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MONS. GHERARDINI STRONCA LA CRISTOLOGIA LIBERALE E LA TEOLOGICA DI MONS. BRUNO FORTE

Ultimo Aggiornamento: 24/02/2010 11:39
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MONS. GHERARDINI STRONCA LA CRISTOLOGIA LIBERALE E LA TEOLOGICA DI MONS. BRUNO FORTE



MONS. BRUNERO GHERARDINI STRONCA LA CRISTOLOGIA LIBERALE ED ESPRIME CON DOVIZIA DI DOCUMENTAZIONE, IL SUO ENERGICO DISSENSO DALLA TEOLOGIA  DI MONS. BRUNO FORTE 

Il Decano di Teologia della Pontificia Università Lateranense, Mons. Prof. Brunero Gherardini, già autore su "Disputationes Theologicae", di un sintetico e puntualissimo articolo su “Il valore magisteriale del Vaticano II”, interviene ora con un contributo di grande stimolo scientifico. Senza tergiversare, l’illustre teologo stronca come gravemente eterodossa la cosiddetta “cristologia liberale”. Quest’ultima, partendo da ambienti esegetici influenzati da Strauss e Bultmann o dal pensiero del “protestantesimo liberale” in genere, ha guadagnato molti teologi contemporanei. Mons. Gherardini analizza questa “nouvelle théologie” nella sua simbiosi con il pensiero “anti-metafisico” di certa filosofia tedesca. Egli concentra la sua analisi sul terreno strettamente teologico, esprimendo, con dovizia di documentazione, il suo energico dissenso dalla teologia di Mons. Bruno Forte. 

IL DIO DI GESÙ CRISTO

di Mons. Brunero Gherardini

Quanto sto per scrivere è ben lungi, nell'intenzione e di fatto, da ciò che comunemente è detto processo alle intenzioni. Per principio mi sforzo sempre di considerarle tutte - le intenzioni - pure e sante. Ovviamente, "donec contrarium probetur", nel qual caso anche una presunzione di santità o ne trae le conseguenze, o si rassegna al ridicolo. S'aggiunga poi che l' intenzione, anche se pura e santa, non trasferisce automaticamente la propria ineccepibilità morale nel suo prodotto, il quale ha un suo realismo oggettivo, e quindi una sua moralità, prescindendo dall'intenzione formale che lo vuole e verso il quale si protende. Una bestemmia è sempre, in sé e per sé, una bestemmia, anche se pronunciata paradossalmente per render gloria a Dio.

Una tale premessa era necessaria per capir il giudizio, certamente ed irriducibilmente negativo, che sto per pronunciare. Il giudizio non riguarda né le persone che han detto certe cose, né le intenzioni per le quali le han dette, ma esclusivamente le cose che sono state dette, anche se son pervenute all'orecchio e all'intelligenza di qualcuno solo perché qualcun altro le ha dette. Nel sottolineare chi, metto in luce di esse il soggetto con le sue circostanze di luogo e di tempo, senza peraltro condannarlo, nemmeno se - come nel caso di cui qui m'interesso - la mia coerenza teologico-morale mi porta alla condanna inequivoca di ciò ch'è stato detto.

1 - Che cos'è stato detto - Mi riferisco soprattutto, ma non esclusivamente, ad un'espressione non nuova in assoluto, essendo talvolta comparsa, anche se formulata in modo diverso, in un passato non troppo lontano da non pochi degli addetti ai lavori. Proprio perché né faccio, né voglio far il processo alle intenzioni, dirò che si tratta ormai d'un modo-di-dire entrato nel gergo teologico e dai più recepito ed usato quasi certamente senz'avvertirne né la provenienza, né il significato. Provenienza e significato, a dir il vero, più vicini alla cosiddetta Liberaltheologie che non al Credo cattolico.

L'espressione alla quale mi riferisco suona in questi termini: i l D i o d i G e s ù C r i s t o .

Forse il non addetto ai lavori, oppure il non attento all'esigenza d'un linguaggio il più possibilmente proprio per farne tramite, pur sempre inadeguato, dell'Ineffabile, neanche s'accorge d'aver a che fare con un'espressione che dir impropria è un complimento. Il fatto ch'essa allude a Dio ed a Gesù Cristo è più che sufficiente a soddisfar il facile palato di quei teologi - ed oggi son i più - che si son formati non sulla Summa di san Tommaso d'Aquino e nemmeno su quei "loci" che Melchior Cano individuò soprattutto nella Rivelazione, nella Chiesa e nella Tradizione, ma sui testi di rinomati maîtres-à-penser, preferibilmente postconciliari, quasi tutti sensibili alla suggestione d'un hegelismo vagamente cristianizzato, che ciò nonostante imprigiona il messaggio evangelico nelle maglie del divenire, lo spoglia d'ogni sua componente soprannaturale e lo riduce ad un dato sempre cangiante dell'immanenza. Ho trovato un po' dovunque - in Italia, in Europa, nelle Americhe - le opere di siffatti maestri, brillantemente esposte nelle vetrine di librerie ovviamente cattoliche. Segnalate come nouvelle vague théologique, esse apron la teologia postconciliare alla metodologia storico-critica, chiudendola ermeticamente a quella "ex auctoritate et ex traditione". N'è nata la famosa teologia dal basso, non più legata ai dati della divina Rivelazione, né più tributaria della " soffocante" metodologia scolastica che, appropriandosi della Rivelazione stessa, imponeva i suoi criteri interpretativi e le conseguenza cui perveniva. Teologia dal basso, cioè al servizio non del "Dio che ha parlato e si è rivelato", ma del Dio che vien rivelandosi di volta in volta, qui ed ora, nel dispiegarsi di questo momento storico, nelle alternanze della coscienza religiosa, nel sentimento e nella commozione dell'animo umano, nella sua sete di giustizia e di pace, a coronamento dei suoi desideri e delle sue aspettative. Una teologia, insomma, a misura d'uomo, per l'uomo, in conformità al "suo" mistero umano ed alla "figura di questo mondo" (1Cr 7,31) che ne plasma l'identità. Una teologia, infine, tutta protesa a sondare, sulla scia della rivelazione in fieri, non più il mistero di Dio nel mistero del suo Verbo incarnato, ma il mistero dell'uomo come cartina di tornasole del mistero di Dio.

A dir il vero, questa nuova teologia di nuovo ha ben poco. Nel 1835, un Repetent di Tubinga, David Friedrich Strauss, difese la tesi secondo la quale il Cristo del NT non era il Gesù della storia, ma l'oggetto della fede, quale il Libro sacro aveva accolto dalle dichiarazioni di fede della Chiesa nascente[1]. Gli scritti di questo Repetent s'innestano su altri con caratteristiche analoghe ed insieme fanno da apripista ad una corrente - la Leben-Jesu-Forschung - che dà un volto ai secoli XIX e XX, ridimensionando la figura storica di Gesù: il Signore, il Risorto assiso alla destra del Padre e presente col suo Spirito nella vita della Chiesa vien considerato come il frutto della fantasia credente, nettamente distinto e diverso dal biondo Rabbi della Galilea, dalla sua concreta ed individua esistenza all'interno d'una storicità ben determinata e sulla cui psicologia indagaron Ethelbert Stauffer[2] e, con esiti ben diversi, i cattolici Paul Galtier e Pietro Parente[3]. In effetti, è questa la griglia attraverso la quale può intravedersi la scaturigine culturale del Dio di Gesù Cristo. E' la griglia del criticismo teologico che è riuscito nell'impresa di staccare la "paràdosis" del Credo dalla sua dipendenza dalle fonti e di queste medesime fonti ha talmente sconvolto il costitutivo formale da farne un fantomatico coacervo di presupposti ben al di là dei dati più elementari del NT. Dinanzi ad un siffatto isolamento critico-scientifico dell'Uomo-Dio dalla vita e dalla fede della Chiesa, la parola di Karl Barth, un protestante mai tenero verso la Chiesa cattolica, assume il timbro d'un autorevolissimo e profetico richiamo perché si smetta di dar la caccia al "fantasma d'un Gesù storico nello spazio vuoto dietro il NT"[4].

