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Il "Codex Pauli", il più grande tributo all'Apostolo delle Genti

Ultimo Aggiornamento: 23/01/2010 10:55
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09/01/2010 07:04

Il "Codex Pauli", il più grande tributo all'Apostolo delle Genti
Verrà presentato in Campidoglio il 13 gennaio prossimo

ROMA, venerdì, 8 gennaio 2010 (ZENIT.org).-

Un’opera monumentale, unica nel suo genere, concepita sullo stile degli antichi codici monastici ed arricchita da una minuziosa selezione di fregi, miniature e illustrazioni, provenienti da manoscritti di datazione diversa dell’Abbazia di San Paolo fuori le Mura. Si tratta del “Codex Pauli”.

L'opera, un tomo unico di 424 pagine di alto valore ecumenico, è dedicata a Benedetto XVI, che ha indetto le celebrazioni per il bimillenario della nascita di san Paolo. La tiratura è limitata a 998 copie numerate.

Per il Codex Pauli è stato creato, inoltre, il font originale “Paulus 2008”, che rispecchia la grafia dell’amanuense della Bibbia Carolingia (IX sec.).

L'opera verrà presentata in Campidoglio, presso la Sala della Protomoteca, il 13 gennaio prossimo alle ore 17:30, in preparazione alla Settimana di Preghiera per l'Unità dei Cristiani (18-25 gennaio).

Saranno presenti, tra gli altri: il Cardinale Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, Arciprete emerito della Basilica di San Paolo fuori le Mura; l’Arcivescovo Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura; l’Archimandrita Mtanios Haddad, Apocrisario di Sua Beatitudine Gregorios III Laham, Patriarca melkita d’Antiochia e di tutto l’Oriente; padre Edmund Power, Abate di San Paolo fuori le Mura; e il senatore Sandro Bondi, Ministro per i Beni e le Attività culturali. Modererà il giornalista responsabile di Rai Vaticano Giuseppe De Carli.

Il Codex Pauli ospita i contributi inediti, appositamente preparati, del Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I; del Patriarca di Mosca e di Tutte le Russie, Kirill; di Gregorios III Laham; del dr. Rowan Williams, Primate della Comunione Anglicana; del dr. Eduard Lohse, Vescovo emerito della Chiesa Evangelica di Hannover; e di molti altri.

L'opera si apre con un’articolata parte introduttiva, organizzata secondo alcune sezioni.

Nella prima, Annus Pauli, viene ripercorsa l’avventura dell’Anno dedicato al bimillenario della nascita dell’Apostolo. Ne sono testimoni privilegiati i Cardinali Tarcisio Bertone, Ennio

Antonelli, Raffaele Martino, Jean Louis Tauran, Jozef Tomko, Antonio Rouco Varela, André Vingt-Trois e Walter Kasper.

Nella sezione Roma Pauli viene ripercorsa la ricca tradizione spirituale, liturgica e artistica dei monaci benedettini, che da tredici secoli custodiscono il sepolcro di san Paolo sulla via Ostiense.

Evangelium Pauli è il titolo della terza parte, che presenta la figura e il messaggio del grande Apostolo in dialogo con le culture e con la sensibilità dei nostri giorni. Il Cardinal Kasper legge san Paolo tra Est ed Ovest; il dottor Antonio Paolucci lo ricolloca tra le radici cristiane dell’Europa; il professor M.D. Nanos lo rapporta con l’ebraismo, il professor D.A. Madigan con l’Islam. Ma molti altri sono gli approfondimenti: san Paolo come cosmopolita, viaggiatore, missionario, apostolo, e modello di dialogo interreligioso.

Nell’ultima parte, Vita Pauli, si affronta l’interrogativo sull’identità di Saulo/Paolo dopo duemila anni di interpretazione, esaltazione, avversione, strumentalizzazione dell’Apostolo e del suo messaggio.

Sfogliando le pagine del Codex, il Paolo di ieri, presente con il testo originale greco, ci raggiunge attraverso la traduzione in lingua corrente. Accanto al corpus paulinum integrale, comprendente le tredici Lettere dell’Apostolo, l’opera offre anche il testo italiano-greco degli Atti degli Apostoli e della Lettera agli Ebrei.

Un’ultima sezione raccoglie un’accurata selezione dei poco conosciuti Apocrifi riguardanti Paolo (Atti di Paolo; Lettere di Paolo e dei Corinzi; Martirio del santo Apostolo Paolo; Atti di Paolo e Tecla; Lettera ai Laodicesi; Corrispondenza tra Paolo e Seneca; Apocalisse di Paolo).

Ogni singolo testo si apre con una presentazione curata dai più noti esegeti di san Paolo e si conclude con una pagina di Lectio divina, secondo la millenaria tradizione monastica.

La presentazione e le introduzioni agli scritti paolini sono di mons. Gianfranco Ravasi, affiancato da autorevoli studiosi, biblisti e teologi, quali il cardinale Carlo Maria Martini, Romano Penna, Rinaldo Fabris, Primo Gironi, Antonio Pitta, Stefano Romanello, Giuseppe Pulcinelli, Paolo Garuti e Marco Valerio Fabbri.

“Il Codex Pauli – spiega padre Edmund Power nella presentazione – è primariamente un atto di venerazione alla Parola di Dio. È la Parola che dà la vita. Questo libro trae la propria ispirazione dalla figura del Dottore delle Genti, figura complessa e spiccata, incapace di nascondersi: le sue Lettere, le sue parole, mostrano in maniera eloquente la sua personalità energica e dinamica”.

“Un uomo che sa essere ironico, perfino sarcastico, eppure mai privo di una parte affettuosa, ispirata, maestosa, che ci fa vedere in lui un uomo 'ossessionato dal Cristo' – spiega –. Così anche il corpus del Codex Pauli è un magma di creatività umana, da cui scaturiscono bellezza e amore”.

“Secondo la tradizione monastica, l’arte è lo sforzo d’incarnare una visione interiore ricorrendo alla forma espressiva di una Bellezza in se stessa inesprimibile – continua l'Abate di San Paolo fuori le Mura –. Non tutti riescono a percepirla chiaramente: ecco perché l’opera artistica cerca di spingere ciascun contemplante a orientarsi verso l’unico Dio, quale fonte di ogni bellezza”.

“Chi cerca e ama la bellezza mediante il linguaggio dell’arte si indirizza verso il Divino – sottolinea –. Quest’opera si propone lo stesso fine”.

[Per maggiori informazioni: www.codexpauli.itpaolo.pegoraro@codexpauli.it]

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La Chiesa alle sue origini

ROMA, venerdì, 8 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il contributo del Cardinale Carlo Maria Martini, Arcivescovo emerito di Milano, contenuto nel “Codex Pauli”, un'opera unica dedicata a Benedetto XVI al termine dell’Anno Paolino.




* * *

La cristianità primitiva ci ha lasciato un racconto sui primi sviluppi del movimento cristiano. Citato verso il 180 dagli Atti dei Martiri di Lione e dalla Epistula Apostolorum, esso è menzionato nel Canone Muratoriano (seconda metà del II secolo) sotto il titolo di Acta omnium Apostolorum e ne viene indicato anche il nome dell’autore, cioè Luca. Il titolo usuale del libro è “Atti degli Apostoli”. Tale titolo non gli è stato però attribuito dall’autore, che aveva concepito questo libretto come la seconda parte di un’opera complessiva sulle origini cristiane (cfr. Lc 1,1-4 e At 1,1).

Negli Atti è narrata la diffusione del messaggio della risurrezione di Gesù secondo una linea di progressione geografica che parte da Gerusalemme e, attraverso la Giudea e la Samaria, si estende fino alle regioni della Siria e dell’Asia Minore, e di là alla Grecia, per terminare a Roma. La missione di far percorrere questo itinerario alla Parola di Dio è narrata nei primi dodici capitoli e viene affidata a Pietro. L’azione di Pietro raggiunge il suo momento culminante quando egli ammette al battesimo il pagano Cornelio, centurione romano, senza obbligarlo ad abbracciare la legge di Mosè (At 10,1 – 11,18). A partire dal capitolo 13, il compito di attuare questa predicazione è affidato principalmente a Paolo, che viene così a porsi nel centro della narrazione. Paolo può allargare i confini della sua missione verso le terre più lontane dell’Asia Minore, della Macedonia e della Grecia. Dopo una intensa attività missionaria e dopo una serie estenuante di processi, Paolo viene condotto a Roma. La narrazione si chiude con la descrizione di Paolo prigioniero a Roma.

