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Più famiglie e più figli per superare la crisi

Ultimo Aggiornamento: 19/01/2010 11:15
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08/01/2010 07:55

Perchè aborto, contraccezione, limitazione delle nascite e divorzio limitano lo sviluppo economico e sociale delle civiltà?

Cozzi: Lentamente si sta facendo strada tra sociologi, economisti, psicologi, antropologi, l’idea che il matrimonio e la famiglia costituiscano le fondamenta non solo del successo individuale, ma anche di una società orientata verso valori positivi e di bene comune.

L’antropologa Margaret Mead (cfr. ricerca elaborata dagli Educatori Alan and June Saunders dal titolo: “La Centralità del Matrimonio e della Famiglia nella Creazione di un Mondo di Pace”) ha recentemente affermato: “Per quanto indietro la nostra conoscenza ci possa portare, gli esseri umani hanno vissuto in famiglie. Non conosciamo periodo in cui non fosse così. Sappiamo che nessuna persona sia riuscita per lungo tempo a dissolvere la famiglia o a rimuoverla… Ancora e ancora, a dispetto di proposte di cambiamento ed esperimenti reali, le società umane hanno riaffermato la loro dipendenza dalla famiglia come l’unità base del vivere umano - la famiglia composta da padre, madre e figli”.

Il deterioramento della famiglia contribuisce al declino della società. Dati schiaccianti (v. sopra) confermano che la famiglia composta da un padre, una madre e figli biologici, che vivono insieme ed sono coinvolti positivamente nelle loro vite reciproche, rappresenta la condizione ottimale per la flessibilità e il successo della generazione futura.

I bambini che vivono con un solo genitore hanno più problemi emotivi e comportamentali rispetto ai bambini che vivono nelle famiglie tradizionali, composte da due genitori. I bambini dei genitori singoli e delle famiglie allargate mostrano più sintomi di aggressione, usano alcool o altre droghe, sviluppano un comportamento criminale, problemi psicologici, come la depressione, la scarsa stima di se stessi e pensieri suicidi.

Anche trascorrere del tempo a casa di un solo genitore è un fattore di rischio: “I bambini che trascorrono del tempo o tutto il tempo a casa di un solo genitore sono esposti ad alto rischio di conseguire risultati scarsi riguardo la sfera comportamentale e cognitiva, i bambini che vengono cresciuti a casa di un solo genitore si trovano sempre, fin dalla nascita a maggior rischio… Confrontati con i bambini che crescono insieme ai loro genitori, hanno un alto livello di problemi legati al comportamento e punteggi bassi nei test cognitivi” (cfr. Waite-Gallagher “The case of Marriage” Ist. dei Valori Americani).

Fino alla metà degli anni '80 gli aspetti intra-familiari e di genere della distribuzione del reddito e dello sviluppo economico non avevano ricevuto sufficiente attenzione nelle decisioni di politica economica. Nell’ultimo decennio, grazie in parte alla teoria economica e al miglioramento nella qualità dei micro dati, l'importanza di conoscere in modo più approfondito gli aspetti legati alla allocazione del potere e delle risorse all’interno della famiglia è stata sempre più riconosciuta.

Nel saggio A Treatise on the Family G.S.Becker, ad esempio, descrive la famiglia e la sua "produzione" quotidiana di beni – dall’assistenza all’infanzia alla preparazione dei pasti – come "una piccola azienda" che produce "beni essenziali". All’interno di questo modello, considera prevedibili i mutamenti verificatisi all’interno della struttura familiare per quanto riguarda l’allocazione del tempo, il numero di figli, la scelta dell’istruzione, la frequenza dei divorzi, e così via.

Rispetto all’analisi basata sulla tradizionale dicotomia lavoro/tempo libero, il modello di Becker fornisce una teoria generale per l’allocazione del tempo da parte delle famiglie, come quella esemplificata nel saggio "A Theory of the Allocation of Time" ("Una teoria dell’allocazione del tempo", 1965).

Quando i salari reali crescono, parallelamente alla possibilità di sostituire, nei lavori domestici, il capitale al lavoro manuale, diventa sempre più anti-economico che uno dei membri della famiglia si dedichi totalmente a qualche forma di lavoro domestico, per esempio alla cura dei bambini.

Di conseguenza, alcune delle funzioni sociali ed economiche un tempo attribuite alla famiglia vengono trasferite ad altre istituzioni, come aziende, scuole e altri enti pubblici.