Uno dei massimi responsabili di codesta caccia, quel Rudolph Bultmann che tanta fortuna incontrò in campo cattolico ed altrettanta ne procurò e ne procura ad alcune editrici cattoliche, pone il problema cristologico a cavallo tra due categorie: il mito e la storia. Prima di lui, altri - e fra questi in special modo il ben noto W. Bousset[5] - si sottrassero alla suggestione e d'un'interpretazione cristologica a partire dalla suprema regalità del Padre e videro nel Christus Kyrios una pura e semplice espressione mitologica, che trasformò l'uomo Gesù in essere divino. Da qui l'impegno, tutto liberale, di "smitizzare" il Cristo della fede per ritrovar i lineamenti storici di Gesù.

D'un personaggio, cioè, che non ha nulla in comune, nella realtà dei fatti, con il Figlio preesistente di Dio, incarnatosi per l'umana salvezza, crocefisso risuscitato ed assiso alla destra del Padre. E che non può esser affatto il Kyrios presente nella Chiesa con la forza del suo Spirito e con l'efficacia dei suoi sacramenti. Tutto ciò, infatti, è mito che ha trasformato Gesù in Cristo e di cui questo Cristo va spogliato perché torni ad esser Gesù.

La peculiarità di R. Bultmann si mise in luce nel distinguersi dalla smitizzazione liberale: egli parlò di smitologizzazione - s'è possibile tradurre così la sua intraducibile "Entmythologisierung", un lemma composito che può capirsi solo se scomposto -. Le componenti principali son "Mythos" e "Logos", precedute dal prefisso inseparabile "ent" che richiama la funzione dell'alfa privativo in greco, e seguite dal suffisso indicante l'azione privativa introdotta da "ent". Basterebbe una tale scomposizione a far capire che il programma bultmanniano, pur procedendo in direzione liberale, è tutt'altro rispetto alla smitizzazione della teologia liberale: non spazza via il mito e meno ancor il senso e l'intenzione di esso, ne tutela anzi la trascendenza liberandolo dalla "ratio" (Logos) che ne altera il senso, elevandolo a valore soprannaturale come supporto e spiegazione del Cristo della fede, un uomo che la fede avrebbe trasformato in essere divino[6]. In comune con i liberali, tuttavia, anche Bultmann aveva il traguardo del ridimensionamento del Cristo della Fede sul Gesù della storia. Nemmeno per lui i titoli messianici neotestamentari Messia, Figlio dell'uomo, Figlio di Dio, Signore, Salvatore e via dicendo, dimostrerebbero che Gesù è "un'ipostasi divina"; una loro interpretazione in tal senso, secondo lui, "razionalizzerebbe" Dio e misconoscerebbe che "la divinità di Cristo è un evento" sempre nuovo "e non oggettivabile con nessun fatto del passato" e proprio per questo "opposto ad ogni oggettivazione"[7]. La conclusione, pertanto, non poteva esser diversa dalla seguente: "La formula Cristo è Dio è falsa in ognuno di quei sensi - ariano, niceno, ortodosso o liberale - che intendono Dio come una grandezza oggettivabile. Essa è corretta solo se intende Dio come l'evento dell'azione di Dio"[8].

E', questa, una costante bultmanniana. La si riscontra perciò anche in altri interventi. Nel seguente, p. es.: "Accanto a Dio non c'è un'altra persona divina che, come tale, completi la fede giudaica nell'unico Dio. La fede non è l'affermazione di speculazioni metafisiche sulla divinità di Cristo e sulle sue (due) nature. La fede in Cristo non è nient'altro che la fede nell'azione di Dio in Cristo"[9].

Era proprio necessario arrivare fin qui per capire che cosa significhi "il Dio di Gesù Cristo". Esso non ha senso se non nella separazione fisica e qualitativa di Gesù Cristo da Dio. Ha senso se si parte dal dato di fatto di codesta irriducibile dualità: da una parte Gesù Cristo e Dio dall'altra. L'uno non è l'altro e viceversa. L'uno può parlare dell'altro, ma senza che ciò lo identifichi con l'altro. Quando si legge "Io ed il Padre siamo un'entità sola" (Gv 10,30) si è di fronte non ad un'autoaffermazione sulla divinità di Cristo, sbocciata sulle sue labbra come rivelazione del suo mistero, ma a parole con cui la Chiesa avrebbe divinizzato Gesù, oggettivando nella sua fede il Padre ed il Figlio. In altri termini, l'espressione "il Dio di Gesù Cristo" è formalmente identica a quella veterotestamentaria sul Dio d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe (Es 3,6) che il NT (Mt 22,32; Mc 12,26) ripete alla lettera e con identico significato.

Quello, cioè, di Dio unico trascendente e sovrano, che può prendersi cura d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe, solo perché si distingue nettamente - qualitativamente, metafisicamente - da loro. L'espressione non assume un significato diverso se applicata a Gesù Cristo. Come non fa d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe altrettante divinità né accanto a Dio, né in competizione con Lui, così l'incauta e blasfema espressione "il Dio di Gesù Cristo" non innalza il personaggio chiave dell'Evangelo al rango della divinità ed ignora - o forse nega - il dogma delle due nature in lui ipostaticamente unite. E come nel primo caso, oltre alla trascendenza di Dio, la formula esprime la fede d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe nel Dio che s'è coinvolto nella loro storia personale ed in quella del loro popolo, così nel secondo caso la formula esprime:

* Iddio metafisicamente distinto e separato da Gesù Cristo in base ad un'infinita differenza qualitativa di kierkegaardiana memoria;

* La condizione puramente umano-creaturale di Gesù Cristo che, alludendo a Dio, indica in Lui il totalmente altro da sé;

* la fede con cui Gesù Cristo si rapporta continuamente a Dio, espressa nella sua predicazione su Dio Padre, Amore, Giustizia, Pace.