Vi è oggi un sostanziale accordo tra gli studiosi nel ritenere che l’autore degli Atti degli Apostoli è lo stesso che ha scritto il terzo vangelo. L’accordo tra gli studiosi non è più unanime quando si pone il problema se l’autore sia da identificare con uno di coloro che raccontano in prima persona plurale nelle cosiddette “sezioni noi” (At 16,10-17; 20,5-21; 27,1-28,16). Accettando questa identificazione si viene ad ammettere che l’autore è stato compagno di Paolo in alcuni viaggi, ed è stato quindi testimone oculare di parte degli avvenimenti che riferisce. Si raggiunge così la testimonianza dell’antica cristianità che ha attribuito gli Atti a un compagno di viaggio di Paolo, cioè a Luca, menzionato nell’epistolario paolino (cfr. Col 4,14; Fm 24; 2Tm 4,11).

Tuttavia, sulla base della diversa mentalità dell’autore degli Atti e di quello delle Epistole, non si può rinunciare alla fondata tradizione che gli Atti sono opera di uno che ha conosciuto san Paolo. Tra i compagni di viaggio dell’Apostolo, Luca è certamente quello che, a voler tenere conto delle notizie antiche e dell’analisi interna dell’opera, ha le più fondate probabilità per essere designato come l’autore degli Atti.

Luca ha composto il suo libro servendosi di elementi di origine diversa. Benché tutti gli studiosi siano d’accordo nel ritenere che l’autore utilizza per il suo racconto vari tipi di informazioni, tuttavia è molto difficile determinare quale forma avessero le fonti che Luca ha potuto utilizzare. Nel secolo scorso furono fatti vari tentativi per definire con criteri stilistici i documenti scritti che sottostanno ad At 1-15 (come l’esistenza di una fonte antiochena e di una doppia fonte gerosolimitana), ma senza risultati definitivi. Il moltiplicarsi di teorie diverse e tra loro inconciliabili produsse un certo scetticismo. Oggi si tende ad analizzare le singole unità letterarie prese in se stesse, senza pretendere di ricostruire dei veri e propri documenti scritti.

Il materiale che l’autore ha raccolto attingendo a diverse fonti di informazione venne da lui elaborato in un racconto unitario. In esso si distingue una prima epoca dominata dalla figura di Pietro, mentre la seconda ha come protagonista l’apostolo Paolo. Tra le due epoche se ne coglie come una intermedia, di grande importanza, in cui si mostra il passaggio provvidenziale dai giudei ai pagani, e insieme la continuità che permane tra i due gruppi, entrambi inseriti nell’unico disegno divino di salvezza. Riguardo alla struttura degli Atti risultano inadeguate le divisioni che hanno per base soltanto i due personaggi principali del racconto, Pietro e Paolo, perché le loro vicende si intersecano e sono frammiste con quelle di altri personaggi di rilievo (come Stefano e Filippo). Neppure è adeguata la divisione che vorrebbe basarsi sulle parole programmatiche di Gesù in At 1,8: «Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e in Samaria e fino all’estremità della terra».

È comunque possibile dividere il libro nelle cinque parti seguenti: a) Le origini della Chiesa a Gerusalemme (1,1 – 5,42). b) Una nuova e più violenta persecuzione sorge a causa di Stefano (6,1 – 12,25). c) Missione di Barnaba e Paolo in Asia (13,1 – 15,35). d) Missione di Paolo nelle principali città della Grecia e nella grande città di Efeso (15,36 – 20,38). e) Arrivo di Paolo a Gerusalemme, suo imprigionamento e viaggio a Roma, nel centro del mondo conosciuto allora, dove egli annuncia con libertà la Parola di Dio (21,1 – 28,31).

L’autore ha subordinato il disegno generale dell’opera, la sua struttura e il suo stile a una finalità che egli ha espresso nel prologo a Teofilo con queste parole: «affinché ti renda conto della solidità della dottrina su cui sei stato catechizzato». Lo scopo dell’opera rimane molto generico e soggetto a diverse interpretazioni. Per questo si è discusso assai, soprattutto a partire dal secolo XVIII, sulla finalità di Luca nella sua narrazione. Fino a quel tempo si riteneva che Luca volesse semplicemente presentare un quadro delle origini cristiane e difendere Paolo dai suoi avversari. Si profilava, quindi un approccio degli Atti dal taglio storiografico e apologetico. Ma le finalità di questa opera oggi vengono comprese alla luce dell’orizzonte più ampio prospettato sia dall’esame del terzo Vangelo, sia dall’esame di questo suo “secondo libro”. Appare, così, decisivo il ruolo della comunità destinataria dell’opera lucana. Si tratta probabilmente di una comunità composta in gran parte dai pagani convertiti, preoccupati però di tener viva la coscienza delle radici anticotestamentarie del messaggio cristiano. Il libro è posto così sotto il segno della continuità: tra Antico e Nuovo Testamento, tra attività del Cristo e vita delle Chiese; tra Israele e la Chiesa, tra i giudeo-cristiani e i pagani convertiti. Garante invisibile ma sempre operante di questa continuità è lo Spirito. Nella predicazione universale del Vangelo ai pagani le profezie messianiche trovano il loro pieno adempimento, e si mostra così l’unità e la continuità del disegno divino di salvezza.

Tuttavia lo scopo che si prefiggeva l’autore era certamente quello di comunicare importanti valori dottrinali e un autentico messaggio, valido per ogni tempo. Per avere un quadro sintetico degli elementi dottrinali presenti negli Atti, bisogna partire dall’evento centrale da cui ha origine tutto il movimento cristiano, cioè la risurrezione di Cristo.

Gesù glorificato costituisce l’oggetto della fede della Chiesa (9,13), e la predicazione ha appunto lo scopo di mostrare che egli è il Messia predetto dalle Scritture, colui che è stato costituito giudice dei vivi e dei morti, il Figlio di Dio (9,20). Soltanto per la fede in lui (16,31) e per il battesimo nel suo nome (2,38) è possibile ottenere la salvezza (cfr. 4,12) e il perdono dei peccati (5,31).

Centrale è pure il ruolo dello Spirito Santo che pervade con la sua presenza e il suo influsso tutta la vita e l’espansione della Chiesa primitiva. La manifestazione fondamentale dello Spirito si ha nella Pentecoste, che rappresenta per la dottrina sullo Spirito un po’ quello che la risurrezione rappresenta per la cristologia. Nella presenza, tra i testimoni della Pentecoste, di molti che rappresentano i principali popoli allora conosciuti si manifesta la vocazione universale della Chiesa e si realizza la sua missione di essere un segno di unità tra i diversi popoli. La Chiesa (5,11) appare come la comunità di coloro che hanno creduto nel Cristo Risorto e vivono in unità sotto l’autorità degli Apostoli. Tra gli apostoli Pietro gode di una posizione speciale.

È importante pure ricordare il posto che hanno negli Atti la fede (si veda ad es. 2,44; 3,16; 4,4.32; 5,14, ecc.), il battesimo (cfr. 2,38; 8,36; 10,47, ecc.), l’imposizione delle mani per conferire lo Spirito (8,15 – 17; 19,5-6), l’Eucaristia (2,42.46; 20,7.11) e la preghiera (si veda ad es. 4,24-30; 10,9; 12,5; 16,25). Anche le diverse situazioni che scandiscono il cammino delle comunità cristiane (crescita, persecuzione, dispersione, riconferma della fede) e i loro atteggiamenti (gioia, carità, scambio fraterno dei beni, mutuo aiuto, unione, prontezza a soccorrere anche i lontani, ospitalità, coraggio, apertura di cuore e di orizzonti, ecc.) affiorano di continuo nella narrazione. Si ricava così dalla lettura del libro un quadro ricchissimo della vita dei primi cristiani, quadro che viene presentato alle Chiese di tutti i tempi come modello e come stimolo. Gli Atti degli Apostoli sono perciò «un libro per tutti i tempi, un libro molto attuale per il nostro tempo. Bisogna leggerlo tutto in una volta, così come si leggono avidamente i ricordi di famiglia» (H. Jenny).


Card. Carlo Maria Martini

Arcivescovo Emerito di Milano

[© Abbazia San Paolo fuori le Mura - In collaborazione con PAULUS]

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Le due colonne della Chiesa

ROMA, lunedì, 11 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il contributo del Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, contenuto nel “Codex Pauli”, un'opera unica dedicata a Benedetto XVI al termine dell’Anno Paolino.



