieme.

Guai ad anteporre tecniche e programmi di vario genere a questo bisogno relazionale ed educativo, che rende le persone disponibili all'ascolto reciproco ma anche al cambiamento propositivo. "Prima di programmare iniziative concrete occorre promuovere una spiritualità della comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l'uomo e il cristiano, dove si educano i ministri dell'altare, i consacrati, gli operatori pastorali" (Novo millennio ineunte, n. 43). Quanti hanno responsabilità di leadership - vescovi, superiori, istituzioni - hanno il compito di rispondere a questo principio educativo con passione ma anche con saggezza carismatica. Sapranno così equilibrare le diverse circostanze d'incontro funzionale - consigli presbiterali, ritiri mensili, corsi di aggiornamento, riunioni di programmazione - con una vicinanza affettiva capace di testimoniare la fedeltà alla comune missione.

Come rendere allora gli incontri dei presbiteri attorno al loro vescovo, dei veri cenacoli di fraternità? Come la domanda di vicinanza di tanti presbiteri può diventare una motivo di riscoperta della natura relazionale della comune identità sacerdotale? Rispondere a questi interrogativi vuol dire cercare con creatività nuovi spazi di comunione, dove vivere relazioni autentiche e costruttive, dentro il contesto specifico di una Chiesa locale da servire e da amare.

Per questo è necessario recuperare costantemente la genuinità e la carica motivazionale che caratterizza e accompagna la scelta vocazionale, per discernere - nello stesso cenacolo ecclesiale - uno stile di vita che rafforzi questo senso di appartenenza, attraverso scelte concrete da fare assieme. In tal modo, le problematiche che emergono diventano un'occasione di profonda conversione e formazione, che interpella ogni individuo a dare risposte coerenti con la propria chiamata vocazionale.



(©L'Osservatore Romano - 31 dicembre 2009)
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