2 - Chi l'ha detto - Mi spiace sinceramente di dover far nome e cognome, ma non posso sottrarmi al diritto del lettore di conoscer come stian esattamente le cose. Il nome, dunque, ed il cognome da fare è quello di BRUNO FORTE. Non che sia l'unico; il contorno in cui si trova è anzi piuttosto cospicuo e costituito da personaggi spesso di primo piano. Di primissimo, peraltro, è lui: arcivescovo di Chieti-Vasto dal 26 giugno 2004 e Presidente della Commissione Episcopale per la dottrina della Fede, l'annuncio e la catechesi; taccio sui titoli accademici, notevoli ma men interessanti di quelli istituzionali. Solo per far capire che non è il primo venuto, ricorderò che, dopo il dottorato in teologia presso la facoltà teologica dell'Italia meridionale, conseguì diplomi di perfezionamento a Tubinga e a Parigi, e coronò il suo curricolo con la laurea in filosofia presso l'università di Napoli. In un non dimenticato articolo su "Divus Thomas" del 1986/87, il suo ex professore e predecessore nella detta facoltà teologica, Mons. Prof. Giuseppe De Rosa, scrisse una ragionata e lunghissima stroncatura del libro Gesù di Nazaret. Storia di Dio, Dio della Storia [10]. Scrivendo poco dopo una mia "recensione d'una recensione", riconobbi tutte le fondate ragioni del De Rosa, ma tentai pure di dar al mio scritto un tono leggermente più blando. Da inguaribile ingenuo qual sono, devo oggi riconoscere che la severità del prof. De Rosa aveva i suoi buoni motivi. Bruno Forte continuò a scrivere con penna agile e disinvolta, a tratti quasi felpata, ma sempre terribilmente al limite della rottura, in certi casi anzi, come nella sua fantateologia trinitaria, ben al di là di esso. Volutamente l'ho per anni ed anni ignorato, pur leggendo i suoi scritti e perfino ammirando la leggiadria formale in cui è solito immerger i suoi tremendi errori. Ché, d'errori si tratta, non di bazzecole. Speravo che qualche nuovo De Rosa se n'avvedesse e si comportasse con lui sull'esempio del primo. Speranze perdute. Il suo nome, presto in evidenza nelle sfere che contano[11], e sapientemente usato da editori interessati, suscitò progressivamente risonanze mondiali. Fu maestro in convegni e congressi ad altissimi livelli. Cooptato in Accademie e Commissioni di studio. Fatto vescovo e Presidente, proprio lui, della Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede. Punto di riferimento (sembra) obbligato del pensiero teologico italiano. Lui soltanto o anche i suoi errori?

La frase dalla quale si è partiti appartiene a lui. A lui, lo si noti bene, non come privato dottore, ma com'espressione e sintesi del pensiero e dell'insegnamento della CEI. Si trova, infatti nella Presentazione d'una Lettera ai cercatori di Dio, che S. E. Rev.ma Mons. B. Forte, a nome della Commissione episcopale da lui presieduta, ottenuta l'approvazione del Consiglio Episcopale Permanente in data 22-25 settembre 2008, inviò ai destinatari nella Pasqua del 2009. Si riprometteva, con essa, di mettersi al fianco di quanti cercano "il volto del Dio vivente": dei credenti che crescono nella conoscenza della Fede e di quanti, pur non credenti, avvertono come serio il problema di Dio e delle cose ultime. Ma intendeva sollecitare l'interesse anche di coloro che non si pongono mai un tale problema, "nel pieno rispetto della coscienza di ciascuno, con amicizia e simpatia verso tutti"[12].

Solenne e nobile, dunque, l'intento ed altrettanto il punto di partenza. L'uno e l'altro, però, miseramente naufragati nei gorghi liberali della frase incriminata. Solo nella Presentazione della Lettera la frase ricorre per ben due volte: "Il testo parte da alcune domande che ci sembrano diffuse nel vissuto di molti, per poi proporre l'annuncio cristiano e rispondere alla richiesta: dove e come incontrare il Dio di Gesù Cristo"? E poco dopo: "La commissione Episcopale si augura che la Lettera possa...suscitare reazioni...che aiutino ciascuno a interrogarsi sul Dio di Gesù Cristo e a lasciarsi interrogare da lui"[13]. Non si pensi a due casi isolati: aprendo la lettera e scorrendone le pagine, ritroviamo o la stessa frase[14], o parole equivalenti[15].

Difficile equivocare sul significato obiettivo della frase, che proprio in quant'ho premesso trova il suo Sitz-im-Leben; deriva infatti dal cristianesimo desoprannaturalizzato della Liberaltheologie, la quale a sua volta è figlia naturale della tradizione illuminista. Il Sitz-im-Leben è addirittura confessato: a p. 55ss. tutto è detto in chiave liberaltheologisch. I discepoli infatti si convincono che Gesù è risorto e ne reinterpretan la vita, alla luce della sua risurrezione, come "appartenente al mondo di Dio". Non mancan, sia ben chiaro, parole e ragionamenti meno scioccanti, o addirittura pienamente ortodossi; è il costume dei "neoterici", come direbbe Amerio: un colpo al cerchio ed uno alla botte. Ma resta il fatto della distinzione tra il Cristo della Fede ed il Gesù della storia e, col fatto, il senso che gli ho dato chiudendo il mio precedente paragrafo. Con profondo rammarico devo prender atto, perciò, che si tratta d'una frase da riprovare per un doppio motivo: perché non confessa in Cristo il Figlio naturale di Dio e perché lo stacca dalla circuminsessione amorosa tra Dio Padre Figlio e Spirito Santo, sovvertendo insieme il dogma trinitario e quello cristologico.

Parlo di significato obiettivo, ben sapendo o comunque augurandomi che le intenzioni soggettive non abbian avuto altro di mira che di facilitare l'incontro salvifico col Signore Gesù, l'eterno Verbo del Padre, Dio da Dio, della sua stessa sostanza, perfettamente Dio e perfettamente uomo, avendo preso l'umana carne dal grembo immacolato della Vergine Madre, per esser il rivelatore il mediatore il redentore il salvatore del genere umano. Sì, questo so e questo m'auguro che sia pure nelle intenzioni, meglio ancora se nelle convinzioni di Fede, del Vescovo che ha firmato la Lettera ai cercatori di Dio, per essa avvalendosi, lo confessa lui stesso, "di un lavoro collegiale che ha coinvolto vescovi, teologi, pastoralisti, catecheti ed esperti nella comunicazione"[16].

La confessione non mi consola. Devo dedurne che la situazione è molto più grave di come appare: così stando le cose, ne deduco che gli errori appartengono non ad una sola persona, ma ad un insieme di persone, per giunta considerate competenti ed ufficialmente incaricate di collaborar in base alla loro competenza. Com'è possibile che la competenza ingeneri l'errore? Di quale competenza si tratta? E quale teologia può esser il terreno di coltura per una competenza che semina l'errore?

3 - Gli errori - Parole come "errore" ed "eresia" non si dicon a cuor leggero: sconsideratamente superficialmente astiosamente. Son parole gravissime che si riferiscono a posizioni dogmatico-teologiche altrettanto gravi. La prudenza, non meno che la carità, son in casi del genere due condizioni previe e non discutibili.

Purtroppo, nel caso in esame - "et flens dico", Fil 3,18 - esse sono le due sole parole oggettivamente adeguate, con la conseguenza che inadeguata sarebbe ogni altra parola. Debbo anzi riconoscere - ancora "flens dico" - che aveva ragioni da vendere, il vecchio De Rosa, quando per primo mise il dito sulla piaga. La pseudoteologia di questo Ecc.mo personaggio, al quale la CEI affida le sorti della dottrina cattolica, del suo annunzio e della sua catechesi, e quindi della nostra Fede oltre che della nostra salvezza, è tutt'un coacervo di posizioni decisamente erronee ed insostenibili. Il suo punto di partenza - la teologia dal basso - lo pone a braccetto con i massimi responsabili dell'odierna miopia teologica: attraverso Rahner e la pletora dei soliti ripetitori risale a Heidegger, Husserl, Hegel, non senza strizzatine d'occhi en passant a Barth, Bultmann, Moltmann, Schillebeeckx, Block, né senza sintomatiche reminiscenze di Gioacchino da Fiore, di Vico, di Croce, di Spinoza e del suo emulo moderno Teilhard de Chardin.