* * *

Fonte migliore d’informazione su Paolo di Tarso sono certamente le sue lettere, che si distribuiscono nel periodo dal 50/51 al 58 d.C., quando l’apostolo stava dispiegando una incessante attività missionaria per cercare, con ogni mezzo possibile, di mantenere i contatti con le Chiese che aveva fondato. Le lettere fanno quindi parte della sua missione; sono la sua voce che raggiunge le comunità cristiane, proseguendo un dialogo avviato, oppure, come ad esempio nella Lettera ai Romani, preannunciando un tema che spera di riprendere nella sua prossima visita. Quando scrive, Paolo continua ad essere missionario del Vangelo e le sue lettere sono come l’altro volto della sua azione apostolica. Vale per lui, la definizione di lettera: «l’altra metà del dialogo (to heteron meros tou dialogou)», che dava lo scrittore Demetrio, del I secolo d.C.

Mi soffermo sulla Lettera ai Romani, che lo studioso Günther Bornkamm ritiene il testamento di Paolo.
Da persecutore dei cristiani, Saulo, abbagliato sulla via di Damasco dal fulgore di Cristo e conquistato dal suo amore, è diventato «apostolo per chiamata, scelto per annunciare il Vangelo di Dio» (1,1). Per i riferimenti che contiene a circostanze concrete, questa lettera, la più estesa, non è un trattato teologico atemporale, ma, come del resto le altre, è legata a una storia concreta, che è poi la vita, la predicazione, la lotta e le difficoltà che s’intrecciano nella vicenda umana e missionaria di Paolo. Egli vi approfondisce il tema della giustificazione mediante la fede, sembrandogli urgente chiarire con accuratezza un punto tanto essenziale per l’evangelizzazione dei gentili. La dottrina sulla giustificazione costituisce il nucleo di quello che comunemente viene chiamato il “vangelo di Paolo”.

A Damasco egli aveva compreso che la salvezza è un evento di grazia, legato alla persona di Gesù Cristo. Di conseguenza, il “vangelo”, che esporrà nei suoi scritti – in maniera più argomentata nella Lettera ai Romani, – sarà proprio questo: l’unica via di salvezza è Cristo crocifisso e risorto. E poiché ogni esistenza cristiana comporta un combattimento spirituale per non ricadere sotto il giogo del peccato, i credenti debbono compiere opere conformi al dono della grazia ricevuta nel battesimo, manifestando così la propria comunione con Gesù.

Ritroviamo l’assoluta centralità di Cristo presente nella vita e nel vangelo di Paolo, anche nell’“apostolo gemello”: Pietro. La Prima Lettera di Pietro si apre, infatti, con questa esortazione: «Siate pronti ad agire, rimanete ben svegli. Tutta la vostra speranza sia rivolta verso quel dono che riceverete da Cristo Gesù, quando egli si manifesterà a tutti gli uomini» (1,13). La stessa preoccupazione pastorale di Paolo è percepibile in questo testo neotestamentario di Pietro. Stiamo parlando di uno dei documenti più importanti del Nuovo Testamento, che aiuta a capire la profondità della riflessione teologica e spirituale e l’impegno apostolico delle Chiese dell’Asia Minore. L’autore sacro vi pone in luce nuove e importanti considerazioni cristologiche, testimoni di un chiaro progresso nella comprensione di Cristo da parte di quelle prime comunità. Attingendo al pozzo della tradizione giudaica dell’Antico Testamento, Pietro focalizza l’attenzione su nuovi aspetti teologici concernenti la figura di Cristo: è “l’agnello senza difetti e senza macchia” (1,19) che ci libera dalla schiavitù del male; è il “servo sofferente” (2,21-25), che, rifacendosi alla tipologia del quarto canto del Servo (Is 53), offre la chiave interpretativa di tutto l’aspetto teologico e parenetico della lettera; è la “pietra viva” (2,4) – si tocca qui uno dei temi più originali della lettera e cioè il Cristo risorto, fondamento del nuovo tempio di Dio nel mondo – è infine “il pastore” (2,25; 5,1-4).

Al Cristo si legano naturalmente alcuni temi ecclesiologici, tipici della Prima Lettera di Pietro, che affiorano in maniera esplicita o implicita nei documenti del Concilio Vaticano II, in particolare, nelle costituzioni Lumen gentium e Gaudium et spes.

Dunque come Paolo, anche Pietro afferma che ci salva solo l’incontro con il Signore Gesù: un incontro da vivere ogni giorno, specialmente nel momento della prova e della sofferenza (2,18-25). Trova qui logica collocazione il tema della speranza, che non si esaurisce negli orizzonti mondani, ma va oltre e tende a un adempimento costantemente volto a un incontro più pieno. A questa speranza certa, che muove all’agire e che suscita un atteggiamento permanente di conversione, il papa Benedetto XVI ha dedicato l’Enciclica Spe salvi.

La condizione del credente nella storia ondeggia nella costante tensione tra il “già” e il “non ancora”, nella dialettica permanente tra l’indicativo della salvezza («Tu sei figlio di Dio...») e l’imperativo morale («...dunque comportati da figlio di Dio!»). Sì, Cristo ci ha effettivamente liberati – questa è la nostra fede –; ma noi dobbiamo fare attenzione agli assalti del male. Sì, io sono già salvato, in forza della risurrezione; ma non sono ancora fuori dalla lotta. Sì, il Cristo ha già vinto la morte, e siede alla destra del Padre; ma la Chiesa pellegrinante non ha ancora raggiunto la sua patria. Così, spalancato al gratuito dono di Dio, il credente vive la lotta quotidiana della sua esistenza. Emerge con tutta evidenza che a salvarci non è una dottrina, bensì una persona: Gesù Cristo, il cui ritorno nella gloria attendiamo e prepariamo con fiduciosa speranza.

Maestro di sintesi, san Paolo chiude il capitolo 8 della Lettera ai Romani con un inno all’amore di Dio animato dall’insistente domanda “chi?”. Il testo respira una profondità teologica, che giunge al cuore del “vangelo di Paolo”. Se Dio ha immolato il suo Figlio per tutti noi (v. 32), egli argomenta, allora nessuno può separarci dal suo amore, dall’amore che Cristo stesso ci ha meritato sacrificandosi per noi (vv. 38-39). Sta proprio qui la ragione della gioia e di quell’ottimismo che ogni cristiano deve coltivare. «Se nonostante tutto siamo ottimisti», confessava don Franco Delpiano, missionario salesiano nel Mato Grosso, morto a 42 anni, «è perché Cristo è risorto. Immersi nella sua morte e risurrezione, risorgiamo ogni giorno». «Cristo risorto viene ad animare una festa nel più profondo dell’uomo», amava ripetere frère Roger Schutz, Priore di Taizé, ucciso mentre stava pregando, «ma la festa non è per niente un’euforia passeggera. È animata da Cristo in uomini e donne pienamente lucidi della situazione del mondo, e capaci di farsi carico degli avvenimenti più grandi... Allora la lotta diventa una festa: festa del combattimento affinché Cristo sia il primo nostro amore; festa della lotta per l’uomo schiacciato».

Questo è l’inguaribile ottimismo di chi crede all’amore di Dio, “vittoria” sul mondo e “motore” della storia. Chi rimane in questo amore non rinuncia alla lotta, non perde il coraggio di denunciare l’ingiustizia e non si lascia irretire dalle illusioni del male. Chi ama Cristo combatte la buona battaglia della fede e nutre nel cuore una grande speranza aspettando, secondo la promessa, – scrive san Pietro – «nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia» (2Pt 3,13). E la ragione ultima è perché – ricorda san Paolo – «noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati» (Rm 8,37).

In definitiva, Paolo invita i cristiani a incorporarsi, attraverso il battesimo, alla morte e alla risurrezione del Signore. Egli invita a vivere, già adesso, la vita nuova dell’amore, preparando, nell’impegno quotidiano, l’incontro definitivo con il Risorto. Questi due aspetti, dialettici tra di loro, impongono ai battezzati di vivere, di credere e di sperare a partire dalla morte e risurrezione del Signore. Nel mistero pasquale, infatti, si chiarisce il senso ultimo della fede e della speranza cristiana. Esse sono insieme dono di Dio, perché la risurrezione di Cristo ha vinto in modo irreversibile il male del mondo; ma sono anche impegno dell’uomo, perché si manifesti il pieno compimento delle promesse.