Nel suo articolo "An Economic Analysis of Marital Instability" ("Un’analisi economica dell’instabilità matrimoniale", con E.M. Landes e R.T. Michael, 1977), Becker ipotizza che questi processi spieghino non solo il maggior coinvolgimento delle donne sposate in occupazioni extradomestiche, ma anche il crescente ricorso al divorzio. Ecco uno dei tipici errori di prospettiva o di “vision”. Il problema viene spostato dalla interpretazione del senso del matrimonio e della famiglia, alle pure dinamiche di tipo economico.

Secondo il pensiero liberale, il capitale umano e quello sociale sono alla base di ogni economia che si sviluppa. Ma nella dottrina sociale della Chiesa cattolica, vita e famiglia hanno un valore che va oltre il capitale, per questo si auspica una condivisione fraterna dei problemi indicando lo sviluppo come una vocazione che si realizza attraverso la creazione di una civiltà dell’amore. Può illustrarci il passaggio dalla concezione liberale della persona e delle famiglie alla concezione cattolica?

Cozzi: Nella società dei consumi la comunità non esiste. In essa i membri costituiscono un’entità molto più simile ad uno sciame che ad un gruppo. Ogni elemento dello sciame ripete singolarmente i movimenti degli altri, dall’inizio alla fine. Lo scambio, la cooperazione, la complementarietà tipiche di una comunità si dissolvono miseramente in favore di una semplice prossimità fisica e di una generale direzione di movimento.

Nei templi del consumo non si sviluppa interazione ma azione pura e semplice. La cooperazione non viene richiesta, non è necessaria, ed è decisamente superflua. Lo sciame dei consumatori è nella sua costituzione, molto lontano dall’idea di una totalità o di una congregazione; esso è piuttosto una massa multiforme.

L’interesse personale prevale su tutto; arrivare prima di qualcun altro alla conquista dell’ultimo esemplare del prodotto in offerta, rappresenta un successo senza eguali; avere l’esclusiva su un prodotto è un fattore di orgoglio, che alimenta la propria autostima, che permette di mostrare la propria superiorità rispetto al resto dello sciame. Appare utile, a questo punto, riprendere l’idea di capitale sociale in termini “collettivistici” come proposta dal sociologo Robert Putnam (1993). Putnam definisce il capitale sociale come “la fiducia, le norme che regolano la convivenza, le reti di associazionismo civico, elementi che migliorano l’efficienza dell’organizzazione sociale promuovendo iniziative prese di comune accordo”.

La famiglia ha in sé le potenzialità e le risorse che non sono di nessun’altra agenzia. E’ una forza sistemica e dovrebbe usare il suo potere di forza propositiva di valori: valori della vita, della solidarietà, della gratuità, della condivisione, che sono valori di umanizzazione per ogni suo componente e per tutta la società.

La famiglia detiene una “soggettività sociale” che non le deriva da altri, perché è inscritta nella sua natura ed è frutto di quelle relazioni che stanno all’origine di ogni società.

E, proprio per questo, ha la capacità di ridefinire i processi di socializzazione dell’individuo incidendo su quelli che sono i fenomeni che lo possono portare al suo impoverimento o addirittura all’annientamento di sé. E si rileva che il divario tra ciò che esiste e ciò che ci dovrebbe essere è ancora molto ampio. Le politiche familiari sono ancora agli inizi.

Le varie politiche, come fino ad oggi sono state concepite, sono rivolte più ai bisogni di un individuo che è considerato destinatario unico dei diversi interventi di welfare. Un individuo solo, prescindendo dal contesto in cui esso vive, dal suo habitat familiare, dalle sue relazioni e reti di riferimento.

E’ diverso parlare di tempi di lavoro pensando solo alla produttività o pensando, si, alla produttività, ma allo stesso tempo tenendo conto anche dei tempi delle famiglie, dei tempi destinati ai bisogni della relazione tra genitori e figli. Un tale capitale sociale non è tanto una risorsa da trovarsi nelle relazioni sociali, quanto piuttosto una risorsa che nasce dalle relazioni sociali.

La famiglia, pertanto, è lo specifico del dono, dell’amore, dell’affettività, tutte caratteristiche che la fanno essere “tipico del Capitale Sociale”: una relazione tra i membri diversi (generi e generazioni) della famiglia che valorizza la relazione stessa producendo concretamente cura, tutela del minore o di chi è in difficoltà, azione economica crescita, dono, accoglienza, educazione, solidarietà…..Ribaltata appare l’ottica di chi adotta un approccio “individualistico”.

Le definizioni di capitale sociale proposte da chi segue tale approccio hanno quali protagonisti i singoli individui e le competenze e le capacità relazionali che essi posseggono. Il rapporto che intercorre tra la famiglia e la vita economica è particolarmente significativo.