Un tale punto di partenza è una pista di lancio verso il ribaltamento radicale della dogmatica classica: Dio è considerato sullo sfondo dell'uomo e misurato sulle sue naturali necessità e limitazioni, invischiato in esse, sofferente per esse e non meno sofferente del Figlio suo che le fece proprie. Le sue simpatie per il teopaschismo o monofisismo teopaschita lo metton al passo dei Patripassiani, per i quali "si ipse est Filius qui et Pater, crux Filii Patris est passio"[17], ma lo coinvolgono pure, inevitabilmente, nella loro condanna[18]. La sua concezione del Dio non più personale ne mette in evidenza i tratti hegeliani, quelli d'un Dio dichiarato, anzi definito "storia": un Dio che diviene, si pone e si rinnova nell'ondiflua immanenza mondana. L'immutabilità e l'impassibilità di Dio son pertanto superate di slancio: ferri vecchi e del tutto inutilizzabili dai moderni laboratori di teologia dogmatica

La derivazione hegeliana di questo "pezzo da novanta" si rivela nell'aver egli confuso cristologia e soteriologia in un impalpabile pancristismo, grazie al quale il Signore Gesù dovrebb'esser al centro della realtà, tutta in lui ricapitolata (cf Ef 1,10), ed è invece la ragione e la molla di quel divenire dialettico che, con Feuerbach, porta alle conseguenze estreme la dialettica hegeliana, trasformando la teologia in pura e semplice antropologia.

Si tratta d'un quadro appena abbozzato, che l'ineludibile esigenza d'un'analisi critica vorrebbe più specificato ed approfondito; il presente semplice abbozzo è dovuto al fatto che questo scritto, non essendo formalmente un'analisi critica, non risponde alle sue esigenze. Tuttavia, i pochi tratti del quadro generale qui delineati costituiscono, secondo me, un sufficiente sfondo sul quale l'espressione "Il Dio di Gesù Cristo" si colloca come a casa propria. E' la casa equivoca dell'ammodernamento teologico, in tanto tale, cioè teologia svecchiata e rinnovata, in quanto ha dato lo sfratto:

* a quella divina Rivelazione che la Chiesa dichiara conclusa con la morte dell'ultimo apostolo

* alla Tradizione che n'è nata come supporto della vita e della giovinezza perenne della Chiesa;

* al Magistero ecclesiastico come organo, solenne ed ordinario, di codesta Tradizione;

* alla teologia dei grandi dottori, costruita sulla Rivelazione e sulle definizioni dogmatiche per darle sicurezza "in lumine fidei, sub Ecclesiae Magisterii ductu"[19].

Portando sulle spalle la pesante responsabilità d'un tale sfratto, non so con quale faccia sia possibile presentarsi a Dio, per affidargli la famosa Lettera e chiedergli di "farne strumento della sua grazia"[20].

B. Gherardini


[1] Nato il 27 genn. 1808 a Ludwigsburg, alunno di F. Chr. Baur, elaborò nel 1831/32 a Berlino le lezioni di Schleiermacher sulla vita di Cristo ed altrettanto fece nel 1832/35, come Repetent a Tubinga, con la vita di Cristo di Hegel, finché, proprio nel 1835/36, pubblicò il suo famoso Das Leben Jesu, kritisch bearbeitet in due volumi, dei quali già il primo suscitò un tale vespaio che Strauss ci rimise il posto di Repetent. Nel 1837 pubblicò l'apologia dello suo scritto incendiario: Streitschriften zur Verteidigung meiner Schrift über das Leben Jesu und zur Charakteristik der gegenwärtigen Theologie. Il fossato che già prima era stato aperto tra il-Cristo-della-fede ed il-Cristo-della-storia, si dilatò fin all'inverosimile sotto la spinta d'esigenze c.d. storico-scientifiche: la fede è una cosa, la scienza un'altra. La Leben Jesu diventò una corrente, sulla quale riferì con onestà critica il poliedrico esegeta-teologo-medico-organista-missionario (fondatore del discusso ed ammirato ospedale di Lambarené) ed appartenente egli stesso alla Liberaltheologie, SCHWEITZER A., Geschichte der Leben-Jesu-Forschung, J.C.B.Mohr (P. Siebeck), Tubinga 19516, il quale, ricercando i prodromi del fenomeno, li individuò anzitutto in H. S. Reimarus ed in alcune espressioni vetero-razionaliste, nel colto razionalismo di H.F. G. Paulus, in quello romantico-sentimentale di Schleiermacher e quindi in quello "scientifico" di Strauss, al quale dedica le p. 69-128 prima di passare alle successive Vite di Cristo. Per una mess'a punto complessiva, cf RISTOW H.-MATTHIAE K. (a c. di), Der historische Jesus und der kerygmatische Christus, Ev. Verlagsanstalt, Berlino 1960.

[2] STAUFFER E., Die Theologie des Neuen Testaments, Stoccarda 19473. Altrettanto VOGEL H., Christologie, 1.Monaco 1949, sp. p. 22.

[3] GALTIER P., L'unité du Christ: Être, Personne, Conscience, Parigi 19392; ID., La conscience humaine du Christ, in "Gregor." 32 (1951) 526ss, sp. p. 562; in polemica con lui, ma ad altissimi livelli, intervenne PARENTE P., col suo capolavoro L'Io di Cristo, Morcelliana, Brescia 1955, terza ed. Istituto Padano Arti Grafiche, Rovigo 1981; ID., Unità ontologica e psicologica dell'Uomo-Dio, Collez. Urbaniana 3/2, Roma 1952.

[4] BARTH K., Kirchliche Dogmatik, I/2 Zollikon-Zurigo 19453, p. 71: "...nach dem Phantom eines historischen Jesus im leeren Raum hinter dem Neuen Testament".

[5] BOUSSET W., Kyrios Christos. Geschichte des Christusglaubens von den Anfängen des Christentums bis Irenaeus, Gottinga 19212.

[6] Cf spec. BULTMANN R., Theologie des Neuen Testaments, Verlag J. C. B. Mohr (Siebeck) Tubinga 19583; ID., Die Geschichte der synoptischen Tradition, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottinga 19615; ID., Glauben und Verstehen, 3 voll., J. C. B. Mohr (Siebeck), Tubinga 1961-62. Tra le innumerevoli opere d'interpretazione o di presentazione, scelgo l'unica che più d'ogni altra riesce a far capire il programma della "smitologizzazione" bultmanniana: MALET A., Mythos et Logos - La pensée de Rudolph Bultmann, Labor et Fides, Ginevra 1962. Come puntuale ed onesta controversia fra due grandi si veda anche BARTH K., Rudolph Bultmann: ein Versuch, ihn zu verstehen, Zurigo 19643; al riguardo si confronti anche lo scambio epistolare Karl Barth-Rudolph Bultmann: Briefwechsel 1922-1966, a c. di B. Jaspert, Zurigo 1971, spec. lett.94/95 p. 169ss,

[7] BULTMANN R., Glauben und Verstehen, II. p. 258: "So ist auch Christi Herr-Sein, seine Gottheit, immer nur je Ereignis. Eben das ist der Sinn dessen, daß er das eschatologische Ereignis ist, das nie zu einem Ereignis der Vergangenheit objektiviert werden kann, auch nicht zu einem Ereignis in einer metaphysischer Sphäre, das vielmehr jeder Obiektivation widerstreit".

[8] Ibid.

[9] Ibid., I, p. 331.

[10] Ed. paoline, Cinisello Balsamo, 1981.

[11] Proprio a me l'Em.mo Card.Ursi, certo non volendo, ne dette la notizia.

[12] Dalla presentazione di Lettera ai cercatori di Dio, Paoline Editoriale Libri, Milano 20093 , p. 3.

[13] Ibid. p. 3-4.

[14] P. es. a p. 44, 65; a p. 85 la frase entra nel titolo del III cap.