In sintesi, che risposta darebbe Paolo alla domanda cruciale su cosa significa vivere a partire dalla morte e risurrezione del Signore? Oggi, come a tutti i cristiani lungo i secoli della storia, risponderebbe che vivere a partire dalla morte e risurrezione significa portare dentro di sé un inguaribile ottimismo, la certezza che l’amore è più forte della morte, e che le scelte di bene, anche le meno appariscenti e le più smentite, mandano avanti la storia dell’uomo e del mondo. Vivere a partire dalla morte e risurrezione significa avere il coraggio di denunciare le piccole e le grandi ingiustizie dell’uomo, e riconoscere che in ogni gesto di liberazione – da qualunque parte essa venga – è presente il Signore della vita. Vivere a partire dalla morte e risurrezione è, infine, sentirsi parte di una “grande speranza”, che non è soltanto speranza nel mondo e nell’uomo, ma in quei cieli nuovi e in quella terra nuova che attendono ogni uomo di buona volontà, e che sono il dono di Dio.

Card. Tarcisio Bertone


Segretario di Stato di Sua Santità Benedetto XVI

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L'eredità spirituale e letteraria dell'Apostolo delle genti raccolta nel "Codex Pauli" presentato in Campidoglio

Una figura enorme emerge dal caos dell'errore


Nel pomeriggio del 13 gennaio, nella Sala della Protomoteca in Campidoglio, è stato presentato il volume Codex Pauli (Roma, Abbazia di San Paolo fuori le Mura - Paulus, 2009, pagine 424). L'opera è stata concepita sullo stile degli antichi codici monastici ed è arricchita da fregi, miniature e illustrazioni provenienti dai manoscritti dell'abbazia di San Paolo fuori le Mura. Il Codex contiene - oltre a una serie di approfondimenti spirituali, storici e artistici - l'intero corpus Paulinum, gli Atti degli apostoli e la Lettera agli Ebrei (con il testo italiano e greco) e anche una selezione di apocrifi riguardanti Paolo. Dal codice pubblichiamo stralci della presentazione del presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e di uno scritto dell'abate di San Paolo fuori le Mura.

di Gianfranco Ravasi

Uno studioso tedesco dell'Ottocento, Adolf Deissmann, aveva definito Paolo "un cosmopolita". Effettivamente egli era figlio di tre culture che già apparivano nella sua ideale "carta d'identità". Il suo nome originario era ebraico, lo stesso del primo re d'Israele, Saul. "Sono un ebreo di Tarso di Cilicia", dichiara al tribunale romano che gli chiede le generalità al momento dell'arresto a Gerusalemme (Atti degli apostoli, 21, 39). In polemica con i suoi detrattori ebrei di Corinto, rivendica le sue radici:  "Sono essi ebrei? Anch'io lo sono. Sono israeliti? Anch'io. Sono stirpe di Abramo? Anch'io" (2 Corinzi, 11, 22). Agli amati cristiani macedoni di Filippi ribadisce vigorosamente di essere "circonciso l'ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo secondo la legge" (3, 5). In crescendo ai Romani scrive:  "Vorrei essere io stesso maledetto, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e a loro appartengono l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi. Da essi proviene Cristo secondo la carne" (9, 3-5). E ai Galati rivela persino una punta di integralismo nazionalistico:  "Essi sono per natura ebrei e non peccatori come le genti" (2, 15).

Formatosi a Gerusalemme "alla scuola di Gamaliel, nelle più rigide norme della legge dei padri" (Atti degli apostoli, 22, 3), educato secondo la prassi giudaica anche al lavoro manuale, quello dello skenopoiòs, "fabbricatore di tende" (forse tessitore di peli di capra per stoffe ruvide, dette appunto cilicium dalla regione d'origine, la Cilicia, che era la stessa di Paolo), Saulo era però un giudeo della Diaspora, nato a Tarso, "non oscura città della Cilicia", come egli la definisce con civetteria (Atti degli apostoli, 21, 39). Posta sul fiume Cidno, la città, ora compresa nella Turchia meridionale, era sede di una vivace scuola filosofica stoica, che qualche traccia lasciò nel pensiero dell'apostolo, e godeva del diritto di cittadinanza romana, riconosciutole da Marco Antonio e Augusto. Paolo userà con orgoglio questa dignità di cittadino dell'impero, non solo appellandosi - come è noto - al tribunale supremo romano (Atti degli apostoli, 22, 28), ma anche presentandosi in tutte le sue lettere con il suo secondo nome schiettamente latino, Paolo.

La tradizione posteriore, nel IV secolo, non esiterà a creare un epistolario apocrifo tra l'apostolo e Seneca, ove incontriamo battute di questo genere. Seneca a Paolo:  "Se il nome di un uomo così grande e prediletto da Dio sarà tutt'uno col mio, questo non potrà che essere quanto di meglio per il tuo Seneca". Paolo a Seneca:  "Durante le tue riflessioni ti sono state rivelate verità che a pochi la divinità ha concesso il privilegio di conoscere. (...) Io semino, allora, in un campo già fertile un seme imperituro, l'immutabile parola di Dio". Ma Paolo non è solo romano; la sua cultura e la sua attività si muoveranno sempre nell'atmosfera ellenistica. Egli usa il greco in modo creativo, forgiandolo con grande libertà come fosse un ferro incandescente:  conosce le risorse retoriche di quella lingua, la rielabora con inventiva attribuendo accezioni inedite a vocaboli come sarx ("carne"), pneuma ("spirito"), hamartìa, ("peccato"), dikaiosyne ("giustizia"), soterìa ("salvezza"), eleutherìa ("libertà"), agàpe ("amore"). La storia di Paolo si consuma, dunque, in un crocevia di culture e le sue tre identità di ebreo, di romano e di greco sono indispensabili per comprenderne l'opera e la vicenda personale, che si svolge in tutto il bacino del Mediterraneo, aprendosi anche al sogno di raggiungere l'estremo capo occidentale, la Spagna (Romani, 15, 22-24).

Ma, al di là di questa biografia culturale, la figura di Paolo è decisiva per la storia della Chiesa a livello teologico. Due sono le prospettive aperte dalla sua azione, prospettive decisive per la cristianità. La prima è di ordine pastorale. Paolo lancia il messaggio di Cristo a orizzonti esterni al terreno di partenza, quello ebraico, divenendo in tal modo l'Apostolo delle genti per eccellenza. Egli è fermamente convinto che "non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più maschio né femmina:  tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Galati, 3, 28). È una scelta che comporta tensioni all'interno della cristianità delle origini, come è attestato dal "concilio" di Gerusalemme (Atti degli apostoli, 15) e dalla polemica Cefa-Pietro, evocata dallo stesso Paolo scrivendo ai Galati (capitolo 2). Ma la sua convinzione è irremovibile e sarà attestata da tutto il suo ministero apostolico:  "Colui che mi scelse fin dal grembo di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani" (Galati, 1, 15-16).

Naturalmente, questa apertura implica un'elaborazione dello stesso linguaggio e anche un ulteriore approfondimento del messaggio di Cristo. Si apre, così, una seconda prospettiva altrettanto fondamentale, quella strettamente teologica. Paolo offre un suo disegno ideale che è costruito attraverso le sue varie lettere e che ha il suo cuore in Cristo e uno dei suoi nodi principali nella cosiddetta "giustificazione per la fede e per grazia". Essa è formulata per ben tre volte in modo essenziale in un solo versetto della lettera ai Galati:  "Riconosciamo che l'uomo non è giustificato dalle opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo. Abbiamo creduto in Cristo Gesù per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge. Dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno" (2, 16).

Su questa tesi si svilupperà non solo la Lettera ai Galati, ma anche il capolavoro teologico dell'apostolo, la Lettera ai Romani:  ma naturalmente i 432 versetti di quest'ultima spaziano verso altre linee e ambiti di pensiero che rendono la teologia di Paolo una stella polare nella riflessione secolare della Chiesa, talora anche come "segno di contraddizione":  pensiamo solo alla Riforma protestante e al dibattito sempre vivo e fecondo sul pensiero paolino, un pensiero molto articolato anche sui temi ecclesiali e morali. Aveva ragione il poeta Mario Luzi quando scriveva:  "Paolo è un'enorme figura che emerge dal caos dell'errore e dell'inquieta aspettativa degli uomini per dare un senso alla speranza". E la speranza per l'apostolo non si poteva fondare che su "Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio" (1 Corinzi, 1, 24).