Da una parte, infatti, l'economia è nata dal lavoro domestico: la casa è stata per lungo tempo, e ancora continua ad essere, unità di produzione e centro di vita. Il dinamismo della vita economica, d'altra parte, si sviluppa con l'iniziativa delle persone e si realizza, secondo cerchi concentrici, in reti sempre più vaste di produzione e di scambio di beni e di servizi, che coinvolgono in misura crescente le famiglie.

La famiglia, dunque, va considerata, a buon diritto, come una protagonista essenziale della vita economica, orientata non dalla logica del mercato, ma da quella della condivisione e della solidarietà tra generazioni. Un rapporto del tutto particolare lega la famiglia e il lavoro.

Il lavoro è essenziale in quanto rappresenta la condizione che rende possibile la fondazione di una famiglia, i cui mezzi di sussistenza si acquistano mediante il lavoro. L'apporto che la famiglia può offrire alla realtà del lavoro è prezioso, e per molti versi, insostituibile.

Il titolo del Messaggio della Conferenza Episcopale Italiana per la 32a Giornata Nazionale per la vita (7 febbraio 2010) è “La forza della vita una sfida nella povertà”, ma secondo quanto lei sostiene potrebbe diventare “La forza della vita per vincere la povertà”…. Abbiamo compreso bene?

Cozzi: Partirei dal commento di un recente avvenimento che, apparentemente, non ha alcun legame con il tema della prossima giornata della vita. Mi riferisco al recente Summit di Copenaghen sul clima. Pongo alcune domande: l’Occidente è davvero interessato a risolvere i problemi del pianeta? Al centro delle discussioni c’era realmente la necessità di difendere la vita e l’umanità? Stilwell dell’Institute for Governance and Sustainable Development ha affermato che i negoziati non hanno riguardato la possibilità di scongiurare il cambiamento del clima, ma sono stati soltanto una battaglia indiretta per accaparrarsi una risorsa inestimabile: il diritto ad avere un cielo.

Ed ancora, A. Njamnshi del Pan African Climate Justice Alliance ha dichiarato “Non si può affermare di proporre una soluzione al cambiamento del clima se questa soluzione comporterà la morte di milioni di africani e se a pagare per il cambiamento del clima saranno i poveri e non i responsabili dell’inquinamento”.

Nel documento della CEI per la prossima Giornata della Vita, vengono evidenziati, tra gli altri, due concetti: quello “della condivisione e della capacità di prenderci cura gli uni degli altri” e l’altro che riguarda la necessità di essere “solidali con quelle madri che, spaventate dallo spettro della recessione economica, possono essere tentate di rinunciare o interrompere la gravidanza”.

Cosa è la forza della vita? E’ in primo luogo credere nella capacità delle vite già esistenti (quelle degli uomini e soprattutto delle donne che abitano il pianeta e che incontriamo nel nostro quotidiano) di essere naturalmente portate a generare la vita per rigenerare l’umanità.

Ma tale orientamento, già insito nella coscienza umana, resta pura aspirazione se non siamo pragmaticamente capaci di condividere beni materiali e morali, se non siamo capaci di prenderci cura gli uni degli altri, direi di compatire (patire-con gli altri); in una parola, e non siamo solidali.

Tali atteggiamenti permettono alla vita di avere forza per vincere la povertà materiale, ma anche la povertà interiore che in molti casi è figlia della prima. E’ necessario pensare alla vita nascente ed alla vita che si estingue nel suo naturale ciclo vitale, guardando in primo luogo alla vita che è già in essere, alla vita che è già presente in noi e tra noi.

Non si tratta solo di raggiungere il benessere, ma in primo luogo di interpretare cosa si intenda con tale termine. Essere bene (ben-essere) significa rafforzare in senso morale e materiale quanto è già presente nella nostra società, ma che non viene condiviso e solidarizzato tra tutti e cioè consentire di provvedere a sé e ai propri cari una casa; possedere quanto necessario per il sostentamento, le cure mediche, l’istruzione, la realizzazione nel proprio ambito lavorativo.

Ai giovani offre la sicurezza di poter costruire una nuova famiglia. Il benessere economico, così, inteso va di pari passo con una vita sobria. La sobrietà se riscoperta in ambito familiare, significa ricentrare l'attenzione sulla vita di relazione più che sui beni di consumo.

Laddove la sobrietà non è vissuta, facilmente la qualità della vita e quella dei rapporti interpersonali risultano influenzate da eccessi di carrierismo, da attaccamento ai beni, da competitività - fin dai primi anni –, da stress da consumo, da frustrazione per senso di inadeguatezza alle aspettative e quindi da impoverimento delle persone e mancanza di fiducia nella vita attuale, in quelle future da generare, in quelle che si stanno consumando dopo aver profuso la forza di cui erano capaci e su cui è fondata la società contemporanea.

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