[15] Un solo esempio, fra i tanti: "La Chiesa è la comunità dei credenti che riconoscono Gesù Cristo Figlio di Dio" (p. 68). Non evidente, ma reale è qui la dissociazione del Cristo della Fede dal Gesù della storia, il quale non vien adorato perché "Figlio di Dio" e quindi Dio egli stesso, ma la sua divina figliolanza è fatta dipendere dalla Fede dei credenti.

[16] Ibid. p. 3.

[17] S. LEONE M., Ep. "Quam laudabiliter", 21 luglio 447, DS 284.

[18] Ibid.

[19] Optatam totius, 16/a.

[20] Presentazione, cit. p. 4.

Fonte: DISPUTATIONES THEOLOGICAE - 29 gen 2010

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IL PENSIERO DEBOLE DEL TEOLOGO FORTE

Proponiamo una prima analisi critica di alcuni tra i punti perspicui della teologia di Mons. Bruno Forte (nella foto), Arcivescovo di Chieti, il quale, secondo le ultime indiscrezioni “rischierebbe” (il rischio è della Chiesa!) una vistosa promozione. Quanto segue trova la sua ispirazione in un possente articolo di Mons. Prof. Giuseppe De Rosa («Analisi critica di un singolare Saggio di Cristologia», in Divus Thomas, 1986/198, pp.3-133), predecessore di Forte sulla cattedra di Dogmatica della Pontificia Facoltà teologica dell’Italia Meridionale e suo maestro; intervento notevolissimo per la densità dei contenuti e l’ampiezza della documentazione. Il giudizio complessivo pronunziato da Mons. De Rosa relativamente alla teologia di Forte è ben sintetizzato in queste righe del citato articolo: «Il contenuto dottrinale del libro […] dal punto di vista dell’ortodossia cattolica si rivela assai discutibile e non certamente innocuo» con «errori e deviazioni […] interpretazioni […] temerariamente personali e antitradizionali dei principali misteri cristiani» (p.4).

Iniziamo ascoltando alcune parole di Forte, tratte da Gesù di Nazaret, Storia di Dio, Dio della Storia:

Che senso ha l’evento della Croce per la sofferenza del mondo? Che cosa è avvenuto in quel Venerdì Santo per la storia del mondo? Il Vangelo di Marco, che riferisce probabilmente la tradizione più fedele alla cronaca dei fatti, riporta come parole di Gesù morente il grido del Salmo 22: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?». È la “derelictio Jesu”…che ha costituito sempre una pietra di scandalo nella interpretazione cristiana del “Mysterium Crucis”, ed oggi è al centro delle “Teologie della sofferenza di Dio”, che cercano in una più profonda intelligenza del Crocifisso il senso ultimo della passione del mondo. […] La domanda è carica del tormento che attraversa la sofferenza, il travaglio di non comprenderne il senso. Nell’interrogativo del Figlio risuona l’angoscia di tutti i sofferenti della storia: anche per il Crocefisso la sofferenza è un mistero! L’interrogativo nasce dall’esperienza di un reale abbandono, dall’assenza e dal silenzio di Colui, del quale il Nazareno più avrebbe atteso la presenza nell’ora della Croce, a garanzia della sua attestazione messianica…All’abbandono doloroso, però, egli risponde con l’offerta; è l’abbandonato, non il disperato. […] In realtà, il Figlio è stato mandato dal Padre: già in questo invio c’è un distacco doloroso per il Padre…Se il Figlio soffre è perché il Padre soffre, precedendolo sulla via dolorosa…Alla sofferenza del Figlio…fa dunque riscontro una sofferenza del Padre: Dio soffre sulla Croce come Padre che offre, come Figlio che si offre, come Spirito, che è amore promanante dal loro amore sofferente. (pp.28-30, sott. ns.).

Attraverso un linguaggio che, più che “fluido”, non esiteremmo a definire “scivoloso”, Forte insinua un coacervo di dottrine eterodosse:


1. L’ignoranza di Cristo relativamente al senso ultimo della sofferenza.
Tale affermazione presuppone l’ignoranza umana di Cristo ed esclude che Egli abbia avuto sulla terra la “scienza dei beati”; un’ipostesi simile, anche se potrebbe apparire affascinante, nasconde in realtà una comprensione inadeguata dell’unione ipostatica. Forte sostiene che la dottrina tradizionale della perfetta conoscenza umana di Cristo è una “parodia di umanità”, un “monofisismo psicologico” (pp. 200-201). Egli sostiene invece che «sarebbe possibile recepire la “visione immediata di Dio” nell’uomo Gesù interpretandola però nei termini della coscienza preconcettuale irriflessa: in tal modo la “visione di Dio” nel Nazareno verrebbe anzitutto spogliata del carattere di beatitudine, che contrasta in maniera evidente con la sua vera umanità»(pp.204-207). In conseguenza di ciò Forte ammette che Cristo ebbe le virtù teologali di fede e di speranza (p.209).
La strana tesi di una “visione di Dio non beatificante e irriflessa” proposta da Forte genera dei gravi inconvenienti. Come è possibile che la visione di Dio non sia per se stessa beatificante? In che modo una facoltà naturale, cioè il subconscio umano (sede di ogni conoscenza irriflessa), potrebbe avere in sé un oggetto di conoscenza soprannaturale (quale è l’Incarnazione del Verbo) senza essere elevato dalla grazia? In che modo la scienza di visione potrebbe contrastare con la vera umanità di Cristo (S. Ireneo insegna che vita hominis est visio Dei)? All’origine di questi paradossi sta essenzialmente una comprensione scorretta del rapporto tra ordine naturale e ordine naturale.
D’altra parte il Magistero della Chiesa, relativamente alla scienza umana di Cristo, ha sempre insegnato diversamente da Forte (Decreto Lamentabili, 3 luglio 1907, DH 3432-3434; Decreto S. Uffizio, 5 giugno 1918, DH 3645-3647).

2. Il reale abbandono dell’uomo (Nazareno) da parte di Dio sulla Croce.
Presuppone la separabilità delle due nature di Cristo. È contrario alla Definizione di Calcedonia (DH 302).

3. Il distacco avvenuto in Dio in seguito alla Missione del Figlio.
Manda in frantumi l’unità dell’Essenza divina e spazza via il concetto di Missione così come insegnato dall’unanime tradizione teologica. Ammettere un distacco tra le ipostasi divine significa non accettarne la consustanzialità e rinnovare l’errore di Ario.

4. La sofferenza in Dio.
“[Questo Concilio] esclude dall’ordine clericale coloro che osano affermare soggetta a sofferenza la divinità dell’Unigenito”: così insegna il Calcedonese (DH 300). Nessuno vorrà negare che le citazioni magisteriali in questo senso sono abbondantissime e unanimi.