Sì, Paolo, "servo di Gesù Cristo, apostolo per vocazione", come egli stesso si autodefinisce nell'avvio della Lettera ai Romani, è un'enorme figura epocale, accolta non sempre in modo pacifico e corretto. Già nella sua Seconda Lettera, san Pietro osservava che "nelle lettere del nostro carissimo fratello Paolo VI sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli incerti le travisano, al pari delle altre Scritture, a loro rovina" (3, 16). Un noto teologo ed esegeta tedesco dell'Ottocento, Wilhelm Wrede, in una sua opera intitolata semplicemente Paulus (1904), coniava per l'apostolo la definizione di "secondo fondatore del cristianesimo", definizione ambigua perché potrebbe introdurre l'idea di una trasformazione del messaggio di Gesù tale da supporre un altro progetto religioso. È stato in questa linea che il filosofo tedesco Friedrich W. Nietzsche aveva bollato Paolo come "disangelista", cioè annunziatore di una cattiva novella, al contrario degli "evangelisti", mentre Antonio Gramsci sbrigativamente lo classificava come "il Lenin del cristianesimo", ossia un teorico freddo e incline a costruire un sistema, e nell'Ottocento il famoso studioso Ernest Renan non esitava a definire gli scritti paolini come "un pericolo e uno scoglio, la causa dei principali difetti della teologia cristiana".

In realtà san Paolo rimane decisivo per gettare una luce piena su Cristo stesso, da lui tanto amato e còlto nella sua fisionomia autentica e profonda di Signore della storia, di Salvatore supremo, di Figlio di Dio, di Risorto presente e operante nella sua Chiesa. È, quindi, importante conservare questo monumentale e prezioso Codex Pauli nella propria casa, come una sorta di vessillo della fede cristiana e come una costante testimonianza di una Parola che permane oltre le parole spesso vane e caduche delle altre carte che registrano la vita e la cronaca quotidiana.


(©L'Osservatore Romano - 14 gennaio 2010)
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Saulo/Paolo di Tarso

ROMA, mercoledì, 13 gennaio 2010 (ZENIT.org).-

Pubblichiamo di seguito il contributo del prof. Romano Penna, docente di Esegesi del Nuovo Testamento e di Origini Cristiane all'Università Lateranense di Roma, contenuto nel "
Codex Pauli", un'opera unica dedicata a Benedetto XVI al termine dell'Anno Paolino.




* * *

Tra tutti i personaggi del Nuovo Testamento la vita dell'apostolo Paolo è quella meglio conosciuta. Sia negli Atti degli Apostoli, sia nelle Lettere è possibile cogliere i diversi dati autobiografici riguardanti Saulo/Paolo (il doppio nome era corrente nell'ebraismo del tempo). Anche la letteratura apocrifa sull'Apostolo, come gli Atti di Paolo e Tecla (II/III secolo), può concorrere con le dovute cautele, a questo scopo. Ma mentre le Lettere paoline sono fonte di prima mano, gli Atti degli Apostoli (se si eccettuano le brevi "sezioni-noi"), attingono a fonti di seconda e terza mano. Il periodo più sicuro della vita di Paolo è quello che va dalla sua "conversione" all'arrivo a Roma come prigioniero.

Occorre però precisare che qui una certa sicurezza si ottiene più a livello di cronologia relativa che assoluta: è cioè abbastanza facile ottenere un rapporto più o meno accettabile fra i vari momenti scaglionantisi all'interno dell'esistenza dell'Apostolo, ma lo è meno stabilire un rapporto irrefutabile rispetto alla datazione esterna della storia del I secolo. Restano inoltre interrogativi parzialmente insoluti: come fu la sua vita prima della conversione? E cosa avvenne dopo il biennio trascorso a Roma?

Questioni cronologiche

I punti di riferimento maggiormente documentabili, ma anche discussi, per una biografia paolina sono tre.

II fatto più sicuro, è dato dalla comparizione di Paolo davanti al proconsole Gallione a Corinto (At 18,12-17).

Da una lettera dell'imperatore Claudio scoperta a Delfi nel 1905, combinata con un testo del Corpus inscriptionum latinarum (CIL 1256) e con Dione Cassio (LX 17,3), si può dedurre, con un possibile ma improbabile scarto di un anno, che Gallione fu «proconsole (anthypatos)» di Acaia tra il maggio del 51 e il maggio del 52. Quindi, nel corso di questo anno, Paolo fu certamente a Corinto. Il secondo dato cronologico è l'editto di Claudio, che cacciò gli ebrei da Roma, datato nell'anno 49. Ma ci sono delle difficoltà: dell'editto, Tacito non parla, e anche Giuseppe Flavio non lo conosce.

In terzo luogo occore stabilire l'anno in cui avvenne il cambio del procuratore della Giudea da Antonio Felice a Porcio Festo, verificatosi dopo l'arresto di Paolo a Gerusalemme al termine del terzo viaggio missionario. Mentre l'opinione tradizionale lo colloca verso il 60, sembrerebbe doversi accettare come più probabile l'anno 55, sulla base di queste fonti:

- Giuseppe Flavio (Ant. XX 182) narra che Felice a Roma, dopo la destituzione, fu salvato dalla protezione del fratello Pallante, ministro delle finanze di Claudio e poi di Nerone (diventato imperatore nel 54);

- Tacito (Ann. XII 14) precisa che Pallante cadde in disgrazia verso la fine del 55, poco prima dell'uccisione di Britannico (figlio di Claudio e Messalina e possibile antagonista di Nerone);

- Svetonio (Cl. 27 combinato con ib. 7 e 14) ci dice che Britannico fu avvelenato poco prima del quattordicesimo compleanno, che doveva cadere il 13 febbraio 56.

Stando così le cose, il procuratore Antonio Felice dovette essere destituito entro l'anno 55, ricevendo, come successore Porcio Festo entro quello stesso anno. Pertanto la notizia di At 24,27 («trascorsi due anni») dovrebbe riferirsi al biennio non della prigionia di Paolo, durata pochi mesi, ma della procura di Antonio Felice.

In tal caso, il viaggio di Paolo da Cesarea a Roma si svolge tra l'autunno del 55 e la primavera del 56 (cfr. At 27,12; 28,11), e il biennio da lui trascorso a Roma (At 28,30) sarebbe compreso tra il 56 e il 58.

Su queste basi, si possono proporre due ipotesi di sistemazione cronologica, limitandoci ai fatti maggiori:

A. La cronologia tradizionale pone la conversione nel 34-35; il primo viaggio missionario (Pisidia e Licaonia) nel 45-49; il concilio di Gerusalemme nel 48-49; il secondo viaggio missionario (Filippi, Tessalonica, Atene, Corinto) nel 50-52; terzo viaggio (Efeso, Macedonia, Corinto, Mileto) nel 53-57/58; l'arresto a Gerusalemme e un biennio di prigionia nel 57-59 o 58-60 (in questi anni avviene il cambio del procuratore); l'arrivo a Roma nel 60-61 e conseguente biennio di prigionia; viaggio in Spagna e ritorno nell'area del Mar Egeo; secondo arresto e martirio a Roma tra il 64 e il 68. Secondo questa cronologia, le lettere (tutte e tredici) si scaglionerebbero tra il 51 e il 67.

B. Tra le molte e discordanti proposte, che si discostano da quella comune, proponiamo la ricostruzione abbastanza recente e originale di G. Lüdemann, che si fonda su Gal 1,6-2,14 e sul criterio delle collette per i poveri di Gerusalemme.

Lüdemann struttura la vita di Paolo non secondo i viaggi missionari, ma secondo le visite compiute a Gerusalemme (il tutto con lo scarto di tre anni, a seconda che si ponga la morte di Gesù nell'anno 27, da lui preferito, o nel 30, che qui seguiamo): la conversione nel 33; la prima visita a Gerusalemme («videre Petrum», Gal 1,18) nel 36; il viaggio con Barnaba in Siria-Cilicia (e Galazia del Sud: At 13-14), più il viaggio missionario autonomo a Filippi,Tessalonica, Atene, Corinto fra il 37 e il 41; in concomitanza, la fondazione delle comunità galatiche; la seconda visita a Gerusalemme per il concilio nel 50; a Efeso nel 51; la «visita intermedia» a Corinto nel 52 (e incontro con Gallione); Efeso - Macedonia - Corinto nel 53-55; la terza visita a Gerusalemme per portare le collette nel 55; in quest'anno avviene il cambio del procuratore; l'arrivo a Roma nel 56 e la prigionia biennale fino al 58. Stando a questa cronologia, le lettere (solo sette autentiche) si pongono tra il 41 e il 58. Secondo Dockx, tra il 58 e il 67 si collocherebbe il viaggio di Paolo in Spagna (cfr. Rm 15,28; lClem 5,7) e un nuovo viaggio in Oriente con l'itinerario Creta - Efeso - Macedonia - Nicopoli - Efeso - Troade documentato dalle lettere pastorali. Secondo l'opinione tradizionale, questi ultimi viaggi si collocherebbero tra il 63 e il 67. Molti autori invece ritengono che Paolo abbia subito il martirio immediatamente allo scadere del biennio di prigionia a Roma (a motivo sia della finale tronca degli Atti, sia della inautenticità delle lettere pastorali).