Quest’ultimo punto merita qualche riflessione, giacché oggi si è generalmente inclini a ritenere troppo severo il giudizio di coloro che escludono la possibilità della sofferenza di Dio. La dottrina della sofferenza di Dio ha le proprie radici nell’idealismo tedesco; non però nel sistema panlogistico di Hegel, ma nell’ultima filosofia di Schelling (filosofia della Rivelazione). Proviamo a sintetizzarne il contenuto. Nel mondo esiste il male e la sofferenza; essi sono essenzialmente incompatibili con la bontà di Dio che è amore e dunque appaiono ingiustificabili; l’unico modo per poterne ammettere la possibilità è affermare che il dolore e la sofferenza sono “originariamente” in Dio; l’uomo soffre perché Dio in sé soffre. Questa dottrina nega l’immutabilità e l’impassibilità divine e con ciò rifiuta il concetto stesso di Dio così come è stato da Lui rivelato e proposto infallibilmente dalla Chiesa (Concilio Vaticano I, Dei Filius, DH 3001:“Dio è una sostanza spirituale unica e singolare, assolutamente semplice e immutabile”).
Notiamo, per inciso, che secondo la teologia cattolica la sofferenza è entrata nel mondo come conseguenza del peccato dell’uomo. Ammettere la possibilità della sofferenza in Dio, significa mutarne l’origine e fondare in Dio la possibilità nonché l’attualità del male: il che è evidentemente assurdo.
La dottrina della mutabilità di Dio è precisamente il cuore della teologia di Forte: Dio non è l’Ipsum Esse subsistens, bensì il Fieri. Dio è divenire. L’immutabilità divina va intesa “storicamente” come fedeltà di Dio alle proprie promesse e non “metafisicamente” come una perfezione ontologica.

Il Dio cristiano è un Dio che ha storia, che diviene: è il Signore che si fa servo e servo che diviene Signore […] Letto nell’evento di Pasqua, il Dio cristiano non potrà mai essere interpretato come l’Altissimo immobile e immutabile. È stato il pensiero greco che ha insinuato il sospetto di impurità in un Dio che divenga […] Dio non muta nella fedeltà alle libere promesse che ha fatto all’uomo. (pp. 185-186).

Il pensiero di Forte è paradossale. Egli accusa la metafisica tradizionale di aver tradito il Dio biblico e di averlo tramutato in un dio greco. Poi, nel rocambolesco sforzo di fluidificare l’asfissiante immobilismo del “Dio metafisico”, afferma che il Dio biblico è «il Dio dell’alleanza e dell’incontro nuziale: un Dio che sa amare e ripudiare, gioire e soffrire, decidersi e pentirsi, un Dio geloso, che si adira, prova disgusto e conosce tenerezza. La pateticità è una sua caratteristica» (p.71): ed ecco che egli stesso ha trasformato il Dio biblico in una “volubile divinità greca” che può recitare una bella parte nell’Iliade, ma che certamente non sta a proprio agio nella Rivelazione biblica del Roveto ardente (Ex. 3,14). È noto che la Sacra Scrittura attribuisca a Dio degli atteggiamenti umani: certamente non l’ha scoperto Forte. Tuttavia bisogna rifuggire da un’interpretazione letterale e reale, pena l’ “antropomorfizzazione di Dio”: tali espressioni sono dovute all’insufficienza del linguaggio umano che, essendo essenzialmente discorsivo, resta costitutivamente inadeguato di fronte al mistero di Dio.

Ora, se Dio diviene, è chiaro che di Lui non si potrà avere una “Rivelazione definitiva”:

Sta qui la ragione profonda della struttura tensionale dell’atto di fede. Se il termine ultimo di esso è sempre Dio che si rivela nell’insondabilità del suo mistero, la mediazione dell’assenso è la Parola cui si acconsente, necessariamente precaria ed insufficiente. Ne consegue la tensione della fede ad andare al di là della formula, dell’immagine, del concetto della rivelazione e del dogma, verso una percezione meno imperfetta del suo Dio. (pp.38-39).

Dunque la Parola di Gesù Cristo – nel quale la Rivelazione è compiuta – alla quale l’intelligenza creata obbedisce nell’atto di fede sarebbe in realtà solo un momento precario e insufficiente che prelude ad una percezione meno imperfetta.
Non così però insegnano la Sacra Scrittura e il Magistero, per esempio nella Costituzione Dei Verbum 4 del Vaticano II. La Chiesa ha sempre ammesso la possibilità, anzi la necessità di progredire nella comprensione della divina Rivelazione, ma ha costantemente e categoricamente escluso un progresso nella Rivelazione stessa.

Ovviamente se Dio diviene, se la Rivelazione diviene (dunque muta e si accresce con la storia) segue che la Sacra Scrittura non contiene verità “intemporali”, come dice Forte (o “eterne”, come preferiamo noi in termini più famigliari!) e, dunque, è necessario ripudiare il modo tradizionale di concepire il rapporto tra Antico e Nuovo Testamento (pp.67-77), cioè il metodo allegorico o tipologico. Notiamo per inciso che tale metodo, utilizzato già da San Paolo (es. Gesù-Adamo, Rm 5,12), coessenziale alla teologia dei Padri e dei Dottori, pacificamente ammesso da tutti i teologi cattolici, è altresì l’asse portante di tutta la Liturgia cattolica.

La preparazione veterotestamentaria al Nuovo Testamento va cercata…non nel senso dell’allegoria (come ritiene la tendenza dominante nella tradizione cristiana), ma in quello della storia; di un divenire cioè della rivelazione, di una storia della Parola, che non prescinde dalla concreta e contraddittoria progressività del cammino d’Israele, ma si compie in e attraverso di essa, non secondo armoniche anticipazioni del futuro, ma secondo le dure leggi dell’esodo quotidiano verso l’avvenire […] Le Scritture non sono simboli o allegorie di ciò che poi avverrà nell’opera e nel destino di Gesù […] non contengono verità “intemporali”. (69-70).

Più chiaro di così! La parentesi in cui Forte confessa il proprio strappo con la tradizione (non crediate sia un’ interpolazione nostra!) è un passaggio testuale disarmante. Certo, Forte legittima la propria idea ridimensionando il valore dell’interpretazione allegorica della Scrittura: essa sarebbe solo una “tendenza dominante nella tradizione cristiana”, dunque non necessariamente stringente. Sembra che egli non abbia mai letto Dei Verbum 15: “L’economia del Vecchio Testamento era soprattutto ordinata a preparare, ad annunziare e a significare con vari tipi (ecco l’interpretazione allegorica! n.d.r.) l’avvento di Cristo redentore dell’universo e del Regno Messianico”.

Possibile che un teologo così “avveduto” non si renda conto dell’enormità delle proprie affermazioni? Pare proprio che la lactea ubertas del suo pensiero esondi senza limite alcuno in una facondia tanto prorompente quanto devastante:

(Il presupposto dell’interpretazione allegorico-tipologica) Sta nel ritenere che lo sviluppo storico non possa toccare le verità “intemporali” contenute nella rivelazione: questo presupposto però è insostenibile per chi prenda sul serio il divenire uomo del Verbo e non confonda la verità-fedeltà del Dio biblico con la verità immutabile ed intemporale del dio greco. (p.69)

Lo strappo con la tradizione teologica è una vera ossessione per il nostro Forte, una sorta di imperativo morale. Se quanto avete appena letto non è il “manifesto del pensiero relativista”, diteci voi che cos’ è! Duemila anni di teologia liquidati in cinque battute. Anche a Sant’Agostino e a San Tommaso non resta che ritirarsi umilmente o fra i “confusi” o fra i “burloni”, cioè tra coloro che non hanno "preso sul serio" la Verità dell’Incarnazione: questo sì che si chiama “sentire cum Ecclesia”! D’altra parte non c’è di che stupirsi. È caratteristica comune a tutti gli idealisti considerare il proprio sistema filosofico-teologico come la fase culminante del pensiero umano, la luce che squarcia secoli di caligine intellettuale.
Molti nei secoli hanno creduto che fede e ragione fossero due ali necessarie per elevare l’uomo alla conoscenza di Dio; il magistero recente (Giovanni Paolo II e Benedetto XVI) ha insistito e insiste particolarmente sull’aspetto razionale della fede. Ma ecco che Forte, attraverso un’esegesi di sapore protestante della Confessione di Pietro a Cesarea di Filippo (egli accoglie come autentica la versione di Marco rifiutando, in linea con i pensatori riformati, l’autenticità storica della versione di Matteo che contiene la formulazione del primato petrino), nega la possibilità stessa della teologia naturale.

Il Dio-umano, il Signore Gesù dei Vangeli sovverte l’immagine di un Messia che obbedisce all’idea che è possibile farsi razionalmente di Dio, di un Cristo cioè incontaminato nelle sue perfezioni divine, rivelatore di un Dio che non soffre e non spera (come era nei manuali tradizionali di cristologia) (162-167)

Su che cosa dunque potrà fondarsi la fede del Cristiano se non sulla propria intelligenza illuminata dalla fede? L’intelletto umano appare qui come un inciampo alla fede, piuttosto che un sostrato necessario (qual è veramente, giacché la grazia presuppone sempre la natura!). Se l’intelletto non può giungere alla conoscenza di Dio, tanto meno i concetti filosofici sono utili alla teologia, essendo in fondo delle vuote astrazioni. Ascoltate il lirismo con il quale Forte lancia la proposta di tornare a parlare di Dio nei termini semplici e immediati del dialetto di Gesù:

La migliore disposizione critica e obbedienziale del credente è quella di affidarsi al “patois de Canaan”, a quel linguaggio, cioè della rivelazione, dove stranamente uomini di tutti i tempi e di tutti gli spazi riescono a stabilire “giovani legami” con quanto viene proclamato. Nel “dialetto di Canaan” vengono messi in risalto categorie e termini sensati, non ancora resi aporetici dall’indefinizione con una cultura o con una filosofia. (p.179)

È paradossale come la proposta di ritornare alla “freschezza di espressione” del dialetto di Canaan venga da uno che è imbevuto fino al midollo di filosofia idealista e che certo non rifulge per la semplicità del proprio confuso ed involuto argomentare! Che poi il linguaggio della Rivelazione, lungi dall’essere pacificamente accolto da “uomini di tutti i tempi e tutti gli spazi”, crei al contrario gravi difficoltà di interpretazione è un dato di fatto che sta alla base dell’insorgere di tutte le eresie della storia del cristianesimo, nonché degli innumerevoli ed esasperanti problemi di esegesi resi ancor più vividi presso i moderni.

Forte propugna senza ritegno la necessità di “deellennizzare” il Cristianesimo tanto nel linguaggio teologico quanto nei concetti stessi, che a quel linguaggio sono irrinunciabilmente veicolati. A questo proposito non possono non tornarci alla mente le parole pronunziate da Papa Benedetto XVI nel corso della Lectio magistralis tenuta all’Università di Ratisbona il 12 settembre 2006:

Il vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi. […] Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della deellenizzazione del cristianesimo – una richiesta che dall'inizio dell'età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della deellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l'una dall'altra […] La deellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati della Riforma del XVI secolo. […] La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda nel programma della deellenizzazione: di essa rappresentante eminente è Adolf von Harnack. […] Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il vero culmine dello sviluppo religioso dell'umanità.
In considerazione dell’incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco – un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento.

Sembra che Papa Benedetto XVI stia parlando precisamente del nostro Autore! “Il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice”, idea che funge da perno di tutto il discorso di Forte, è stata avanzata per la prima volta da Harnack, ci dice Papa Benedetto. Tale idea non è solo sbagliata, bensì anche grossolana e imprecisa.
A questo punto viene spontaneo domandarci perché Forte sostenga con tanta risolutezza una proposta che, non solo appare erronea, ma financo scientificamente infondata e grossolana. Due sono le risposte possibili: o egli è totalmente inavvertito a riguardo o egli è animato da un’intentio prima che gli preme a tale punto da permettergli di ignorare ogni evidenza.
Noi propendiamo per la seconda. L’eliminazione del patrimonio concettuale metafisico della teologia, così come è stato trasmesso da due millenni di Cristianità, permetterebbe infatti di appianare una serie infinita di ostacoli teologici che si oppongono al “dialogo ecumenico e interreligioso”, nonché al “dialogo con il mondo”, e di avanzare ignitis rotibus verso quella riconciliazione con le altre confessioni religiose e, in ultima analisi con la modernità, che costituisce l’obbiettivo ultimo di ogni “spirito progressista”, intaccato di modernismo. Il dazio da pagare, patet per se ipsum, è naturalmente la dissoluzione della Verità del Cristianesimo.

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22/02/2010 11:41

E Monsignor Forte continua a deliziarci....:


IL "METICCIATO" DELLE RADICI (EBRAICO) CRISTIANE

I meticci europei...

di Francesco Colafemmina

Di idee innovative sulla storia e la cultura europea ne avevamo sentite, pure, l'idea che oggi propone dalle colonne del quotidiano di Confindustria (il Sole 24 ore) Mons. Bruno Forte, ci sembra degna di una bella risata!
Partiamo dalla fine. Afferma Mons. Forte:
"Proprio così, ebraismo e cristianesimo, nel loro indiscutibile "meticciato" con la grande cultura greca e il pragmatismo latino, potranno offrire quel supplemento d'anima, di cui come mai l'Europa ha bisogno."

Meticciato? Tralasciando per un attimo la difficoltà naturale nel contemplare la "cultura ebraica" fra le matrici identitarie europee, ancor più complesso è cercare di identificare la nascita di questa identità nel "meticciato" fra ebraismo, cristianesimo, classicità greca e classicità romana. Un minestrone più che un meticciato. Un minestrone che emana anche un po' di nauseabondo olezzo...
Tornando però all'incipit dell'articolo di Mons. Forte, è interessante notare come riproponga concetti già da lui espressi nel 2007 a Sibiu. In particolare mi riferisco al rimando all'opera di Novalis "Cristianità o Europa", secondo il Forte una delle opere più profetiche sulla necessità di una costruzione spirituale dell'Europa. Un'opera però limitata dal sogno utopistico di un'Europa idealizzata.
Citazioni dotte a parte il concetto alla base di questo testo di Mons. Forte è una dichiarazione programmatica di fedeltà al relativismo.

Normalmente le radici cristiane dell'Europa vengono richiamate per identificare la fonte di una storia comune. Questa fonte significa che l'Europa si unisce su valori, storie, identità definite e comuni a buona parte del continente europeo. Per Mons. Forte invece il concetto è da ribaltare. Le radici non significano la necessità di ricordare il passato e la fonte da cui è scaturita l'Europa contemporanea. No.
Le radici significano l'esatto contrario, significano un bagaglio culturale antistorico e a-storico. Una riserva ideale, non a caso identificata con la parola cardine di ogni vacuità: la "spiritualità". Questa "spiritualità" o pneumatismo, contenuto nelle nostre radici, è in realtà una sorta di propellente verso il futuro, verso una nuova identità completamente diversa da quella del passato.

Dove non arriva dunque la logica, giunge la dialettica. Quella dialettica in grado di dimostrare che il bianco non è bianco, ma è verde. Anzi è verde per me, rosso per te, viola per quell'altro. E tutte queste definizioni sono contemporaneamente vere.

In altri termini quello di Mons. Forte è un vero e proprio manifesto relativista applicato all'identità culturale europea, non a caso sporcata col fango ideologico del "meticciato". Introdurre la parola "meticciato" in un contesto identitario e culturale vuol dire fare un pernacchio a tutti coloro che quell'identità la considerano "pura", autentica. Significa introdurre il germe del relativismo anche nella solida certezza della cultura che questa Europa ha fatto grande e che oggi è evidentemente in aperta decadenza da più di un secolo. Paradossalmente dunque, pur criticando Novalis, Mons. Forte sembra attaccarsi alla sua visione panteistico messianica nel formulare l'idea di "nuova spiritualità europea".