Profilo della vita di Paolo

Saulo nacque non molti anni dopo Gesù a Tarso in Cilicia, nell'attuale Turchia sud-orientale (cfr. At 21,39). Pur appartenendo a una famiglia di fedele osservanza ebraica (cfr. Fil 3,5-6), già alla nascita ebbe in eredità dal padre la cittadinanza romana (cfr. At 16,37-39; 22,25-29; 25,10-12), che gli permetterà di appellarsi al giudizio diretto dell'imperatore (cfr. At 25,1-12; così faranno poi anche altri cristiani, come leggiamo nella Lettera 10,96 di Plinio il Giovane a Traiano all'inizio del II secolo).

Il nome romano di «Paolo», che egli usa sempre nelle lettere («Saulo» è testimoniato solo da Luca negli Atti), può derivare o da uno scambio per assonanza così da adeguarsi meglio all'ambiente culturale non giudaico, oppure dal nome del patrono romano, che può aver trasformato in liberti gli avi dell'apostolo (i quali si sono forse trasferiti dalla Palestina alla Cilicia in seguito all'intervento di Pompeo nel 63 a.C.).

Nella città di Tarso, che già Senofonte definiva «grande e felice», al tempo di Paolo regnava «un grande zelo per la filosofia e per ogni ramo della formazione universale»; essa fu la patria di non pochi filosofi stoici, tra cui Crisippo e poi Atenodoro, precettore di Augusto. Paolo vi frequentò certamente una buona scuola elementare greca, anche se probabilmente di ambito giudaico, consistente nell'apprendimento della lingua greca e soprattutto della Bibbia greca, con la quale egli si dimostrerà familiarizzato. È probabile che vi abbia appreso anche elementi di retorica, ma che non abbia studiato i classici della letteratura greca (diversamente dal filosofo ebreo, suo coetaneo, Filone di Alessandria). Stando alla testimonianza del retore-filosofo di poco posteriore, Dione di Prusa (cfr. Oratio 33,47), a Tarso si venerava il dio locale Sandam, assimilato a Eracle, secondo forme cultuali misteriche (morte-reviviscenza della vegetazione).

Questa molteplice componente grecizzante si manifesta variamente in Paolo: il tema stoico dell'autàrcheia (autosufficienza, cfr. Fil 4,12), quello della conoscenza naturale di Dio (cfr. Rm 1,19-20), il metodo retorico della diatriba (cfr. Rm 2,27-3,8), un certo vocabolario antropologico (cfr. 2Cor 4,16-5,9), la conoscenza dei giochi nello stadio (cfr. 1Cor 9,24-27), una citazione di Menandro (ma forse in termini proverbiali: 1Cor 15,33), il concetto di coscienza (cfr. Rm 2,15; 13,5 ecc.).

Nato nella diaspora greca, Paolo si recò a Gerusalemme (dove doveva avere legami di parentela: cfr. At 23,16) per approfondire la sua specifica formazione ebraica ai piedi del grande rabbino Gamaliele I (cfr. At 22,3); qui acquisì anche la tipica conoscenza delle sacre Scritture e in particolare della Torah secondo la scuola dei farisei. Seguendo l'abitudine dei rabbini, imparò ed esercitò un lavoro manuale, consistente nella fabbricazione di tende o coperte da campo, che si può intendere anche come lavorazione del cuoio (cfr. At 18,3: skenopoiòs). Anche come apostolo, egli non vorrà gravare sulle sue chiese, ma lavorerà con le proprie mani per provvedere alle necessità del sostentamento (cfr. At 20,34; e soprattutto 1Cor 9,7-15; 2Cor 12,13).

Qualche moderno ha suggerito che Paolo si fosse pure sposato, rimanendo poi vedovo o abbandonato dalla moglie in seguito alla sua conversione. Il matrimonio era sicuramente il normale costume rabbinico; il Talmud babilonese ci attesta l'unica eccezione di Rabbi Ben Azzaj, della fine del I secolo, il quale, rimproverato del suo celibato, rispondeva: «Che devo fare, se la mia anima brama la Torah? Il mondo può essere conservato da altri!»; certo Paolo era stabilmente solo, quando scriveva la Prima lettera ai Corinzi (cfr. 7,8; 9,5).

Non si ha nessun indizio di qualche contatto con Gesù di Nazaret, crocifisso probabilmente l'anno 30, anche se è verosimile che Paolo fosse a Gerusalemme per la Pasqua di quell'anno. Il suo primo approccio sicuro con il nascente cristianesimo lo ebbe a Gerusalemme con il gruppo giudeo-ellenistico di Stefano e compagni; dev'essere stato per lui, fariseo, qualche cosa di scioccante, tanto da infuriarlo, sentirli «pronunciare espressioni blasfeme contro Mosè e contro Dio», cioè contro la Torah e contro il Tempio (At 6,11-14). Di qui il suo zelo persecutorio, che egli stesso ricorderà ai cristiani di Galazia: «Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com'ero nel sostenere le tradizioni dei padri» (Gal 1,13-14).

La sua attività si estendeva fino a Damasco. Ma proprio là subì il capovolgimento della sua vita e fu «ghermito da Cristo» (Fil 3,12), al punto che ciò che prima era un valore per lui diventò spazzatura (cfr. Fil 3,7ss.). Solo Luca negli Atti ci dà una dimensione narrativa del fatto; ma Paolo nelle sue Lettere parla sempre e soltanto, in termini sobri e personalistici, di un decisivo incontro con il Signore risorto, che fece di lui insieme un cristiano e un apostolo (cfr. 1Cor 9,1; 15,8-10; 2Cor 4,6; Gal 1,15-16; Fil 3,7-12). Secondo il racconto degli Atti, la repentinità dell'evento si combinò con una specifica iniziazione da parte della comunità cristiana tramite lo sconosciuto Anania (cfr. At 9,1-18). Si era attorno all'anno 33 (o 35).

D'ora in poi tutte le energie dell'ex fariseo sono poste al servizio di Gesù Cristo e del vangelo. Il suo temperamento focoso (cfr. 1Cor 4,19-21; Fil 3,2), non alieno da momenti di vera tenerezza (cfr. 1Ts 2,7-9; Gal 4,18-19), rimane intatto, ed è la prova concreta che il cristianesimo non mortifica l'umanità di nessuno. Ma ormai la sua è l'esistenza appassionata di un apostolo che si fa «tutto a tutti» (1Cor 9,22). Ha un primo significativo incontro con «Cefa», cioè Pietro, a Gerusalemme (Gal 1,18). Strutturalmente teso verso nuovi orizzonti, soprattutto sentendo acuto il problema dell'accesso dei pagani al Dio biblico della grazia, che in Gesù Cristo si è reso scandalosamente disponibile a tutti senza eccezioni, egli non trova vita facile all'interno della Chiesa-madre di Gerusalemme, di tendenza conservatrice. È costretto a rifugiarsi a Tarso.

Il primo viaggio missionario

Intanto, a seguito della persecuzione contro il gruppo di Stefano, alcuni di questi sono giunti ad Antiochia di Siria, dove per la prima volta il vangelo viene predicato ai pagani e da essi accettato, così che i discepoli di Gesù in quella metropoli vengono chiamati per la prima volta «cristiani», alla greca (At 11,25-26). E Barnaba, un giudeo-cristiano di origine cipriota ma appartenente alla Chiesa di Gerusalemme, allora si reca a Tarso a prelevare Paolo perché collabori alle promettenti prospettive missionarie nella città siriana. Qui si impegnano insieme per un anno intero. Poi ancora insieme, mandati dalla Chiesa antiochena, intraprendono un viaggio missionario come nuova esigenza di espansione del vangelo (cfr. At 13-14). Salpati da Seleucia, predicano a Cipro, incontrandovi il proconsole romano Sergio Paolo; di qui proseguono per l'Anatolia centro-meridionale, toccando i seguenti centri abitati: Perge di Panfilia, Antiochia di Pisidia, Iconio, e poi le città della Licaonia, Listra e Derbe; di volta in volta, il racconto di Luca fa vedere che, mentre i giudei si oppongono attivamente all'annuncio evangelico, i pagani invece lo accolgono gioiosamente.

Tornati sui propri passi ad Antiochia di Siria, alcuni cristiani venuti dalla Giudea si oppongono alla loro metodologia missionaria, che prescinde dalla circoncisione e in genere dalla legge mosaica; il contrasto rende così necessario quello che viene chiamato il concilio di Gerusalemme. Qui per l'intervento di Pietro e di Giacomo, fratello del Signore, si viene a un compromesso: è riconosciuto l'apostolato di Paolo, con l'accordo che egli si rivolga ai pagani (lasciando i circoncisi a Giacomo, Cefa e Giovanni), purché egli si ricordi di fare collette per i poveri della Chiesa gerosolimitana (cfr. Gal 2,1-10); Luca aggiunge anche la richiesta di quattro clausole mosaiche, a cui i pagani avrebbero dovuto attenersi pur rinunciando alla circoncisione (cioè: astenersi dalle carni immolate agli dei, dal sangue, dagli animali soffocati e dai matrimoni proibiti dalla legge levitica), ma Paolo nelle sue Lettere non dimostra di conoscere queste disposizioni. Siamo con ciò nell'anno 49 (o al massimo al 50).

Paolo ritorna ad Antiochia di Siria, dove in una non meglio precisata circostanza rimprovera Pietro, in nome della «verità del vangelo», per la sua doppiezza a proposito delle prescrizioni dietetiche giudaiche (cfr. Gal 2,11-14). La metropoli siriana, che era la terza città dell'impero dopo Roma e Alessandria, diventa per Paolo la sede abituale e il normale punto di riferimento dopo i suoi viaggi (un po' come Cafarnao per Gesù). Ma è poco più che un pied-à-terre. I viaggi per la fondazione e la cura pastorale delle molte chiese da lui suscitate lo impegnano per tutto il resto della vita, assorbendo le sue energie migliori, nonostante le noie di una non meglio identificabile malattia, che è stata variamente diagnosticata come cecità, disfasia, epilessia, febbri malariche (cfr. 2Cor 11,6; Gal 4,13-15; forse 2Cor 12,7-9).

Il suo metodo di evangelizzazione lo porta a privilegiare i grandi agglomerati urbani del tempo, dove si rivolge in ordine di preferenza ai poveri, agli intellettuali e ai benestanti (borghesia del commercio). Gli immancabili avversari giudeo-cristiani gli sono sempre alle calcagna (cfr. 2Cor 11,13-15.22-23; Gal 1,6-7; Fil 3,2.18; Rm 16,17.18; e anche Col 2,8).

Il secondo viaggio missionario

Un secondo e più impegnativo viaggio missionario, senza Barnaba, ha il seguente itinerario: Paolo parte da Antiochia di Siria insieme a Sila, passa via terra per Listra, dove prende con sé Timoteo, poi per la Frigia, la Galazia, la Misia, fino a Troade sull'Egeo settentrionale; di qui salpa per l'Europa, toccando l'isola di Samotracia, e poi per le città di Neapoli, Filippi, Anfipoli, Apollonia, Tessalonica, Berèa, giunge ad Atene, dove tiene il celebre discorso dell'Areopago (At 17,16-34), e infine a Corinto. In quest'ultima città si ferma un anno e mezzo, scrive la Prima lettera ai Tessalonicesi, è osteggiato dai giudei che lo deferiscono al tribunale del proconsole romano Gallione (fratello di Seneca), ma suscita una delle chiese più vivaci di tutto il cristianesimo primitivo. Riparte da Cencre (il porto orientale di Corinto) e, toccando appena Efeso e poi Cesarea Marittima, sale fino a Gerusalemme per tornare ad Antiochia di Siria.

Di là intraprende il suo ultimo viaggio missionario: attraverso la Galazia e la Frigia, giunge a Efeso, dove si ferma per più di due anni. Qui, abbandonata la sinagoga, «continuò a discutere ogni giorno nella scuola di un certoTiranno» (At 19,9: il cosiddetto testo occidentale precisa che vi insegnava dalle ore 11 alle ore 16). Da Efeso intrattiene una nutrita corrispondenza con la Chiesa di Corinto, dove si reca una seconda volta via mare, subendo una non meglio precisata offesa (cfr. 2Cor 2,5-11). Di qui scrive anche la lettera ai Galati, vero manifesto della libertà cristiana, per opporsi al tentativo di giudaizzazione di queste chiese.

A Efeso sperimenta anche una sollevazione ostile, provocata dall'argentiere Demetrio in nome della dea Artemide, di cui la città ospitava il tempio Artemision (computato tra le sette meraviglie del mondo). È qui che probabilmente conosce anche una prigionia, dalla quale scrive la Lettera ai Filippesi e il biglietto a Filemone. Lasciata la capitale della provincia d'Asia, Paolo si dirige verso nord e, attraversata la Macedonia, giunge in Grecia (probabilmente a Corinto), da dove scrive la sua lettera più importante, quella ai Romani, in cui tra l'altro annuncia il progetto di recarsi in Spagna.

Ripartito dalla Grecia in direzione settentrionale, dalla macedonica Filippi salpa verso Troade, e sempre per via mare, toccando Asso, Mitilene, Chio, Samo, Mileto (dove tiene un importante discorso agli anziani della Chiesa di Efeso fatti venire là), Cos, Rodi, Pàtara, Cesarea Marittima, giunge finalmente a Gerusalemme per recarvi le collette messe insieme soprattutto in Macedonia e in Acaia.

A Gerusalemme si ripresenta il contrasto con Giacomo e l'interpretazione giudeo-cristiana del vangelo. E in occasione di un subbuglio suscitato contro di lui da alcuni giudei della provincia d'Asia, con l'accusa di opporsi alle istituzioni del giudaismo, viene arrestato da un tribuno della coorte romana. Paolo si difende ripetutamente, sia in pubblico di fronte ai giudei della città sia di fronte al sinedrio, e anche davanti al procuratore Antonio Felice a Cesarea Marittima, dove viene trasferito. Avvenuto poi il cambio del procuratore, di fronte a Porcio Festo il prigioniero Paolo si appella all'imperatore e, dopo un altro discorso di difesa davanti al re Agrippa II e a sua sorella Berenice (che sarà amante dell'imperatore Tito), viene deferito a Roma.

Alla volta di Roma

Il viaggio verso la capitale dell'impero seguì questo percorso: con una nave, salpati da Cesarea e passando per Sidone e Cipro, giunsero a Mira di Licia; qui con un'altra nave costeggiarono la Licia fino all'altezza di Cnido, da dove puntarono a sud ovest verso l'isola di Creta, raggiungendo una località chiamata Buoni Porti; nonostante la pericolosità della navigazione per l'avanzata stagione autunnale, ripartono verso l'Italia, ma li sorprende una lunga e violenta tempesta che si risolve in un fortunoso naufragio all'isola di Malta; salpano di nuovo dopo tre mesi con un'altra nave, che aveva svernato nell'isola, e approdano a Siracusa in Sicilia, poi a Reggio Calabria, per giungere infine al porto di Pozzuoli; percorrendo di qui la via Campana fino a Capua e poi la via Appia, gli vennero incontro alcuni cristiani di Roma fino al Foro Appio (circa 72 chilometri dalla capitale); giunto finalmente a Roma, vi trascorse sotto custodia militare due anni interi nella casa che aveva preso a pigione. A seconda della cronologia adottata, come abbiamo detto sopra, questa scadenza ci porta all'anno 58 oppure all'anno 63.

Dopo questa data non abbiamo più notizie sicure, non sapendo con esattezza se il processo ebbe esito negativo o positivo. Probabilmente comunque il viaggio in Spagna non ebbe luogo; nessuna fonte antica lo descrive: solo gli apocrifi Atti di Pietro, della fine del secolo II, narrano della partenza di Paolo da Roma, ma probabilmente per pura dipendenza da Rm 15,24.28 (il testo della Lettera di Clemente, capitolo 5, è troppo generico). La tesi tradizionale di un nuovo viaggio in Oriente (Efeso, Creta, Nicopoli in Epiro, Troade) è basata essenzialmente sulle lettere Pastorali, 1-2Tm e Tito, che però oggigiorno vengono diffusamente ritenute deuteropaoline, cioè scritte più tardi da un discepolo.