L'evidente approccio relativistico di Mons. Forte balza ancor più agli occhi se confrontato con questo splendido testo del Cardinal Ratzinger del 2004.

Ratzinger diceva allora:

C’è qui un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì in maniera lodevole di aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua propria storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro. L’Europa, per sopravvivere, ha bisogno di una nuova - certamente critica e umile - accettazione di se stessa, se essa vuole davvero sopravvivere. La multiculturalità, che viene continuamente e con passione incoraggiata e favorita, è talvolta soprattutto abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio, fuga dalle cose proprie. Ma la multiculturalità non può sussistere senza costanti in comune, senza punti di orientamento a partire dai valori propri. Essa sicuramente non può sussistere senza rispetto di ciò che è sacro. Di essa fa parte l’andare incontro con rispetto agli elementi sacri dell’altro, ma questo lo possiamo fare solamente se il sacro, Dio, non è estraneo a noi stessi. Certo, noi possiamo e dobbiamo imparare da ciò che è sacro per gli altri, ma proprio davanti agli altri e per gli altri è nostro dovere nutrire in noi stessi il rispetto davanti a ciò che è sacro e mostrare il volto di Dio che ci è apparso - del Dio che ha compassione dei poveri e dei deboli, delle vedove e degli orfani, dello straniero; del Dio che è talmente umano che egli stesso è diventato un uomo, un uomo sofferente, che soffrendo insieme a noi dà al dolore dignità e speranza. Se non facciamo questo, non solo rinneghiamo l’identità dell’Europa, bensì veniamo meno anche ad un servizio agli altri che essi hanno diritto di avere. Per le culture del mondo la profanità assoluta che si è andata formando in Occidente è qualcosa di profondamente estraneo. Esse sono convinte che un mondo senza Dio non ha futuro. Pertanto proprio la multiculturalità ci chiama a rientrare nuovamente in noi stessi. Come andranno le cose in Europa in futuro non lo sappiamo. La Carta dei diritti fondamentali può essere un primo passo, un segno che l’Europa cerca nuovamente in maniera cosciente la sua anima. In questo bisogna dare ragione a Toynbee, che il destino di una società dipende sempre da minoranze creative. I cristiani credenti dovrebbero concepire se stessi come una tale minoranza creativa e contribuire a che l’Europa riacquisti nuovamente il meglio della sua eredità e sia così a servizio dell’intera umanità.

Una bella differenza dunque!

Fides et Forma
 
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24/02/2010 11:39

ANCORA SUI METICCI EUROPEI...

di Francesco Colafemmina

Per chi ha la memoria corta vorrei ricordare che durante il meeting di Rimini del 2005 Marcello Pera parlò per la prima volta di "meticciato", indicandolo come una minaccia relativistica alla nostra identità cristiana ed europea. Domenica scorsa ne ha riparlato dopo 5 anni - ribaltando il concetto - Monsignor Bruno Forte, dalle pagine del Sole 24 Ore. Vorrei peraltro ricordare la splendida lettera che nel 2008 Benedetto XVI inviò a Marcello Pera in occasione della pubblicazione del suo volume "Perché dobbiamo dirci cristiani".

Forte pare sia "il candidato di Papa Benedetto" per sostituire Poletto a Torino. Così hanno scritto Repubblica e Italia Oggi. Dunque non stupisce un certo "attivismo" di Mons. Forte in vista di promozione. Solitamente, anzi, è proprio in queste occasioni che si cerca di parlare di più per manifestare programmi e pensieri utili a crearsi una "identità" (forse anche un po' meticcia).

Tornando al meticciato credo sia opportuno rileggere questi passaggi di una intervista del 2005 di Luigi Accattoli a Mons. Fisichella su quanto allora affermò Pera al Meeting. L'intervista è attualissima e contiene una risposta estremamente chiara e logica ai dubbi suscitati da coloro che son soliti scandalizzarsi dinanzi al tentativo di ristabilire una identità chiara, storica e definita (non meticcia) della cultura europea. Dalla lettura di questa intervista emerge un pensiero autenticamente cattolico ed antirelativista. Perché Monsignor Forte abbia creduto opportuno rievocare la parola "meticciato" attribuendolo al mix culturale greco-romano-giudaico-cristiano, ci riesce difficile immaginarlo. Certo, scrivendo sul giornale dei grembiulini tutto si spiega...


«Meticciato, ha parlato come un cristiano» Il vescovo Fisichella: la nostra identità è più debole, il presidente del Senato Pera fa bene a difenderla

«Come altre volte il presidente Pera ha individuato alcuni nodi che appartengono al nostro frangente storico e lo ha fatto con una lucidità e una responsabilità che obbligano a riflettere. Le sue proposte sono di carattere culturale e toccano l’identità dell’Italia e dell’Europa, le radici della nostra civiltà. È per questo motivo che mi sento di intervenire e intervengo a difesa, perché le obiezioni che gli si fanno mi paiono sfocate o strumentali»:

è il commento di partenza del vescovo Rino Fisichella, rettore dell’Università lateranense e cappellano di Montecitorio, alla disputa sul discorso tenuto domenica a Rimini dal presidente del Senato. Tanti accusano Pera di muoversi in direzione «opposta» rispetto al dialogo con l’Islam riaffermato dal Papa a Colonia...

«Non è affatto vero che egli rifiuti il dialogo, come non lo rifiuto io! Non l’ho mai sentito affermare una cosa simile, in tante occasioni in cui l’ho ascoltato. Parla di difesa della propria identità nel rispetto dell’identità altrui e questo è precisamente il dialogo!».

Ha parlato contro il meticciato dei popoli e delle civiltà: lei - da cristiano - che ne pensa?

«Il meticciato non appartiene al Cristianesimo perché vuol dire ibridismo, mentre il Cristianesimo fornisce a chi l’accoglie un’identità ben precisa».

Ma non è stato il cardinale Scola a parlare di meticciato di civiltà?

«Ne ha parlato, ma poi ha corretto i suoi interpreti. Se il Cristianesimo fosse stato favorevole alle ibridazioni culturali allora i primi discepoli non si sarebbero chiamati "cristiani", come invece fecero fin dall’inizio, secondo il racconto degli "Atti degli apostoli". Si sono chiamati cristiani perché si sono fatti conoscere per ciò che erano».

Chi parla di «meticciato» pensa a ciò che avvenne con le invasioni barbariche, quando i cristiani non rifiutarono la contaminazione e scelsero di passare ai barbari...

«Ma la nostra situazione è incomparabile. Allora non c’erano, l’una di fronte all’altra, due religioni universali come sono il Cristianesimo e l’Islam. Allora il Cristianesimo aveva di fronte a sé delle stirpi pagane alle quali potè adattarsi riuscendo a trasformarne la cultura, ma con l’Islam ciò non è possibile».

Il meticciato è stato creativo in tante altre occasioni e come si può escludere che possa esserlo oggi?

«Viviamo un momento debole per la nostra identità culturale e dunque dovremmo dare priorità al suo rafforzamento, piuttosto che lasciarci prendere dall’ansia di sperimentazioni aperte a sbocchi ulteriori. Nel presidente Pera apprezzo l’impegno a condurre una lucida difesa della nostra identità, avvertendone la necessità dopo la rottura costituita dall’attacco dell’11 settembre».

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