La morte di Paolo avvenne sicuramente a Roma sotto l'imperatore Nerone e fu violenta, un martirio. La data del 64, in concomitanza con l'esecuzione dei cristiani accusati dell'incendio della città, non è chiaramente proposta dalla tradizione (cfr. 1Clem 5,6, secondo cui Paolo fu consegnato «per gelosia e invidia», forse dei giudeo-cristiani della capitale). La data del 67 è suggerita da san Gerolamo, De viris illustr. 5 e 12 (due anni dopo la morte di Seneca); da parte sua, Eusebio nel Chronicon suggerisce il 68. Ma, come abbiamo detto, è possibile pensare già al 58.

La più antica testimonianza circa il suo sepolcro sulla via Ostiense risale al presbìtero Gaio sul finire del II secolo: «Io posso mostrarti i trofei degli apostoli; se vorrai recarti al Vaticano o sulla via Ostiense, troverai i trofei dei fondatori di questa chiesa» (Eusebio di Cesarea, Hist. eccl. 2,22,2). Una tradizione successiva specifica il martirio come decapitazione alle Acque Salvie, oggi Tre Fontane (Atti di Pietro e Paolo, 80: non anteriori ai secoli IV-V).

Prof. Romano Penna

Pontificia Università Lateranense

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23/01/2010 10:55

Paolo, modello di dialogo interreligioso

ROMA, lunedì, 18 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il contributo del Cardinale Jean Louis Tauran, Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, contenuto nel "Codex Pauli", un'opera unica dedicata a Benedetto XVI al termine dell'Anno Paolino.



 

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La Dichiarazione conciliare Nostra Aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non-cristiane in alcuni passi fondamentali attinge al pensiero dell’apostolo Paolo. Al numero 2 essa afferma: «La Chiesa Cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini. Tuttavia essa annuncia ed è tenuta ad annunciare il Cristo che è “Via, Verità e Vita” (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose».

Infatti il documento fa appello ad una nota espressione di Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi: «È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione» (cfr. 2Cor 5,18-19).

Di fronte alla storia che frequentemente è apparsa come quadro di divisioni, lacerazioni e fratture, l’appello dell’Apostolo alla riconciliazione può essere inteso come un richiamo a ciò che oggi chiamiamo con il termine di “dialogo”. Sebbene questo termine non compaia negli scritti paolini, lo spirito che guida l’Apostolo alla ricerca dell’unità e della cordiale convivenza nel mondo pervaso da culture, religioni e sistemi filosofici diversi è quello che si ispira alla realtà del dialogo interreligioso (oggi anche interculturale e interetnico).

Il centro dell’unità cui deve convergere necessariamente l’umanità è per il grande Apostolo la persona di Cristo. Egli con frequenza ama infatti evidenziare il ruolo non solo cosmico, ma anche salvifico della Croce e della Pasqua che hanno fatto del Cristo il Kyrios, Signore dell’umanità e della Storia. Non solo, ma è nel “mistero” della Croce che Paolo vede l’abbraccio di tutta l’umanità, riconciliata dalle lacerazioni e dalle divisioni che al suo tempo venivano raffigurate nella duplice realtà del mondo religioso ebraico e del mondo religioso greco – romano. Quanto avviene ad Atene presso l’Areopago rende ben visibile l’atteggiamento con cui Paolo si pone di fronte all’uomo che ricerca nella sincerità la verità. L’Agnostos Theos, cioè il “Dio sconosciuto”, è pur sempre il Dio da tutti ricercato e verso il quale si protende la profondità del cuore dell’uomo. È qui che l’Apostolo propone in tutta la sua verità l’annuncio del Vangelo di Cristo e l’opera della sua salvezza, racchiusa nell’evento straordinario della Risurrezione.

L’autore degli Atti degli Apostoli non esita ad esprimere la difficoltà di tale annuncio in un mondo religiosamente complesso e profondamente radicato in un pensiero limitato al solo orizzonte umano (cfr. At 17,32). Tuttavia è in questo annuncio che si trovano la radice e l’origine della consapevolezza che Paolo ha della forza rinnovatrice e propulsiva sia del messaggio di verità di Gesù, sia della sua Pasqua di Risurrezione. Un simile atteggiamento dell’Apostolo nei confronti degli Ateniesi che come “a tentoni” sono alla ricerca del vero Dio (cfr. At 17,27) appare profondamente rispettoso e nello stesso tempo capace di cogliere quei semina Verbi che guideranno sia l’ulteriore annuncio della prima Chiesa, sia il dialogo attuale con le diverse religioni.

L’edificio della pace

Come ha ricordato il Santo Padre nel discorso alla plenaria del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso (8 giugno 2008) «tutti hanno il dovere naturale e l’obbligo morale di ricercare la verità. Conosciutala, sono tenuti ad aderire ad essa e a ordinare la propria vita secondo le sue esigenze». E ha proseguito, rievocando 2Cor 5,14: «È l’amore di Cristo che esorta la Chiesa a raggiungere ogni essere umano senza distinzione, oltre i confini della Chiesa visibile. La fonte della missione della Chiesa è l’amore divino». Il contenuto e la modalità del dialogo, pertanto, sono strettamente vincolati. «Veritatem facientes in caritate» (Ef 4,15), ricorda san Paolo, al quale fa eco sant’Agostino: «Victoria veritatis est caritas».

Ritornando al Documento Conciliare Nostra Aetate, al numero 5, leggiamo: «Il Sacro Concilio seguendo le tracce dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, ardentemente scongiura i Cristiani che “mantenendo tra le genti una condotta impeccabile (1Pt 2,12), se è possibile, per quanto da loro dipende, stiano in pace con tutti gli uomini, affinché siano realmente figli del Padre che è nei cieli». San Paolo aveva già raccomandato ai Romani di coltivare nel contesto di un mondo contrassegnato dalle diversità e dalle differenti sensibilità religiose, l’atteggiamento caratteristico del cristiano incentrato nella eirene/pace: «per quanto questo dipende da voi, vivete in pace con tutti» (cfr Rm 12,18). Simile raccomandazione, originariamente sulle labbra di Gesù nel discorso della Montagna (cfr. Mt 5,9), è un invito a costruire un mondo ravvivato da rapporti cordiali e fraterni che trovano nel “Principe della Pace” il primo costruttore e il modello raggiungibile da tutti gli uomini. In questa luce ogni religione offre il proprio apporto, anzi è invitata a incrementare alacremente l’“edifico” della pace, per il quale Cristo ancora ama proporsi quale “pietra angolare”. Ed è in questo senso che la Chiesa Cattolica si è fatta più volte promotrice di dialogo con le altre religioni per la pace.

Un ulteriore aspetto che meglio definisce l’esemplarità di Paolo è da ricercare nel concetto di “libertà”: «Dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà!» (2Cor 3,17). Paolo è un uomo libero proprio perché conquistato da Cristo. Ed è uomo di preghiera. È nella preghiera che egli trova soccorso nella debolezza, vede un senso là dove sembra esserci soltanto sofferenza, affronta le divisioni tra i credenti, risponde con il coraggio a episodi che – umanamente parlando – appaiono come scoraggianti fallimenti. Ricordava ancora papa Benedetto XVI che «la collaborazione interreligiosa offre opportunità di esprimere gli ideali più elevati di ogni tradizione religiosa». Tra tali ideali vi è sicuramente anche il recupero della dimensione spirituale, avvertita oggi quanto mai urgente di fronte a uno stile di vita sempre più diffuso che non risponde ad alcuna regola oltre al dictat di un consumo sempre più ampio, a ogni costo. Paolo al contrario è un modello di equilibrio: non solo per la sobrietà imposta dal suo stile di vita missionario, sempre in movimento, consapevole della transitorietà di questa vita, ma perché lavora con le proprie mani. Spiritualità, missione e laboriosità sono tutte ben presenti in lui. San Paolo non trasforma mai la religione in un mezzo di arricchimento materiale e in questo modo dà la prima e più forte testimonianza che il denaro non è il dio che regola questo mondo, ma che una Provvidenza più alta muove la storia. Egli ha a cuore anche il destino della natura, vista non solo come risorsa da soggiogare e sfruttare, ma come sorella dell’umanità che invoca anch’essa salvezza (cfr. Rm 8,19-22). Inoltre l’Apostolo diventa anche un modello di solidarietà quando, ad esempio, si fa promotore presso le chiese che vengono dal paganesimo di una raccolta di denaro per le necessità dei credenti più poveri nella comunità di Gerusalemme (1Cor 16,1; Rm 15,26).

Card. Jean Louis Tauran

Presidente del Pontificio Consiglio

per il Dialogo Interreligioso

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